- Ah.
Il padre di Gould prese il telecomando in mano e l’accese.
Non successe niente. Provò a schiacciare un po’ di tasti, ma continuò a non succedere niente.
- Mi dice una cosa, sinceramente, signorina?
- Cosa?
- Non le ha mai fatto un po’ paura vivere di fianco a un bambino come Gould?
- Solo una volta.
- Una volta quando?
- Una volta che si mise a raccontare di sua madre. Disse che sua madre era impazzita, e si mise a raccontare tutta la storia. Non era tanto quel che diceva, era la voce che faceva paura.
Sembrava la voce di un vecchio. Di uno che sapeva tutto da sempre, e che sapeva anche come sarebbe andata a finire. Un vecchio.
- …
Lui aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a essere piccolo.
- …
- Non credeva che si potesse essere piccoli nella vita reale senza che qualcuno ne approfittasse e ti uccidesse, o qualcosa del genere.
- …
- Pensava che era una fortuna essere un genio perché era un modo di salvarsi la vita.
- …
- Un modo di non sembrare un bambino.
- …
- Non so. Credo che fosse il suo sogno, essere un bambino.
- …
- Voglio dire: credo che sia il suo sogno. Credo che adesso che è grande, potrà finalmente essere piccolo, per tutta la vita.
Poi andò che tirarono tardi, a parlare di guerre e western, o a stare zitti, con la radio sempre accesa che dava musica qualunque. Alla fine il padre di Gould disse che gli sarebbe piaciuto dormire lì, se a lei non dava fastidio. Shatzy gli disse che poteva fare quello che voleva, che quella era casa sua, e poi non le dava fastidio, anzi, era contenta se rimaneva. Gli disse che poteva 119
preparargli il letto della stanza di Gould, ma lui fece un gesto vago nell’aria e disse che preferiva di no, avrebbe dormito sul sofà, non c’era problema, andava benissimo il sofà.
- Non è molto comodo.
- Andrà benissimo, mi creda.
Così dormì sul sofà. Quello blu. Shatzy dormì in camera sua.
Prima rimase seduta sul letto, con la luce accesa, per un bel po’.
Poi effettivamente andò a dormire.
La mattina dopo si misero d’accordo per quella faccenda dei soldi. Poi il padre di Gould chiese a Shatzy cosa pensava di fare.
Intendeva dire se voleva continuare a star lì, o cosa.
- Non so, penso che per un po’ starei ancora qui.
- Io sarei più tranquillo se lo facesse.
- Sì.
- Se per caso venisse in mente a Gould di tornare, sarebbe meglio ci trovasse qualcuno, qui.
- Sì.
- Può telefonarmi quando vuole.
- D’accordo.
- Io le telefonerò.
- Sì.
- E se le viene in mente qualche buona idea, me lo dica subito, va bene?
- Certo.
Poi il padre di Gould le disse che era una ragazza in gamba. E la ringraziò, perché era una ragazza in gamba. Disse anche qualcos’altro. E poi alla fine le chiese se c’era qualcosa che poteva fare per lei.
Shatzy subito non disse niente. Ma dopo, quando lui stava già quasi sulla porta, disse che effettivamente c’era una cosa che poteva fare per lei. Gli chiese se un giorno poteva portarla a conoscere Rudi. Non spiegò perché, disse solo quello.
- Mi porta un giorno a conoscere Rudi?
Il padre di Gould rimase un attimo in silenzio. Poi disse sì.
28.
Sul manto della prateria il vento inclina paesaggio e anime verso ovest, curvando Closingtown come un vecchio giudice stanco di ritorno dall’ennesima condanna a morte. Musica.
La musica era sempre quella lì, la faceva Shatzy con la bocca.
Notte fuori. Nel salotto delle sorelle Dolphin, loro due e lo straniero, quello che avevano preso a fucilate, quando era entrato in paese.
Obbiettivamente la cosa era un po’ strana, ma se provavi a dirlo Shatzy tirava su le spalle e continuava.
Lo straniero si chiamava Phil Wittacher. L’accento va sulla i.
Wittacher.
Phil Wittacher non era un uomo che si spostava volentieri. Diciamo che si spostava solo se lo pagavano molto, e in anticipo. Da Closingtown aveva ricevuto una lettera estremamente cortese: e mille dollari per il disturbo di leggerla. Era un buon punto di partenza. La lettera diceva che se voleva gli altri novemila dollari doveva presentarsi all’unica casa rossa del paese.
L’unica casa rossa di Closingtown era quella delle sorelle Dolphin.
Per cui adesso se ne stanno lì, nel salotto a chiacchierare. Tutti e tre.
- Perché io? -, chiede lo straniero.
Se consideriamo il nostro problema voi sembrate, sotto ogni aspetto, la persona più indicata 120
a risolverlo, mister Wittacher - dice Julie Dolphin.
- Ci serve il migliore e tu lo sei, ragazzo - dice Melissa Dolphin.
Erano uguali, ma non erano uguali, diceva Shatzy. Succede, coi gemelli: fisicamente due gocce d’acqua, ma poi è come un’unica anima divisa in due, con tutto il bianco da una parte e il nero dall’altra. Julie era il bianco. Melissa il nero. Difficile immaginarsele una senza l’altra.
- Probabile che non esistano nemmeno, l’una senza l’altra, - diceva Shatzy.
Curioso paesaggio disegnato blu sul dorso della tazza che Julie Dolphin porta alla bocca.
Tisana alla verbena. Non vi sarà sfuggito che questo paese simula una normalità del tutto apparente: qui ogni giorno accade qualcosa che, con un eufemismo, si potrebbe definire seccante.
- I paesi del West sono tutti uguali, miss.
- Stronzate - dice Melissa Dolphin.
Lo straniero sorride.
- Non credo di capire.
- Capirete. Ma temo sarà necessario da parte vostra avere la cortesia di ascoltare alcune storie. Vi possiamo chiedere di tornare domani, al tramonto? Sarà nostro piacere raccontarvele.
Phil Wittacher non era un uomo a cui garbava andare per le lunghe. Se un lavoro andava fatto, preferiva sbrigarsi.
Julie Dolphin posa sul tavolo una mazzetta di banconote che sembrano stirate.
- Confidiamo che questi possano aiutarvi a prendere in esame la scomoda eventualità di trattenervi in paese il tempo necessario per capire il problema, mister Wittacher.
Duemila dollari.
Lo straniero accenna un inchino, prende i soldi e li fa sparire in una tasca.
Si alza. C’è una valigetta di cuoio rigido, come una specie di custodia di violino, appoggiata alla sua sedia. Phil Wittacher non se ne separa mai.
- Con quel che paghiamo, potremmo ben darci un’occhiata, no? -, dice Melissa Dolphin.
- Mia sorella intende dire che sarebbe rassicurante per noi vedere i vostri, come dire, i vostri attrezzi del mestiere. Giusto per curiosità, sa, anche noi, in qualche modo, siamo delle intenditrici, se ci è consentita questa presunzione.
