Il viaggiatore controfattuale

Oltre ai soldi e a un mezzo di trasporto, l’unica cosa di cui ha bisogno un viaggiatore è la curiosità. Devi aver voglia di vedere, sentire e provare cose, che sia per la prima o per l’ennesima volta: quei panorami, quel fiume, questa o quella cittadina, quelle strane usanze che hanno le persone in luoghi remoti, questo ristorante, quella lingua, perfino l’emozione di andare su isole sperdute per chiudere gli occhi e appisolarsi su placide spiagge sconosciute... Ecco, se non foste curiosi non andreste alla ricerca di tutto ciò. Vero, si viaggia per lavoro o per piacere. Ma perfino il più spietato operatore di Borsa ogni tanto alzerà gli occhi dalla limousine con i finestrini oscurati, vedrà di sfuggita il Colosseo a mezzogiorno e dirà: «Cosa non darei per passare sotto quelle arcate in una così bella giornata di primavera». La sera stessa vagherà per gli angusti viali di Trastevere, cercando di cogliere un sentore della Roma leggendaria. La risposta non potrebbe essere più ovvia, lo sa anche chi viaggia per piacere: l’aspettativa stessa di provare piacere si nutre di curiosità.

Ciò che le persone omettono di dire sull’essenza del viaggio è un dettaglio banale, così ovvio che uno quasi arrossisce a tirarlo fuori: ovvero che ogni viaggio deve avere un inizio. Un turista lascia un paese per visitarne un altro. Un aereo decolla da un aeroporto per atterrare altrove. Se le impostazioni automatiche sulla maggior parte dei servizi di prenotazione online danno per scontato che vogliate biglietti di andata e ritorno, significa che un punto di partenza è come il partner ombra di un arrivo: i due devono essere diversi – molto diversi – ed è proprio questa evidente differenza a dare uno scopo a ogni viaggio. Se essa venisse a mancare, addio curiosità, addio viaggio, addio turisti. È casa nostra a imporre la direzione dei nostri viaggi. È casa nostra che ci lasciamo alle spalle, sapendo di ritrovarla alla fine del percorso. Ed è grazie a casa nostra che si parte sicuri. Per citare T.S. Eliot: «La fine è il nostro inizio». Un’odissea non è altro che un viaggio di ritorno un po’ troppo lungo.

Di contro, i viaggi compiuti da nomadi o zingari appartengono a una categoria del tutto differente. I nomadi vagano per il mondo, ma il loro peregrinare non è dettato dalla curiosità, ma da ragioni di sopravvivenza pratica. I nomadi non sanno dove finisce il loro viaggio poiché non ricordano dov’è cominciato. Non può esserci andata perché non è contemplato alcun ritorno. Non c’è nessun luogo a cui fare ritorno. Il viaggio diventa la loro casa, il movimento sottende a ogni cosa, a partire da dove pregano, lavano i vestiti e cercano cibo, per finire a dove dormono di notte e vanno a morire. Se un nomade fissa la tenda nello stesso punto di prima è solo per pura casualità o per convenienza. L’idea di tornare in un luogo in particolare o di ritenerne uno più meritevole di un altro per ragioni che non hanno nulla a che vedere con preoccupazioni materiali sembra un lusso, se non una contraddizione in termini. I nomadi sono indifferenti a certe cose.

Con l’esilio, date un giro di vite ulteriore alla curiosità e all’indifferenza, poi intrecciatele insieme, assicuratevi che non siano più distinguibili e capirete come (o perché) io viaggio.

Io sono un esule di Alessandria d’Egitto.

Come il nomade, anche un esule non ha una casa a cui fare ritorno. La sua casa l’ha persa; non esiste più; non c’è ritorno – Ulisse aveva intuito che Itaca fosse stata interamente distrutta da un terremoto e che tutte le persone da lui conosciute fossero morte. A differenza del nomade, però, un esule non si rassegna a non avere più una casa; la transitorietà perpetua gli risulta innaturale come a un qualsiasi turista che abbia smarrito il biglietto di ritorno. Un esule vuole una casa, non un punto di ristoro provvisorio. Ma avendo perso la propria, non ha la benché minima idea di come fare per trovarsene un’altra. Ed è anche piuttosto diffidente all’idea di dover «scegliere» una casa. Si può scegliere la propria casa come il colore della pelle? Chiunque può costruirsi un’abitazione, ma può chiamarla casa? Dovunque vada l’esule, si dà un’occhiata in giro malinconico e pensa: «Me lo ricordavo diverso». «Qui è bellissimo» dice al suo compagno di viaggio guardando l’Oceano Pacifico, «ma non è il Mediterraneo, mi fa strano.» Malsopporta la prima regola del turismo, ovvero andare alla ricerca di tutto ciò che è nuovo, sconosciuto, diverso. «Sfido io che ti faccia strano e che tu non lo riconosca» gli risponde l’altro. «Se volevi un luogo a te familiare, dovevi restartene a casa tua.»

E proprio lì sta il problema. Una casa lui non ce l’ha più.

Casa è comunque altrove.

O, per dirla in altri termini, casa è altrove nel tempo, motivo per cui gli esuli finiscono per apprezzare cose che pare rimandino al passato o ad altri luoghi.

