Intimità
Alla fine ci sono tornato, in via Clelia. La prima volta sono passato di lì dopo esser mancato da Roma per quasi quarant’anni, la seconda dopo quindici anni e la terza dopo tre. Ma, per ragioni che dipendevano più che altro dalle mie resistenze, effettuai quelle visite con il buio, quando non distinguevo nulla o non osavo chiedere al tassista di svoltare a destra e fermarsi un attimo per lasciarmi il tempo di rivedere la nostra vecchia casa. Da via Appia Nuova, una trafficata arteria proletaria, colsi solo uno scorcio di via Clelia in lontananza. Dopo quella terza volta, mi arresi. Adesso ogni volta che torno a Roma non mi avventuro mai oltre il centro.
Due estati fa, però, con mia moglie e i miei figli, presi il metrò e scesi alla fermata Furio Camillo, due isolati a nord di via Clelia, esattamente come avevo sempre immaginato di fare. Quei due isolati mi avrebbero dato il tempo necessario per ambientarmi, raccogliere le prime impressioni e aprire le chiuse della memoria, una dopo l’altra, senza sforzo, eccessiva cautela o esagerate cerimonie. Quei due isolati, tuttavia, mi avrebbero anche permesso di alzare eventuali barriere tra me e quella via piccolo borghese, il cui sudicio e burbero benvenuto, quando approdammo in Italia da rifugiati più di quattro decenni fa, non sono mai riuscito a dimenticare.
Avevo pensato di entrare dal punto in cui via Clelia incrocia via Appia Nuova, riconoscere con calma le strade, i cui nomi sono presi perlopiù da Virgilio – via Enea, via Camilla, via Eurialo, via Turno –, e conferire forzati echi di grandezza imperiale a quel quartiere scalcinato. Lungo il percorso, volevo toccare punti di riferimento meno importanti: la fotocopisteria (c’era ancora), l’improvvisato alimentari-pizzaiolo,1 un paio di bar all’angolo, l’idraulico (sparito), il barbiere dall’altra parte della strada (sparito pure quello), il tabaccaio, il minuscolo bordello dentro cui nessuno osava guardare quando le due sciatte e anziane tenutarie lasciavano la porta spalancata, il punto in cui un fragile artista di strada si piazzava tutti i pomeriggi e intonava a gran voce arie bronchiali che stentavi a riconoscere, per poi sentir cadere, terminato il lamento funebre, una pioggia di monete sul marciapiede.
Casa mia era esattamente lì sopra.
Quando cominciai a incamminarmi lungo via Clelia con mia moglie e i miei figli, sottolineando aspetti di una strada che avevo conosciuto in lungo e in largo nei tre anni trascorsi lì con i miei genitori in attesa del visto per gli Stati Uniti, mi ritrovai a sperare che nessuna persona di allora fosse ancora in vita o perlomeno mi riconoscesse. Non volevo dare spiegazioni, né rispondere a domande, abbracciare, toccare o avvicinarmi a nessuno. Mi ero sempre vergognato di via Clelia, della sua brava gente, del fatto che abitassi tra loro, di me stesso per aver sempre fatto credere ai compagni della scuola privata, rivelai ai miei figli, che abitavo «dalle parti» della benestante via Appia Antica e non nel cuore della proletaria Appia Nuova. Quella vergogna non era mai svanita; la vergogna non svanisce mai, era lì, a ogni angolo della strada. La vergogna, cioè la riluttanza a essere chi non siamo nemmeno sicuri di essere, forse alla fine è la parte più profonda di noi stessi, più profonda perfino di chi siamo, come se oltre l’identità fossero sepolte barriere coralline e città sommerse che brulicano di creature di cui nemmeno riusciamo a pronunciare il nome perché sono esistite molto prima di noi. Diretti verso il capo opposto di via Clelia, ciò che volevo davvero era buttarmi quell’esperienza alle spalle – «Via Clelia, fatta» avrei detto – sapendo benissimo che non mi sarebbe dispiaciuta un’improvvisa vampata di ricordi per rendere più piacevole quella visita.
Combattuto tra il desiderio che tutto finisse e la voglia di provare una qualche emozione, cominciai a sdrammatizzare con i miei figli. Ma ci pensate a vivere tre anni in questa discarica? E che puzza d’estate, quando si moriva di caldo... Qui, in quest’angolo, una volta ho visto un cane morto; l’avevano investito, e sanguinava dalle orecchie. E qui, invece, vicino alla fermata del tram, tutti i pomeriggi una giovane zingara chiedeva l’elemosina seduta a gambe incrociate sul marciapiede, le ginocchia nude e scure ostentate con noncuranza sopra la gonna fantasia, selvaggia, impavida, sfacciata. La domenica pomeriggio, via Clelia era un mortorio. In estate faceva un caldo insopportabile. In autunno, tornando da scuola sull’autobus 85, sbrigavo commissioni per mia madre, così uscivo sempre di corsa prima che i negozi chiudessero, e sul far del crepuscolo guardavo le commesse rincasare e pensavo sempre al racconto di James Joyce, Arabia. La ragazza nel minuscolo supermercato in fondo alla via, le commesse dei minuscoli grandi magazzini del quartiere, la ragazza dal macellaio che faceva sempre credito verso fine mese, quando di soldi ne restavano pochi.
Ce n’era una che veniva da noi tutti i giorni per le iniezioni di vitamina B12. Mia madre, che durante la Seconda guerra mondiale aveva prestato servizio come infermiera volontaria, era felice di aiutarla, per rendersi utile in qualcosa. Dopo ci sedevamo a parlare in cucina fino all’ora di cena. Poi la ragazza spariva giù dalle scale. Gina. La figlia della portinaia. Non provai mai il minimo desiderio per lei, ma era più gentile nascondere il fatto che non sentissi nulla dietro un velo di finta timidezza e inesperienza. Naturalmente né la timidezza né l’inesperienza erano finte, tutt’altro, ma io le esageravo per far credere che stessi fingendo, che volessi nascondere un mio lato spavaldo capace di grandi malefatte, bastava dargli il la. Per meglio nascondere l’agonizzante diffidenza di fondo, fingevo un’espressione intensa, ma schiva.
