- Bene.

- Lei parla.

- Già.

- È tremendamente più pratico.

- Sono d’accordo.

- Bene.

- Bene.

- Mi passa Gould?

- Sì.

Il padre di Gould telefonava ogni venerdì, alle sette e un quarto di sera.

12.

Bella la puttana di Closingtown, bella. Neri i capelli della puttana di Closingtown, neri.

Decine di libri, nella sua stanza, al primo piano del saloon, li legge quando aspetta, storie con un inizio e una fine, se glielo chiedi te le racconterà. Giovane la puttana di Closingtown, giovane.

Tenendoti tra le gambe ti sussurra: amore.

37

Diceva Shatzy che costava come quattro birre.

Sete di lei, nei pantaloni di tutta la città.

Volendosi attenere ai fatti, lei, laggiù, ci era arrivata per fare la maestra. Avevano la scuola ridotta a magazzino, da quando se n’era andata la signorina McGuy. Così a un certo punto era arrivata lei. Aveva messo tutto a posto, e i ragazzini avevano incominciato a comprare quaderni, matite e tutto. Secondo Shatzy ci sapeva fare. Faceva le cose semplici, e aveva libri che si potevano capire. Finì che ci presero gusto anche i ragazzini più grandi, ci andavano quando potevano, la maestra era bella, e alla fine riuscivi a leggere le frasi scritte sotto le facce dei banditi, quelle appese nell’ufficio dello sceriffo. Erano ragazzini che erano già uomini, quelli. Lei fece l’errore di rimanere con uno di loro, da sola, nella scuola deserta, una sera qualunque. Se lo strinse addosso, e ci fece l’amore con tutta la voglia del mondo. Dopo, quando la cosa si venne a sapere, gli uomini ci sarebbero anche passati sopra, ma le donne dissero che quella era una puttana, non una maestra.

Giusto, disse lei.

Chiuse la scuola e passò a lavorare dall’altra parte della strada, in una stanza al primo piano del saloon. Sottili le mani della puttana di Closingtown, sottili. Si chiamava Fanny.

Tutti l’amavano, ma solo uno l’amava, ed era Pat Cobhan. Lui restava di sotto, beveva birre, e aspettava. Quando tutto era finito, lei scendeva.

- Ciao Fanny.

Ciao.

Andavano avanti e indietro, dall’inizio della città alla fine, tenendosi stretti, nel buio, e parlando di quel vento che non finiva mai.

Buona notte Fanny.

Buona notte.

Aveva diciassette anni, Pat Cobhan. Verdi gli occhi della puttana di Closingtown, verdi.

Se vuoi capire la loro storia - diceva Shatzy - devi sapere quanti colpi aveva una pistola, a quei tempi.

Sei.

Lei diceva che era un numero perfetto. Pensaci. E fallo suonare, quel ritmo. Sei colpi, uno due tre quattro cinque sei. Perfetto.

Lo senti il silenzio, dopo? Quello sì è un silenzio. Uno due tre quattro. Cinque sei. Silenzio.

È come un respiro. Ogni sei colpi è un respiro. Puoi respirare veloce, o piano, ma ogni respiro è perfetto. Uno due tre quattro cinque. Sei. Respira silenzio, adesso.

Quanti colpi c’erano, in una pistola?

Sei.

Allora ti raccontava quella storia.

Pat Cobhan ride, di sotto, con schiuma di birra nella barba e odore di cavallo nelle mani. C’è un violinista che suona, e ha un cane ammaestrato. La gente gli tira una moneta, il cane va a raccoglierla e poi torna dal padrone, camminando sulle zampe posteriori, e gli infila la moneta nella tasca. Il violinista è cieco. Pat Cobhan ride.

Fanny lavora, di sopra, con il figlio del pastore tra le gambe. Amore. Il figlio del pastore si chiama Young. Si è tenuto la camicia addosso, e ha i capelli neri inzuppati di sudore. Qualcosa come un terrore, negli occhi. Fanny gli dice - Scopami Young, - ma lui si irrigidisce e scivola via dalle cosce aperte calze bianche con pizzi fino a sopra il ginocchio e poi più niente. Lui non sa dove guardare. Le prende una mano e se la preme sul sesso. - Sì, Young, - lei dice. Lo accarezza, - Sei bello Young, - dice. Si lecca il palmo della mano, guardandolo negli occhi, poi torna ad accarezzarlo, sfiorandolo appena. - Dai, - dice Young. - Dai. - Lei stringe nel palmo della mano il suo sesso. Lui chiude gli occhi e pensa “non devo pensare. A niente”. Lei guarda la propria mano, e poi il sudore sulla faccia di Young, sul petto, e di nuovo la propria mano che scivola sul suo sesso. -

Mi piace il tuo cazzo, Young, lo voglio, il tuo cazzo. - Lui è disteso sul fianco, appoggiato su un braccio. Il braccio trema. - Vieni Young, - lei dice. Lui ha gli occhi chiusi. - Vieni. - Lui si gira sopra di lei, e spinge in mezzo alle cosce aperte. - Così, Young, così, - lei dice. Lui apre gli occhi.

Qualcosa come un terrore, negli occhi. Lui fa una smorfia, e scivola via. - Aspetta, Young, - lei dice, 38

tenendogli la testa fra le mani e baciandolo. - Aspetta, - lui dice.

Pat Cobhan ride, di sotto, e dà un’occhiata alla pendola, dietro al bancone. Chiede un’altra birra e gioca con una moneta d’argento, cercando di farla rimanere in bilico sul bordo del bicchiere vuoto.

Mi vuoi sposare, Fanny?

Non dire sciocchezze, Pat.

Lo dico sul serio.

Smettila.

Io ti piaccio, Fanny?

Sì.

Tu mi piaci, Fanny.

La moneta gli cade nel bicchiere, Pat Cobhan rovescia il bicchiere, cade la moneta, sul legno del bancone, e cola un resto di birra, liquido e schiuma. Lui prende la moneta e l’asciuga sui pantaloni. La guarda. Gli verrebbe da annusarla. La riposa sull’orlo del bicchiere. Dà un’occhiata alla pendola. Pensa: Young, bastardo, la vuoi finire? Dolce il profumo della puttana di Closingtown, dolce.

Fanny scivola con le labbra sul sesso di Young, lui la guarda e questo gli piace. Le mette una mano tra i capelli e se la spinge contro. Lei gli prende la mano e gliela allontana, continuando a baciarlo. Lui la guarda. Le rimette la mano nei capelli, lei si ferma, alza gli occhi verso di lui e gli dice - Stai buono Young.

Sta’ zitta, lui dice, e con la mano le spinge la testa verso il suo sesso.

Lei lo prende in bocca e chiude gli occhi. Scivola sempre più velocemente, avanti e indietro.

- Così, puttana, - lui dice. - Così. - Lei apre gli occhi e vede la pelle lucida di sudore, sul ventre di Young. Vede i muscoli che si contraggono, a scatti, come in una specie di agonia. Dai, lui dice. Non smettere. Una specie di agonia. Lui la guarda. Gli piace. La guarda. Poi le appoggia le mani sulle spalle, la stringe forte e d’improvviso la spinge indietro, coricandosi su di lei. - Fai piano Young, -

lei dice. Lui chiude gli occhi, e si muove contro di lei. - Piano, Young. - Lei cerca con una mano il suo sesso, lui gliela allontana. Spinge forte in mezzo alle cosce. - Merda, - dice. - Merda. - Ha i capelli attaccati alla fronte, bagnati di sudore. - Merda. - Scivola di nuovo via, di colpo. Lei gira la testa da una parte, alza gli occhi al cielo per un istante, e sospira. E lui la vede. La vede.

Pat Cobhan alza gli occhi e fissa la pendola, dietro al bancone. Poi guarda lo scalone che sale al primo piano. Poi guarda il bicchiere di birra, pieno, davanti a sé.

Ehi, Carver.

Pat?

Tienimela in fresco.

Te ne vai?

Torno.

Tutto bene, Pat?

È okay, sì, è okay.

Va bene.

Tienimela in fresco.

Rimane appoggiato al bancone. Si gira e getta uno sguardo alla porta del saloon. Sputa per terra, poi schiaccia il grumo di saliva con lo stivale, e guarda la polvere umida, per terra. Rialza la testa.

Sta attento che non ci piscino dentro, capito?, - e sorride.

Perché non vai a casa, Pat?

Vacci tu, Carver.

Dovresti andartene a casa.

Non dirmi quello che devo fare.

Carver scuote la testa. Pat Cobhan ridacchia. Solleva il bicchiere di birra e beve un sorso.

Riposa il bicchiere, si gira, guarda lo scalone che porta al primo piano, guarda le lancette nere sul quadrante bianco ingiallito, bastardo, dice piano.

39

Young si è voltato, ha allungato una mano verso il cinturone appeso alla sedia, ha estratto dalla fondina la pistola e adesso la tiene stretta in pugno. Fa scivolare la canna sulla pelle di Fanny.

Bianca la pelle della puttana di Closingtown, bianca. Lei fa per alzarsi.

Sta giù, - lui dice.

Le tiene premuta la canna della pistola sotto il mento.

Non muoverti. Non urlare.

Cosa diavolo fai, - lei dice.

Zitta.

Fa scivolare la canna della pistola sulla pelle, sempre più giù. Le apre le gambe. Appoggia la pistola sul suo sesso.

Ti prego Young, - lei dice.

Lui spinge lentamente la pistola. Poi la tira fuori e adagio la rinfila dentro.

Ti piace?, dice.

Lei inizia a tremare.

Non era questo che volevi?, - lui dice.

Spinge in fondo la pistola. Lei inarca la schiena, appoggia una mano sulla guancia di Young, dolcemente.

Ti prego, Young, - dice. - Ti prego.

Lo guarda. Lui si ferma.

Sta’ calmo, - lei dice. - Sei un bravo ragazzo, Young, vero? Tu sei un bravo ragazzo.

Le colano lacrime dagli occhi, le scendono sul viso dappertutto.

Fatti baciare, mi piace baciarti, vieni qui Young, baciami.

Parla piano, senza smettere di guardarlo.

Resta con me, facciamo l’amore, vuoi?

Sì, lui dice.

E ricomincia a muovere la pistola, avanti e indietro.

Facciamo l’amore, - dice.

Lei chiude gli occhi. Ha una smorfia di dolore che le sfigura il volto.

Ti supplico, Young.

Lui guarda la canna della pistola entrare e uscire dalla carne. Vede che è rigata di sangue.

Solleva con il pollice il cane della pistola.

Mi piace fare l’amore, dice.

‘affanculo, dice Pat Cobhan. Si scosta dal bancone e si volta.

Torno, dice. Passa accanto al tavolo dei fratelli Castorp, li saluta portando due dita a sfiorare la tesa del cappello. Nero.

In gamba, Pat?

Sì signore.

Vento bastardo, oggi.

Sì signore.

Non la smetterà mai.

Mio padre dice che si stancherà.

Tuo padre.

Dice che nessun cavallo può galoppare per sempre.

Il vento non è un cavallo.

Mio padre dice di sì,

Dice così?

Sì signore.

Digli che si faccia vedere, ogni tanto.

Sì signore.

Diglielo.

Sì signore.

Bravo.

40

Pat Cobhan saluta e va verso lo scalone. Guarda in cima e non vede niente. Sale qualche gradino. Pensa che vorrebbe avere una pistola. Suo padre non vuole che lui giri con una pistola.

Così non ti metterai nei pasticci. Nessuno spara a un ragazzo disarmato. Si ferma. Getta uno sguardo alla pendola, giù, dietro al bancone. Non riesce a ricordarsi esattamente quanto tempo è passato. Cerca di ricordarsene, ma non riesce. Guarda il saloon da lassù e pensa che è come essere un uccello appollaiato su un ramo.

Sarebbe bello aprire le ali, sfiorare la testa di tutti e andarsi a posare sul cappello del cieco che suona. Avrei penne lucide, nere, pensa mentre con la mano destra controlla nella tasca dei pantaloni la sagoma dura del suo coltello. Piccolo coltello, la lama piegata dentro l’anima di legno.

Guarda davanti a sé e non vede niente. Una porta chiusa, senza rumori, niente. Sono solo uno stupido, pensa. Rimane fermo lì, abbassa lo sguardo, vede il suo stivale sul gradino. Polvere spessa sul cuoio consumato. Dà due colpi, col tacco, sul legno. Poi si china e con un dito si lucida la punta.

In quell’istante sente da sopra arrivare il rumore secco di uno sparo, e un urlo breve. E capisce che tutto è finito. Poi sente un secondo colpo, e, uno dopo l’altro, il terzo e il quarto e il quinto. Rimane immobile. Aspetta. Ha uno strano ronzio in testa e tutto sembra lontano. Sente qualcuno che lo spintona, e gente che corre gridando su per lo scalone. Negli occhi ha la punta lucida del suo stivale.

Aspetta. Ma non sente nulla. Allora si rialza, si volta e scende lentamente lo scalone. Attraversa il saloon, esce, sale a cavallo. Cavalca tutta la notte e all’alba arriva ad Abilene. Il giorno dopo riparte, verso nord, attraversa Bartleboro e Connox, costeggia il fiume fino a Contertown, e per giorni cavalca verso le montagne. Berbery, Tucson City, Pollak, fino a Full Creek, dove passa la ferrovia.

Segue i binari per miglia e miglia. Quarzsite, Coltown, Oldbridge, e poi Rider, Rio Solo, Sullivan e Preston.

Dopo ventidue giorni arriva in un posto chiamato Stonewall.

Guarda la cima degli alberi e il volo degli uccelli. Scende da cavallo, prende un pugno di polvere e la fa scivolare piano tra le dita. Non c’è vento, qui, pensa. Vende il cavallo, compra una pistola. Cinturone, fondina e pistola. La sera va al saloon. Non parla con nessuno, rimane tutto il tempo seduto a bere e guardare. Li studia tutti, uno per uno. Poi sceglie un uomo che sta giocando, mani bianche e senza calli, speroni luccicanti. Una barba tagliata sottile, con cura e tempo.

Quell’uomo bara, dice.

Qualcosa che non va, ragazzo?

Non mi piacciono i bastardi, tutto qui.

Porta fuori la tua lingua di merda, e veloce.

Non mi piacciono i vigliacchi, tutto qui.

Ragazzo.

Non mi son mai piaciuti.

Facciamo una cosa.

Sentiamo.

Io non ho sentito niente, tu ti alzi, sparisci e per tutto il tempo che ti rimane ringrazi il cielo per com’è andata a finire.

Facciamone un’altra. Tu posi le carte, ti alzi e vai a barare da qualche altra parte.

L’uomo spinge indietro la sedia, si alza lentamente, si volta e rimane in piedi, con le braccia lungo i fianchi e le mani a sfiorare le pistole. Guarda il ragazzo.

Pat Cobhan sputa per terra. Si alza. Si guarda la punta degli stivali, come se stesse cercando qualcosa. Poi solleva gli occhi verso l’uomo.

Idiota, - dice l’uomo.

Pat Cobhan impugna di scatto la pistola. Ma non estrae. Sente il sesto colpo, allora. Poi più niente, per sempre.

Silenzio.

Che silenzio.

Attaccata alla porta del frigo Shatzy teneva una poesia di Robert Curts. L’aveva copiata perché le piaceva. Non tutta, ma le piaceva verso la fine dove diceva: muoiono nello stesso respiro, gli amanti. Aveva anche un bel finale, ma la cosa migliore era quel verso. Muoiono nello stesso 41

respiro, gli amanti.

E un’altra cosa. Shatzy canticchiava sempre una canzone, abbastanza stupida, che aveva imparato da bambina. Aveva un sacco di strofe. Il ritornello iniziava così: rossi i prati del nostro paradiso, rossi. Non era un granché, come canzone. Era così lunga che a cantarla tutta potevi creparci su. Veramente.

Young morì in cella, il giorno prima del processo. Suo padre andò a trovarlo, e gli sparò in faccia, a bruciapelo.

13.

Gould aveva ventisette professori. Quello che preferiva, comunque, era Mondrian Kilroy.

Era un uomo di una cinquantina d’anni, con una strana faccia da irlandese (non era irlandese).

Portava sempre ai piedi delle pantofole di panno grigio, così tutti pensavano che vivesse lì all’università, e qualcuno che fosse nato lì. Insegnava statistica.

Una volta Gould era entrato nell’aula 6, e seduto in un banco qualunque ci aveva trovato il prof. Mondrian Kilroy. La cosa strana era che stava piangendo. Gould si sedette qualche banco più in là, e aprì i suoi libri. Gli piaceva studiare nelle aule vuote. Di solito non ci trovava professori che piangevano. Mondrian Kilroy disse qualcosa piano, e Gould rimase un po’ in silenzio poi rispose che non aveva capito. Allora Mondrian Kilroy parlò voltandosi verso di lui, e disse che stava piangendo. Gould vide che non aveva fazzoletti in mano, o cose del genere, e che aveva il dorso delle mani bagnato, e le lacrime che gli colavano fin dentro il colletto di una camicia blu. Vuole un fazzoletto?, chiese. No, grazie. Vuole che le porti qualcosa da bere? Meglio di no, grazie.