Lo straniero sorride.
Prende la valigetta, l’appoggia su una sedia, e la apre.
Metallo luccicante, oliato ed esatto. Madreperla e intarsi.
Le due sorelle si chinano a guardare.
- Per la miseria.
- Dei veri gioielli, se così mi posso esprimere.
- Sono carichi?
Lo straniero annuisce.
- Naturalmente.
- Melissa Dolphin guarda lo straniero.
- E allora perché sono fermi?
Phil Wittacher inarca leggermente le sopracciglia.
- Prego?
- Mia sorella si chiedeva come mai questi vostri splendidi orologi sono fermi visto che voi assicurate di averli caricati.
Lo straniero si avvicina alla valigetta, si china a guardare. Osserva bene i tre quadranti, uno a uno. Poi si rialza.
- Sono fermi -, dice.
- Già.
- Miss Dolphin, le assicuro che questo è impossibile.
- Non qui, in questo paese -, dice Julie Dolphin, poi richiude la valigetta e la porge allo straniero.
- Come vi dicevo, sarebbe estremamente utile che voi aveste la gentilezza di ascoltare quello che abbiamo da raccontarvi.
121
Phil Wittacher prende la valigetta, si infila lo spolverino, recupera il cappello e va verso la porta. Prima di aprirla si gira, tira fuori il suo orologio da taschino, gli dà un’occhiata, lo ripone al suo posto e alza lo sguardo verso le sorelle Dolphin, il volto leggermente impallidito.
- Scusate, sapete dirmi che ora è?
Il tono è quello di un naufrago che chiede quanta acqua è rimasta da bere.
- Sapete dirmi che ora è?
Julie Dolphin sorride.
- Naturalmente no. Sono trentaquattro anni, due mesi e undici giorni che a Closingtown nessuno sa più che ora è, mister Wittacher.
A quel punto scoppiava a ridere. Shatzy. Si metteva a ridere. Si vedeva che ‘sta storia le piaceva da morire, si divertiva a raccontartela, avrebbe potuto continuare a farlo per una vita. Le metteva allegria, ecco.
- A domani, mister Wittacher.
29.
Senza pistole sopra il cuore, nel taschino, biglietti da visita che recitano Wittacher e Figlio.
Costruzione e riparazione di orologi e cronometri.
Medaglia del Senato all’Esposizione Universale di Chicago.
La valigetta in mano, camminando nel vento fino alla fine del paese, una casa rossa, casa Dolphin tre gradini, la porta, Julie Dolphin, il salotto, odore di legno e verdura, due fucili appesi sopra la stufa, Melissa Dolphin, polvere che scricchiola sotto le scarpe, ovunque, strano paese, polvere dappertutto, pioggia mai, strano paese,
- Buona sera mister Wittacher.
- Buona sera.
Per cinque giorni ogni giorno al tramonto Phil Wittacher si recò dalle sorelle Dolphin, ad ascoltare. Gli raccontarono la storia di Pat Cobhan, che si era suicidato in duello, a Stonewall, per amore di una puttana, e la storia dello sceriffo Wister, che era partito da Closingtown innocente ed era tornato a Closingtown colpevole. Gli chiesero se aveva incontrato un vecchio semicieco con pistole lucenti nel cinturone.
- No.
- Lo incontrerete. Si chiama Bird. Questa è la sua storia. E gli raccontarono del vecchio Wallace, e della sua ricchezza. Gli raccontarono dei Christianson, tutta la storia d’amore, dall’inizio alla fine. Il quinto giorno gli raccontarono ancora di Bill e Mary. Poi dissero
- Può bastare.
Phil Wittacher spegne il suo sigaro in un piattino di vetro blu.
- Belle storie -, dice.
- Dipende -, dice Melissa Dolphin.
- Noi siamo piuttosto propense a considerarle delle storie orrende -, dice Julie Dolphin.
Phil Wittacher si alza, si avvicina alla finestra, guarda fuori nel buio. Dice
- Va bene, qual è il problema?
- Non è così semplice da spiegare. Ma se c’è qualcuno che può capire siete voi.
Gli chiedono se si è accorto che tutte quelle storie hanno qualcosa in comune.
Wittacher pensa.
La morte, dice.
Qualcos’altro, dicono.
122
Wittacher pensa.
Il vento, dice.
Esatto.
Il vento.
Wittacher tace.
Rivede Pat Cobhan che scende da cavallo, dopo giorni di viaggio, raccoglie una manciata di polvere, la lascia scivolare piano tra le dita e pensa: niente vento, qui. E lì finalmente si concede la morte.
Non c’era vento dove lo sceriffo Wister si arrese a Bear. Deserto, sole. Niente vento.
Wittacher pensa.
Sono sei giorni che è in quel paese, e il vento non ha smesso di tirare un attimo, come una furia. Polvere dappertutto.
- Perché? - chiede Phil Wittacher.
- Il vento è la maledizione -, dice Melissa Dolphin.
- Il vento è una ferita del tempo -, dice Julie Dolphin. È quello che pensano gli indiani, lo sapevate? Loro dicono che quando si alza il vento significa che si è strappato il grande manto del tempo. Allora tutti gli uomini perdono la propria pista, e finché tira il vento non la ritroveranno mai.
Restano senza destino, sperduti in una tempesta di polvere. Gli indiani dicono che solo alcuni uomini conoscono l’arte di strappare il tempo. Li temono, e li chiamano assassini del tempo. Uno di loro ha strappato il tempo di Closingtown: è successo trentaquattro anni, due mesi e sedici giorni fa.
Quel giorno, mister Wittacher, ognuno di noi ha smarrito il suo destino in un vento improvvisamente alzatosi, nel cielo della città, e mai più finito.
Bisognava sentirla, Shatzy, quando spiegava quella faccenda.
Diceva che bisognava immaginarsi Closingtown come un uomo sporto fuori dal finestrino di una diligenza, con tutto il vento in faccia. La diligenza era il Mondo, che faceva il suo bel viaggio nel Tempo: andava avanti macinando giorni e chilometri, e se tu ci rimanevi dentro, bene al riparo, neanche sentivi l’aria e la velocità. Ma se per una qualunque ragione ti sporgevi fuori dal finestrino, zac, finivi in un altro Tempo, e allora era polvere e vento fino a farti perdere il senno. Diceva proprio perdere il senno: e da queste parti non è un’espressione qualunque. Diceva che Closingtown era una città sporta fuori dal finestrino del Mondo, col Tempo che le soffiava in faccia, e la polvere dritta negli occhi a complicare tutto in testa. Era un’immagine che non era semplicissima da capire, ma piaceva molto a tutti, aveva fatto il giro dell’ospedale, credo che in qualche modo tutti ci trovassero una storia che vagamente conoscevano, o una cosa del genere. Lo stesso prof.