Con la ragazza del supermercato, invece, era l’esatto contrario. Non riuscivo a sostenere il suo sguardo, e ogni volta ero costretto a simulare l’arroganza di chi la fissava un giorno per poi dimenticarsene quello dopo.
Odiavo la mia timidezza. Volevo nasconderla, ma non sapevo come. Cercare di mascherarla mi faceva avvampare le guance e mi agitava ancora di più. Imparai a odiare i miei occhi, la mia altezza, il mio accento. Per parlare con uno sconosciuto, per esempio con la ragazza del supermercato, ma in realtà con chiunque, dovevo neutralizzare tutto di me, soppesare le parole, pianificarle, ostentare qualche parola di romanaccio per coprire il mio accento straniero e, onde evitare di commettere errori grammaticali in italiano, dovevo cominciare a disfare ogni frase ancora prima di averla pronunciata, anche se poi finivo per commettere errori più gravi, come quegli scrittori che cambiano una frase mentre la stanno scrivendo ma si dimenticano di rimuovere le tracce della versione precedente, parlando così a più voci. Dissimulavo con tutti, sia con quelli da cui non volevo nulla sia con quelli da cui volevo tutto quanto avrebbero potuto darmi se solo mi avessero aiutato a chiederlo. Dissimulavo ciò che pensavo, temevo, dissimulavo chi ero, chi non ero nemmeno sicuro di essere.
Il mercoledì sera, mi ricordo, lo dedicavo a sbrigare commissioni e riscattare le bottiglie nel minuscolo supermercato in fondo a via Clelia. La ragazza incaricata di rifornire gli scaffali usciva dal bancone sul retro e mi aiutava. Ogni volta che la guardavo svuotare rapida il sacchetto mi impaurivo, avevo la sensazione che il tempo passasse più in fretta di quanto speravo. A quanto pare la infastidivo, perché quando mi fissava perdeva sempre il sorriso. Aveva lo sguardo cupo e stizzoso di chi si sforza di non essere scortese. Con altri uomini era tutta sorrisi e battute oscene. Con me, solo quell’espressione incarognita.
Arrivammo alla stazione del metrò di Furio Camillo alle dieci del mattino. A quell’ora, a fine luglio, sarei stato in camera mia, di sopra, probabilmente a leggere. Ogni tanto si andava in spiaggia prima che diventasse troppo caldo. Ma dopo la terza settimana del mese i soldi finivano, e allora ce ne restavamo in casa ad ascoltare la radio, preferivamo risparmiare per concederci un film in settimana, quando i biglietti per lo squallido cinema di terz’ordine dietro l’angolo costavano meno che di domenica. Dei due cinema dell’epoca, uno non c’era più, l’altro, rimesso tutto in ghingheri, si trova in via Muzio Scevola, l’antico eroe romano che si era bruciato la mano destra dopo essersi accorto di avere ucciso la persona sbagliata. Una sera, in quel cinema, un uomo mi aveva appoggiato la mano sul polso. Gli avevo chiesto cosa volesse, e allora lui aveva cambiato subito posto. Allora, spiegai ai miei figli, si imparava anche a evitare di andare in bagno durante le proiezioni.
Un altro isolato e cinque minuti scarsi dopo il nostro arrivo, la visita era già terminata. Succede sempre così quando torno in qualche posto. O gli edifici si sono rimpiccioliti nel tempo, o il tempo che ci metto a visitarli si riduce a meno di cinque minuti. Avevamo percorso la via da un’estremità all’altra. Adesso non c’era altro da fare se non tornare da dove eravamo venuti. Dal modo in cui mia moglie e i miei figli aspettavano mie istruzioni ebbi la sensazione che fossero felici di andarsene. Lungo il tragitto di ritorno, mi fermai qualche secondo davanti ai palazzi, non solo per gustarmi il momento e non dover dire poi che avevo vissuto quell’esperienza di corsa o in maniera distratta, ma perché speravo che qualcosa di non ancora rivelato potesse schizzare fuori, strattonarmi ed esclamare: «Ti ricordi di me?», come capita quando, dopo anni di assenza, qualcuno compare all’improvviso alla tua porta. Ma non accadde nulla. Come spesso capita in quei momenti, non provai nulla.
Scrivere di quell’esperienza – dopo l’accaduto, come in effetti feci più tardi quello stesso giorno – magari mi avrebbe scosso da quel torpore. Scrivere, ne ero sicuro, avrebbe tirato via la polvere da cose non percepite durante la visita, o forse ero io che non le avevo viste, e allora mi ci voleva tempo e carta per riordinarle, così che, una volta scritte, avrebbero dato all’evento quell’importanza retrospettiva che una parte di me aveva sperato di trovare in via Clelia. Forse scrivere avrebbe addirittura potuto avvicinarmi a quella via più di quando ci abitavo. Scrivere non avrebbe alterato né esagerato nulla; avrebbe semplicemente scavato, risistemato, intessuto una narrazione, rivissuto in tranquillità, dove la vita ordinaria è felice di annuire e tirare avanti. La scrittura vede figure dove la vita vede cose; delle cose ci disfiamo, le figure le conserviamo. Perfino il non provare nulla, se trascritto sulla carta, acquisisce una grazia rassegnata e disincantata, una cadenza malinconica che all’improvviso appare intima ed eccitante in confronto alla banalità iniziale. Scrivi sul non provare nulla, ed ecco che esso si trasforma in qualcosa. Agita superfici piatte e riporta a galla le loro ombre, ed ecco spuntare i sogni.
Ma allora scrivere, come feci io più tardi quello stesso giorno, serve a riportare alla luce parole che ci scuotono e ci rendono sensibili di fronte alla vita? Oppure ci fornisce piaceri surrogati per renderci più insensibili davanti alle esperienze?