Continuava a piangere, su questo non c’era dubbio.

Per quanto insolita, la cosa non era da considerarsi completamente illogica, dato l’indirizzo che da alcuni anni avevano preso gli studi del prof. Mondrian Kilroy, vale a dire la natura delle sue ricerche, le quali, da alcuni anni, si erano appuntate su una materia di studio piuttosto singolare, vale a dire: lui studiava gli oggetti curvi. Non si ha idea di quanti oggetti curvi esistano, e solo Mondrian Kilroy, seppur per approssimazione, ne sapeva stimare l’impatto sulla rete percettiva dell’uomo, e, in definitiva, sulla sua disposizione etico-sentimentale. In genere gli riusciva difficile focalizzare la questione in presenza dei colleghi, spesso propensi a giudicare simili ricerche esageratamente laterali (qualsiasi cosa volesse significare una simile espressione). Ma era sua convinzione che la presenza di superfici curve nell’indice dell’esistente fosse tutt’altro che accidentale, e anzi rappresentasse in qualche modo la via di fuga attraverso cui il reale sfuggiva al suo destino di struttura forte, ortogonalmente organizzata, e fatalmente bloccata. Era ciò che, in generale, rimetteva in movimento il mondo, per usare i termini precisi dello stesso prof. Mondrian Kilroy. Il senso di tutto ciò emergeva abbastanza chiaro e comunque in forma indubitabilmente curiosa dalle sue lezioni, e in alcune di esse in particolare, e con inusuale nitore in una, quella nota come lezione n. 11, dedicata, per la precisione, alle Nymphéas di Claude Monet. Com’è noto, le Nymphéas non sono propriamente un quadro, bensì un insieme di otto grandi decorazioni murali che, se accostate, darebbero l’impressionante risultato finale di una composizione lunga novanta metri e alta due.

Monet vi lavorò per un numero imprecisato di anni, decidendo, nel 1918, di regalarle al suo Paese, la Francia, in omaggio alla vittoria nella prima guerra mondiale. Continuò a lavorarci fino alla fine dei suoi giorni, e morì, il 5 dicembre 1926, prima di poterle vedere esposte al pubblico. Curioso tour de force, esse ottennero dalla critica giudizi contraddittori, venendo di volta in volta descritte come capolavori profetici o decorazioni buone tutt’al più per ingentilire le pareti di una brasserie. Il pubblico continua ancor oggi a tributare loro un’incondizionata e rapita ammirazione. Come amava sottolineare lo stesso prof. Mondrian Kilroy, le Nymphéas presentano un tratto clamorosamente paradossale sconcertante, lui amava dire e cioè la deprecabile scelta del soggetto: per novanta metri di lunghezza e due di altezza, esse non fanno che immortalare uno stagno di ninfee. Qualche albero, 42

di sfuggita, un po’ di cielo, forse, ma sostanzialmente: acqua e ninfee. Sarebbe difficile trovare soggetto più insignificante, e in definitiva kitsch, né è facile comprendere come a una simile baggianata un genio possa pensare di dedicare anni di lavoro e decine di metri quadrati di colore.

Un pomeriggio e il dorso di una teiera sarebbero stati più che sufficienti. E tuttavia, proprio in questa assurda mossa inizia la genialità delle Nymphéas. È così evidente diceva il prof Mondrian Kilroy - quel che Monet voleva fare: dipingere il niente.

Dovette essere per lui una tale ossessione, dipingere il niente che, riletti a posteriori, tutti i suoi ultimi trent’anni di vita ne sembrano posseduti come interamente assorbiti. E precisamente da quando, nel novembre del 1893, acquistò un ampio terreno adiacente alla sua proprietà di Giverny, e concepì l’idea di costruirvi un grande bacino per fiori acquatici in altri termini, uno stagno pieno di ninfee. Progetto che potrebbe essere riduttivamente interpretato come il senile imporsi di un hobby estetizzante e che invece il prof. Mondrian Kilroy non esitava a definire come la consapevole, strategica prima mossa di un uomo che sapeva benissimo dove voleva arrivare. Per dipingere il niente, prima doveva trovarlo. Monet fece qualcosa di più: lo produsse. Non dovette sfuggirgli che la soluzione del problema non era ottenere il nulla saltando il reale (qualsiasi pittura astratta è in grado di fare una cosa del genere), ma piuttosto ottenere il nulla attraverso un processo di progressivo decadimento e dispersione del reale. Capì che il nulla che cercava era il tutto, sorpreso in un istante di momentanea assenza. Lo immaginava come una zona franca tra ciò che era e ciò che non era più. Non gli sfuggì che sarebbe stata una faccenda piuttosto lunga.

- Mi scuso, la prostata chiama -, era solito dire il prof. Mondrian Kilroy giunto a questo punto della sua lezione n. 11. Guadagnava il bagno e ne tornava pochi minuti dopo, visibilmente sollevato.

Riferiscono le cronache che Monet, in quei trent’anni, passò molto più tempo a lavorare nel suo parco che a dipingere: ingenuamente, scindono in due un gesto che in realtà era unico, e che lui compì con ossessiva determinazione ogni istante dei suoi ultimi trent’anni: fare le Nymphéas.

Coltivarle o dipingerle erano solo nomi diversi per una stessa avventura. Possiamo immaginare che ciò che aveva in mente fosse: aspettare. Aveva avuto l’astuzia di scegliere, come punto di partenza, una frangia del mondo in cui il reale si dava con un elevato grado di evanescenza e monotonia, prossimo a un insignificante mutismo. Uno stagno di ninfee. Da lì, il problema era portare quella porzione di mondo a scaricare qualsiasi residua scoria di significato, arrivando a dissanguarla e svuotarla e dissiparla fino al punto da farle sfiorare la più completa scomparsa. Il suo deprecabile esserci sarebbe allora divenuto poco più che la presenza simultanea di assenze diverse, e svaporate.

Per ottenere un simile, ambizioso, risultato, Monet si affidò a un trucco piuttosto banale, ma collaudato - un marchingegno la cui devastante efficacia è testimoniata da qualsiasi vita matrimoniale. Nulla può diventare così insignificante come qualsiasi cosa se ti ci svegli di fianco tutte le mattine della tua vita.

Quello che fece Monet fu portarsi, in casa, la porzione di mondo che intendeva ridurre a nulla. Creò uno stagno di ninfee nel preciso punto in cui gli sarebbe stato impossibile evitare di vederlo.

- Solo un coglione - argomentava il prof. Mondrian Kilroy nella sua lezione n. 11 - potrebbe credere che imporsi una simile, quotidiana intimità con quello stagno fosse un modo per conoscerlo e capirlo e rubargli il suo segreto. Era un modo di smantellarlo.

Si può dire che a ogni sguardo posato su quello stagno Monet si avvicinasse di un passo all’indifferenza assoluta, bruciando ogni volta residui di stupore e rimasugli di meraviglia. Si può perfino ipotizzare che quel suo inesausto lavorare sul parco testimoniato dalle cronache ritoccando qui e là, mettendo e togliendo fiori, tracciando e ritracciando bordi e linee, altro non sia stato che un accurato intervento chirurgico su tutto ciò che resisteva al logorio dell’abitudine e si intestardiva a increspare la superficie dell’attenzione, incrinando il quadro di assoluta insignificanza che si andava formando negli occhi del pittore. Cercava la rotondità del nulla, Monet, e dove l’abitudine si dimostrava impotente non esitava a intervenire con la ruspa.

- Vran -, annotava con effetto onomatopeico il prof. Mondrian Kilroy, accompagnando l’espressione con un gesto inequivocabile.

43

- Vran.

Un giorno si svegliò, uscì dal letto, scese nel parco, arrivò sul bordo dello stagno e quel che vide fu: nulla. Un altro si sarebbe accontentato. Ma è costitutiva del genio un’ostinazione illimitata che lo porta a inseguire i propri scopi con un’ipertrofica ansia di perfezione. Monet iniziò a dipingere: ma chiuso nel suo studio.

Nemmeno per un attimo pensò di montare il cavalletto sui bordi dello stagno, di fronte alle ninfee. Gli fu immediatamente chiaro che, dopo aver faticato anni a fabbricare quelle ninfee, le avrebbe dipinte rimanendo chiuso nel suo studio, e cioè confinato in un luogo da cui, per attenersi alla verità dei fatti, quelle ninfee non poteva vederle. Attenendosi alla verità dei fatti: lì, le poteva ricordare. E questo scegliere la memoria, non l’approccio diretto della vista fu un geniale, estremo aggiustamento del nulla, giacché la memoria e non già la vista assicurava un millimetrico contromovimento percettivo che frenava le ninfee a un passo dall’essere troppo insignificanti e le intiepidiva con la suggestione del ricordo quel tanto che bastava a fermarle un attimo prima del baratro dell’inesistenza. Erano un nulla, ma erano.

Finalmente, poteva dipingerle.

Qui, di solito, il prof. Mondrian Kilroy faceva una pausa piuttosto teatrale, tornava a sedersi dietro la cattedra e concedeva all’uditorio qualche istante di silenzio che veniva usato variamente, ma per lo più con una certa educazione. Era questo il momento in cui, generalmente, i suoi colleghi uscivano dall’aula, articolando una ragnatela di microespressioni facciali che volevano significare vivace approvazione e sincero disappunto per la rete di impegni che, come si poteva capire, impediva loro di trattenersi ulteriormente.

Il prof. Mondrian Kilroy non dava mai segno di notarle.

Non che a Monet importasse, propriamente, di dipingere il nulla. Il suo non era un vezzo da artista stanco e nemmeno la vuota ambizione a un virtuosistico tour de force. Aveva in mente qualcosa di più sottile. Il prof Mondrian Kilroy si fermava un attimo, a questo punto, fissava l’uditorio e abbassando la voce, quasi stesse scandendo un segreto, diceva: Monet aveva bisogno del nulla, affinché la sua pittura potesse essere libera di ritrarre, in assenza di un soggetto, se stessa.

Contrariamente a ciò che un consumo ingenuo potrebbe suggerire, le Nymphéas non rappresentano delle ninfee, ma lo sguardo che le guarda. Sono il calco di un determinato sistema percettivo. Ad essere precisi: di un sistema percettivo vertiginosamente anomalo. Altri colleghi certo più autorevoli di me, annotava il prof. Mondrian Kilroy con vomitevole falsa modestia hanno già rilevato come le Nymphéas siano senza coordinate, cioè appaiano galleggianti in uno spazio senza gerarchie in cui non esistono vicinanza e lontananza, sopra e sotto, prima e dopo. Tecnicamente parlando, esse sono lo sguardo di un occhio impossibile. Non è sulla riva dello stagno, il punto di vista che le vede, non è in aria, non è a pelo d’acqua, non è da lontano, non è addosso. È dappertutto.

- Forse un dio astigmatico, potrebbe vedere così - amava chiosare, ironicamente, il prof.

Mondrian Kilroy. Lui diceva: le Nymphéas sono il nulla, visto dall’occhio di nessuno.

- Cosicché guardare le Nymphéas significa guardare uno sguardo - diceva - e per di più uno sguardo non riconducibile a una qualche nostra esperienza precedente, ma uno sguardo unico e irripetibile, uno sguardo che non potrebbe mai essere il nostro.

Detto in altri termini: guardare le Nymphéas è un’esperienza limite, un compito pressoché impossibile. La cosa non dovette sfuggire a Monet, il quale a lungo si occupò, e preoccupò, con maniacale pignoleria, di studiare una particolare sistemazione delle Nymphéas che ne riducesse per quanto possibile la non vedibilità.

Ciò che gli riuscì di trovare fu un elementare espediente, in sé ingenuo, che pure ancor oggi dimostra una certa efficacia e che, come irrilevante corollario, ebbe quello di far scivolare quelle ninfee nel raggio di studi del prof. Mondrian Kilroy. Monet volle che le Nymphéas fossero disposte secondo una precisa sequenza su otto pareti curve. Curve, signori -, scandiva il prof. Mondrian Kilroy, con trasparente soddisfazione.

Per uno studioso che aveva dedicato ampi saggi all’arcobaleno, alle uova sode, alle case di Gaudí, alle palle di cannone, agli svincoli autostradali e alle anse dei fiumi, per uno studioso che aveva consacrato alle superfici curve anni di riflessione e analisi, per il prof. Mondrian Kilroy, 44

insomma, doveva sembrare una commovente epifania scoprire come quell’anziano pittore, spintosi in bilico sull’orlo dell’impossibile, si fosse lasciato accompagnare, per salvarsi, dal curvo incedere di pareti clementi, sfuggite alla condanna di qualsiasi angolo. Così era con elettrizzata soddisfazione che il prof. Mondrian Kilroy si sentiva in diritto, a questo punto, di proiettare la diapositiva n. 421, rappresentante il prospetto delle due sale dell’Orangerie di Parigi dove le Nymphéas di Monet furono installate, nel gennaio del 1927, e dove, ancora oggi, sarebbe dato al pubblico di vederle, se solo ved e rle non fosse un termine totalmente inadeguato al gesto, impossibile, di guardarle.

(Diapositiva n. 421)

Non c’è un solo centimetro delle Nymphéas che non sia una superficie curva, signori. E con questo il prof. Mondrian Kilroy approdava al vero cuore della sua lezione n. 11, di tutte la più limpidamente chiara. Si avvicinava all’uditorio e da qui alla fine srotolava tutto con alluvionale, e metodica, passione.

- Io li ho visti, gli uomini, là dentro, con addosso le Nymphéas.

Sbucare dalla porta e immediatamente già sentirsi persi, come SBALZATI dal consueto compito di vedere, EIETTATI fuori dall’abitacolo di un preciso punto di vista e dilagAAAAti in uno spazio di cui vanamente cercano l’inizio. Un inizio. In certo modo le Nymphéas gli ruotano intorno, seppur immobili, messe in movimento dalla curvatura che le schiera a guscio intorno al vuoto delle due sale, fatalmente suggerendo una sorta di panoramica a cui gli uomini si concedono, provando a girarsi su se stessi, e orbitando occhi a 360 gradi, in fanciullesca meraviglia. Non di rado, macchiati da un sorriso. Forse per un attimo si illudono di avere visto, accomodati in una percezione parente di quella cinematografica, ma è immediata la disillusione che li porta, meccanicamente, a cercare la distanza giusta, e la sequenza appropriata, e cioè esattamente le due cose a cui proprio il cinema li ha disabituati, dettando a ogni passo proprio distanza e sequenza, e così diseducandoli alla scelta dello sguardo, essendo il cinema uno sguardo costantemente obbligato, per così dire vicario, despota, tiranno: quando invece, quelle ninfee, sembrano suggerire piuttosto la vertigine di una percezione libera dettato, come si sa, proibitivo. Ne sono come dispersi, gli uomini. Allora, prendono tempo. Vagano, si rigirano, deambulano, ristanno, sfilano, arretrano, talvolta si siedono per terra o su apposita, pietosa, panchina consci di vedere qualcosa che amano, ma tutt’altro che sicuri di vederla, veramente, vederla. Molti iniziano a chiedersi quanto. Quanto ci avrà messo, quanto saranno alte, quanti chili di colore avrà usato, quanti metri di lunghezza, quanto.

Scantonano, è ovvio, gli piace pensare che sapendo cosa si ha davanti, sarebbe infine possibile averlo, effettivamente, davanti, e non sopra sotto addosso accanto, dove cioè le Nymphéas dimorano, incuranti di qualsiasi quantificazione semplicemente ovunque. Prima o poi, osano e si avvicinano. Vanno a vedere. Ma proprio da vicino. Toccherebbero, potessero, ci appoggiano gli occhi, non potendo le dita. E definitivamente cessano di vedere, non riuscendo più a risalire a nulla, solo scorgendo pennellate grasse e anarchiche, come fondi di piatti s porch i, senape, mostarda e maionese blu, o cromatiche virgole da pareti di cesso impressionista. Ridono. E tornano subito indietro a riacquisire il punto in cui gli era chiaro quanto meno cosa non stavano vedendo: delle ninfee. Rinculando non omettono di domandarsi come potesse quell’uomo vedere da lontano e dipingere da vicino, sottile trucco che li ammalia, lasciandoli, al termine del loro viaggetto a ritroso verso il centro della sala, inutili come prima, e per di più, stregati: momento esatto in cui la consapevolezza di non saper vedere acquista una venatura dolorosa, appaiata ormai, com’è, alla sotterranea certezza che quanto sfugge al loro sguardo sarebbe stato pungente piacere, e indimenticabile ricordo di bellezza. Allora si arrendono. E mettono mano al supremo succedaneo dell’esperienza, al sigillo di qualsiasi sguardo mancato. Liberano dal tepore di custodie grigie felpate la disfatta della loro macchina fotografica.

Fotografano le Nymphéas.