Parmentier, una volta, mi disse che, se questo mi aiutava, potevo immaginare quello che mi succedeva in testa come qualcosa di non molto diverso da Closingtown. Succede che qualcosa strappa il Tempo, mi disse, e non si è più puntuali con niente. Si è sempre un po’ altrove. Un po’
prima o un po’ dopo. Hai un sacco di appuntamenti, con le emozioni, o con le cose, e tu stai sempre a inseguirli o arrivare stupidamente prima. Diceva che quella era la mia malattia, volendo. Julie Dolphin la chiamava: smarrire il proprio destino. Ma quello era il West: si potevano ancora dire, certe cose. Lei le diceva.
- Trentaquattro anni, due mesi e sedici giorni fa, mister Wittacher, ognuno di noi ha smarrito il suo destino in un vento improvvisamente alzatosi, nel cielo della città, e mai più finito. Pat Cobhan era giovane e i giovani non sanno vivere senza destino.
Salì a cavallo e non si fermò fino alla terra dove il suo lo stava aspettando. Bear era un indiano: lui sapeva. Portò lontano lo sceriffo Wister fino ai margini del vento, e lì lo consegnò al destino che si meritava. Bird è un vecchio che non vuole morire. Bestemmia ma se ne sta acquattato in questo vento dove il suo destino di pistolero non lo troverà mai. Questa è una città a cui qualcuno ha rubato il tempo, e il destino. Volevate una spiegazione: vi basta?
Phil Wittacher pensa.
È tutto pazzesco, dice.
Meno di quanto pensiate.
Sono leggende, dice.
123
Non dire cazzate, ragazzo.
È solo vento, dice.
Credete?
Diceva Shatzy che allora gli fecero aprire la sua valigetta. C’erano dentro tutti i suoi arnesi e i suoi tre orologi, perfetti e belli: inesorabilmente fermi.
- E questo come lo spiegate, mister Wittacher?
- Forse l’umidità.
- L’umidità?
- Voglio dire, qui è molto secco, questo paese, è orribilmente secco, immagino che sia il vento o…
- Il vento?
- È possibile.
- È solo vento, mister Wittacher, da quando il vento ferma gli orologi?
Phil Wittacher sorride.
- Non mi incastrate: una cosa è fermare un orologio, un’altra cosa è fermare il tempo.
Julie Dolphin si alza addirittura; si alza si avvicina allo straniero, ma molto vicino, e lo guarda negli occhi, fisso negli occhi.
- Vi prego di credermi: qui a Closingtown, sono la stessa cosa.
- In che senso, miss?
- In che senso, Shatzy?, le chiedevamo. Ogni tanto stavamo anche in cinque o sei ad ascoltare le sue storie. Ad essere precisi lei le raccontava a me, ma non mi dispiaceva se le ascoltavano anche le altre. Venivano nella mia stanza, la riempivamo tutta, qualcuna portava dei dolci. E ascoltavamo.
In che senso, Shatzy?
Domani, diceva lei. Domani.
Perché?
Ha detto domani, vuol dire domani.
Domani?
Domani.
La prima volta che vidi Shatzy ero giù, nella sala di lettura.
Venne a sedersi vicino a me e disse:
- Tutto bene?
- Non so perché ma la presi per Jessica, una di quelle ragazze dell’università che venivano qui a fare pratica. Mi ricordavo che aveva un problema con una nonna, qualcosa come una nonna gravemente malata. Così le chiesi della nonna. Lei rispose e andammo un po’ avanti a parlare. Solo dopo un po’, a guardarla bene, mi venne in mente che non era Jessica. Non lo era affatto.
- Chi sei?
- Mi chiamo Shatzy. Shatzy Shell.
- Ci siamo mai viste prima?
- No.
- Allora ciao, io mi chiamo Ruth.
- Ciao.
- Vieni qui a far pratica?
- No.
- Sei un’infermiera?
- No.
- E allora cosa fai nella vita?
Lei ci stette un po’ a pensare. Poi disse:
- Western.
- Western?
Non ero sicura di ricordarmi cos’erano.
- Sì, western.
124
Doveva essere una cosa che aveva a che fare con le pistole.
- E quanti ne fai?
- Uno.
- È bello?
- A me piace.
- Me lo fai vedere?
Fu esattamente così che iniziò quella faccenda. Per caso.
- Phil Wittacher sorride.
- Non mi incastrate: una cosa è fermare un orologio, un’altra cosa è fermare il tempo.
Julie Dolphin si alza addirittura si alza si avvicina allo straniero, ma molto vicino, e lo guarda negli occhi, fisso negli occhi.
- Vi prego di credermi: qui a Closingtown, sono la stessa cosa.
- In che senso, miss?
Allora Julie Dolphin gli raccontò. Ci potete credere o no, ma trentaquattro anni, due mesi e sedici giorni fa qualcuno strappò il tempo di Closingtown. Si alzò un grande vento e di colpo si fermarono tutti gli orologi del paese. Non ci fu mai verso di farli ripartire. Ce n’era uno, enorme, che nostro fratello aveva fatto montare in una torre di legno, proprio nel centro della Main Street, sotto la cisterna dell’acqua. Ne era molto fiero, e andava lui a caricarlo, personalmente, ogni giorno. Non ce n’era un altro, grande così, in tutto il West. Lo chiamavano il Vecchio, perché andava lento, e sembrava saggio. Si fermò quel giorno, e non ripartì mai più. Aveva le lancette inchiodate sulle 12 e 37, e ridotto così sembrava un occhio cieco che non la smetteva mai di guardarti. Alla fine decisero di coprirlo con delle assi. Almeno la finiva di spiare tutti quanti. Adesso sembra un serbatoio, più piccolo, sotto quello grande. Ma là dentro c’è sempre lui. Fermo. Se credete che siano solo leggende sentite questa. Undici anni fa arrivano in paese quelli della ferrovia. Dicono che vogliono far passare i binari da qui, per congiungere la linea del Sud alla zona dei grandi pascoli. Comprarono terreni e piantarono picchetti. Poi si accorgono di una cosa curiosa: tutti i loro orologi sono fermi.
Chiedono in giro e qualcuno gli racconta tutta la storia. Allora fanno venire un esperto dalla capitale. Un omino sempre vestito di nero, che non parlava mai. Rimase qui nove giorni. Aveva apparecchi strani, non la finiva più di smontare e rimontare orologi. E misurava tutto, la luce, l’umidità, studiava perfino il cielo, di notte. E naturalmente il vento.
Alla fine disse:
- Gli orologi fanno quel che possono: il fatto è che qui non c’è più il Tempo.
C’aveva quasi imbroccato, l’omino.
Qualcosa aveva capito. Qui, il tempo, in realtà, non ha mai smesso di esserci. Ma è vero che non è il tempo di tutto il resto del mondo. Qui corre un po’ più avanti o un po’ più indietro, chissà.
Quel che è certo è che corre in un posto dove gli orologi non riescono a vederlo. Quelli della ferrovia ci pensarono un po’ su.
Dissero che non era l’ideale far passare una ferrovia in una terra dove il tempo non esisteva più. Probabile che si immaginassero treni che sparivano nel nulla e si perdevano per sempre.