Tre anni a Roma, e non avevo mai toccato davvero quella strada. Era proprio da me non avere mai toccato quasi nulla o solo sfiorato quella città per sbaglio, proprio come, nei tre anni che avevo visto la zingara seduta sul suo pezzo di cartone accanto alla fermata del tram, non avevo mai fatto breccia nel suo sguardo sigillato, impenetrabile, imbronciato. Per nascondere l’eccitazione e lo scombussolamento ogni volta che parlavo di lei con i miei amici a scuola, la chiamavo la zozzona.
Ero deluso? Mi sembrava un crimine non imbattermi nemmeno in un tremolante rimasuglio del passato. Se non provavo nulla significava che non ricordavo più nemmeno quanto odiassi quella strada? È possibile che parti di noi muoiano nel passato, al punto che tornare in un luogo non ci suscita nulla?
O forse ciò che provavo era sollievo? Il tempo aveva perso il suo fascino. Qui non c’era nessun passato da riportare in superficie, non c’era mai stato. Forse nemmeno ci avevo mai abitato, in quella strada.
Mi sentivo come chi cerca di calpestare la propria ombra, o come chi da adolescente non aveva mai sottolineato un libro e adesso, a decenni di distanza, è incapace di recuperare le impressioni del giovane lettore di un tempo.
Ma poi, tornando dagli Stati Uniti, forse l’ombra ero io, non quella strada, non i miei libri, non chi ero prima.
Per un secondo, lì in piedi a guardare il nostro balconcino rotondo, sentii il bisogno di chiamarmi, come fanno gli italiani, che dal marciapiede ti chiedono a gran voce di affacciarti. Non stavo chiamando me stesso, però. Stavo solo cercando di immaginarmi cosa avrei fatto dietro quella finestra tanti anni prima. È luglio inoltrato, niente spiaggia, niente amici, sono più o meno rinchiuso nella mia stanza a leggere, e come sempre mi proteggo dal mondo esterno dietro le persiane chiuse, nel disperato tentativo di frapporre grazie ai libri uno schermo immaginario tra me e via Clelia.
Qualsiasi cosa, ma non via Clelia.
Nella mia stanza in via Clelia riuscivo a creare un mondo che non corrispondeva a nulla fuori da esso. I miei libri, la mia città, me stesso. Dovevo solo aspettare che i romanzi liberassero la loro aura in tutta la via, avvolgendo i suoi edifici con un’illusoria pellicola che inondava via Clelia come un foglio di acqua piovana e lanciava un incantesimo scintillante su quella zona dura, monotona, contingente della Roma del ceto medio-basso. Nei giorni di pioggia, quando sul far della sera le strade deserte luccicavano, da solo nella mia stanza al piano di sopra, in realtà ero da solo nella «città risplendente» di D.H. Lawrence – molto, molto meglio. La luce dell’inverno che andava via via illanguidendo mi portava dritto agli argini solitari delle notti bianche nella San Pietroburgo di Dostoevskij. E le mattine assolate, quando le grida dalla piazza del mercato un isolato più avanti non potevano risultare più truculente, ero nella Parigi collerica e piovosa di Baudelaire, e poiché ne coglievo echi tutt’intorno a me, all’improvviso il rozzo romanaccio, che imparai ad amare solo dopo avere lasciato Roma, cominciò ad acquisire una volgarità terrena e gallica che lo rendeva quasi tollerabile, vibrante, autentico. La mattina presto, quando aprivo le finestre, all’improvviso ero nell’Inghilterra di Wordsworth, dove «teatri e templi, navi, torri e palazzi si aprono... luminosi, splendidi» sotto il «cielo azzurro di periferia» dei Beatles. E quando finalmente posavo Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e ricominciavo a vedere ovunque attempati siciliani patrizi, ognuno più perso dell’altro in un severo nuovo mondo che nessuno di loro riusciva nemmeno lontanamente a comprendere, figuriamoci a sentirsene parte, sapevo di non essere solo. Tutto ciò che quei siciliani avevano lasciato era la loro arroganza brutale, il loro palazzo antico e fatiscente con le sue innumerevoli stanze e i balconi pericolanti che guardavano oltre le spalle della storia all’epoca dell’invasione normanna. Potevi imboccare via Clelia ed entrare in un minuscolo parco, dove gli alberi scheletrici e la vegetazione bruciacchiata mi confermavano di essere approdato nella tenuta di caccia abbandonata di Federico II Hohenstaufen.
Qualsiasi cosa, ma non via Clelia.
Perché, dunque, via Clelia non dovrebbe apparirmi morta adesso? Non era mai stata viva. L’avevo odiata fin dal primo giorno, e per causa sua ero quasi riuscito a odiare anche Roma.
E tuttavia, quasi per punirmi perché tanto tempo prima avevo lasciato il calco delle mie immagini su quei marciapiedi, via Clelia me le stava restituendo tutte – solo quelle, non una virgola in più. Ecco i venditori di Baudelaire, riprenditeli; qui c’è il cappello di Raskòlnikov, mettitelo tu; laggiù, il cappotto di Akaky, tuo; e se guardi oltre via Appia Nuova attraverso le fumose finestre di Oblomov, troverai la magione in declino di Lampedusa, e dietro la città di D.H. Lawrence: è tutto tuo adesso, tutto quanto tuo. Avevo disseminato il mondo di file di libri; adesso la città me li stava restituendo, uno dopo l’altro, come si fa con un attrezzo rimasto inutilizzato o una cravatta mai indossata, o con dei soldi che non avresti mai dovuto chiedere in prestito, o un libro che non si aveva nessuna intenzione di leggere. La neve dei Morti di James Joyce, che una sera aveva ammantato via Clelia dopo mezzanotte, conferendole un bagliore impossibile da ricreare al di fuori di quelle pagine, adesso mi veniva restituita con una breve iscrizione: «Non nevica mai in via Clelia, non lo sapevi?» La Londra di De Quincey, la Firenze di Browning, la Orano di Camus, la New York di Whitman avevano aspettato in consegna anno dopo anno, ormai avevano fatto la muffa. «La verità non era abbastanza per te, vero?» mi chiedeva la strada, l’ironia a punteggiarne ogni tratto.