Commovente. La stampella gettata contro i cannoni del nemico. Obbiettivi da 50 mm lanciati in picchiata come retinei kamikaze contro flotte di ninfee sfuggenti. Neanche il flash è concesso dai precetti senza pietà del regolamento: impressionano pellicole cercando umane 45

inquadrature impossibili corrette da mortificanti piegamenti sulle ginocchia, torsioni del busto, pencolamenti oltre il baricentro. Mendicano uno sguardo qualsiasi, fidando forse nel miracoloso e chimico soccorso della camera oscura. I più commoventi di tutti, i più commoventi urlano la loro disfatta frapponendo tra obbiettivo e ninfee la mortificante presenza corporale di un parente, in genere posizionato, come per simbolico gesto di resa, di spalle alle ninfee. Per anni, poi, saluterà ospiti e amici, da sopra un comò, con un sorriso spento come di cugino naufragato, anni prima, in uno stagno di nymphéas, hélas, hélas. Se li porta via, il vecchio pittore canaglia, così, perduti in un compito impossibile, guardare uno sguardo inesistente, conquistati e vinti, saccheggiati dalla sua astuzia, gli uomini semplicemente, da lui, le sue ninfee, colori, pennelli maledetti, lo sguardo che lui vide, mai più visto, acqua, ninfeeeeeeeee e. Ancor oggi lo odierei, per questo. Non si perdonano i profeti di profezie illeggibili, e a lungo ho pensato che lui fosse di quella genìa, la peggiore di tutte, i cattivi maestri, convinto com’ero che, in definitiva, lo sguardo che si era immaginato restava sguardo inutile perché inaccessibile ad altri e riservato a lui, che non aveva saputo renderlo guardabile. C’era da disprezzarlo, per questo, giacché tolta quell’acrobazia percettiva, quella ammattita escursione oltre qualsiasi punto di vista, alla ricerca di un qualche infinito tolta quella pionieristica avventura della sensibilità restava un mare di ninfee sfocate, un ipertrofico saggio di impressionismo, questa deleteria tecnica ruffiana in cui la media intelligenza borghese adoooooora riconoscere l’irruzione del moderno, elettrizzata dall’idea che quella sia stata una rivoluzione, e quasi commossa all’idea di poterla amare, benché rivoluzione, constatando quanto in fondo non abbia fatto male a nessuno - new for you, finalmente una rivoluzione ideata espressamente per le signorine di buona famiglia, in omaggio in ogni scatola l’emozione della modernità puah. Non si poteva che odiarlo, per quel che aveva fatto, e io l’ho odiato ogni singola volta che sono entrato nelle due sale dell’Orangerie, a Parigi, sempre uscendone sconfitto, ogni singola volta, per vent’anni.

E ancora lo odierei oggi inutile profanatore di superfici curve se non mi fosse accaduto, nel pomeriggio del 14 giugno 1983, di vedere qualcuno, una donna, entrare nella sala 2, la più grande e, sotto i miei occhi, vedere le Nymphéas, vedere le Nymphéas svelandomi così che farlo era possibile, non per me, forse, ma in assoluto, per qualcuno, a questo mondo: quello sguardo c’era, lì dentro, e c’era un dove che ne era l’inizio, la parabola e la fine. Per anni in effetti avevo spiato le donne, lì dentro, sospettando istintivamente che se c’era una soluzione una donna l’avrebbe scoperta, non foss’altro che per oggettiva complicità tra enigmi. Naturalmente osservavo le donne belle, soprattutto le donne belle. Quella donna si staccò dal suo gruppo, donna orientale, un grosso cappello che le nascondeva in parte il viso, scarpe strane, si staccò e si diresse verso una parete della sala 2 era al centro, prima, con il suo gruppo di turiste orientali, tutte donne e si staccò da lì, come se avesse perso l’appiglio che la teneva aggrappata al suo gruppo, e ora una singolare forza di gravità la attirasse a cadere verso le ninfee, quelle esposte sulla parete a est, dove massima è la curvatura verso le ninfee si lasciò cadere assumendo di colpo l’andatura di una foglia autunnale cadeva a pendolo, oscillando in movimenti contraddittori e armonicamente contorti mi piace dire: curvi. Due stampelle, di legno, a premere sotto le ascelle, i piedi batacchi neri molli rotti dentro a suonare passi focomelici, uno scialle sulle spalle scialle malattia le braccia accartocciate malamente sembrava una falena splendida esausta, e io la guardai come venisse da lunghissima migrazione, esausta, splendida, lì. Guadagnava centimetro dopo centimetro, con una fatica immensa, e non sembrava conoscere l’ipotesi di fermarsi. Avvitava ogni movimento intorno all’asse della sua malformazione, eppure procedeva, srotolava sussulti interpretabili come passi, e così avanzava, lumaca paziente, inseparabile dal male sua dimora striscia di bava, dietro, ad appuntare la traiettoria del grottesco cammino l’imbarazzo degli altri a risalirlo, macinando vergogna e disappunto, alla ricerca di scappatoie per gli occhi, ma non era facile smettere di guardarla, non si riusciva a guardare altrove c’erano un sacco di persone, c’ero io, a un certo punto ci fu solamente lei. Arrivò fino a sfiorare le ninfee, poi prese a scivolargli accanto, replicando la curvatura della parete, ma arricchita di vocalizzi cinetici, accartocciata la linea curva in uno scarabocchio a ogni scossa più affaticato, riaggiornata a ogni istante la distanza, non meno indefinita delle ninfee, perché disseminata in quel movimento dalle mille direzioni, esplosa in quel corpo senza centro. Si fece l’intera sala, così, avvicinandosi e allontanandosi, sballottata dal pendolo ubriaco che le minutava 46

dentro il tempo del suo male, mentre la gente si scostava, attenta a non turbare anche le più impensate evoluzioni del suo andare. E io, che per anni avevo cercato di guardare quelle ninfee, mai riuscendo a vedere altro che ninfee, piuttosto kitsch e deplorevoli oltretutto, me la lasciai passare accanto e improvvisamente capii, senza neppure spiare cosa facesse con gli occhi, con assoluta chiarezza capii che lei stava vedendo, lei era lo sguardo che quelle ninfee raccontavano, lo sguardo che da sempre le aveva viste, lei era l’angolazione esatta, il punto di vista preciso, l’occhio impossibile lo erano le sue scarpe tozze, nere, lo erano il suo male, la sua pazienza, l’orrore delle sue mosse, le stampelle di legno, lo scialle malattia, il rantolo di gambe e braccia, la pena, la forza, e quell’irripetibile traiettoria sbavata nello spazio perduta per sempre quando alla fine arrivò, si fermò, e sorrise.

Da quel 14 giugno 1983, la vita del prof. Mondrian Kilroy inclinò a una certa malinconia, coerentemente alle sue convinzioni teoriche che, dall’analisi delle Nymphéas di Monet, avevano concluso l’oggettivo primato della condizione del dolore come conditio sine qua non di una superiore percezione del mondo. Si era convinto che la sofferenza fosse l’unica via capace di condurre al di là della superficie del reale. Era la linea curva che dribblava l’ortogonale struttura dell’inautentico. Peraltro, il prof. Mondrian Kilroy aveva una vita felice, priva di significativi dolori, e casualmente al riparo dai capricci della sventura. Ciò gli rendeva problematiche le cose, date le premesse teoriche su esposte, facendolo sentire inesorabilmente inadeguato, e questa finiva per essere la sua unica ragione di sofferenza, il dolore di non avere dolori. Vittima di questo banale corto circuito teorico-sentimentale, il prof. Mondrian Kilroy scivolò a poco a poco in un’effettiva depressione nervosa che gli procurava saltuariamente perdite di memoria, giramenti di capo e illogici sbalzi d’umore. Gli accadeva di sorprendersi a piangere, talvolta, senza precise ragioni, né scusanti. Per un certo verso si rallegrava di simili cedimenti, ma non era così succube delle proprie teorie da non provare, ogni volta, un po’ di vergogna. Un giorno, mentre stava appunto piangendo del tutto gratuitamente nascosto nell’aula 6, vide la porta aprirsi ed entrare un ragazzino. Era un suo allievo, si chiamava Gould. Al college era famoso perché si era laureato a undici anni. Era un ragazzo prodigio. Per un certo periodo aveva perfino vissuto lì, al college, subito dopo quella storia orrenda della madre. Era una bella signora bionda, la madre, simpatica. Ma non stava bene. Un giorno il marito la prese e la portò in clinica, una clinica psichiatrica. Disse che non si poteva fare altrimenti. Fu lì che il ragazzino finì al college. Non si sapeva bene nemmeno cosa avesse capito, lui, di tutta quella storia. Nessuno osava mai chiederglielo. Era un ragazzino educato, nessuno voleva spaventarlo. Ogni tanto il prof. Mondrian Kilroy lo guardava e pensava che avrebbe voluto fare qualcosa per lui. Ma non sapeva cosa. Il ragazzino gli chiese se voleva un fazzoletto, o qualcosa da bere. Il prof. Mondrian Kilroy disse di no, che andava tutto bene. Rimasero un po’ lì. Il ragazzino studiava. C’era una bella luce, che veniva dalle finestre. Il prof. Mondrian Kilroy si alzò, prese la giacca, e si diresse verso la porta. Quando passò davanti al ragazzino, gli sfiorò con la mano la testa, e borbottò qualcosa tipo - Sei un bravo ragazzo, Gould.

Il ragazzino non disse niente.

14.

- Ciao.

- Ciao -, disse Shatzy.

- Cosa prendete?

- Due cheeseburger e due succhi d’arancia.

- Patatine?

- No, grazie.

- Se prendete le patate costa uguale.

- Non importa, grazie.

47

- Cheeseburger, drink e patate, è la combinazione n. 3 -, disse indicando una foto alle sue spalle.

- Bella foto, ma non ci piacciono le patate.

- Potete prendere un doppio cheeseburger, combinazione n. 5, non ci sono le patate e costa uguale.

- Uguale a cosa?

- A un cheeseburger e succo d’arancia.

- Un doppio cheeseburger costa come un cheeseburger singolo?

- Sì, se scegliete la combinazione n. 5.

- Incredibile.

- Combinazione n. 5?

- No. Vogliamo un solo cheeseburger. Uno a testa. Niente doppi cheeseburger.

- Come volete. Ma buttate via dei soldi.

- Non importa, grazie.

- Due cheeseburger e due succhi d’arancia, allora.

- Perfetto.

- Dessert?

- Vuoi la torta, Gould?

- Sì.

- Allora aggiungi una torta, grazie.

- Questa settimana per ogni dessert ordinato ce n’è un altro in regalo.

- Splendido.

- Cosa prendi?

- Niente, grazie.

- Ma devi prenderlo, è in regalo.

- Non mi piacciono i dessert, non li voglio.

- Ma io devo dartelo.

- In che senso?

- È l’offerta della settimana.

- L’ho capito.

- Quindi devo dartelo.

- Come sarebbe a dire devi darmelo, io non lo voglio, non mi piace, non voglio diventare grassa come Tina Tumer, non voglio infilarmi mutande XXL, cosa devo fare, aspettare la prossima settimana per mangiare un cheeseburger e basta?

- Puoi sempre non mangiarlo. Prendere il dessert in regalo e non mangiarlo.

- E cosa lo prendo a fare?

- Puoi buttarlo.

- Buttarlo?, io non butto niente, buttalo tu, ecco, fai così, lo prendi e lo butti, okay?

- Non posso, mi licenzierebbero.

- Cristo…

- Sono molto severi, qui.

- Va bene, okay, lasciamo stare, dammi ‘sta torta.

- Sciroppo?

- Niente sciroppo.

- È gratis.

- LO SO CHE E GRATIS MA NON LO VOGLIO, OKAY?

- Come vuoi.

- Niente sciroppo.

- Panna?

- Panna?

- C’è la panna, se vuoi.

- Io non voglio nemmeno la torta, come diavolo fai a pensare che voglia LA PANNA?

48

- Non so.

- Lo so io: niente panna.

- Neanche per il ragazzino?

- Neanche per il ragazzino.

- Va bene. Due cheeseburger, due succhi d’arancia, una torta senza niente. Questo è per voi -, aggiunse, allungando verso Shatzy due cose avviluppate in carta trasparente.

- Cosa diavolo è?

- Chewingum, è in regalo, dentro c’è una pallina di zucchero, se la pallina è rossa vinci altri dieci chewingum, se è blu vinci una combinazione n. 6, gratis. Se la pallina è bianca, te la mangi e finisce lì. Comunque il regolamento è stampato sulla carta.

- Scusa un attimo.

- Sì?

- Scusa, eh…

- Sì.

- Mettiamo che per assurdo io prenda questo cavolo di chewingum, no?

- Sì.

- Mettiamo ancora più per assurdo che io me lo stia a masticare per un quarto d’ora e poi ci trovi dentro una pallina blu.

- Sì

- Allora dovrei portartela, tutta insalivata, e posartela qui, e tu mi daresti una grassa, fritta e caldiccia combinazione n. 6?

- Gratis.

- E secondo te, quando me la mangerei?

- Subito, credo.

- Io voglio un cheeseburger e un succo d’arancia, l’hai capito questo? Non so cosa farmene di tre pezzi di pollo fritto più una patatina media più una pannocchia imburrata più una Coca media.

NON SO COSA DIAVOLO FARMENE.

- Di solito li mangiano.

- Chi?, chi li mangia? Marlon Brando, Elvis Presley, King Kong?

- La gente.

- La gente?

- Sì, la gente.

- Senti, me lo fai un favore?

- Certo.

- Riprenditi ‘sti chewingum.

- Non posso.

- Li tieni da parte per il prossimo obeso di passaggio, eh?

- Non posso, davvero.

- Cristo…

- Mi spiace.

- Ti spiace.

- Davvero.

- Dammi ‘sti chewingum.

- Non sono male, sono al gusto papaia.

- Papaia?

- Il frutto esotico.

- Papaia.

- È la moda di quest’anno.

- Okay, okay.

- Basta così?

- Sì, tesoro, basta così.

Pagarono e andarono al tavolo. Appeso al soffitto c’era un monitor acceso sul canale Food 49

TV. Faceva delle domande. Se avevi la risposta giusta la scrivevi nell’apposito spazio sulla tovaglietta di carta e la consegnavi alla cassa. Vincevi una combinazione n. 2 In quel momento la domanda era: chi segnò il primo goal nella finale dei Campionati del Mondo 1966?

1. Jeoffrey Hurst

2. Bobby Charlton

3. Helmut Haller

- Tre -, mormorò Gould.

- Non provarci nemmeno -, gli sibilò Shatzy, e aprì la confezione del cheeseburger.

All’interno del coperchio le apparve una pecetta rosso fiammante. Sopra c’era scritto CONGRATULAZIONI!!! HAI VINTO UN ALTRO HAMBURGER! E più piccolo: Porta subito questo tagliando alla cassa, riceverai un hamburger gratis e un drink a metà prezzo! C’era anche un’altra frase, scritta di sbieco, ma Shatzy non la lesse. Richiuse con calma la confezione di plastica, lasciandoci il cheeseburger dentro.

- Andiamo -, disse.

- Ma non ho ancora nemmeno iniziato… -, disse Gould.

- Iniziamo un’altra volta.

Si alzarono, lasciando tutto lì, e andarono verso la porta. Li intercettò uno vestito da clown, solo che in testa aveva il cappellino del fast food.

- Un palloncino in omaggio, signora.

- Prendi il palloncino, Gould.

- Sul palloncino c’era scritto IO MANGIO HAMBURGER.

- Se lo attaccate alla porta di casa potete partecipare al concorso DOMENIBUPNGER.

- Attaccalo alla porta, Gould.

- Ogni domenica viene estratta una casa con il palloncino esposto e un camioncino provvede a scaricargli davanti alla porta 500 cheesebaconburger.

- Ricordati di liberare il vialetto davanti alla porta, Gould.

- C’è anche un congelatore da 300 litri in offerta speciale. Per conservare i cheesebaconburger.

- Si capisce.

- Se prende quello da 500 litri le regalano anche un microonde.

- Splendido.

- Se ce l’ha già può prendere un phon professionale a quattro velocità.

- Nel caso dovessi fare lo shampoo ai cheesebaconburger?

- Prego?

- O farmi lo shampoo col ketchup.

- Scusi?

- Dicono che dia lucentezza ai capelli.

- Cosa, il ketchup?

- Sì, non hai mai provato?

- No.

- Prova. Anche la salsa bearnese non è male.

- Sul serio?

- Toglie la forfora.

- La forfora non ce l’ho, grazie a dio.

- Ti verrà sicuramente se continui a mangiare salsa bearnese.

- Ma io non la mangio mai.

- Sì, ma ti ci lavi i capelli.

- Io?

- Certo, si vede dal phon.

- Quale phon?

- Quello che hai attaccato alla porta.

- Ma io non ce l’ho attaccato alla porta.

50

- Pensaci bene, ce l’hai messo quando ti è volato via il microonde a quattro velocità.

- Volato via da dove?

- Dal congelatore.

- Dal congelatore?

- Domenica, non ti ricordi?

- Scherzi?

- Ho la faccia di una che scherza?

- No.

- Risposta esatta. Lei ha vinto 500 litri di palloncini, le saranno consegnati in cheeseburger, ci vediamo, ciao.

- Non capisco.

- Non importa. Ci vediamo, eh?

- Il palloncino.

- Prendi il palloncino Gould.

- Lo vuoi rosso o blu?

- Il bambino è cieco.

- Oh, scusi.

- Non importa. Succede.

- Il palloncino lo prende lei?