Rivendettero i terreni e fecero passare la ferrovia più a ovest. Qui nessuno ne fece un dramma. Chi è abituato a vivere senza destino, può ben vivere senza una ferrovia. Da allora non è successo più niente. Nel senso che il vento non ha mai smesso un attimo di soffiare, e di orologi non se n’è più visto uno che non fosse fermo. Potremmo andare avanti così per sempre, qualsiasi cosa voglia dire sempre in un posto a cui hanno strappato il tempo. Ma è difficile. Si può vivere senza orologi: è più complicato farlo senza destino, con addosso una vita che non ha più appuntamenti. Siamo una città di esuli, gente assente da se stessa. Probabilmente non ci restano che due possibilità: ricucire il tempo, in qualche modo, o andarcene via, tutti. Noi due vorremmo morire qui, in un giorno senza vento: per questo abbiamo chiamato voi.
Phil Wittacher rimane in silenzio.
- Facci crepare all’ora giusta, senza polvere negli occhi, ragazzo.
Phil Wittacher sorride.
Pensa che il mondo è pieno di matti.
125
Pensa all’omino vestito di nero e non riesce a immaginarselo in altro modo che ubriaco, appoggiato al bancone del saloon, a farsi stordire di cazzate.
Pensa al Vecchio, e si chiede se davvero è il più grande orologio del West.
Pensa ai suoi tre splendidi orologi, con l’ora di Londra, San Francisco e Boston. Fermi.
Guarda quelle due vecchine, con la loro casa perfettamente in ordine, convinte di essere alla deriva in un tempo che non è il loro.
Poi si schiarisce la voce.
- D’accordo.
Dice
- Cosa devo fare?
Julie Dolphin sorride.
- Fate ripartire quell’orologio.
- Quale orologio?
- Il Vecchio.
- Perché lui?
- Se partirà lui, gli altri lo seguiranno.
- È solo un orologio. Non vi restituirà niente.
- Voi pensate a farlo partire. Poi quello che dovrà accadere accadrà.
Phil Wittacher pensa.
Phil Wittacher scuote la testa.
- È tutto pazzesco.
- Cos’è, ti caghi addosso, ragazzo?
- Mia sorella si domanda se per caso non nutrite un’esagerata sfiducia nelle vostre possibilità di…
- Non mi cago addosso. Dico solo che è tutto pazzesco.
- Pensavate davvero che per tutti quei soldi avreste trovato da fare un lavoro ragionevole?
- Mia sorella dice che non ti paghiamo per dire cosa è pazzesco o cosa no. Fa’ ripartire quell’orologio, è tutto quello che devi fare.
- Phil Wittacher si alza.
- Immagino sia assolutamente idiota, ma lo farò.
Dice.
Julie Dolphin sorride.
- Ne ero sicura, mister Wittacher. E vi sono davvero molto grata.
Melissa Dolphin sorride.
- Aprigli il culo, a quel bastardo. Senza pietà.
Phil Wittacher la guarda.
- Non è un duello.
- Certo che lo è.
Musica.
30.
Il Vecchio era talmente grande che a entrarci sembrava di entrare in una casa. Si apriva una porta, si saliva qualche gradino, e si finiva direttamente nella cassa dell’orologio. In un certo senso era come essere una pulce ed entrare in una cipolla da taschino. Phil Wittacher rimase stordito dalla meraviglia. Tutti gli ingranaggi erano di legno, corda e cera. Il meccanismo della ricarica funzionava ad acqua, sfruttando la cisterna montata sopra l’orologio. Di ferro c’erano solo le lancette. I numeri, sul quadrante di legno laccato bianco, erano disegnati a colori, ma non erano numeri normali. Erano carte da gioco. Tutte di quadri. Dall’asso alla donna, che stava al posto del 126
mezzogiorno. Il re era in mezzo al quadrante, dove di solito c’era la firma dell’orologiaio.
Paese di pazzi, pensa Phil Wittacher.
Sale e scende in quella rete incomprensibile di ruote dentate, binari, ganci, funi, pesi, bilancieri.
Tutto fermo.
Se solo non si sentisse questo vento fischiare tra le assi delle pareti, pensa Phil Wittacher.
Passa tre giorni là dentro, appendendo lanterne dappertutto e facendo mille disegni. Poi si chiude nella sua stanza a studiarli.
Una sera si spinge fin dalle sorelle Dolphin.
- Che mestiere faceva vostro fratello? - chiede.
- Non sei pagato per fare domande, ragazzo -, dice Melissa Dolphin
- Intendete dire prima di venire nel West? - chiede Julie Dolphin.
- Prima di costruire il Vecchio.
- Fregava i ladri - dice Melissa Dolphin.
- Inventava casseforti -, dice Julie Dolphin.
- Ah, ecco -, dice Phil Wittacher.
Poi torna nella sua stanza al primo piano del saloon. E riprende a studiare i disegni.
Una sera bussano alla porta. Lui apre e vede un vecchio vestito come un pistolero. Pistole comprese. Due, infilate nelle fondine, alla rovescia, con il calcio sporgente in avanti.
- Sei tu l’uomo dell’orologio? -, dice Bird.
- Già.
- Posso?
- Se vuole.
Bird entra. Disegni dappertutto.
- Si sieda -, dice Phil Wittacher.
- Ho solo una cosa da dirti e posso dirla da in piedi.
- La ascolto.
- Piscio sangue, il male mi ruba le notti, faccio schifo anche alle puttane e non ci vedo più un cazzo. Sbrigati a riparare quell’orologio. Ho bisogno di morire.
Phil Wittacher alza gli occhi al cielo.
- Non crederà anche lei a quella storia…
- Non c’è molto altro in cui credere, da queste parti.
- E allora prenda la prima carrozza, scenda quando non ci sarà più vento, e aspetti: se ci crede davvero, basterà aspettare un po’ e troverà qualcuno che l’ammazzerà.
Com’è che Bird adesso gli sta puntando due pistole addosso? Solo un attimo fa erano nelle loro fondine.
- Sta’ attento, ragazzo. Da questa distanza non ho bisogno degli occhi.
Phil Wittacher alza le braccia.
Com’è che le due pistole sono di nuovo nelle fondine? Un attimo fa erano puntate su di lui.
- Abbassa quelle braccia, idiota. Non posso ammazzarti, se voglio morire.
Phil Wittacher si lascia cadere su una sedia. Bird toglie da una tasca una mazzetta di dollari.
- Sono tutti i miei soldi. Li tenevo per un mariachi, ma aspetto da anni e quello non arriva mai. Non c’è più poesia, in questo mondo. Ripara quell’orologio e saranno tuoi.
Bird rimette i soldi in tasca.
Phil Wittacher scuote la testa.
- Non voglio soldi, non mi servono soldi, ho fatto l’errore di prendere questo lavoro e va bene, lo finirò, ma lasciatemi in pace, io voglio solo andarmene il più presto possibile da questo paese di pazzi, anzi, sapete cosa vi dico?, mi chiedo com’è che non me ne sono già andato, questa è la verità, per caso sapete perché diavolo io sono ancora qua?