La pellicola illusoria, l’ombra dei miei tre anni qui, non avevo altro. E mentre mi incamminavo da un’estremità all’altra di via Clelia insieme a mia moglie e ai miei figli mi resi conto che qui sarei riuscito a raccogliere solo le finzioni, le bugie che avevo disseminato lungo questa strada per renderla vivibile. Sogni e dissimulazioni, allora come adesso.
Quella sera pensai che i nostri momenti più veri, più privati, come i nostri ricordi più veri, più privati, sono fatti di cose così, irreali, inconsistenti. Finzioni.
Via Clelia era la mia via delle bugie. Alcune bugie erano diventate come gomma da masticare indurita, calpestata ogni giorno, tanto che adesso era impossibile disfarsene o eliminarle. Guarda quell’angolo, quel negozio, quella tipografia, e non vedrai altro che Stendhal, Nerval, Flaubert. Sotto, il nulla. Solo il ricordo di tre anni passati ad aspettare che arrivasse il visto per gli Stati Uniti.
All’epoca non avevamo né il televisore né soldi, non potevamo andare a fare shopping per distrarci, non avevamo amici, solo pochissimi parenti, ed era impensabile anche solo discutere per avere una paghetta settimanale. Mia madre mi dava solo i soldi necessari per comprarmi un tascabile alla settimana. Lo feci per tre anni. Comprare un libro era il mio modo di fuggire da via Clelia, prendere l’autobus 85 il sabato e trascorrere il resto della giornata nelle tante librerie straniere cittadine. Passare da un negozio all’altro senza badare a ciò che avevo intorno divenne il mio modo di vivere a Roma, di conoscere Roma – una Roma che, nonostante la mia solitaria passione per i libri, per me non era meno reale della Roma dei normali cittadini o di quella che venivano a cercare i turisti ogni giorno. Il mio centro erano le librerie e, tra l’una e l’altra, un reticolato di angusti vicoli in acciottolato fiancheggiati da muri ocra e rifiuti. Le piazze con l’obelisco nel mezzo, i musei, le chiese, le gloriose rovine erano per gli altri.
Il sabato mattina scendevo a piazza san Silvestro e vagavo per il centro, sperando di perdermi, perché capitare per caso in una delle mie librerie era la cosa che preferivo in assoluto. La città vecchia cominciò a piacermi: Campo Marzio, Campo de’ Fiori, piazza Rotonda. Mi piaceva la sottaciuta opulenza dei fatiscenti edifici i cui interni sapevo essere splendidi. Mi piacevano il sabato mattina, a mezzogiorno e di sera nei giorni feriali. Via del Babuino era la mia faubourg Saint-Germain, via Frattina la mia prospettiva Nevskij, strade dove bui marciapiedi affollati di gente potevano trasformarsi e in pochi secondi apparire disseminati di lampioni a gas di fine secolo che risplendevano nell’ultimo magico chiarore della sera.
Mi piacevano addirittura le persone che all’improvviso sbucavano da palazzi secenteschi e conducevano vite sfarzose, esagerate, da sogno, in cui l’amore, i film e le macchine veloci ti portavano in luoghi di cui l’autobus 85 ignorava perfino l’esistenza. Mi piaceva trattenermi un po’ in giro dopo la chiusura delle librerie, quando le strade cominciavano a svuotarsi, e passeggiare in quella magica parte della città i cui angusti vicoli in acciottolato e le cui luci fioche sembravano sapere molto prima di me dove morivano dalla voglia di andare i miei passi. Cominciai a pensare che, oltre a via Clelia e ai libri che cercavo, era qualcos’altro a trattenermi dal tornare a casa, e che se i libri mi avevano dato una destinazione – un alibi abbastanza buono per i miei genitori e per me stesso –, lo scopo per cui volevo restare in centro adesso era cambiato. Avevo finito per amare quella Roma, una Roma che sembrava più dentro di me che non fuori, nella città vera e propria, perché in quella Roma che avevo finito per amare forse c’era più di me che non di Roma, e difatti non ero mai sicuro se fosse un amore genuino o solo il frutto dei miei desideri riversati sul primo vicolo antico che incontravo.
Ci avrei messo decenni a capire che quella strana città-ombra di mia invenzione non era solo mia, ma di tutti. Chi l’avrebbe mai immaginato... Nascondevo la Roma della mia vergognosa adolescenza da chiunque, invece non dovevo fare altro che condividere una foto e tutti, vecchi o giovani, capivano al volo... Emerson: «Credere nel proprio pensiero, credere che ciò che è vero per voi, personalmente per voi, sia anche vero per tutti gli uomini, ecco, è questo il genio».
Non era Roma che vedevo; era la pellicola, il filtro che avevo deposto sulla città vecchia a spingermi ad amarla, la pellicola che cercavo quando andavo in una libreria e ne uscivo la sera tardi per poi passeggiare lungo la mia prospettiva Nevskij alla ricerca di sorrisi vaghi e compagnia in un luogo che non ero nemmeno sicuro esistesse davvero sui marciapiedi. È la pellicola che non riesco più a levare dai molti libri che leggevo allora, la pellicola che si riverbera nel tempo e continua a farmi credere che Roma sia ancora mia, anche molto dopo averla persa. E forse è quella pellicola che cerco ogni volta che ci torno, non Roma. Di rado vediamo, leggiamo o amiamo le cose per quello che sono realmente, e ancor più di rado distinguiamo le nostre impressioni su di esse. Ciò che conta è sapere cosa guardiamo quando guardiamo una cosa diversa da ciò che abbiamo davanti. È la pellicola che vediamo, la pellicola che infonde un’essenza vitale in oggetti altrimenti inanimati, la pellicola che bramiamo di condividere con altri. Ciò che raggiungiamo e che ci tocca è lo splendore che abbiamo proiettato sulle cose, non le cose in sé – la busta, non la lettera; la carta da regalo, non il dono.