- No, lo prende il bambino. È cieco, mica scemo.

- Glielo do rosso o blu?

- Non ce l’ha color vomito?

- No.

- Strano.

- Solo rossi o blu.

- Vada per il rosso.

- Ecco.

- Prendi il palloncino rosso, Gould.

- Ecco, tieni.

- Ringrazia, Gould.

- Grazie.

- Prego.

- Abbiamo altro da dirci?

- Scusi?

- Pare di no. Arrivederci.

- In bocca al lupo per domenica!

- Crepi.

- Uscirono dal fast food. C’era un’aria fredda e tersa, da inverno pulito.

- Pianeta di merda -, disse piano Shatzy.

- Gould se ne stava lì, in mezzo al marciapiedi, fermo, con in mano un palloncino rosso.

Sopra c’era scritto IO MANGIO HAMBURGER.

- Ho fame -, disse.

15.

- LARRY!… LARRY!… Larry Gorman sta avvicinandosi alla nostra postazione… è circondato dal suo clan… il ring è pieno di gente… LARRY!… non è semplice, per il campione, farsi largo… c’è Mondini, il suo coach… davvero una vittoria lampo, questa sera, qui al Sony Sport Club, ricordiamo, 2 minuti e 27 secondi sono bastati… LARRY, ecco, Larry, siamo in diretta, per la 51

radio… Larry… siamo in diretta, allora, una vittoria lampo…

- Funziona questo microfono?

- Sì, siamo in diretta.

- Bel microfono, dove l’hai comprato?

- Non li compro io, Larry… senti… pensavi di chiudere così velocemente o…

- A mia sorella piacerebbe un sacco…

- Voglio dire…

- No, sul serio. Sai, lei fa l’imitazione di Marilyn Monroe, canta che è sputata Marilyn, la stessa voce, giuro, solo che non ha un microfono…

- Senti Larry…

- Di solito se la cava con una banana.

- Larry, vuoi dire qualcosa sul tuo avversario?

- Sì. Voglio dire qualcosa.

- Dilla.

- Voglio dire qualcosa sul mio avversario. Il mio avversario si chiama Larry Gorman. Perché si ostinano a mettermi davanti quei cosi nudi con dei guantoni? Stan sempre tra i piedi. Alla fine mi tocca sbatterli giù.

- CAZZO, GOULD, VUOI USCIRE DA LÌ?

- La voce era quella di Shatzy. Veniva da fuori della porta. La porta del bagno.

- Arrivo, arrivo.

- Musica di sciacquone. Rubinetto del lavabo on. Rubinetto del lavabo off. Pausa. Porta che si apre.

- È mezz’ora che ti aspettano.

- Arrivo.

A casa di Gould erano arrivati quelli della tivù. Volevano fare un servizio per lo special del venerdì sera. Titolo: “Ritratto di un genio bambino”. Avevano piazzato la telecamera in salotto.

Quel che avevano in mente era un’intervista di una mezz’ora. Contavano di tirarci fuori la storia tristissima di un ragazzino condannato dalla sua intelligenza alla solitudine e al successo. La genialità stava nell’aver trovato qualcuno la cui vita era una tragedia non perché era sfigato ma, al contrario, perché era un figo della madonna. Se non era proprio una genialità era sembrata almeno una buona idea.

Gould si sedette sul sofà, davanti alla telecamera. Poomerang si mise di fianco, seduto anche lui. Diesel non ci stava, sul sofà, così si sistemò per terra, anche se la cosa gli prese un po’ di tempo.

E poi non era chiaro chi l’avrebbe mai tirato su da lì. Comunque. Sistemarono i microfoni e accesero gli spot. L’intervistatrice si stirò un po’ la gonna sulle gambe accavallate.

- Tutto bene, Gould? -, disse.

- Sì.

- Dovremmo solo provare i microfoni.

- Sì.

- Hai voglia di dirci qualcosa dentro, qualsiasi cosa?

- No, non ho voglia di dire qualcosa dentro questi microfoni, non lo farò mai neanche se mi pagate un birillione di…

- Va bene così, tutto a posto, okay, allora possiamo partire. Sei pronto?

- Sì.

- Guarda verso di me, okay? Lascia perdere la telecamera.

- D’accordo.

- Allora andiamo.

- Sì.

- Signor Gould… o posso chiamarti semplicemente Gould?

- …

- Facciamo semplicemente Gould, va bene. Senti Gould, quando ti sei accorto che non eri un bambino qualunque, voglio dire, che eri un genio?

52

- POOMERANG (nondicendo) Dipende. Lei, ad esempio, quando si è accorta di essere cretina?, è successo tutto d’un colpo, o l’ha scoperto a poco a poco, dapprima confrontando i suoi voti con quelli dei compagni, poi notando che alle feste nessuno voleva giocare in squadra con lei quando si faceva “Indovina il film”?

- Gould?

- Sì?

- Volevo sapere… se ti ricordi, quando eri piccolo, di un aneddoto, qualcosa, per cui d’improvviso ti sentisti diverso dagli altri, diverso dagli altri bambini…

- DIESEL Sì, mi ricordo benissimo. Vede, si andava ai giardini, con gli altri, tutti bambini del quartiere… c’era l’altalena, lo scivolo, quelle cose lì… era un bel giardino, e si andava lì, al pomeriggio, se c’era il sole. Be’, io non lo sapevo, allora, che ero… diverso, diciamo, insomma, ero già grande ma… non lo può sapere un bambino se è diverso o cosa… io ero il più grande, tutto lì, e così un giorno salii la scala dello scivolo, era la prima volta, non te lo lasciavano fare se eri troppo piccolo, ma quel giorno nessuno mi vide, nessuno sapeva nemmeno bene quanti anni avevo, così io mi misi a salire quella scala, e quel che successe è che arrivato in cima mi sedetti nello scivolo e non funzionò, non ci stavo, col culo, nello scivolo, non ci stavo, ha presente?, ce la mettevo tutta ma quel bastardo di sedere non ne voleva saper di entrare… era idiota ma non c’era nulla da fare, non ci stava, il culo, nello scivolo. Così alla fine dovetti tornare indietro. Scesi dallo scivolo, ma dalla parte della scala. Lei lo sa cosa vuol dire scendere da uno scivolo dalla parte della scala? Ha mai provato? Con tutti che la guardano? Ha mai provato che sensazione è? Facile che l’ha provato, vero?

C’è un sacco di gente, in giro, che scende dallo scivolo dalla parte della scala. Ha notato? C’è un sacco di gente a cui è girata storta, questa è la verità.

- Gould?

- Sì?

- Tutto bene?

- Sì.

- Okay, okay. Allora, senti… vuoi dirci come sono i tuoi rapporti con gli altri ragazzini, hai degli amici?, giochi, fai degli sport, cose così?

- POOMERANG (nondicendo) A me piace andare sott’acqua. Là sotto è diverso. Non c’è rumore, non puoi far rumore, anche se vuoi, non puoi farlo, è senza rumore, là sotto. Ti muovi lento, non è che puoi fare dei gesti bruschi, o che so, dei gesti veloci, devi muoverti lento, tutti sono costretti a muoversi lenti. Non ti puoi far male, non ti possono dare quelle stupide pacche sulle spalle, o cose del genere, è un bel posto. Soprattutto, è il posto ideale per parlare, lo sa? quello mi piace davvero, parlare là sotto, è il posto ideale, puoi parlare e… puoi parlare, ecco, tutti possono parlare, chiunque, se vuole, può parlare, è fantastico come si parla là sotto. Peccato solo che non c’è mai… non c’è quasi mai nessuno, questo è il vero difetto della faccenda, che lì sotto non c’è nessuno, a parte te, voglio dire, sarebbe un posto fantastico, ma non c’è quasi mai nessuno, a cui parlare, di solito, non ci trovi mai nessuno. È un peccato, non crede?

- Vuoi che facciamo una pausa, Gould? Possiamo smettere e ricominciare quando vuoi.

- No, va bene così, grazie.

- Sicuro?

- Sì.

- C’è qualcosa di cui vuoi parlare?

- No, preferisco se mi fa delle domande, è più semplice.

- Davvero?

- Sì.

- Okay… senti…

- Senti… il fatto di essere un ragazzino… speciale, diciamo così… speciale… voglio dire, con gli altri ragazzini va tutto bene?

- Funziona?

DIESEL Sa una cosa? È un problema loro. Ci ho pensato tante volte, e ho capito che le cose stanno così, è un problema loro.

53

Io non ho problemi a stare con loro, posso prenderli per mano, parlargli, posso giocarci insieme, io non è che mi ricordi proprio sempre di essere fatto così, me lo dimentico, io, sono loro che non se lo dimenticano mai. Mai. Alle volte si vede che magari gli piacerebbe anche venirmi vicino, o che ne so, ma è come se avessero un po’ paura di farsi del male, o una cosa del genere.

Non sanno prenderla per il verso giusto. Sono capaci magari di farsi un sacco di storie in testa, su quello che io posso fare e non fare,

Si immaginano chissà che, stanno sempre lì a pensare cosa può darmi fastidio, che so, cosa mi potrebbe offendere, o far incazzare, e così va tutto in malora, non devono fare così. Nessuno gli ha spiegato che quelli un po’ speciali, come dice lei, alla fine sono normali, hanno le stesse voglie degli altri, le stesse paure, mica è diverso, Si può essere speciali in una cosa e normali in tutto il resto, qualcuno dovrebbe spiegarglielo. Loro la fanno troppo complicata e così finisce che si stancano, poi lasciano perdere, li si può anche capire, se ne stanno alla larga, sei un problema per loro, capisce?, un problema. Nessuno va al cinema con un problema, creda a me. Voglio dire: se solo hai uno straccio di amico con cui andarci, al cinema, neanche ti sogni di andarci con un problema. Neanche si sognano di andarci con me. È così che va.

- Preferisci che parliamo della tua famiglia, Gould?

- Se vuole.

- Dimmi di tuo padre.

- Cosa vuole sapere?

- Non so… ti piace stare con tuo padre?

- Sì. Lui lavora nell’esercito.

- Sei fiero di lui?

- Fiero?

- Sì, voglio dire, sei… fiero… fiero di lui?

- …

- E tua madre?

- …

- Vuoi raccontarci di tua madre?

- …

- …

- …

- Preferisci che parliamo della scuola? Ti piace essere quello che sei?

- In che senso?

- Voglio dire, tu sei famoso, la gente ti conosce, i tuoi compagni, i professori, tutti sanno chi sei. È una cosa che ti piace?

POOMERANG (nondicendo) Senta, le racconto ‘sta storia. Un giorno arriva uno, nel mio quartiere, uno di fuori, mi incrocia per strada e mi ferma. Voleva sapere se conoscevo Poomerang.

Se sapevo dove poteva trovarlo. Io non dissi niente, così lui cominciò a spiegarmi, mi disse è uno senza capelli, alto più o meno come te, e non parla mai, lo conoscerai, no?, quello che non parla mai, lo conoscono tutti. Io continuai a stare zitto. Lui iniziò a scaldarsi, dai, disse, ne han parlato anche i giornali, quello che ha scaricato un camion di merda davanti alla CRB, per via di quella storia di Mami Jane, dai, uno sempre vestito di nero, lo conoscono tutti, va quasi sempre in giro con una specie di gigante, un suo amico. Sapeva tutto. Cercava Poomerang. E io ero lì. Vestito di nero.

Zitto. Alla fine si incazzò. Urlava che se non mi andava di parlare potevo andare al diavolo, che modi sono, non si può nemmeno chiedere qualcosa a qualcuno, che mondo è. Urlava. E io ero lì.

Riesce a capire? Le riesce di capire che è una domanda idiota chiedermi se mi piace o no? Ehi, dico a lei, ce la fa a capire?

- Non ti va di parlare, Gould?

- Perché?

- Possiamo smettere, se vuoi.

- No, no, per me va benissimo.

- Be’, non è proprio che mi stai semplificando le cose.

54

- Mi spiace.

- Non importa. Succede.

- Mi spiace.

- Non so, cosa vuoi che ti chieda? Non so, hai dei sogni, ad esempio… c’è qualcosa che ti sogni, per quando sarai grande, qualcosa che… un sogno, ecco.

DIESEL Vorrei vedere il mondo. Sa qual è il problema? Nelle macchine non ci entro e sui pullman non mi fanno salire, son troppo grande, non ce l’hanno i sedili per me, è un po’ come la storia dello scivolo, è sempre la stessa faccenda, non c’è soluzione. È idiota, vero? Però intanto io vorrei vedere il mondo, e non c’è un sistema, me ne devo stare qua, e guardare le foto sui giornali, o sull’atlante. Anche i treni, è solo un casino, ci ho provato, era un casino. Non c’è soluzione. Io vorrei solo starmene lì e vedere il mondo passare dietro ai vetri di qualcosa abbastanza grande da portarmi via, tutto lì, sembra una cosa da nulla, e invece. Se proprio lo vuole sapere, è l’unica cosa che davvero mi manca, voglio dire, io sono contento di esser così come sono, non avrei voluto essere uno qualunque, come tanti altri, mi sta bene di essere così. L’unica cosa è quella lì. Mi sa che son troppo grande per riuscire a vedere il mondo, da grande. Solo quello. Veramente, solo quello mi fa incazzare.

- Credo che possa bastare, Gould.

- Sì?

- Insomma, possiamo finire qui.

- Bene.

- Sei sicuro di non voler dire niente?

- In che senso?

- C’è qualcosa che vorresti dire, prima che smettiamo? Qualsiasi cosa.

- Sì. Forse sì. Una cosa.

- Bene Gould. Dilla allora.

- Lei sa chi è il prof. Taltomar?

- È un tuo professore?

- Più o meno. Non sta a scuola, lui.

- No?

- Lui sta sempre sul bordo di un campo da pallone, proprio dietro la porta. Stiamo insieme, lì, noi due. E guardiamo, capisce?

- Sì. Be’, volevo dire che ogni tanto qualcuno tira, e la palla finisce fuori, oltre la porta, ci rotola anche vicino, alle volte, e poi si ferma, un po’ più in là. Allora il portiere, di solito, fa qualche passo fuori dal campo, ci vede e ci grida - Palla, per favore, la palla, grazie. - E il prof. Taltomar non si muove mai, continua a guardare verso il campo, come se non fosse successo niente. Decine di volte, è successo, e noi quella palla non siamo mai andati a prenderla, capisce?

- Sì.

- Sa, io e il professore non è che parliamo tanto, guardiamo e basta, ma un giorno mi son deciso e gliel’ho chiesto. Gli ho chiesto: - Perché non andiamo mai a prenderla, quella maledetta palla?

- Lui ha sputato per terra un po’ di tabacco e poi ha detto: - O guardi o giochi. - Non ha detto altro. - O guardi o giochi.

- …

- …

- E poi?

- E poi basta.

- Era questo che volevi dire, Gould?

- Sì, era questo.

- Nient’altro?

- No.

- Va bene.

- …

55

- Allora va bene, finiamo qui.

- Va bene così?

- Sì, va bene così.

- Bene.

- Che ce ne facciamo di questa roba?, disse Vack Montorsi quando vide il registrato. Vack Montorsi era il conduttore dello special del venerdì sera. Non terrebbe sveglio neanche un cocainomane, annotò mentre col telecomando andava avanti veloce, cercando qualcosa che non fosse deprimente. Avevano anche provato a intervistare il padre di Gould, ma lui aveva risposto che per quanto ne sapesse lui i giornalisti televisivi erano una banda di pervertiti con cui non voleva avere nulla a che fare. Così gli erano rimaste giusto un po’ di riprese alla scuola di Gould e una serie discretamente noiosa di dichiarazioni rilasciate dai suoi professori. Dicevano cose tipo “il talento va salvaguardato” o “l’intelligenza di quel ragazzino è un fenomeno che induce a riflettere sulla”. Vack Montorsi andava avanti veloce e scuoteva la testa.

- A un certo punto ce n’è uno che piange -, disse la giornalista, giocandosi l’ultima carta decente.

- Dov’è?

- Più avanti.

- Vack Montorsi andò più avanti. Comparve un professore, in pantofole.

- È quello.

- Era Mondrian Kilroy.

- Ma non piange…

- Piange dopo.

- Vack Montorsi schiacciò play.

- “… in gran parte sono solo storie. La gente crede che le difficoltà di un bambino prodigio nascano dalle pressioni di quelli che gli stanno attorno, dalle attese bestiali che gli mettono addosso.

Sono storie. Il vero problema lui ce l’ha dentro, e gli altri non c’entrano niente. Il vero problema è il talento. Il talento è come una cellula impazzita, cresciuta in modo ipertrofico e senza necessità. È

come se ti costruissero una pista da bowling dentro casa. Ti devastano tutto, magari è anche bella, magari col tempo impari a giocare a bowling da dio, diventi il più grande giocatore di bowling del mondo, ma casa tua come diavolo la raddrizzi, come la salvi da tutto quello, come fai a tenerti qualcosa che poi, al momento buono, dici - Questa è casa mia, fuori dai coglioni, è casa mia. - Non puoi riuscirci. Il talento è distruttivo, è oggettivamente distruttivo, quello che accade attorno non conta. Lavora là dentro, e distrugge. Bisogna essere molto forti, per salvare qualcosa. E quello è un ragazzino Lei se la immagina una pista da bowling giusto in mezzo alla casa di un ragazzino?