- Semplice: non si lascia a metà un duello.
- Non è un duello.
- Certo che lo è.
127
Dice Bird. Poi si tocca con due dita la tesa del cappello, si gira e si avvicina alla porta. Prima di aprirla, si ferma. Si volta di nuovo verso Phil Wittacher.
- Ragazzo, lo sai dove guarda un pistolero, durante un duello?
- Non sono un pistolero.
- Io sì. Guarda negli occhi l’avversario. Negli occhi, ragazzo.
Bird fa un cenno con la testa, verso i disegni che ingombrano il tavolo e la stanza.
- Fissare le pistole non serve a niente. Quando vedi qualcosa, è troppo tardi ormai.
Phil Wittacher si gira a guardare i suoi disegni. L’ultima frase di Bird che sente è:
- Guardalo negli occhi, se vuoi vincere, ragazzo.
Diceva Shatzy che il giorno dopo Phil Wittacher fece togliere tutte le assi che erano inchiodate davanti al quadrante del Vecchio.
Le lancette erano fisse sulle 12 e 37 Avevano ragione le sorelle Dolphin: sembrava un occhio cieco che non la smetteva mai di guardarti. Lui e le sue tredici carte di quadri. Dalla sua stanza Wittacher iniziò a studiarlo per ore. Aveva spostato il tavolo davanti alla finestra: lavorava sui suoi disegni, poi alzava lo sguardo e fissava il Vecchio. Ogni tanto scendeva in strada, la attraversava e saliva nel cuore dell’orologio. Controllava, misurava. Quando ritornava nella sua stanza, si sedeva al tavolo e ricominciava a studiare.
Attraverso il vento, fissava l’occhio cieco del Vecchio. La mattina del quarto giorno si svegliò all’alba. Aprì gli occhi, e si disse:
- Che idiota.
Si vestì, scese da Carver e gli chiese chi era il più vecchio di Closingtown. Carver gli indicò un mezzo indiano che dormicchiava seduto per terra, con in mano una bottiglia mezza piena di acquavite.
- Non ce n’è uno che non si è bevuto il cervello?
- Ci sono le sorelle Dolphin.
- No, loro no.
- Allora il giudice.
- Dove lo trovo?
- Nel suo letto. La casa dopo l’emporio di Patterson.
- Perché a letto?
- Dice che il mondo fa schifo.
- E allora?
- L’ha detto una decina d’anni fa. Da allora scende dal letto solo per pisciare e cagare. Dice che non vale la pena.
- Grazie.
Phil Wittacher esce dal saloon, arriva alla casa del giudice, bussa alla porta, la apre, entra nella penombra, vede un grande letto e sopra, mezzo vestito, un uomo enorme.
- Mi chiamo Phil Wittacher -, dice.
- Vaffanculo.
- Sono quello che ripara il Vecchio.
- Auguri.
- Prende una sedia, la avvicina al letto, si siede.
- Com’era l’uomo che lo costruì?
- Cosa vuoi sapere?
- Tutto.
- Perché?
- Devo guardarlo negli occhi.
31.
128
Le prime volte Shatzy veniva, restava un po’, poi se ne andava.
Potevano anche passare giorni senza che la vedessimo. In quel periodo io ero interna all’ospedale. Era un periodo di quelli. Così potevano passare giorni senza che la vedessi. Poi non so come successe ma lei iniziò a fermarsi, e alla fine mi disse che l’avevano presa a lavorare lì. Non so.
Non aveva un lavoro, credo. Aveva bisogno di lavorare. Non era proprio un’infermiera, non aveva studiato, ma faceva qualcosa di simile. Stava con i malati. Non che le piacessero tutti, questo no, ce n’erano alcuni che proprio non le andavano a genio. E mi ricordo che una volta la trovarono in un angolo, che piangeva, e non voleva dire perché. Possono essere molto sgradevoli, i matti, ogni tanto. Possiamo essere molto sgradevoli. Puzza di sigaro e merda, le tende semiabbassate alla finestra, tutta la stanza zeppa di giornali, vecchi giornali, ritagli di giornali proprio in mezzo c’è il grande letto di ferro, e, sdraiato sopra, il giudice, enorme: i pantaloni sbottonati, strane scarpe ai piedi, capelli unti pettinati con cura all’indietro, barba ingiallita. Ogni tanto si sporge a prendere una bacinella appoggiata per terra, ci sputa dentro catarro marrone, e la rimette giù. Per il resto parla.
Phil Wittacher ascolta.
Arne Dolphin. Puoi dire tutto, ma era uno che sapeva parlare. Se gli lasciavi un po’ di tempo poteva convincerti anche che eri un cavallo. Tu ridevi, ma intanto alla prima occasione ti davi un’occhiata allo specchio: così, tanto per controllare. Me lo immagino, là, in città, a spaccare i coglioni a tutti con quella storia del West. Aveva delle mappe e sulle mappe c’era una valle, al di là dei Monti Sohones: un paradiso, diceva lui. Convinse sedici famiglie. Diciassette con la sua: due sorelle e un fratello, Mathias. Ne parlarono anche i giornali: la carovana di Arne Dolphin.
Viaggiarono per sei mesi andando lontani come nessuno era mai andato.
Si erano persi da settimane, ormai, quando arrivarono in questa terra. Non c’era niente. Solo indiani, nei canyon intorno, nascosti nei loro villaggi invisibili. Arne Dolphin fece fermare la carovana per la notte. Non so dove pensasse di andare, il giorno dopo. Comunque non ci andò mai.
Al mattino qualcuno tornò dal fiume e disse che laggiù l’acqua brillava. Oro. Cercavano boschi, terra grassa, pascoli. Trovarono l’oro. Arne Dolphin decise che sarebbe dovuto rimanere un segreto.
Propose agli altri sedici capifamiglia un patto. Cinque anni a lavorare isolati dal mondo, poi ognuno sarebbe potuto andare per la sua strada, col suo oro. Accettarono.
Nacque Closingtown: la città che non era su nessuna mappa al mondo.
Lavoravano duro. Arne Dolphin era riuscito a mettere in mezzo anche gli indiani. Non so come ci riuscì, ma a poco a poco li convinse a lavorare per lui. Era affascinato da quella gente.
Aveva imparato la loro lingua, studiava il loro mistero. Divenne la sua passione. Passava le ore a interrogarli, a farsi raccontare, a imparare strane cerimonie. Gli indiani lo rispettavano, gli avevano dato anche un nome dei loro, era diventato loro fratello. Indiani, poker e orologi: erano le tre cose per cui andava pazzo. A sentir lui, anzi, erano una sola cosa, le tre facce di una sola cosa. Chissà che voleva dire. Indiani, poker e orologi. Le donne le guardava appena, bere non beveva, e del denaro sembrava fregargli relativamente. Si sentiva il padre di tutto quello, l’inventore di tutto ciò che stava succedendo: questo gli bastava. Doveva essere un po’ come sentirsi dio. Mica male come emozione.