Lucrezio dice che gli oggetti rilasciano delle pellicole, delle «membrane», che si staccano dalla superficie esterna dagli oggetti e dagli esseri intorno a noi e, volteggiando nell’aria, raggiungono i nostri sensi. Ma è vero anche il contrario: noi stessi liberiamo pellicole e indizi di ciò che abbiamo dentro e li proiettiamo su ciò che vediamo, ed è così che prendiamo coscienza del mondo e del perché lo amiamo. Senza queste pellicole, queste finzioni, che sono sia i nostri alibi sia l’archivio della nostra intimità più profonda, non riusciamo a entrare in contatto con nulla, tanto meno a toccarlo.
Imparai a leggere e ad amare i libri proprio come imparai a conoscere e ad amare Roma: non solo scorgendo passaggi segreti ovunque, ma anche trovando nei libri più cose che mi riguardavano di quanto probabilmente ve ne fossero, perché tutto ciò che leggevo mi sembrava già dentro di me, più che sulle pagine. Sapevo che il mio modo di leggere poteva risultare parecchio strano, come sapevo che i turisti più esigenti sarebbero rimasti scioccati al pensiero di come visitavo Roma.
Ero alla ricerca di qualcosa di intimo, e imparai a localizzarlo nel primo vicolo, nel primo verso di una poesia, nel primo sguardo di uno sconosciuto. I grandi libri, come le grandi città, ci fanno sempre trovare cose che pensiamo esistano solo dentro di noi e non potrebbero mai esistere altrove, benché risultino visibili ovunque ci voltiamo. I grandi artisti sono coloro che ci danno ciò che credevamo già nostro. Non importa se non abbiamo mai visto, sentito o vissuto nulla di simile, nemmeno lontanamente. L’artista ci converte; ci ruba il passato e lo rimodella, e come le canzoni della nostra adolescenza ci restituisce la giovinezza che avremmo voluto vivere, non quella che abbiamo vissuto. Ci restituisce la nostra pellicola dei desideri segreta.
All’improvviso, contro ogni previsione, condividiamo le intuizioni di emeriti sconosciuti. Sappiamo cosa desidera un autore, cosa dissimula; sappiamo perfino perché. Più uno scrittore è bravo, meno lascia tracce di sé; eppure, più è bravo, più vuole che intuiamo e ripristiniamo ciò che ha scelto di nascondere. Con l’imbeccata giusta si può cogliere l’inflessione dell’anima di un autore in una sola virgola o in un’unica frase, e da lì cogliere il senso di tutto il libro, del lavoro di una vita.
Appunto, con l’imbeccata giusta. Pascal: «Il faut deviner, mais bien deviner». Bisogna indovinare, e indovinare bene.
Ciò che ritrovai negli autori a cui cominciavo ad affezionarmi era proprio il diritto di supporre che non li avevo male intrepretati, che non mi stavo inventando nulla, ma stavo cogliendo il significato più ovvio e anche quello che non erano troppo ansiosi di proclamare e che magari, messi alle strette, avrebbero perfino negato, forse perché loro stessi non lo vedevano chiaramente come avrebbero dovuto, o fingevano di non farlo. Intuivo qualcosa di non dimostrabile, ma sapevo che era essenziale, perché se non lo avessero sottaciuto il loro lavoro non avrebbe retto.
Non mi passò mai per la testa che intuizione e perspicacia, cioè l’essenza, il genio di ogni critica, nascono proprio da questa fusione intima tra il sé e qualcos’altro, o qualcun altro. In ogni cosa – libri, luoghi, persone – riversavo il mio desiderio di scoprire e intuire un messaggio sottaciuto, forse perché non mi fidavo delle apparenze, o perché ero così introverso da dover credere che anche gli altri fossero introversi e ipocriti come temevo di essere io. Forse mi piaceva curiosare. Forse essere perspicaci era un po’ come toccare l’essenza delle cose, ma senza chiedere, senza correre rischi. Forse spiare era il mio modo di integrarmi nella vita romana intorno a me. Per usare le parole di Emanuele Tesauro: «Gradito ci è vedere i nostri pensieri sbocciare nella mente di qualcuno, mentre quel qualcuno è egualmente felice di spiare ciò che la nostra mente furtivamente nasconde». Ero un messaggio cifrato. Ma non solo io, anche tutti gli altri. Da ultimo, volevo sbirciare nei libri, nei luoghi e nelle persone perché, ovunque guardassi, cercavo sempre me stesso, o tracce di me stesso o, ancora meglio, un mondo là fuori pieno di gente e personalità che potessero uniformarsi a me, perché essere come me ed essere me e amare le cose che mi piacevano non era altro che il loro modo indiretto di essermi vicini, aperti e legati quanto volevo che fossero. Il mondo a mia immagine. Mi interessavano solo strade che portavano il mio nome e recavano traccia del mio passaggio; e mi curavo solo di romanzi in cui venisse messa a nudo e anatomizzata l’anima di tutti, perché gli aspetti più profondi e sottaciuti di persone o cose identici ai miei era ciò che mi stava più a cuore. Una volta uscito allo scoperto, chiunque sarebbe risultato uguale a me. Gli altri capivano me, io capivo gli altri, non eravamo più degli sconosciuti. Io dissimulavo, loro dissimulavano. Più erano come me, più imparavo ad accettarmi e forse a piacermi per quello che ero. Le mie imbeccate, le mie intuizioni non erano altro che modi furtivi di costruire un ponte sull’incolmabile distanza che mi separava dal mondo.