Anche solo il rumore che fa, tutti i santi giorni, sempre quel fracasso, e la certezza che un silenzio, un silenzio vero, te lo puoi scordare. Case senza silenzio. Che case sono? Chi gliela restituisce, a quel ragazzino, la sua casa? Lei, con la sua telecamera? Io con le mie lezioni? Io?”

- E qui, effettivamente, il prof. Mondrian Kilroy tirava sul col naso, poi si levava gli occhiali, e si asciugava gli occhi con un grande fazzoletto blu, tutto stropicciato. Volendo, era qualcosa come un pianto.

- Tutto qui? -, chiese Vack Montorsi.

- Più o meno.

- Vack Montorsi spense il videoregistratore.

- Cosa abbiamo d’altro?

- I gemelli e quella storia della falsa Gioconda.

- La Gioconda fa schifo.

Venerdì sera andò in onda uno special su quattro gemelli inglesi. Per tre anni erano andati a scuola a turno e nessuno se n’era accorto. Neanche la loro fidanzata. Che adesso aveva qualche problemino.

56

16.

Gould stava seduto per terra, sulla moquette alta quattro centimetri. Guardava una televisione. Quando tornò Shatzy erano le dieci passate. A lei piaceva andare a far la spesa di sera, sosteneva che la roba era stanca e così si lasciava comprare senza fare resistenza. Aprì la porta e Gould le disse ciao, senza togliere gli occhi dalla televisione. Shatzy lo guardò.

- Non aspettarti un granché, ma comunque se la accendi migliora. - Gould disse che non funzionava. Premeva tutti i tasti del telecomando ma non succedeva niente. Shatzy posò la spesa sul tavolo della cucina. Gettò uno sguardo verso il televisore spento. Era in finto legno, a meno che non fosse legno vero.

- Dove l’hai preso?

- Cosa?

- Dove l’hai preso il televisore?

Gould disse che l’aveva rubato Poomerang a un giapponese che vendeva piatti giapponesi fatti di cera. Disse che erano piatti nel senso delle cose da mangiare, tipo pollo e sedano, pesci crudi, cose così, da non crederci quanto erano perfetti, facevi fatica a capire che erano finti. Riuscivano a fare anche le minestre. Disse che non doveva essere facile fare una minestra di cera, bisognava saperci fare, non era una cosa che potevi improvvisare, così, su due piedi.

- Come sarebbe a dire rubato?

- Gliel’ha portato via.

- È diventato matto?

- Il giapponese gli doveva dei soldi.

Disse che Poomerang gli lavava la vetrina tutte le mattine e il giapponese aveva sempre una scusa buona per non pagare, così Poomerang gli aveva nondetto che era stufo di aspettare, aveva preso il televisore di finto legno e se l’era portato via. Disse che magari era anche legno vero, ma se stai in un negozio di roba da mangiare fatta di cera, perfettamente uguale a quella vera, finisci per aspettarti che tutto sia falso, lì dentro, non ti riesce più di fare distinzioni precise. Allora Shatzy disse che in effetti doveva essere così, e aggiunse che a lei succedeva quando leggeva i giornali.

Gould premette un tasto rosso sul telecomando, ma non successe niente.

- Tu conosci qualcuno che è pazzo, Shatzy?

- Pazzo pazzo?

- Uno che i medici dicono che è pazzo.

- Un pazzo vero.

- Sì.

Shatzy disse che credeva di averne visti alcuni, sì. Non era un bel vedere, all’inizio. È che fumano tutto il tempo, e non hanno il senso del pudore. Facile che ti vengono vicino e intanto si tengono il pisello in mano, disse. Non lo fanno per cattiveria, è che gli manca il senso del pudore.

Probabilmente c’entra col fatto che non hanno più niente da perdere. Il che è una grande fortuna, aggiunse. Dopo un po’ comunque ti abitui e allora può essere perfino una cosa molto gradevole, anche se gradevole non è la parola giusta. Emozionante. Disse che poteva essere una cosa emozionante.

- Tu lo sai cosa succede nella testa a uno che diventa pazzo? -, chiese Gould.

Shatzy disse che dipendeva da che razza di pazzo era. - Uno qualunque, - disse Gould. - Non so, - disse Shatzy. Credo che gli si rompa qualcosa dentro, per cui hanno dei pezzi che non rispondono più agli ordini. Loro danno degli ordini ma quelli si perdono per strada, non arrivano, o arrivano molto tardi e poi non tornano più indietro, continuano a ordinare la stessa cosa, ossessivamente, e non c’è verso di annullarli. Così va tutto in malora, è una specie di anarchia organizzata, tu apri il rubinetto e si accende la luce, il telefono squilla quando accendi la radio, il frullatore parte quando vuole lui, apri la porta del bagno e ti trovi in cucina, cerchi la porta per uscire e non la trovi più. Facile che non ci sia proprio più. Sparita. Chiuso lì dentro per sempre.

Shatzy si avvicinò al televisore. Voleva toccare il finto legno.

57

Disse che se non puoi uscirci, da una casa così, devi pur trovare un modo di viverci. Loro lo fanno. Da fuori non ci si capisce niente, ma per loro è tutto molto logico. Disse che un pazzo era uno che per farsi lo shampoo infilava la testa nel forno.

- Ha l’aria di essere divertente -, disse Gould.

- No. Non credo che sia molto divertente.

Poi disse che secondo lei era legno vero.

Gould era seduto per terra, sulla moquette alta quattro centimetri. Continuava a guardare la televisione. Shatzy disse che a casa sua avevano un tavolo di plastica verde, ma se ti avvicinavi e guardavi bene scoprivi che era legno, il che è insensato, se ci pensi, ma allora c’era quella mania della plastica, tutto doveva essere di plastica. Allora Gould disse che sua madre era impazzita. Era successo un giorno. Adesso sta in un ospedale psichiatrico, disse. Shatzy non disse nulla, ma si chinò sul televisore dove c’era un’ammaccatura, una specie di ammaccatura, e con l’unghia tirò via un pezzo di roba dura, scura. Poi disse che doveva essergli caduto, quel televisore, non c’era da stupirsi se non funzionava. Un televisore caduto è un televisore morto, disse.

- Sono venuti a prenderla un giorno e io non l’ho mai più vista. Mio padre non vuole che io la veda così. Dice che non devo vederla così.

- Gould…

- Sì?

- Tua madre se n’è andata quattro anni fa a vivere con un professore che studia i pesci.

Gould riprovò a schiacciare qualche tasto sul telecomando ma non successe nulla. Shatzy andò in cucina e tornò con una lattina aperta di succo di pompelmo. La posò in bilico sul bordo del divano. Era un divano blu, e stava più o meno davanti al televisore. Gould si mise a grattarsi una gamba col telecomando, proprio sopra la caviglia. Se c’è una cosa capace di farti impazzire è l’elastico delle calze troppo stretto. Continuava a grattarsi con lo spigolo del telecomando. Shatzy riprese in mano la lattina, si guardò un po’ attorno, poi la posò sul tavolo, di fianco al vaso di petunie. Sembrava una che fosse lì ad arredare l’appartamento. Si sentiva il rumore del frigorifero che dalla cucina fabbricava freddo, tremando come un vecchio ubriacone. Allora Gould disse che l’avevano portata via di mattino presto, così lui aveva sentito del trambusto ma aveva continuato a dormire, e quando si era svegliato suo padre era lì che camminava avanti e indietro, vestito in borghese, con la cravatta un po’ allentata sul colletto aperto della camicia. Disse che una volta era andato a cercare quell’ospedale, ma non gli era riuscito di trovarlo perché nessuno ne sapeva niente, e non aveva incontrato nessuno che lo volesse aiutare. Disse che all’inizio aveva pensato di scriverle ogni giorno, ma suo padre sosteneva che lei doveva rimanere molto tranquilla ed evitare le emozioni, così lui si era chiesto se leggere una lettera poteva essere un’emozione e dopo averci pensato un po’ aveva concluso che sì. Così non le aveva poi scritto. Disse che si era informato e gli avevano detto che a volte quelli che vanno in quegli ospedali poi tornano, ma non aveva mai osato chiedere a suo padre se lei sarebbe tornata. Suo padre non amava parlare di quella storia, e anzi adesso che erano passati degli anni proprio non ne parlava più, solo qualche volta diceva che la mamma stava bene, ma non aggiungeva altro. Disse che è strano ma se doveva ricordarsi di sua madre la ricordava sempre che rideva, gli venivano in mente delle specie di foto e lei era sempre lì che rideva, e questo nonostante il fatto che per quanto lui potesse ricordare non si poteva dire che lei ridesse spesso, ma questo era quello che gli succedeva, che se pensava a lei, pensava a lei che rideva. Disse anche che nell’armadio della camera da letto c’erano ancora tutti i suoi vestiti, e che lei sapeva imitare le voci dei cantanti, cantava con la voce di Marilyn Monroe che sembrava sputata lei.

- Marilyn Monroe?

- Sì.

- Marilyn Monroe.

- Sì.

- Marilyn Monroe.

Shatzy si mise a ripetere piano Marilyn Monroe, Marilyn Monroe, Marilyn Monroe, non la finiva più di ripeterlo, e a un certo punto prese la lattina in mano, di nuovo, e la svuotò nel vaso di petunie, Marilyn Monroe, Marilyn Monroe, fino all’ultima goccia, poi la posò di nuovo sul tavolino, 58

e disse Marilyn Monroe ancora un sacco di volte andando in cucina, tornando indietro, cercando le chiavi, chiudendo la porta di casa, e poi andando verso la scala. Si tolse le scarpe. E un fermaglio con cui si teneva su i capelli. Il fermaglio se lo mise in tasca. Le scarpe le lasciò lì.

- Io vado a dormire, Gould.

- Scusami.

- Scusami, ma devo andare a dormire.

Gould rimase seduto, a guardare la televisione.

Pensò che doveva dire a Poomerang di riportarla indietro.

Il giapponese aveva una bella radio, un modello vecchio, poteva prendere quella. Aveva tutti i nomi di città, sul vetro davanti, e se giravi la manopola potevi spostare una piccola asta arancione, e viaggiare da tutte le parti del mondo.

Pensò che certe cose, con una televisione, non le potevi fare.

Poi non pensò più niente.

Si alzò, spense le luci, salì al piano di sopra, entrò in bagno, andò avanti nel buio fino al cesso, alzò l’asse e si sedette, senza neanche abbassarsi i pantaloni.

- Sono solo scivolato.

- ‘sto cazzo.

- Le dico che sono scivolato.

- Sta’ zitto, Larry. Respira forte.

- Cosa cazzo è ‘sta roba?

- Non fare casino e respira, forte.

- NON HO BISOGNO DI ‘STA ROBA, sono solo scivolato, cazzo.

- Va bene, sei scivolato. Adesso ascoltami. Quando ti alzi guarda bene cosa hai davanti. Se ne vedi due o tre, di negri con i guantoni, allora aspetta, tienili lontano con il jab, ma non colpire duro, prenderesti quello sbagliato, devi aspettare, hai capito?, tienili solo lontani, e quando riesci vai in clinch, restaci e respira.

- Non devi colpire duro fino a che non ne vedi uno solo, capito?

- Ci vedo benissimo.

- Guardami.

- Ci vedo benissimo.

- Fino a che non ti senti bene lascia stare i pugni e usa la testa.

- Devo tirarlo giù con una testata?

- Non è il momento di scherzare, Larry. Quello ti ha tirato giù.

- Ma che cazzo, come glielo devo dire, sono scivolato, è lei che non ci vede bene, la sa una cosa?, dovrebbe farsi curare, non vede più quello che…

- FINISCILA, PORCA VACCA DI UNA…

- È lei che…

- FINISCILA.

- Mi fai anche bestemmiare, porca la…

GONG.

- Non voglio perderla questa, Larry.

- La sta per vincere, Maestro.

- Vaffanculo.

- ‘culo.

Grande tensione qui al St. Anthony Field, Larry Gorman contato sul finire della terza ripresa, toccato duro da un gancio velocissimo di Randolph, ora si tratta di vedere se è riuscito a recuperare, è una situazione nuova per lui, è la prima volta che finisce al tappeto nella sua carriera, è stato un gancio velocissimo di Randolph a sorprenderlo, INIZIO DEL QUARTO ROUND, Randolph parte come una furia, RANDOLPH, RANDOLPH, GORMAN SUBITO ALLE CORDE, non inizia bene per il pupillo di Mondini, Randolph sembra scatenato, MONTANTE, ANCORA MONTANTE, 59

Gorman stringe la guardia, si sgancia sulla sinistra, respira, RANDOLPH TORNA SOTTO, non è un’azione molto composta ma sembra efficace, Gorman è costretto ancora a indietreggiare, ha ancora una buona agilità nelle gambe, JAB DI RANDOLPH A SEGNO, ANCORA UN JAB E

GANCIO DESTRO, GORMAN VACILLA, DIRETTO A VUOTO DI RANDOLPH, GORMAN

OSCILLA SUL BUSTO, RANDOLPH LO BRACCA, GORMAN DI NUOVO ALLE CORDE, TUTTO IL PUBBLICO IN PIEDI…

Gould si alzò dal cesso. Tirò l’acqua poi pensò che non aveva neanche pisciato e questo gli sembrò abbastanza stupido. Si avvicinò al lavabo e accese la luce. Dentifricio. Denti. Il dentifricio era al gusto bubble gum. Aveva delle specie di stelline dentro, era come una cosa di gomma con delle stelline dentro. Lo facevano così perché ai bambini piaceva, e alla fine si lavavano i denti senza fare storie. Sulla confezione c’era scritto proprio: per bambini.

Dopo era come aver masticato chewingum per tutta una lezione di fisica. Però avevi i denti puliti, e non dovevi attaccare niente sotto al banco. Si sciacquò con l’acqua fredda e sputò il tutto diritto nel buco del lavandino. Si asciugò guardandosi nello specchio. Poi si voltò e ritornò verso il cesso. Si tirò giù la cerniera.

- Cristo, erano in tre, Maestro.

- Veramente?

- Non si può combattere contro tre.

- Già.

- Con due non c’è problema, ma tre è troppo. Così ho pensato di eliminarne uno.

- Ottima idea.

- Sa la cosa curiosa? Quando è andato giù quello, sono scomparsi anche gli altri due. Buffo, no?

- Molto buffo.

- Destro, sinistro, destro, e puf, scomparsi tutti e tre.

- Toglimi una curiosità: come hai fatto a scegliere quello da menare?

- Ho scelto quello vero.

- Ce l’aveva scritto in fronte?

- Era quello dei tre che puzzava di più.

- Ah.

- Scientifico. L’ha detto lei: usa la testa.

- Hai un culo della madonna, Larry.

- Destro, sinistro, destro: l’ha mai vista una combinazione così veloce?

- Non fatta da uno che sembrava morto.

- E lo dica, allora, dai, la smetta di borbottare e lo dica.

- Non ho mai visto un morto staccare una combinazione così veloce.

- L’ha detto, cristo, l’ha detto, ehi, dove sono i microfoni, per una volta che servono dove sono finiti?, l’ha detto, l’ho sentito con le mie orecchie, l’ha detto, l’ha detto, vero?

- Hai un culo della madonna, Larry.

Sciacquone.

Un po’ rubata, questa, pensò Gould.

Andava tutto vagamente storto, quella sera, pensò. Poi si tirò su la cerniera, spense la luce e andò a dormire.

Passò del tempo.

Pezzi di notte.

A un certo punto si svegliò. C’era Shatzy seduta per terra, di fianco al suo letto. Aveva la camicia da notte con sopra una felpa rossa. Stava masticando il sedere di una biro blu.

- Ciao Shatzy.

- Ciao.

La porta era semiaperta, e veniva della luce, dal corridoio

60

Gould richiuse gli occhi.

- Mi è venuta in mente una cosa -, disse Shatzy.

- …

- Mi senti?

- Sì.

- Mi è venuta in mente una cosa.

Se ne rimase un po’ zitta. Forse cercava le parole. Mordicchiava la biro, si sentiva il rumore della plastica, e un rumore come di cannuccia. Poi si rimise a parlare.

- Ho pensato questa cosa. Sai le roulotte?, quelle che si attaccano alle macchine, le roulotte, hai presente?

- Sì.

- Mi hanno sempre messo una tristezza bestiale, non so perché, ma quando le sorpassi in autostrada ti viene una tristezza bestiale, vanno sempre lentissime, con il padre nella macchina che guarda fisso davanti, e tutti che lo sorpassano, e lui con la sua roulotte attaccata, e la macchina un po’ bassa dietro, chinata, come una specie di vecchietta con un sacco della spesa enorme, che cammina chinata, così piano che tutti la sorpassano. È una cosa tristissima. Però, anche, è una cosa che non riesci a non guardare, voglio dire, mentre sei lì che la sorpassi, ci getti sempre un’occhiata, la devi guardare, anche se lo sai che è solo una tristezza, giurato che ti volti a guardarla, tutte le volte. E se ci pensi bene, la verità è che c’è qualcosa che ti attrae in quella roba lì, nella roulotte, se scavi e scavi, sotto tutti quegli strati di mestizia, alla fine arrivi a intuire che c’è qualcosa, là in fondo, che ti attira, qualcosa che si è andato a nascondere fin laggiù, un po’ come se avesse voluto diventare più prezioso, in quel modo, qualcosa che solo a scoprirlo ti piacerebbe, ma ti piacerebbe sul serio. Capisci?