D’estate, quando andiamo in Europa, mia moglie, nata e cresciuta negli Stati Uniti, viaggia con un esule. Lei fissa questo o quel monumento; io, invece, i monumenti non li sopporto. Lei vuole fermarsi in questa o quella pittoresca cittadella arroccata in collina; a me delle pittoresche cittadelle arroccate in collina non me ne importa nulla. Lei visita chiese e musei ed è un’inesauribile fonte di curiosità. Io sono l’indifferenza fatta persona. Percorriamo le stesse strade, ma è come se fossimo su marciapiedi opposti: lei vuole vedere cose che non ha mai visto; io muoio dalla voglia di approdare a cose che conosco già.

Lei cerca ciò che è nuovo e sconosciuto; io non voglio nulla che non sia vecchio. L’ultima cosa che vuole lei è ripensare a casa sua; io non aspetto altro che raccogliere i resti della mia. A lei piace perdersi; io ancora non ho trovato la mia strada.

La mia curiosità, le rare volte in cui ne provo, viene stimolata da una serie di attività totalmente diverse dalle sue. Il suo programma si basa sul vedere cose che strabiliano l’immaginazione, il mio su cose che stimolano la memoria. Viaggiamo insieme, ma separatamente.

Io voglio ripensare all’Itaca che ho perso; lei è alla ricerca di un mondo nuovo. Ogni volta che visito una città del Mediterraneo essa deve avvicinarmi a ciò che conosco o a ciò che credo di ricordare, ma non ne sono più tanto sicuro, e voglio rivedere. Altrimenti, tanto vale non partire neanche. Mi piace percorrere le strade di città straniere e osservare i cartelli stradali – cartelli stradali irreali, che per me diventano reali perché indicano un luogo parallelo e un fuso orario-ombra altrove nel tempo.

Mia moglie assiste a tutto ciò e cerca di incoraggiarmi ad abbandonare il «bagaglio» che mi trascino dietro. Ha ragione, lo so. Con lei, a volte, percorro vie sconosciute e cerco, come si suol dire, di andarle incontro a metà strada. Quando alzo la testa e vedo anonimi condomini residenziali in quartieri insignificanti non mi chiedo se valeva la pena di visitare quella città, ma se riuscirei a viverci. Io valuto una possibile casa; lei si accontenta degli hotel.

Nel corso degli anni abbiamo raggiunto questa sorta di compromesso: cercare di viaggiare non alla ricerca del tempo perduto, ma alla ricerca di un futuro immaginario. Mi «connetto» non dicendo: «Non è magnifica questa pittoresca cittadella arroccata in collina?», ma: «Mi ci vedo a vivere qui?»

«Mi ci vedo da bambino a scendere di corsa le scale per andare al cinema con gli amici?»

«Mi ci vedo a dire al fornaio giù all’angolo di consegnarci il pane fresco l’indomani mattina?»

«Lo sento lo schianto dei piatti mentre si apparecchia la tavola per i lunghi pranzi di famiglia?»

Chiedersi se mi ci vedrei a vivere in un determinato posto, tuttavia, sottintende anche un’altra domanda, fin troppo inquietante: «Avrei potuto vivere qui?»

Mi piace trastullarmi con questi due interrogativi, perché è solo così che mi «connetto» con il mondo intorno a me.

È attraverso questa deviazione, questa speranza di ristabilire un passato ricordato in un futuro immaginato che mi avvicino di più a quanto mi fa sentire a mio agio, chiamatela una casa di fortuna, una casa contraffatta. I grammatici definiscono questa combinazione di passato e futuro un «condizionale imperfetto», altresì conosciuto come modo dell’irrealtà. A ripensarci, io sono un turista dell’irrealtà. Io non viaggio per vedere cose, ma vado alla ricerca di un tempo irreale in città irreali. Solo cercando una casa che potrà essere, che sarebbe potuta essere, che sarà, comincio a provare la gioia provata da coloro che partono. È una gioia trasposta e controintuitiva, una gioia per procura, la gioia indiretta e artificiale che deriva dal trovare in un luogo cose perdute in un altro.

E tuttavia, volendo scavare un po’ più in profondità, non si tratta affatto di una gioia immaginaria. È una gioia così reale e intensa che evoca sensazioni inaspettate: la paura di essere tentato da questo posto nuovo di cui non me ne sarebbe potuto importare di meno o, ancor più intensa, la paura di sentire la mancanza di un luogo a cui ero approdato senza alcun entusiasmo, desiderio o curiosità e poi, all’ultimo momento, avevo voluto portare via con me. Ci vuole poco a capire che dietro queste bugie si può nascondere una cosa sola – l’amore – e che è sempre l’amore che ci coglie alla sprovvista, che ci fa sentire esuli, turisti e nomadi. Camminiamo per una città orrenda in una giornata torrida e, mentre progettiamo indifferenti l’itinerario di un possibile ritorno negli anni a venire, all’improvviso ci sovviene, come sempre per vie traverse, che questo è amore. Non è così? Che portiamo amore anche quando pensavamo di non portare nulla, che alcuni di noi trovano ciò che riteniamo reale solo passando per lunghe e complicate deviazioni, mentre altri se lo ritrovano dritto davanti a loro.