Alla fine la mia solitudine, il mio malcontento, la mia vergogna per via Clelia e il mio desiderio di ritirarmi in un’immaginaria bolla ottocentesca non erano poi così estranei ai libri che stavo leggendo. Il mio malcontento era parte di ciò che vedevo in quelle pagine, ed era essenziale per la mia lettura, proprio come ciò che leggevo in Ovidio si ricollegava al tremulo desiderio che sentivo per le ginocchia olivastre della giovane zingara. Ma erano essenziali in una maniera strana e nascosta. Non mi identificavo con i personaggi di Dostoevskij, perché ero troppo povero o riservato, e nemmeno con i piaceri di Byblis e Salmacis, perché avrei dato qualsiasi cosa per spogliare la giovane zingara nella mia camera da letto. I miei autori preferiti mi chiedevano che li leggessi intimamente: non era un invito a leggere le mie emozioni nel lavoro di qualcun altro, ma a leggere le emozioni di un autore come se fossero le mie, cioè il massimo della presunzione, perché implicava che, dando fiducia ai miei pensieri più profondi, più intimi su un libro, in realtà stavo pungolando, o piuttosto indovinando, quelli dell’autore. Era un invito a leggere non ciò che altri mi avevano insegnato a leggere, ma a vedere ciò che io stesso vedevo – sempre in virtù di quella famosa pellicola illusoria che applicavo a ogni cosa –, tuttavia a vedere le cose in un modo tale che quanti mi avessero sentito riferire ciò che avevo visto, pochissimi in realtà, avrebbero convenuto che anche loro avevano sempre visto le cose nello stesso identico modo. Più le mie analisi erano solipsistiche e introspettive, più le persone dicevano di condividerle.
Forse è per questo che mi piacevano i romans d’analyse francesi. In essi ogni personaggio era alla ricerca di intimità, eppure lo dissimulava e sapeva che pure gli altri facevano la stessa cosa. Oltre alla trama che gli autori ordiscono e alle grandi idee che sfoderano ai lettori, il momento più elettrizzante arrivava sempre quando avanzavano in quell’amorfo centro di raccolta d’inibizioni chiamato psiche e scrivevano cose tipo: «Da come gli dava ogni prova possibile e immaginabile del suo amore per lui, il suo amante sapeva che era determinata a dirgli di no». Oppure:
Da come arrossiva ogni volta che erano insieme da soli, il suo futuro marito capiva che lei non provava amore, né passione, né desiderio; il suo rossore dipendeva da un’esagerata modestia, che nella sua timidezza e infantilismo lei era ben felice di confondere con l’amore. E a tradirla era proprio il modo in cui si affannava a nascondere quel rossore. Da come fu felice sua moglie sapendo che il loro amico non li avrebbe accompagnati in Spagna, suo marito indovinò che, se solo ne avesse avuto il coraggio, era con lui che l’avrebbe tradito.
Oppure:
L’espressione imbronciata con cui sembrò allontanare l’uomo che avrebbe voluto non amare gli rivelò quanto desiderasse sapere. Perfino i modi bruschi e scortesi con cui lo rimproverò non appena furono da soli erano un buon segno: era più innamorata di quanto lui non avesse potuto sperare.
Poi, una sera d’estate, ecco che all’improvviso compare una frase che sembra cambiare il corso della mia vita.
Je crus que si quelque chose pouvait rallumer les sentiments que vous aviez eus pour moi, c’était de vous faire voir que les miens étaient changés; mais de vous le faire voir en feignant de vous le cacher, et comme si je n’eusse pas eu la force de vous l’avouer.
Pensai che se qualche cosa avesse potuto riaccendere i sentimenti che avevate per me, era il farvi credere che i miei erano cambiati; ma dovevo farlo fingendo di nascondervelo, e come se non avessi quasi la forza di confessarvelo.
Quella frase ero io. La lessi e rilessi un sacco di volte. La lettera di una donna che riconquista l’uomo da cui era stata abbandonata non risultava meno intima e dissimulata di quanto non fossi io giorno e notte. Se la donna riesce a riaccendere l’amore di lui non è ostentando indifferenza – così sarebbe stata scoperta subito – ma solo fingendo di voler nascondere una nascente indifferenza che la prende quasi contro la sua volontà. Quella lettera era così ingegnosa e perspicace che per la prima volta in vita mia capii che per colmare le molteplici distanze che mi separavano dalla prosa di Madame de La Fayette mi serviva solo il coraggio di credere di averla vissuta anch’io quella frase, che era più mia di quanto non appartenesse all’autrice.
Casualità volle – cos’altro, altrimenti? – che il momento in cui scoprii quella frase coincidesse con un mercoledì sera sull’autobus 85. Mentre camminavo verso casa con la mia Principessa di Clèves, la ragazza del piccolo supermercato stava spazzando l’ingresso del negozio con indosso il grembiule azzurro. Mi intercettò e mi lanciò il suo solito sguardo incarognito. Io mi voltai dall’altra parte. Un quarto d’ora dopo, quando andai a restituire le bottiglie, svuotò il sacchetto, allineò i resi sul bancone di vetro come faceva sempre e, dopo avere depositato le monete nel contenitore del resto, si chinò verso di me e, allungando la mano destra, gomito contro gomito, mi passò l’indice lungo tutto l’avambraccio nudo, piano, con dolcezza, lentamente. Mi sentii mancare l’aria nei polmoni, mentre lottavo contro l’impulso di divincolarmi, qualcosa di ammaliante e al contempo illecito che mi scorreva nel petto. Il suo tocco poteva essere la carezza solidale di una sorella, o qualunque altra cosa da: «Non ti dimenticare il resto» a: «Vediamo se soffri il solletico», a: «Sei dolce, mi piaci, rilassati!», o magari anche solo un semplice: «Stai bene, sii felice». Poi, per la prima volta, e forse perché sembrava meno indaffarata del solito, sorrise. Io ricambiai, con diffidenza, sentii a malapena cosa mi disse. Ci eravamo scambiati non più di quattro frasi in tutto.
Avevo voluto sorrisi e compagnia. E sorrisi e compagnia avevo ricevuto. Qualcuno, una perfetta sconosciuta, mi aveva visto dentro, in profondità, aveva colto la mia agitazione, i miei bisogni, i miei ripensamenti. Sapeva che io sapevo che lei sapeva. Vuoi vedere che in fondo parlavo la stessa lingua di chiunque altro?