Ogni tanto, dal deserto, arrivava qualche disperato, o qualche carro di coloni disperso. Arne Dolphin li accoglieva, gli raccontava dell’oro, gli spiegava le regole, e se sgarravano li ammazzava.
Di processi non si parlava nemmeno. Arne Dolphin non amministrava giustizia: lui era la giustizia. Ogni tanto qualcuno dei nuovi arrivati ci provava, a scappar via, a portare la notizia al mondo: partivano lui e suo fratello Mathias, e lo inseguivano. Tornavano qualche giorno dopo con legate alle selle le teste mozzate di quei poveracci. Gli bruciavano anche gli occhi, perché il messaggio fosse più chiaro. Era un uomo mite, allegro e feroce.
Non so se gli altri avessero paura di lui. Ma non ne avevano bisogno. Era l’uomo che si era inventato il mondo in cui stavano vivendo. Prima di temerlo, lo amavano. Gli dovevano tutto, e lui assomigliava maledettamente a ciò che ciascuno di loro avrebbe sognato essere. No, avevano solo fiducia cieca, in lui, addirittura fede, se vuoi. Per dire: tutto l’oro che trovavano lo consegnavano a lui. Dico sul serio. E lui lo nascondeva in un posto sicuro. Un posto che solo lui e suo fratello conoscevano. Era un buon sistema per evitare che a qualcuno venisse voglia di andarsene via prima 129
del tempo, fregando tutti gli altri. Era un buon sistema per non farsi rubare tutto dai primi banditi di passaggio. Arne Dolphin, l’oro, lo faceva letteralmente sparire: ce n’era più a Closingtown che in tutte le banche di Boston, ma se arrivavi in città, e non lo sapevi, non ne trovavi un grammo, una pagliuzza, niente.
Erano tutti d’accordo che se lo sarebbero divisi alla fine dei cinque anni. Nessuno voleva sapere dov’era, prima di quel momento. Lo sapevano Arne Dolphin e suo fratello Mathias. Tanto bastava. Closingtown non era una città: era una cassaforte.
Dopo tre anni, tre anni e mezzo, il fiume smise di portare pagliuzze d’oro. Per un po’
aspettarono, ma non successe niente.
Allora Arne Dolphin mandò suo fratello con qualche indiano a risalire il corso del fiume.
Pensavano di trovare sui monti un filone o qualcosa del genere. Tornarono dopo un mese. Non avevano trovato niente. Quella notte, a casa loro, successe il pasticcio.
Una discussione tra i due fratelli, forse qualcosa di più. Il mattino dopo Arne era sparito.
Mathias andò a vedere dove tenevano l’oro, e trovò il deposito vuoto. La gente non ci voleva credere. Mathias prese con sé cinque uomini e senza dire una parola partì con loro al galoppo verso il deserto. Qualche giorno dopo videro tornare i loro cavalli, al passo. Legate alle selle, c’erano le loro teste, con gli occhi bruciati. L’ultimo cavallo era quello di Mathias.
L’ultima testa era la sua. Fine della storia, ragazzo. Se chiedi in giro ne sentirai di tutti i colori, ognuno c’ha la sua teoria su come abbia fatto Arne Dolphin a portarsi via tutto quell’oro. Ma la verità è che nessuno lo sa. È che quell’uomo era un genio, a modo suo. Nessuno l’ha mai più visto. E più niente è successo, dal giorno in cui se ne è andato. Questa è una città di fantasmi. È
morta quel giorno. Amen.
Phil Wittacher lascia passare qualche istante.
Silenzio.
- Quando è successo? -, chiede.
- Trentaquattro anni, due mesi e venti giorni fa.
- Phil Wittacher tace. Pensa.
- Perché non andarono a cercarlo?
- Lo fecero. Pagarono il miglior cacciatore di taglie che trovarono, e glielo mandarono dietro.
- Risultato?
- L’ho inseguito per vent’anni, l’ho sfiorato mille volte, e non sono mai riuscito nemmeno a vederlo in faccia.
- Lei?
- Io.
- Ma lei è un giudice.
- I giudici sono poliziotti stanchi.
- Stando qui non lo prenderà mai.
- Sbagliato, ragazzo. Se perdi un cavallo puoi fare due cose: corrergli dietro, o fermarti dove c’è l’acqua e aspettare che abbia sete. Alla mia età si corre male ma si aspetta da dio.
- Aspettarlo qui? Perché mai dovrebbe tornare?
- Sete, ragazzo.
- Sete?
- Conosco quell’uomo meglio del mio uccello. Tornerà.
- Magari è morto, magari sta sotto terra da anni.
Il giudice scuote la testa e sorride. Fa un cenno verso i giornali, chili di carta che impregnano la stanza di parole.
Indiani, poker e orologi. Cambia nome, cambia città, cambia faccia, ma non è difficile riconoscerlo. Anche lo stile è sempre quello. Megalomane, mite, allegro e feroce. Non è uno a cui piace nascondersi. Fuggire sì, in quello è un maestro, ma quanto a nascondersi… non sarebbe da lui.
Basta saper leggere bene i giornali, ed è come stare attaccati alle palle del suo cavallo.
Phil Wittacher guarda il giudice. Ha le mani che esplodono di grasso, e le unghie lunghe e 130
s porch e. Le dita nere di inchiostro.
Ha occhi belli, di un blu ragazzo. Vagolano a caso, a fissare nell’aria anime ballerine. Phil Wittacher li sta a guardare fino a che loro non se ne accorgono, si girano verso di lui e lo fissano, aspettando. Allora dice
- Grazie.
Si alza. Rimette la sedia dove l’aveva presa. Va verso la porta.
Sulla parete vede la foto incorniciata di una ragazza che fa finta di leggere un libro. Ha i capelli raccolti sulla nuca, e il collo sottile, perfetto. C’è anche qualcosa scritto, a mano, inchiostro blu.
Cerca di leggere, ma è in una lingua che non conosce. Pensa a Bird, e a quella storia di lui che per anni impara a memoria i dizionari di francese, dalla A alla Z. Mica scemo, pensa guardando quel collo sottile e perfetto. Ha la mano sulla maniglia della porta quando si ferma, e si volta verso il giudice.
- E l’orologio?
- Quale orologio?
- Il Vecchio.
- Il giudice solleva le spalle.
- Tipico di Arne Dolphin. Voleva costruire il più grande orologio del West. E lo fece. Mise sotto gli indiani a lavorare, e lo fece.
- Il giudice si sporge per sputare. Poi ricade sdraiato.
- Se vuoi sapere la verità, io non l’ho mai visto funzionare.
- Già.
- L’hai capito cos’ha di rotto là dentro?
- Non è rotto. È fermo.
- Fa differenza?
- Phil Wittacher gira la maniglia, sente lo scatto della serratura.
- Sì -,dice.