- Più o meno.

- È anni che ci sto dietro, a questa storia.

Gould si tirò un po’ su le coperte, faceva una specie di freddo.

Shatzy si avviluppò i piedi nudi in un maglione.

- Sai cosa? È un po’ come con le ostriche. Mi piacerebbe un sacco mangiarle, è bellissimo vederle mangiare, ma mi han sempre fatto schifo, non c’è mai stato niente da fare, mi ricordano il catarro, hai presente?

- Sì.

- Come fai a mangiarle se ti ricordano il catarro?

- Non puoi.

- Appunto, non puoi. La roulotte, è la stessa cosa.

- Ti ricorda il catarro?

- Che c’entra, non mi ricorda il catarro, ma mi fa tristezza, capisci?, non sono mai riuscita a trovare una ragione, uno schifo ragione per pensare di come sarebbe bello avere una roulotte.

- Già.

- Per anni ci ho pensato e non ho mai trovato uno straccio ragione buona.

- Silenzio.

- Silenzio.

- Sai una cosa, Gould?

- No.

- Ieri l’ho trovata.

- Una ragione buona?

- Ho trovato una ragione. Buona.

- Gould aprì gli occhi.

- Veramente?

- Sì.

Shatzy si girò verso Gould, appoggiò i gomiti sul letto e si chinò su di lui fino a guardarlo negli occhi, proprio da vicino. Poi disse:

- Diesel.

61

- Diesel?

- Già. Diesel.

- Sarebbe?

- Sai quella storia che mi hai detto tu? Quella storia che lui vorrebbe vedere il mondo ma non lo fanno salire sui treni, sugli autobus, non lo fanno salire, e in macchina non ci sta, quella storia lì. Me l’hai detta tu.

- Sì.

- Una roulotte, Gould. Una roulotte.

- Gould si tirò un po’ su, sul letto.

- Cosa vuoi dire, Shatzy?

- Voglio dire che ce ne andiamo a vedere il mondo, Gould.

- Gould sorrise.

- Tu sei matta.

- No. Io no, Gould.

Gould tornò a infilarsi un po’ giù, sotto le coperte. Se ne stette un po’ lì a pensare, in silenzio.

- Credi che ci starebbe, Diesel, nella roulotte?

- Garantito. Se ne sta seduto là dietro, se vuole si sdraia, e noi lo portiamo in giro. Avrebbe la sua casa, e sarebbe dove vuole.

- Gli piacerebbe.

- Certo che gli piacerebbe.

- È un’idea che gli piacerebbe.

Faceva una specie di freddo. C’era la luce che veniva dalla porta, e nient’altro. Ogni tanto passava una macchina, giù in strada. Se volevi la potevi sentire: chiederti dove andava, a quell’ora, e ricamarci su un sacco di storie. Shatzy guardò Gould.

- Avremmo la nostra casa, e saremmo dove vogliamo.

Gould chiuse gli occhi. Pensava a una roulotte che aveva visto in un cartone animato, andava come una matta su una strada tutta a strapiombo sul nulla, andava come una pazza sbandando da tutte le parti, sembrava sempre che stesse per cadere, ma non cadeva mai, e intanto, dentro, tutti stavano a mangiare, ed erano a casa loro, la roulotte era piccola ma li teneva come una mano che tenesse un animaletto, senza schiacciarlo, e se lo portasse in giro.

Si erano anche dimenticati di lasciare uno a guidare la macchina, così se ne stavano tutti lì a mangiare, e avevano addosso qualcosa come una felicità, ma era qualcosa di più, come una splendida idiota felicità. Riaprì gli occhi.

- Chi guida?

- Io.

- E chi la compra la roulotte?

- Io.

- Tu?

- Io, certo. Ho dei soldi, io.

- Molti?

- Dei soldi.

- Costerà cara una roulotte.

- Vuoi scherzare? Dovrebbero pagarti, per comprare una roulotte.

- Non credo che loro la pensino così.

- Be’, dovrebbero farlo.

- Non lo faranno.

- E allora pagheremo.

- Anch’io ho dei soldi.

- Vedi? Non è un problema.

- Ne avranno una che costa poco, no?, in mezzo alle altre.

- Certo che ce l’avranno. Vuoi che in tutto questo dannato paese non ci sia una roulotte che costa esattamente i soldi che noi abbiamo in tasca?

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- Sarebbe idiota.

- Sarebbe da non crederci.

- Veramente.

Avevano tutt’e due, negli occhi, strade, e strade, e strade.

- Ce ne andiamo a vedere il mondo, Gould. Basta con queste pippe.

Lo disse con una voce allegra, e poi si alzò. Le si era ingarbugliato il maglione tra i piedi. Se ne liberò in qualche modo e rimase lì, in piedi, accanto al letto. Gould la guardava. Allora quel che lei fece fu chinarsi su di lui, avvicinarsi piano, posare le labbra sulle sue, poi staccarsi appena, e rimanere lì a guardarlo da così vicino. Lui tirò fuori una mano da sotto le coperte, la mise nei capelli di Shatzy, si alzò un po’, la baciò sull’angolo della bocca e poi proprio sulle labbra, prima piano, e poi premendo forte, con gli occhi chiusi.

17.

Nel settembre 1988, otto mesi dopo la morte di Mami Jane, la CRB decise di sospendere la pubblicazione delle avventure di Ballon Mac, il supereroe dentista. Le vendite erano continuate a calare con sorprendente regolarità, e anche la decisione di introdurre un personaggio femminile che sovente mostrava le tette si era dimostrata inefficace. Nell’ultimo numero, Ballon Mac partiva per un pianeta lontano promettendo a sé e ai lettori che “un giorno luminoso di un domani migliore”

sarebbe tornato. “Amen”, aveva commentato, con soddisfazione, Franz Forte, direttore finanziario della CRB. Diesel e Poomerang comprarono centoundici copie di quell’ultimo numero. Con metodo, e nonostante la dubbia qualità della carta, si dedicarono per mesi al compito di pulirsi il sedere, ogni volta che ciò si rendeva necessario, con una pagina del giornalino. La piegavano poi in quattro, con grande cura, e la spedivano a Franz Forte, Direzione Finanziaria, CRB. Dato che usavano buste sottratte ad alberghi, uffici pubblici, club sportivi, si rivelò impossibile per la segretaria di Franz Forte identificarle prima che finissero sulla scrivania del principale. Il quale si rassegnò ad aprire la cartella della posta, ogni giorno, con una certa circospezione.

Gould compì quattordici anni. Shatzy offrì a tutti una cena in un ristorante cinese. Nel tavolo di fianco al loro c’era una famigliola: padre, madre e una figlia, piccola. La figlia si chiamava Melania. Il padre si era messo in testa di insegnarle a usare le bacchette. Parlava con un accento un po’ nasale. Prendi la bacchetta con la manina… così… prima solo una, tesoro, prendila bene, vedi?, la devi stringere così tra il pollice e il medio, non così, guarda… Melania, guarda papà, la devi tenere così, ecco, brava, adesso stringi un po’, no, non così tanto, devi solo prenderla… Melania, guarda papà, tra il pollice e il medio, vedi, così, no, qual è il medio Melania?, è questo il medio, tesoro…

- Perché non la lasci in pace? -, disse a quel punto la moglie.

Lo disse senza alzare gli occhi da una zuppa di abalone e germogli di soia. Aveva i capelli tinti di rosso e una camicetta gialla con i rinforzi di gommapiuma sulle spalle. Il marito continuò come se nessuno avesse detto niente.

- Melania, guardami, guarda papà, siediti bene, e prendi la bacchetta, dai, così… ecco, vedi che è semplice, ci sono milioni di bambini in Cina e non crederai mica che facciano tutte queste storie… adesso prendi l’altra, MELANIA, siediti dritta, avanti, guarda come fa papà, una bacchetta e poi l’altra, con la manina, dai…

- E lasciala in pace.

- Le sto insegnando…

- Non lo vedi che ha fame?

- Mangerà quando avrà imparato.

- Sarà tutto freddo quando avrà imparato.

- PER LA MISERIA, SONO SUO PADRE, POSSO…

- Non gridare.

- Sono suo padre e ho tutti i diritti di insegnarle qualcosa visto che sua madre evidentemente ha di meglio da fare che educare la sua unica figlia che…

- Mangia con la forchetta, Melania.

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- NON SE NE PARLA NEMMENO, Melania, tesoro, ascolta papà, adesso facciamo vedere alla mamma che possiamo mangiare come una piccola, splendida bambina cinese…

Melania incominciò a piangere.

- L’hai fatta piangere.

- NON L’HO FATTA PIANGERE.

- E cosa sta facendo allora?

- Melania, non c’è bisogno di piangere, sei una bambina grande, non devi piangere, prendi questa bacchetta, avanti, dammi la manina, DAMMI QUELLA MANO, ecco, brava, morbida, la devi tenere morbida, Melania, ci stanno guardando tutti, smettila di piangere e prendi questo cristo di bacchetta…

- Non dire parolacce.

- NON HO DETTO PAROLACCE.

Melania si mise a piangere più forte.

- MELANIA, Melania ti stai per prendere una sberla, sai che papà ha pazienza ma a tutto c’è un limite, MELANIA, PRENDI QUESTA BACCHETTA O CI ALZIAMO DA QUI E

TORNIAMO IMMEDIATAMENTE A CASA, e sai che non scherzo, avanti, prima una bacchetta e poi l’altra, forza, tra il pollice e l’indice, non l’indice, IL MEDIO, stringi adesso, così, brava, vedi che sei brava, su, adesso prendi l’altra, l’altra bacchetta tesoro, CON L’ALTRA MANO, PORCA… la prendi con L’ALTRA MANO e la metti in QUESTA mano, hai capito?, non è difficile, e smettila di piangere, cosa c’è da piangere?, vuoi diventare grande o no?, vuoi proprio rimanere una sciocca bambinetta di….

Allora Diesel si alzò. Era una fatica per lui, sempre, ma lo fece.

Si avvicinò al tavolo della famigliola, prese con una mano le due bacchette della bambina, e stringendo la mano le sbriciolò, proprio sopra il piatto di anatra laccata del padre. Melania smise di piangere. Il ristorante era piombato in un silenzio che sapeva di fritto e di soia. Diesel parlò piano, ma potevano sentirlo anche in cucina. Si limitò a fare una domanda.

- Perché fate figli? -, disse. - Perché?

Il padre se ne stava immobile guardando davanti a sé senza osare voltarsi. La moglie aveva il cucchiaio a metà strada tra la bocca e la scodella. Guardava Diesel con stupefatto rimpianto: sembrava la concorrente di un quiz che conosceva la risposta ma non se la ricordava più.

- Diesel si chinò sulla bambina. La guardò negli occhi.

- Piccola, splendida bambina cinese.

Disse.

- Mangia con la forchetta, o ti ammazzo.

Poi si voltò e tornò al suo tavolo.

- Mi passi il riso cantonese? - nondisse Poomerang.

- A modo suo, fu un bel compleanno.

Nel febbraio 1989 un gruppo di studio dell’Università di Vancouver pubblicò sull’autorevole rivista Science and Progress un articolo di novantadue pagine in cui si enunciava una nuova teoria sulla dinamica accoppiata delle pseudoparticelle. I firmatari, sedici fisici di cinque Paesi diversi sostennero, davanti alle telecamere di mezzo mondo, che si apriva per la scienza una nuova epoca: e annunciarono che i loro studi avrebbero portato nel giro di una decina d’anni a rendere possibile la produzione di energia a basso costo e minimo rischio ambientale. Dopo tre mesi, tuttavia, un articolo di due pagine e mezza sul National Scientific Bulletin dimostrò che il modello matematico di cui si erano avvalsi gli studiosi di Vancouver per fondare la loro teoria risultava, a un controllo attento, largamente inadeguato, e sostanzialmente inutilizzabile. “Un po’ infantile”, affermavano, alla lettera, i due autori dell’articolo. Il primo si chiamava Mondrian Kilroy. Il secondo era Gould.

Non è che in genere loro due lavorassero insieme. Più che altro fu un caso. Tutto era incominciato in sala mensa. Erano finiti a mangiare uno davanti all’altro, e a un certo punto il prof.

Mondrian Kilroy, sputando il purè, aveva detto - Cos’è? l’han fatta a Vancouver ‘sta roba?

Gould aveva letto le novantadue pagine su Science and Progress. Trovava che il purè non 64

era male, ma sapeva che in quell’articolo qualcosa non funzionava. Passò al prof. Mondrian Kilroy la sua porzione di spinaci e disse che secondo lui l’errore era a pagina dodici. Il professore sorrise.

Lasciò lì gli spinaci e iniziò a riempire di calcoli la tovaglietta di carta su cui aveva sputato il purè.

Ci misero dodici giorni a finire. Il tredicesimo copiarono tutto in bella e spedirono al Bulletin.

Mondrian Kilroy avrebbe voluto intitolare l’articolo “Obiezione al purè di Vancouver” Gould lo convinse che era meglio qualcosa di più anodino. Quando i media scoprirono che uno dei due firmatari aveva quattordici anni diedero fuori di testa. Gould e il professore furono costretti a convocare una conferenza stampa a cui accorsero 134 giornalisti, da tutto il mondo.

- Troppi, - disse il prof. Mondrian Kilroy.

- Troppi, - disse Gould.

Se lo dissero mentre aspettavano nel corridoio. Si voltarono, uscirono dalle cucine e se ne andarono a pescare al lago di Abalema. Il rettore definì il loro comportamento inammissibile e i due furono sospesi.

- Da cosa, precisamente? -, chiese il prof. Mondrian Kilroy. Precisamente non lo sapeva nessuno. Così la sospensione fu sospesa.

Più o meno in quel periodo Shatzy si ricordò che, volendo acquistare una roulotte, diventava significativamente importante possedere un’automobile. “In effetti”, disse Gould, constatando come fosse curioso che non ci avessero mai pensato prima.

Shatzy disse che forse era il caso di parlarne al padre. Ce l’avrà una macchina, no?, da qualche parte. È un maschio. I maschi hanno sempre una macchina, da qualche parte. Gould disse

“in effetti”. Poi aggiunse che comunque era meglio non dirgli niente della roulotte. Ci puoi giurare, disse Shatzy.

- Pronto?

- Signorina Shell?

- Sono io.

- Tutto bene laggiù?

- Sì. Abbiamo solo un piccolo problema.

- Che problema?

- Ci servirebbe la sua automobile.

- La mia automobile?

- Sì.

- Di che automobile sta parlando?

- Della sua.

- Sta dicendomi che io posseggo un’automobile?

- Mi sembrava una cosa plausibile.

- Temo che lei si sbagli, signorina.

- È sorprendente.

- Perché, lei non sbaglia mai?

- Non intendevo questo.

- Cosa intendeva?

- Lei è un maschio e non ha un’automobile, questo intendevo.

- È sorprendente, no?

- Non ne sono sicuro.

- È abbastanza sorprendente, mi creda.

- Non andrebbe bene un carro armato? Di quelli ne ho molti.

- Shatzy vide per un attimo una roulotte trascinata da un carro armato.

- No, temo che non ci risolva il problema.

- Scherzavo.

- Ah.

- Signorina Shell?

- Sì.

- Vuole gentilmente dirmi qual è il problema in questione?

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A Shatzy venne in mente Bird, il vecchio pistolero. Strana macchina, la mente. Lavora come vuole lei.

- Qual è il problema, signorina Shell?

Oppure era quella specie di stanchezza. Come una stanchezza, addosso. La stessa musica che ballava Bird. Vecchio pistolero.

- Signorina Shell, le sto chiedendo qual è il problema, le dispiace rispondermi? Bird.

Con strade sulla faccia, camminate da infinite sparatorie, diceva Shatzy. Gli occhi deglutiti dal cranio, e mani di ulivo, le mani veloci, rami d’inverno. Stanchi. Il pettine, al mattino, bagnato d’acqua, rigare i capelli bianchi all’indietro, trasparenti, ormai. Polmoni di tabacco nella voce che piano dice: Che vento, oggi.

Niente di peggio che non morire, per un pistolero.

Guardarsi intorno, ogni faccia mai vista può essere quella dell’idiota di turno arrivato da lontano per diventare quello che ha ammazzato Clay “Bird” Puller. Se vuoi sapere quando si diventa un mito, allora ascolta: è quando ti ritrovi a duellare sempre di schiena. Finché ti vengono incontro da davanti sei solo un pistolero. La gloria è una scia di merda, dietro la schiena. - Sbrigati coglione,

- disse senza nemmeno voltarsi. Il ragazzetto aveva un cappello nero, e in tasca qualche stronzata che era il ricordo di un odio lontano, e la promessa di una qualche vendetta. - Troppo tardi, coglione.