Ci vollero settimane per trovare il coraggio di ripassare al supermercato. Cerca di non apparire nervoso, cerca di avere anche un’aria leggermente distratta, cerca di far vedere che sei capace di dire un paio di battute se stimolato, cerca di escogitare un modo per battere in ritirata se ti fisserà di nuovo dall’alto in basso... Con tutte queste emozioni contrastanti in lotta tra loro nella mia testa, la sentii pronunciare il mio nome; il suo, invece, io me l’ero dimenticato.
Cercai di dissimulare il mio errore. Guance rosse, respiro corto, guance ancora più rosse. Era davvero paradossale che io, il ragazzo più innocente di tutta via Clelia, dovessi risultare non migliore di un poco di buono che manco si ricorda i nomi delle ragazze – e si tormentasse sia perché disperatamente innamorato sia perché dava l’impressione opposta. Decisi di enfatizzare l’ultima carognata esagerando le mie scuse senza fare nulla per nasconderlo, sperando che non ci sarebbe cascata. «Perché non andiamo al cinema, un giorno di questi?» mi disse. Annuii, senza fiato, imbarazzato. Mi ci volle un secolo per realizzare che «un giorno di questi» significava quella sera stessa – ultima fila, cinema buio, vuoto in un giorno feriale. «Non posso» risposi, cercando di assumere un tono di voce astratto, come a significare mai. Lei non fece una piega, o almeno così sembrò. «Un’altra volta, allora.»
Quel sabato sera, tornando dalle librerie, la vidi con il suo bello alla fermata dell’autobus dall’altra parte della strada. Andavano in centro. Non si toccavano nemmeno, ma si capiva che stavano insieme. Lui era più vecchio. Ci avrei scommesso. Lei si era lavata i capelli e indossava un vestito sgargiante, da festa. Perché non ero affatto stupito? Sentii la rabbia scorrermi in tutto il corpo, pulsarmi attorno alle tempie. Odiavo tutto e tutti: la strada, lei, me stesso.
Evitai in qualunque modo di tornare al piccolo supermercato. I visti erano in arrivo, e una parte di me si era lasciata quel negozio alle spalle ben prima di smettere di frequentarlo. Presto sarei stato a New York, dove un altro me stesso, che non era ancora nato, magari non si sarebbe ricordato più nulla. L’inverno successivo, laggiù avrebbe nevicato, non avrei mai più ripensato a quell’angolo.
Non mi sarebbe venuto in mente che quest’altro me stesso un giorno avrebbe dato qualsiasi cosa per imbattersi nel me stesso-ombra ancora intrappolato sotto via Clelia.
E così quando tornai con la mia famiglia cercai il piccolo supermercato, sperando di non trovarlo, o meglio, lasciandolo come ultima cosa. Arrivati in fondo a via Clelia, vidi che non c’era più. Forse avevo dimenticato dove si trovava. Allora guardai meglio, perfino di là della strada, come se il negozio si fosse potuto spostare o fosse sempre stato dall’altra parte, ma non ebbi alcun dubbio. Sparito. Non avevo sperato altro che di ricatturare quell’emozione, la paura, il cuore che mi batteva all’impazzata nel petto non appena intercettavo gli occhi della ragazza ogni volta che andavo a restituire le bottiglie. Forse desideravo entrare di nuovo in quel negozio e dare un’occhiata da solo: era il mio modo di chiudere il cerchio, di far quadrare i conti, di avere l’ultima parola. Sarei entrato, mi sarei appoggiato al bancone di vetro e poi avrei aspettato un po’, sì, avrei aspettato, giusto per vedere cosa succedeva, chi arrivava, se il rituale era cambiato, se ero la stessa persona intenta a sbrigare la stessa commissione nella stessa via.
Per sminuire la mia delusione e farli ridere raccontai ai miei figli ciò che era successo in quel minuscolo supermercatino: la donna che passa il dito sull’avambraccio di papà, i corpi che si toccano – si è mai vista una profferta più esplicita? –, papà che corre a nascondersi sotto il grembiule della nonna e, come sempre, sgattaiola di nuovo tra i suoi libri, non osa più tornare, poi si aggira e vaga furtivo di strada in strada per giorni e settimane – per anni avrei dovuto dire – e decenni... per una vita intera. «Eri innamorato di lei?» mi chiede infine uno dei miei figli. Non penso; l’amore non c’entrava nulla. «Ma quindi non vi siete più parlati?» chiese l’altro. No, mai più.
Ma non avevo detto loro la verità, tutta la verità. Forse avevo mentito. L’avrebbero scoperto? Sarebbero andati alla ricerca delle impronte che avevo cancellato, avrei sperato che riuscissero a pormi la domanda giusta sapendo che, in quel caso, avrebbero indovinato la risposta, e che se l’avessero indovinata, avrebbero iniziato a leggermi nel pensiero?
Scrivere, come feci io quello stesso giorno, serve a riportare in superficie le linee di faglia dove verità e dissimulazione si scambiano di posto. O forse a seppellirle ancora più in profondità?