Apre la porta ed esce nella luce che aggrappata alla polvere frulla l’aria festiva del mezzogiorno, portando i pensieri a volteggiare come trapezisti innamorati nella terra bruciata da quel sole senza requie, diceva Shatzy, anzi quasi lo cantava, come se fosse stata una ballata e ridendo, questo me lo ricordo bene rideva.
Anche quando io iniziai a tornare a casa, un paio di giorni la settimana, continuai a vederla, e ad ascoltarla, quando le veniva voglia di raccontare. Aveva un registratore, sempre, così quando le venivano delle idee le diceva lì dentro ed era un modo per non perderle. Pensai che potesse essere una buona idea. Che forse era un buon modo di mettere ordine fra le proprie cose. Per un certo periodo desiderai averlo anch’io, un registratore come quello. Così, se mi fosse capitato di vedere tutto lucidamente, tutto quello che era successo e tutto quello che non era successo, avrei potuto parlarci dentro. E avrei spiegato a me stessa come stavano le cose. Strane idee ti vengono in mente, ogni tanto.
Una volta Shatzy mi disse che lei aveva conosciuto il mio bambino.
Giravano anche molte voci, su di lei, all’ospedale. Dicevano che andava coi dottori. Che ci andava a letto, insomma. Non so.
Non ci sarebbe stato niente di male. Ce n’erano di sposati ma anche di non sposati e poi, in fondo, cosa vuol dire? Mio marito Halley diceva che era una buona ragazza. Chissà se lui mi è stato fedele quando proprio non c’ero con la testa, quando a mala pena lo riconoscevo. Sarebbe carino se lo avesse fatto. Sarebbe una cosa da riderci su per anni.
Non per farvi fretta, mister Wittacher, ma credete di essere sulla buona strada per capire cosa non funziona nel Vecchio? - dice Julie Dolphin.
- Funziona tutto.
- Ci prendi per il culo?
- Non è rotto. È fermo.
131
- Fa differenza?
Prende il suo cappello in mano, Phil Wittacher.
- Sì - dice a se stesso.
Il mio bambino si chiamava Gould.
32.
Tutto quel giorno di caldo e vento Phil Wittacher lo passa chiuso dentro il Vecchio. Un orologio idraulico, dice a se stesso mentre apre le condotte della cisterna e lascia scendere l’acqua seguendola a ogni svolta giù per il meccanismo della ricarica. Ripete l’operazione per decine di volte. Non riesce a capire. Si siede. Stanco. Pensa. Si alza. Segue un filo che solo lui conosce e che lo porta in giro dentro il Vecchio, da un ingranaggio all’altro, fino al quadrante smaltato, con le sue belle tredici carte di quadri. Le guarda. A lungo.
Ore.
Poi capisce.
Alla fine capisce.
- Figlio di puttana.
Dice.
- Geniale figlio di puttana.
Scende dal Vecchio con la testa svuotata dalla fatica. Nel vuoto ronzano domande una dopo l’altra. Tutte iniziano con: Perché?
Non torna nella sua camera, punta diritto alla casa delle sorelle Dolphin. Odore di legno e verdura. Due fucili appesi sopra alla stufa.
- Cosa successe quella notte fra Arne e Mathias?
Le sorelle stanno sedute in silenzio.
Ho chiesto cosa successe.
Julie Dolphin si guarda le mani, appoggiate in grembo.
- Ebbero una discussione.
- Che discussione?
- Voi riparate orologi, sapere certe cose non può servirvi a niente.
- Quello è un orologio strano.
Julie Dolphin torna a guardarsi le mani, appoggiate in grembo.
- Che discussione? -, chiede Phil Wittacher.
Melissa Dolphin alza la testa.
Il fiume non dava più oro. Sulle montagne non avevano trovato niente. Mathias aveva un’idea. S’era messo d’accordo con altri cinque capifamiglia. L’idea era prendere tutto l’oro e andarsene, di notte.
- Scappare con l’oro?
- Sì.
- E poi?
- Mathias chiese ad Arne se ci stava.
- E lui?
- Arne disse che non voleva saperne. Disse a Mathias che era una carogna, e che lo erano gli altri cinque, e tutti, al mondo. Sembrava in buona fede, sapeva recitare bene quando voleva.
Disse che se quella doveva essere la fine di Closingtown lui non la voleva vedere. Disse che per lui tutto quanto finiva in quel momento. Mi ricordo che prese il suo orologio, un orologio da tasca d’argento, lo diede a Mathias e gli disse: la città è tua. Poi raccolse la sua roba e partì. Disse che non sarebbe mai più tornato.
Non è più tornato.
132
Phil Wittacher pensa.
- E Mathias?
- Era ubriaco. Si mise a spaccare tutto, poi uscì e rimase fuori per ore. Tornò al mattino.
Andò dove tenevano l’oro. Non trovò più niente e capì che Arne si era portato via tutto. Prese con sé altri cinque e partirono al galoppo, sulle tracce di Arne.
- Sempre gli stessi cinque capifamiglia?
- Erano i suoi amici.
- E poi?
- Quattro giorni dopo tornarono i loro cavalli. E alle selle c’erano le loro teste mozzate, con gli occhi bruciati.
Phil Wittacher pensa.
- Che ora era quando arrivarono?
- Domanda stupida, da queste parti.
Phil Wittacher scuote la testa.
Okay. Cos’era, giorno, notte, cosa?
- Sera.
- Sera?
- Sì.
Phil Wittacher si alza. Va verso la finestra. Guarda la strada e la polvere che vola davanti ai vetri.
Fa un po’ fatica, ma alla fine lo chiede:
- È stato Arne ad assassinare il tempo?
Le sorelle Dolphin tacciono.
- È stato lui?
Le sorelle Dolphin stanno là, con la testa china e le mani in grembo. Non si capisce nemmeno bene qual è, delle due, a dire
- Sì. Si è portato via tutto, quando se n’è andato.
Phil Wittacher prende il suo spolverino. E il cappello. Le sorelle Dolphin restano sedute.
Sembra che aspettino una fotografia.
- Quell’orologio… l’orologio d’argento, l’avete mai più trovato?
- No.
- Non era attaccato alla sella, o tra la roba di Mathias?
- No.
Phil Wittacher dice piano: già.
Poi, forte:
- Buona notte.
Esce. Attraversa la città, rientra al saloon, sta per salire alla sua stanza quando vede il solito indiano, vecchio e ubriaco, seduto per terra, appoggiato al muro. Si ferma. Torna fin da lui, e gli si accovaccia di fronte.
Lo guarda e dice:
- Arne Dolphin, ti dice niente questo nome?
Gli occhi dell’indiano sono pietre umide incastonate in una maschera di rughe.
- Mi senti?… Arne Dolphin, il vostro amico Arne, il grande Arne Dolphin.
Gli occhi dell’indiano non si muovono.
- Dico a te… Arne Dolphin, quella immensa canaglia bastarda di Arne Dolphin, il grande figlio di puttana.