Con queste strade sulla faccia, vecchiaia vigliacca, a pisciarmi addosso la notte, il male bastardo sotto il cinturone, come una pietra rovente tra la pancia e il culo, non viene mai giorno, e quando viene è un deserto di tempo vuoto, da attraversare, come sono arrivato qui?, io.

Come sparava Bird. Teneva le fondine al contrario con il calcio della pistola che usciva in avanti. Estraeva a braccia incrociate, la pistola destra nella mano sinistra, e viceversa. Così, quando ti veniva incontro, le dita a sfiorare il calcio delle pistole, sembrava una specie di condannato, qualcosa come un prigioniero che stesse andando al patibolo, con le braccia legate davanti. Un istante dopo era un uccello rapace che apriva le ali, una frustata nell’aria, e il geometrico volo di due pallottole. Bird.

Cos’è allora questo strisciare nella nebbia delle mie cataratte, costretto a contare le ore, io che conoscevo gli istanti, ed era l’unico tempo che esisteva per me. Lo scarto di una pupilla, le nocche sbiancate intorno a un bicchiere, uno sperone nel fianco del cavallo, l’ombra di un’ombra sul muro blu. Ci ho vissuto eternità, dove gli altri vedevano attimi. Per loro era come lampo ciò che per me era una mappa, una stella dove io vedevo cieli. Io pensavo dentro pieghe del tempo che per loro erano già ricordo. Non c’è altro modo, mi avevano insegnato, per vedere la morte prima che arrivi.

Cos’è allora questo strisciare nella nebbia delle mie cataratte, costretto a spiare le carte degli altri, mendicando battute dalla mia sedia, sempre quella, in seconda fila, la sera a tirare sassi ai cani, in tasca soldi da vecchio che le puttane non vogliono, li prenderà un mariachi, quando verrà, che sia triste e lunga la tua canzone, ragazzo, dolce la tua chitarra e lenta la tua voce, io voglio ballare, questa notte, fino al tramonto di questa notte, io ballerò.

Dicevano che Bird si portasse sempre dietro un dizionario. Francese. Ci aveva studiato tutte le parole, una dopo l’altra, in ordine alfabetico. Era così vecchio che aveva già fatto il giro e adesso se ne stava dalle parti della G, per la seconda volta. Nessuno sapeva perché mai facesse tutto quello.

Però una volta, a Tandeltown, dicono che si avvicinò a una donna, era bellissima, alta, occhi verdi, c’era da chiedersi come fosse finita lì. Lui le si avvicinò e le disse: Enchanté.

Clay “Bird” Puller. Morirà in un modo bellissimo, diceva Shatzy. Gliel’ho promesso: morirà in un modo bellissimo.

- Signorina Shell?

- Sì, pronto.

- Mi sente?

- Sì, benissimo.

- Si era interrotta la linea.

- Succede.

- È un inferno, con questi telefoni.

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- Già.

- Credo che sarebbe più facile mandare lì un bombardiere e centrare mio figlio in testa che non riuscire a parlargli per telefono.

- Spero che non lo farà.

- Come?

- No, niente, scherzavo.

- È lì, Gould?

- Sì.

- Me lo passa?

- Sì.

- Stia in gamba.

- Anche lei.

Gould era in pigiama, anche se erano solo le sette e un quarto. L’aveva beccato un’influenza che i giornali chiamavano “la russa”. Era una brutta bestia, e, a parte la febbre, il casino era che ti svuotava dentro. Roba da passare ore sul cesso. La carriera di Larry Gorman ne trasse un impulso improvviso e, come si vedrà, decisivo. In pochi giorni mandò al tappeto Park Porter, Bifi Ormesson, Frank Tarantini e Morgan “Killer” Bluman. Con Grey La Banca vinse per ferita, al terzo round. Pat McGrilley si fece fuori da solo, scivolando e andando a picchiare con la testa sul tappeto. Larry Gorman aveva ormai un record che non poteva passare inosservato. 21 combattimenti, 21 vittorie prima del limite. I giornali incominciarono a parlare del titolo mondiale.

DIESEL. - A Mondini lo disse Drink, il suo vice. Gli disse che sui giornali parlavano di Larry. Aveva dei ritagli, glieli aveva dati suo nipote. Mondini prese gli occhiali e si mise a leggere.

Gli fece una strana impressione. Non aveva mai visto il nome di un suo allievo messo insieme a quello di campioni veri. Era un po’ come comprare Playboy e trovarci delle foto di tua moglie.

Alcuni giornali storcevano il naso e dicevano che di quelle 21 vittorie ce n’erano giusto un paio contro pugili veri. Un giornale, in particolare, sosteneva che era tutta una bufala e spiegava che il padre di Larry, un ricco avvocato, aveva speso un mucchio di soldi per portare il figlio fin lì, anche se non diceva esattamente come li avesse spesi. L’articolo era anche ben scritto, faceva ridere. Per quella storia del padre avvocato, Larry era sempre citato come Larry “Lawyer” Gorman. Mondini trovò che faceva abbastanza ridere. A parte quel giornale, comunque, gli altri prendevano la cosa molto sul serio. Boxing metteva Larry al sesto posto nella classifica mondiale. E su Boxe Ring c’era un corsivo dedicato a lui e intitolato “L’erede alla corona”. Mondini si accorse che mentre lo leggeva gli si appannavano gli occhiali.

- Ehi Larry… Larry!, due battute per la radio…

- Non sono io a combattere, stasera, Dan.

- Solo due battute.

- Son venuto a vedere del buon pugilato, e basta, questa volta me la godo da sotto al ring.

- Hai qualcosa da dire a proposito di certi articoli che sono usciti su…

- Mi piace quel soprannome.

- Cosa vuoi dire?

- Lawyer. Mi piace. Credo che lo userò.

- Ricordiamo agli ascoltatori che è apparso su un quotidiano un duro articolo su Larry, scritto da…

- Larry “Lawyer” Gorman, suona bene, no? Credo che lo userò, la prossima volta fammi un piacere, Dan…

- Dimmi, Larry.

- In radiocronaca chiamami Lawyer. Mi piace.

- Come vuoi tu, Larry.

- Larry Lawyer.

- Larry Lawyer, va bene.

- Hai una macchia sul bavero, Dan, una roba di unto.

- Come?

67

- Hai una macchia di unto, sul bavero… lì, la vedi?… dev’essere unto.

POOMERANG. Mondini finì di leggere e capì che girava male.

Per come vedeva lui le cose, girava male. Quello della boxe era un mondo strano, c’era dentro di tutto, da quello che si divertiva a prendere a pugni il sacco a quelli che si guadagnavano da vivere, sul ring, cercando di non lasciarci la pelle. C’erano pugili puliti e pugili che giocavano sporco, ma alla fine era un mondo abbastanza vero, e a lui piaceva. La boxe. Quella che aveva conosciuto lui. Gli piaceva. Ma il titolo, il mondiale, la corona: quella era un’altra storia. Troppi soldi, in mezzo, troppa gente difficile da capire, troppa fama. E pugni pesanti, pugni diversi dagli altri.

Per come vedeva lui le cose, quella era una storia da cui girare al largo.

Capì che le cose stavano precipitando quando vide arrivare in palestra un tipo con gli occhiali scuri e i denti rifatti. Era uno del giro dei Casinò, quelli che organizzavano gli incontri importanti.

Se lo ricordava da pugile, una volta avrebbero anche dovuto combattere insieme, poi non se n’era fatto niente. Gli era spiaciuto: era uno di quei pugili che durano due riprese, poi iniziano a chiedersi cosa diavolo stanno facendo là sopra, con tutti i bei film da vedere che ci sono in giro. Un perdente programmatico. Adesso era ingrassato, e zoppicava un po’. Era venuto a salutare.

Fecero quattro chiacchiere. Larry non c’era.

DIESEL - Larry si allenava, e del titolo non parlava mai. Mondini lo metteva sotto di brutto, e lui non mollava. Sembrava che stesse in una bolla tutta sua, dove niente poteva veramente toccarlo. Mondini l’aveva già vista quella cosa lì: ce l’avevano addosso i campioni. Era un misto di forza inconfutabile e definitiva solitudine. Li metteva al riparo da qualsiasi sconfitta, e da ogni felicità. Così perdevano, imbattuti, tutta la vita. Un giorno Larry arrivò in palestra con una ragazza, una brunetta piccola e magra che si chiamava Jody. Aveva un maglione stretto e delle scarpe con molte stringhe. A Mondini parve molto bella, e in un modo, per così dire, gentile. Si sedette in un angolo, e guardò Larry allenarsi, senza dire una parola. Prima che l’allenamento fosse finito, si alzò e se ne andò. Un altro giorno Larry boxava con un ragazzo più giovane di lui, uno coraggioso, ma giovane, e a un certo punto iniziò ad andarci giù un po’ troppo pesante. Mondini non aspettò che l’orologio suonasse i tre minuti: appoggiato alle corde disse: - Basta. - Ma Larry non si fermò.

Picchiava con una cattiveria strana. E arrivò fino in fondo. Mondini non disse niente. Lasciò che Larry scendesse dal ring. Vide come Drink gli asciugava la schiena e gli toglieva i guantoni: con rispetto. Lo vide passare davanti allo specchio, prima di tornare nello spogliatoio, e fermarsi per un attimo, li davanti. Allora gli rivenne in mente la ragazza silenziosa, chissà perché, e un sacco di altre cose. Tirò una bestemmia a bassa voce, e capì che era arrivato il momento. Aspettò che Larry uscisse, tutto elegante, con il suo cappotto di cachemire. Staccò la spina dell’orologio. Poi disse:

- Ti porto a casa, Larry, okay?

POOMERANG - Attraversarono la città senza dirsi una parola.

La vecchia berlina di Mondini andava avanti solo con l’aria tirata al massimo. Fermi ai semafori sembravano una pentola a pressione alla terza ora di minestrone. Alla fine Mondini parcheggiò e spense il motore. Quartiere da ricchi e luci basse su prati all’inglese.

- Ti fidi di me, Larry?

- Sì.

- Allora adesso ti spiego,

- Va bene.

- Tu hai fatto 21 incontri, Larry Sedici di quelli li avrei vinti anch’io. Ma gli altri cinque, quelli erano pugili veri. Sobilo, Parker Morgan Biuman… quella è gente che ti fa passare la voglia di combattere. E con te non sono nemmeno arrivati in fondo.

- Hai un modo di boxare, tu, che loro non si sono mai immaginati.

- Ogni tanto, quando sei là sopra, guardo i tuoi avversari, ed è pazzesco come sembrino…

vecchi. Sembrano film in bianco e nero.

- Non so dove tu abbia imparato, ma è così. Quella boxe non esiste, se non boxi tu. Mi credi?

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- Sì.

- Allora adesso ascoltami bene. Ci sono due cose che devi capire.

- Okay.

- Prima: tu non hai mai preso un vero pugno in vita tua.

- In che senso?

- Tutti tirano pugni, Larry. Poi ce n’è tre, quattro al mondo che sono capaci a fare qualcosa di più: picchiare. I loro, sono pugni veri. Tu non hai idea di cosa siano. Quelli sono colpi che potrebbero ridisegnarti la carrozzeria della macchina. Dentro c’è tutto: coordinazione, forza, velocità, precisione, cattiveria. Sono capolavori. Dovrebbero portarci le scolaresche a vederli, come nei musei. Ed è bello vederli quando sei seduto davanti alla tivù, con una birra in mano. Ma se sei là sopra, è paura, Larry, pochi cazzi, è paura pura. E orrore. Si muore, di pugni come quelli. O si vive stupidi per tutta la vita che ti resta.

Larry non si mosse. Guardava fuori, davanti a sé. Disse solo:

- E la seconda cosa?

Mondini stette un po’ in silenzio. Poi girò lo specchietto retrovisore verso Larry. Quel che avrebbe voluto dire era che i campioni del mondo non avevano una faccia come quella. Ma non gli veniva la frase. Voleva dire che bisogna avere un buco nero al posto del futuro per rischiare la vita sul ring, se no sei solo un giovinastro pazzo, innamorato di te, e basta. Forse voleva dire anche qualcosa su quella ragazza silenziosa. Ma non sapeva esattamente cosa.

Larry si guardò nello specchietto.

Vide una faccia da avvocato. Campione del mondo di boxe.

Mondini trovò una frase. Non era un granché, ma rendeva l’idea.

- Sai da cosa lo riconosci il grande pugile? Lui sa qual è il giorno in cui smetterà. Credimi Larry: il tuo giorno è adesso.

- Larry si voltò verso il Maestro.

- Dovrei smettere?

- Sì.

- Io dovrei smettere?

- Sì.

- Lei vorrebbe dirmi che Larry “Lawyer” Gorman dovrebbe smettere?

- Tu, Larry, tu devi smettere.

- Io?

- DIESEL - Perché i ricchi non capiscono un cazzo del resto dell’umanità, questo si sa, ma la cosa che nessuno vuol capire, è che il resto dell’umanità non ne sa un bel niente, dei ricchi, non ha nessuna possibilità di capirli. Devi esserci passato, per capire, devi esser stato ricco quando avevi sei anni, quando eri nella pancia di tua madre, quando eri un pensiero di tuo padre, ricco anche lui.

Allora magari puoi capire. Se no, puoi solo sparare cazzate.

Che ne sai tu, per dire, di cos’è importante per loro? Di cosa conta veramente? O di cosa gli fa paura? Lo sapresti dire di te, forse.

Ma loro, che c’entrano? Stanno in un altro ecosistema. Tipo i pesci, per dire. Chi ci capisce niente di cosa vogliono, o dove stanno andando, e perché. Sono pesci. E possono crepare per quello che per te è vita. Una boccata d’aria e sono andati, una boccata d’aria qualunque di quelle che per te sono vita. Crepati. Larry era un pesce. Aveva tutto un suo mare attorno, e branchie difficili da vedere, e una vita da respirare in un modo che non puoi capire, guardando il mare, da riva, da qui.

POOMERANG - Larry non stette nemmeno troppo a pensarci. Rimise a posto lo specchietto retrovisore, guardò dritto negli occhi Mondini e disse:

- Io voglio arrivare lassù, Maestro. Voglio capire cosa si vede, da lassù.

Mondini scosse la testa.

- Non un granché se sei sdraiato al tappeto con gli occhi rovesciati.

Lo disse non per portare sfiga, lo disse per dir qualcosa, per evitare che tutto diventasse troppo serio. Ma per Larry era serio. Lui che scherzava su tutto, quella volta faceva dannatamente sul serio.

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- Io ci voglio provare, Maestro. Mi porta lassù?

Mondini non si aspettava di essere lì per rispondere a delle domande. Era lì per far scendere quel ragazzo dal ring.

- Per favore, mi porta lassù?

- Mondini non se l’aspettava.

- Sì o no, Maestro?

Durante l’inverno del 1989, la temperatura fu molto rigida, e il campionato di calcio, nel campo dietro alla casa di Gould, fu interrotto spesso per impraticabilità del terreno. Alle volte si rassegnavano a giocare in condizioni proibitive, giusto perché il calendario non andasse completamente a pallino. Capitò a Gould, Poomerang e Diesel di vederli giocare, un giorno, sulla neve. il pallone rimbalzava, e dunque per l’arbitro era tutto regolare. Una squadra aveva la maglia rossa. L’altra una divisa a scacchi viola e bianca. Qualcuno aveva i guanti, e uno dei due portieri si era messo un colbacco in testa, con i paraorecchi abbassati e legati sotto il mento. Sembrava un esploratore antartico ripescato sul pack da una nave crociera del Club Med. A metà del secondo tempo Gould uscì da casa e raggiunse il solito posto, dietro alla porta di destra. Il prof. Taltomar non c’era. Era la prima volta.

Gould aspettò un po’, poi se ne tornò a casa. Vinsero i rossi, con un goal di culo al dodicesimo del secondo tempo.

Il professore non ricomparve più, al campo, e così Gould si mise a cercarlo. Alla fine lo trovò in una casa di cura per anziani, con una polmonite che forse era un cancro, non si sapeva bene.

Stava nel suo letto, ed era come rimpicciolito. Tra le labbra aveva una sigaretta senza filtro, spenta.

Gould avvicinò la sedia al letto e si sedette. Il prof. Taltomar aveva gli occhi chiusi, forse stava dormendo. Per un po’ Gould rimase in silenzio. Poi disse:

- Zero a zero a due minuti dalla fine. Il centravanti si butta in area, l’arbitro fischia il rigore.

Il capitano protesta mettendosi a strillare come un matto. L’arbitro si incazza, estrae una pistola e gli spara a bruciapelo. La pistola fa cilecca. Il capitano si butta sull’arbitro e i due finiscono a terra.

Accorrono dei giocatori e li dividono. L’arbitro si rialza.

Il prof. Taltomar non si mosse. Per un po’, non si mosse. Poi si sfilò lentamente la sigaretta dalle labbra, scosse via un po’ di cenere immaginaria, e mormorò piano:

- Cartellino rosso per il capitano. Esecuzione del rigore. Portata a termine della partita fino allo scadere del tempo regolamentare più recupero relativo all’avvenuto tafferuglio. Radiazione dell’arbitro ai sensi della norma n. 28 dello Statuto associativo che così recita: i pirla non arbitrano.