Prima di andare via, diedi un’ultima occhiata a via Clelia. Tutte quelle corse in autobus, le passeggiate per Roma, i libri, le facce, l’attesa per il visto che a volte desideravo non arrivasse mai perché alla fine avevo imparato a farmelo piacere quel posto, le iniezioni di vitamine, le conversazioni al tavolo della cucina, Gina che a volte sembrava quasi corresse via in lacrime, e il sogno lanciato come una chiamata disperata una notte d’inverno quando, dopo aver finito di leggere I morti, avevo pensato: Devo andare a ovest e lasciare questa città e cercare un mondo dove la neve cada «lenta» «sulle onde scure e tumultuose dello Shannon» – tutto, tutto quanto null’altro che una pellicola, l’aura del mio amore per Roma che forse non era più del mio amore per una possibile vita nata da un racconto scritto da Joyce durante il suo sventurato soggiorno in quella città, pensando alla sua Dublino per metà reale e per metà ricordata. Le gelide notti a fissare fuori dalla finestra mentre la pioggia cadeva obliqua sui lampioni; la sera in cui mi avvicinai tanto a un altro corpo che sapevo avrebbe cambiato per sempre la mia vita; la sensazione che la vita sarebbe potuta cominciare o anche solo svoltare in quell’improbabile spazio di tre isolati – tutto quanto una pellicola, forse la parte di me migliore e più duratura, ma pur sempre una pellicola. Tutto ciò che avevo incontrato là erano mezze verità; Roma, una mezza verità; via Clelia, una mezza verità; l’adolescente che sbrigava commissioni dopo la scuola, i suoi libri, la zingara, la ragazza del supermercato, mezze verità pure loro; adesso perfino il viaggio di ritorno, un parapiglia di mezze verità che velavano il sordo pensiero per cui, se davvero volevo tornare lì e avevo aspettato anni era anche perché, benché fossi convinto di odiare quel luogo, non sarei mai voluto andare via.
Sapevo cos’era quel torpore? Diedi la colpa alle mie finzioni, alle mie pellicole, al mio impulso di deviare il qui e l’ora proponendo un altrove e un altrimenti. Ma forse quel torpore presentava un aspetto ancora più problematico. E mentre mi avvicinavo alla stazione della metropolitana Furio Camillo e via Clelia scompariva dalla mia vista, in effetti qualcosa cominciai ad avvertire, sulle prime da lontano, poi, prossimi a entrare nella stazione, con una ferocia inaspettata: via Clelia era non solo disseminata dei tanti libri che avevo letto, ma ciò che restava inalterato, intonso pur a distanza di quarant’anni erano le raggelanti premonizioni sulla città al di là dell’Atlantico per cui sapevo che un giorno non tanto lontano avrei dovuto abbandonare Roma, una città che mi terrorizzava e che non avevo ancora visto e temevo non avrei mai imparato a interpretare, figuriamoci ad amare. Quella città mi aveva perseguitato per tre anni. Avrei dovuto imparare da zero ad amare un’altra città, vero? Imparare a sovrapporre nuovi libri sull’ennesimo luogo, imparare a disinnamorarmi di questo, imparare a dimenticare, imparare a non guardarmi indietro, imparare nuove abitudini, imparare una nuova lingua, imparare un nuovo me stesso tutto daccapo. Ricordo esattamente il momento in cui questa scoperta mi aveva colmato di inquietanti premonizioni: ero in un negozio di libri usati lungo via Camilla, dove per puro caso avevo trovato una vecchia copia consunta della Signorina Cuorinfranti e avevo odiato, sì, proprio così, avevo odiato il pensiero di trasferirmi in un paese dove le persone leggevano simili libri trovandoli perfino belli. E lì avevo finalmente capito che, anche se non avevo mai voluto vivere a Roma, avrei dato qualsiasi cosa per restare in quella via, con quella gente, la loro lingua, le grida sguaiate, i cinema squallidi, la ragazza del supermercato, tanto che alla fine ero diventato burbero e generoso come tutti loro erano stati con me.
Fuori dalla libreria, prima che potessi zittirle, erano sorte alcune sinistre domande: Cos’era Roma senza di me? Cosa sarebbe accaduto a Roma quando non avessi più abitato lì? Sarebbe andata avanti senza di me, Baudelaire, Lawrence, Tomasi di Lampedusa e Joyce? Verrebbe anche da chiedersi cosa succede alla vita quando non siamo più lì a viverla.
Ero come qualcuno che torna in vita dopo essere morto e ovunque trova tracce di quanto ingenua aveva immaginato sarebbe stata la morte. Per un momento era come se in America non ci fossi ancora stato, come se tutti quegli anni lontano da Roma non fossero mai esistiti. Ma mi sentivo anche come qualcuno che torna in vita non serbando alcun ricordo della morte. Non sapevo se ero qui o lì. Non sapevo nulla. Il centro dell’inferno, nero come la pece, è una nube di inconsapevolezza dove le parole sono mute e dove scrivere, come feci quella sera, non serve a nulla. Non avevo sistemato assolutamente niente, anzi, non avevo nemmeno incominciato il lavoro che mi restava da fare, magari non l’avrei mai fatto, magari non dovevo farlo.
Mi ero preparato a quel viaggio di ritorno ancor prima di lasciare Roma. All’epoca sarebbe stato un ritorno definitivo. «Tra me e gli Stati Uniti» mi ero immaginato dire «non ha mai funzionato.» Tornare non mi avrebbe né ferito né sorpreso. Provando e riprovando sulla mia pelle il fallimento in America avevo fatto sì che il mio ritorno a Roma sembrasse più facile, inevitabile, imminente, e questo aveva fatto sì che partire per gli Stati Uniti sembrasse una fantasia, quasi un capriccio superfluo, una cosa che magari non sarebbe mai accaduta, che doveva ancora accadere in un futuro irreale e distante diventato all’improvviso meno spaventoso perché avevo trovato tanti modi per negare che si sarebbe mai verificato.
Adesso ero tornato in un luogo che non avevo mai davvero abbandonato.
Mi correggo: ero tornato in un luogo dove non sarei mai più tornato. O, se un giorno lo avessi fatto, sarei tornato sull’autobus numero 85 – da solo. E mi sarei ricordato, tra le altre cose, di esserci venuto con la mia famiglia. Dissi a mia moglie e ai miei figli che ero felice che fossero lì con me. Dissi loro che era stato bello tornare, che sarebbe stato bello tornarci presto, che era bello che non mi avessero lasciato andare da solo. Ma pronunciai queste parole senza convinzione, e se non mi fossi abituato all’idea che parlare senza convinzione è il mio modo di dire la verità avrei creduto di non pensarle davvero. Quanti giri tortuosi, però, per una cosa che altri sentono con tanta facilità. Amore tortuoso, intimità tortuosa, verità tortuose. In questo, almeno, non ero cambiato.