Poi diede un colpo di tosse e si infilò la sigaretta tra le labbra.

Gould sentì qualcosa di bello, dentro.

Rimase ancora un po’ lì, in silenzio.

Quando si alzò disse:

- Grazie, professore.

Il prof. Taltomar non aprì nemmeno gli occhi.

- Stai bene, figliolo.

Più o meno in quel periodo Shatzy trattò l’acquisto di una roulotte di seconda mano, modello Pagode del ‘71. Dentro era tutta di legno. Fuori era gialla.

- Come le è venuto in mente di sceglierla gialla?

- Signorina, guardi che è lei che la sta comprando, non io.

- Ho capito, ma vent’anni fa è lei che l’ha comprata. Non mi dirà che non ce n’erano di altri colori?

- Se il giallo non le piace può sempre riverniciarla.

- A me il giallo piace.

- A lei piace?

- A me sì. Ma in generale bisogna essere completamente deficienti per comprarsi una roulotte gialla, non crede?

Il prof. Bandini abbassò il capo pensando che doveva ricordarsi di avere molta pazienza con quella ragazza. Doveva rimanere calmo, se no non sarebbe mai riuscito a liberarsi di quella 70

maledetta roulotte. Erano mesi che cercava di farla fuori. Non c’è molta gente che abbia in cima ai suoi desideri una roulotte Pagode del ‘71. Gialla. Aveva messo annunci dappertutto, compreso il giornalino dell’università in cui insegnava. Era l’università di Gould. Gould aveva ritagliato l’annuncio e l’aveva appeso in mezzo agli altri, sul frigorifero. Era Shatzy, poi, che sceglieva.

Prediligeva i cattolici e gli intellettuali: di solito si vergognavano di parlare di denaro. Il prof.

Bandini era un intellettuale cattolico.

Così un giorno, mentre stava facendo lezione davanti a un centinaio di studenti, nell’aula 11, vide aprirsi la porta ed entrare quella ragazza.

- È lei il prof. Michael Bandini?

- Sì, perché?

Shatzy sventolò il ritaglio del giornale.

- È lei che vende una roulotte usata, modello Pagode, del ‘71, discrete condizioni, prezzo trattabile, no permuta?

- Senza capire bene perché, il prof. Bandini si vergognò come se gli stessero riportando un ombrello dimenticato in un cinema porno.

- Sì, sono io.

- Si può vedere?, la roulotte, dico, si può vedere?

- Sto facendo lezione, signorina.

Shatzy sembrò accorgersi solo in quel momento degli studenti che riempivano l’aula.

- Oh.

- Le spiace tornare più tardi?

- Certo, mi scusi, posso aspettare un po’, magari mi siedo qua, le spiace?, capace che imparo anche qualcosa di buono.

- Prego.

- Grazie.

Il prof. Bandini pensò che il mondo era pieno di pazzi. Poi continuò da dove aveva interrotto.

- Di solito - disse - il porch, o “veranda”, è collocato sulla parete frontale della casa. È

costituito da una tettoia di profondità variabile - ma di rado superiore ai quattro metri - che poggia su una serie di montanti e copre un assito la cui sopraelevazione rispetto al suolo oscilla generalmente tra i venti centimetri e il metro e mezzo. Una ringhiera e i necessari gradini di accesso ne completano il profilo. Da un punto vista puramente architettonico, il porch rappresenta uno sviluppo abbastanza elementare dell’idea classica di facciata, espressione di una povertà abbiente, e di un lusso rudimentale, primitivo. Da un punto di vista psicologico, se non morale, si tratta invece di un fenomeno che mi fa sbiellare e che risulta, a un’attenta analisi, commovente, ma anche ripugnante e, in definitiva, epifanico. Da epipháneia, greco: rivelazione.

Shatzy approvò con un leggero cenno del capo. Nel West, in effetti, quasi tutti avevano una veranda davanti a casa.

L’anomalia del porch - continuò il prof. Bandini - è evidentemente quella di essere, al contempo, un luogo dentro e un luogo fuori. In certo modo, esso rappresenta una soglia prolungata, in cui la casa non è più, e tuttavia ancora non si è estinta nella minaccia del fuori. È una zona franca in cui l’idea di luogo protetto, che ogni casa sta lì a testimoniare e realizzare, si sporge oltre la propria definizione, e si ripropone, quasi indifesa, come per una postuma resistenza alle pretese dell’aperto. In questo senso esso sembrerebbe luogo debole per eccellenza, mondo in bilico, idea in esilio. E non è escluso che proprio questa sua identità debole concorra al suo fascino, essendo incline, l’uomo, ad amare i luoghi che sembrano incarnare la propria precarietà, il proprio essere creatura allo scoperto, e di confine.

In privato, il prof. Bandini riassumeva questo suo ragionamento con un’espressione che riteneva imprudente usare in pubblico, ma che considerava felicemente sintetica. “Gli uomini hanno case: ma sono verande”. Una volta aveva provato ad enunciarla alla moglie, e la moglie aveva riso fino a starne male. La cosa l’aveva piuttosto colpito. In seguito la moglie l’aveva lasciato per andare a vivere con una traduttrice di ventidue anni più vecchia di lei.

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È curioso, tuttavia - proseguì il prof. Bandini -, come questo statuto di luogo debole si dissolva non appena il porch cessa di essere inanimato oggetto architettonico e viene abitato dagli uomini. Su una veranda, l’uomo medio dimora spalle alla casa, seduto, e per lo più seduto su una sedia provvista di apposito meccanismo atto a farla dondolare. Talvolta, componendo il quadro nella sua più accecante esattezza, l’uomo tiene in grembo un fucile carico. Sempre, guarda davanti a sé. Se ora voi ritornate a quell’immagine di precarietà che era il porch inteso come semplice oggetto architettonico, e la arricchite della presenza di quell’uomo - spalle alla casa, basculante sulla sua sedia a dondolo, con un fucile carico in grembo - quell’immagine virerà sensibilmente verso un senso di forza, sicurezza, determinazione. Si potrebbe dire addirittura che quel porch cessa di essere un’eco fragile della casa a cui si appoggia, e diventa validazione finale di ciò che la casa appena accenna: sanzione definitiva del luogo protetto, soluzione del teorema che la casa si limitava ad enunciare.

A Shatzy piacque particolarmente il dettaglio del fucile carico.

In definitiva - proseguì il prof. Bandini - quell’uomo e quel porch, insieme, costituiscono un’icona laica, eppure sacra, in cui si celebra il diritto dell’umano al possesso di un luogo suo proprio, sottratto all’indistinto essere del semplicemente esistente. Di più: quell’icona celebra la pretesa dell’umano a essere in grado di difendere quel luogo, con le armi di una metodica viltà (il basculare della sedia a dondolo) o di un attrezzato coraggio (il fucile carico). Tutta la condizione umana è riassunta in quell’immagine. Giacché esattamente questa appare la dislocazione destinale dell’uomo: essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso.

Era una cosa a cui il prof. Bandini credeva, al di là di qualsiasi necessità accademica - lui, semplicemente, credeva che le cose stessero esattamente così, lo credeva anche quando era in bagno. Lui pensava, davvero, che gli uomini stanno sulla veranda della propria vita (esuli quindi da se stessi) e che questo è l’unico modo possibile, per loro, di difendere la propria vita dal mondo, giacché se solo si azzardassero a rientrare in casa (e ad essere se stessi, dunque) immediatamente quella casa regredirebbe a fragile rifugio nel mare del nulla, destinata ad essere spazzata via dall’ondata dell’Aperto, e il rifugio si tramuterebbe in trappola mortale, ragione per cui la gente si affretta a riuscire sulla veranda (e dunque da se stessa), riprendendo posizione là dove solo le è dato di arrestare l’invasione del mondo, salvando quanto meno l’idea di una propria casa, pur nella rassegnazione di sapere, quella casa, inabitabile. Abbiamo case, ma siamo verande, pensava.

Guardava gli uomini e nelle loro commoventi menzogne sentiva lo scricchiolio della sedia a dondolo sulle assi impolverate del porch; ed erano, per lui, buffi fucili carichi le impennate di orgoglio e di penosa autoaffermazione in cui vedeva, negli altri e in se stesso, occultare il verdetto di un esilio perenne. Era una faccenda tristissima, a ben pensarci, ma anche commovente perché, alla fine, il prof. Bandini sapeva di provare affetto per sé e per tutti gli altri, e compassione per tutte le verande da cui si vedeva circondato

C’era qualcosa di infinitamente dignitoso in quell’indugiare eterno davanti alla soglia di casa, un passo prima di se stessi

Le notti in cui si alza il vento feroce della verità, la mattina dopo sei costretto a riparare la tettoia delle tue menzogne, con pazienza inossidabile, ma quando il mio amore tornerà sarà di nuovo tutto a posto, guarderemo il tramonto insieme bevendo acqua colorata o

quando qualcuno, sfinito, ti chiedeva di sederti davanti a lui e ti apriva la sua mente, tirando fuori tutto, davvero tutto, e perfino lì quello che capivi è che eravate seduti sulla sua veranda, ma in casa non ti aveva fatto entrare, in casa non ci entrava da anni, ormai, e questa era la paradossale ragione per cui era sfinito, lui, lì, davanti a te

Quelle sere in cui l’aria è fredda e il mondo sembra essersi assentato, d’improvviso ti senti comico, lì, sulla veranda, a fare la guardia contro nessun nemico, ed è una stanchezza che ti morde, e l’umiliazione di sentirti così inutilmente ridicolo, alla fine ti alzi e rientri a casa, dopo anni di menzogne, di simulazioni, rientri a casa sapendo che magari nemmeno ti riuscirà di orientarti, là dentro, come se fosse la casa di un altro e invece era la tua, lo è ancora, apri la porta ed entri, curiosa felicità che non ricordavi, casa tua, dio che meraviglia, che grembo, questo tepore, la pace, 72

me stesso, alla fine, non uscirò mai più da qui, poso il fucile nell’angolo e imparo di nuovo la forma degli oggetti e le figure dello spazio, mi riabituo alla geografia dimenticata della verità, imparerò a muovermi senza rompere niente, quando qualcuno busserà alla porta la aprirò, quando sarà estate spalancherò le finestre, sarò in questa casa fino a quando sarò, MA MA se tu aspetti, e da fuori guardi quella casa, potrà passare un’ora o una giornata intera, MA alla fine tu vedrai la porta aprirsi, senza sapere né poter capire, mai, cosa può essere successo là dentro, vedrai la porta aprirsi e lentamente quell’uomo, uscire, invisibilmente spinto fuori da qualcosa che non potrai mai sapere, MA certo deve avere a che fare con qualche vertiginosa paura, o incapacità, o condanna, tanto spietata da spingere quell’uomo fuori, sulla sua veranda, il fucile in mano, io adoro

io adoro quell’istante, diceva il prof. Bandini, l’istante preciso in cui lui ancora fa un passo, con il fucile in mano, guarda il mondo davanti, sente l’aria pungente addosso, si alza il bavero della giacca, e poi, meraviglia, torna a sedersi sulla sua sedia e appoggiando la schiena la rimette in movimento, dondolio mite che si era addormentato, rassicurante rollio della menzogna, adesso culla la serenità di nuovo ritrovata, la pace dei vili, l’unica che ci spetti, passa la gente e saluta, Ehi Jack, dov’eri finito? Niente, niente, sono qua adesso, In gamba Jack, una mano accarezza il calcio del fucile, lui guarda lontano, stringendo un po’ gli occhi, quanta luce, mondo di quanta luce hai bisogno, a me bastava una fiamma da nulla, là dentro, quando?, non ricordo quando, ma era un posto a cui ho detto addio, e poi più niente, non ne parlerà mai più, per sempre a dondolare sulla sua veranda di legno e vernice

se ci pensi, pensa le case vuote, a centinaia, dietro la faccia della gente, alle spalle di ogni veranda, migliaia di case perfettamente in ordine, e vuote, pensa l’aria, lì dentro, i colori, gli oggetti, la luce che cambia, tutto che accade per nessuno, luoghi orfani, loro che sarebbero I LUOGHI, gli unici veri, ma quella curiosa urbanistica del destino li ha immaginati come tarlature del mondo, incavi abbandonati sotto la superficie della coscienza, se ci pensi, che mistero, che ne è di loro, dei luoghi veri, del mio luogo vero, dove sono finito io mentre ero qui a difendermi, non ti succede mai di chiedertelo?, chissà come sto, IO?, mentre sei lì a dondolare, a riparare pezzi di tetto, a lucidare il tuo fucile, a salutare quelli che passano, di colpo, ti viene in mente quella domanda, chissà come sto, IO?, vorrei sapere solo questo, come sto, IO? Qualcuno sa se sono buono, o vecchio, qualcuno sa se sono VIVO?

Shatzy si avvicinò alla cattedra. Gli studenti se ne stavano uscendo e il prof. Bandini era in piedi, che sistemava le sue cose nella cartella.

- Niente male la sua lezione.

- Grazie.

- Dico sul serio. C’era un sacco di roba interessante.

- La ringrazio.

- Sa cosa mi ha fatto venire in mente?

- No.

- Ecco, ho pensato, guarda te, quel professore ha maledettamente ragione, voglio dire, le cose vanno proprio così, gli uomini hanno delle case, ma in realtà sono delle verande, non so se mi spiego, hanno delle case, però loro sono…

- Come ha detto?

- Quando?

- Adesso, quella storia delle case.

- Non so, cosa ho detto?

- Ha detto quella frase.

- Quale frase?

Discesero insieme il viale, Shatzy e il prof. Bandini, continuando a chiacchierare, poi si salutarono e lui disse che la roulotte era nel suo giardino, se lei voleva passare nel pomeriggio lui sarebbe stato là, e lei disse che andava bene, così nel pomeriggio effettivamente andò laggiù, ed è lì che si misero a discutere del colore e Shatzy precisamente disse: Come le è venuto in mente di sceglierla gialla?

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- Signorina, guardi che è lei che la sta comprando, non io.

- Ho capito, ma vent’anni fa è lei che l’ha comprata. Non mi dirà che non ce n’erano di altri colori?

- Se il giallo non le piace può sempre riverniciarla.

- A me il giallo piace.

- A lei piace?

- A me sì. Ma in generale bisogna essere completamente deficienti per comprarsi una roulotte gialla, non crede?

A una ventina di metri, appoggiati al muro del garage di casa Bandini, Gould, Poomerang e Diesel se ne stavano all’ombra, guardando la scena.

- Lui non lo sa, ma è pazzo di lei, - nondisse Poomerang.

- Dove l’ha presa Shatzy quella camicetta orribile? - chiese Diesel.

- Camicetta strategica, disse Gould. Se dai un colpo di tosse si apre il bottone davanti e si vedono un po’ le tette.

- Veramente?

- Be’, bisogna saper tossire nel modo giusto. Shatzy si allena davanti allo specchio.

Poomerang si mise a tossire. Poi si guardò i bottoni della camicia. Poi tornò a guardare quei due che entravano e uscivano dalla roulotte, discutendo.

- Com’è finita con Mondini? Lo porta al mondiale, o no?

- Forse.

- Sarebbe?

- Non si capisce.

- Come sarebbe a dire non si capisce?

- Adesso c’è che son venuti quelli del Tropicana, il Casinò, e hanno offerto un sacco di soldi per metter su un match Larry contro Benson.

- Benson lui?

- Lui.

- Cazzo.

- Già. Solo che Mondini ha detto - Grazie mille, un’altra volta.

- No!

- Sì. Dice che prima Larry deve fare un altro incontro.

- È pazzo?

- Non si capisce cos’ha in testa. Dice solo che Larry deve fare quell’altro incontro, prima, e poi si vedrà.

- Ma Benson è la scorciatoia per il mondiale, se Larry lo fa fuori…

- Niente da fare, Mondini non ci sente da quell’orecchio.

- È ammattito, il vecchio.

- No, è che ha qualcosa in testa. L’altra sera Larry l’ha preso di brutto e gli ha detto -

Maestro, lei mi deve una risposta. Mondini l’ha guardato e poi ha detto: Dopo il prossimo incontro, Larry, e l’incontro lo scelgo io.

- Dai…

- Allora Larry si è fatto una risata e ha detto: - Va bene, okay, come vuole lei, Maestro, chi devo tirare giù?

- Giusto, chi diavolo deve tirare giù?

- Qui viene il bello.

- Cioè?

- Mondini è strano, non si capisce cos’ha in testa.

- Cazzo vuoi dire, Gould?

- Con tutti i pugili che ci sono in giro, è strano, non si capisce…

- Allora, chi diavolo ha scelto?

- Non lo indovinereste mai.

- E dai…

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- Gould si voltò un attimo a guardare Shatzy, laggiù, col prof. Bandini. Poi disse piano: Poreda.

- Chi?

- Poreda.

- Stanley Poreda?

- Già.

- Poreda quello con le braccia rotte?

- Lui.

- Che diavolo c’entra?

- Ve l’avevo detto che non ci credevate.

- Poreda?

- Stanley Hooker Poreda.

- Che figlio di puttana.

- Puoi dirlo forte.