E poi, più a bassa voce:
- L’assassino del tempo.
Gli occhi dell’indiano non si muovono.
Phil Wittacher sorride.
- Te ne ricorderai, quando servirà.
Chiude e apre le palpebre, l’indiano.
133
Lo farà ripartire quell’orologio?, chiedevo a Shatzy, e glielo chiedevano un po’ tutti. Lei rideva. Magari non lo sapeva neanche lei. Non so come si facciano i western. Voglio dire, se sai già all’inizio come vanno a finire oppure lo scopri dopo, a poco a poco. Non ne ho mai fatti, di western.
Una volta ho fatto un bambino. Ma quella è una storia strana. E lì proprio non lo sapevi, prima, come andava a finire. Dice il dottore che quando sarò guarita dovrò mettermi lì, con pazienza, e raccontarmela. Ma non so quando succederà. Mi ricordo che si chiamava Gould, e anche tante altre cose, alle volte belle, che però mi fanno male, tutte.
Era l’unica cosa che odiavo, in Shatzy. Lei parlava di quel bambino, del mio bambino, come se niente fosse, e io questo non lo sopportavo, non volevo che lei ne parlasse, non so neanche come potesse essere sua amica, avrà avuto quindici anni più di lui, non volevo sapere cosa c’era tra di loro, non lo voglio sapere, portate via quella ragazza, non voglio più vederla, dottore lasciatemi in pace, che ci fa quella ragazza qui?, portate via quella ragazza, io la odio, portatela via o la ucciderò.
Diceva che Gould non aveva più bisogno di niente e di nessuno.
Rimase qui per sei anni. A un certo punto se n’era partita per Las Cruces, diceva che aveva trovato un lavoro in un supermercato, là. Ma poi, dopo qualche mese, la vedemmo ritornare. Non le andava che nel posto in cui lavorava era tutto un’offerta speciale.
Disse che passava il tempo a costringere gente a consumare più di quanto non avesse bisogno, e questo era idiota. Ricominciò a lavorare nell’ospedale. Qui in effetti è difficile che ogni due crisi isteriche te ne regalino una terza tirandoti dietro un buono per l’estrazione a sorte di un elettroshock gratis. In questo senso non le si poteva dare torto. Abitava da sola, in un alloggio qui vicino. Le dicevo sempre che doveva sposarsi. Lei mi diceva: Già fatto. Ma poi non mi ricordo più com’è che andava avanti la storia. Certo non aveva nessuno. È strano, ma era una ragazza che non aveva nessuno. È la cosa che non ho mai capito di lei: cosa mai facesse per rimanere, alla fine, così sola. Qui all’ospedale tutto andò in malora per quella faccenda del furto. Dissero che aveva rubato dei soldi, dalla cassa della farmacia. Cioè, dissero che lo faceva da mesi, che l’avevano già avvertita, ma niente, lei aveva continuato. Io credevo che non fosse vero, c’era gente che la odiava, qui dentro, capacissimi di farle le scarpe. Così le dissi che non ci credevo, che pensavo fosse tutta una montatura. Lei non disse niente. Prese le sue cose e se ne andò. Halley, mio marito, le trovò un lavoro da segretaria in un’Associazione per le vedove di guerra. Detto così non sembra, ma era abbastanza divertente. Le vedove di guerra fanno un sacco di cose che non ti immagineresti mai.
Ogni tanto andavo a trovarla. Aveva la sua scrivania, il lavoro non era pesante. Aveva un sacco di tempo per starsene li a fare il suo western.
Phil Wittacher si alza, dà ancora uno sguardo al vecchio indiano e va verso lo scalone.
- È come spremere sangue da un sasso. Sono anni che non gli sento dire una parola -‘ dice Carver, mentre asciuga l’ennesimo bicchiere.
- Già.
- Whiskey?
- Forse è un’idea.
- Whiskey.
Phil Wittacher si appoggia al bancone.
Carver gli versa un bicchiere.
Phil Wittacher cerca di non pensare. Ma pensa.
- Carver.
- Sì.
- C’era qualcuno in questa dannata città che odiasse Arne Dolphin?
- Prima che se ne andasse?
- Adesso sono buoni tutti.
- Già.
- Ma prima?
Carver solleva le spalle.
134
- Chi non ha qualche nemico a questo mondo?
Phil Wittacher beve. Posa il bicchiere.
- Carver.
- Sì?
- Mathias, suo fratello Mathias, lo odiava?
Carver si ferma. Guarda Phil Wittacher.
- Hai mai avuto un fratello che era dio?
- No.
- Be’, l’avresti odiato, ogni giorno della tua vita, in segreto e con tutta la forza del mondo.
Sulla scrivania aveva due foto incorniciate. Shatzy. Una era di Eva Braun, l’altra di Walt Disney.
33.
Phil Wittacher nel sole del mezzogiorno, in piedi appoggiato al muro del saloon, con il cappello calato sugli occhi e il fazzoletto alzato sulla bocca per difendersi dalla polvere. Guarda il quadrante del Vecchio, lancette e numeri da giocatore di poker.
Si mette a camminare. Gli piace camminare con il vento alle spalle. Non fa rumore, e guida lui.
Pensa che è una storia di vecchi e che lui non c’entra niente.
Si ripete con allegria che lui è solo un orologiaio. Dice a voce alta - Via da qui, è ora di andarsene, mi spiace ma non è un lavoro per me, saluti a tutti. - Pensa che non ha una sola ragione per rimanere e per far partire quell’orologio. Poi si ferma. Guarda davanti a sé. Vede Melissa Dolphin: spazza la strada davanti a casa, frullata dal fiume di polvere rotondo, con irragionevole cura, e inutile, spazza. Le volano i capelli bianchi via dall’ordine che con mani anziane, davanti allo specchio, avrà provato a dettargli quella mattina, come ogni mattina. Sembra un fantasma esile, paziente, invincibile e vinto.
Diceva Shatzy che precisamente a quel punto Phil Wittacher si voltò, sputò per terra, e dato che aveva il vento contro praticamente si sputò sui pantaloni. Poi mandò tutti a fare in culo.
34.
Phil Wittacher entra nella casa del giudice. Penombra, puzza di merda e sigaro. Giornali dappertutto.
Prende una sedia e la avvicina al letto. Si siede.
- Sempre dell’idea che il cavallo verrà prima o poi a bere?
- Puoi scommetterci, ragazzo.
- Non sembra avere una gran sete.
- Gli verrà. Non ho fretta.
- Io sì.
- E allora?
- Se non ha sete gliela facciamo venire.
Phil Wittacher lo dice allungando al giudice un foglietto scritto a macchina. Il testo dice che domenica 8 giugno, alle ore 12 e 37, con grande solennità, Phil Wittacher, della Wittacher e Figlio, farà ripartire lo storico orologio di Closingtown, il più grande di tutto il West. Cibo, bevande e 135
sorpresa finale.
Phil Wittacher fa un cenno verso le cataste di giornali.
Ho fatto uscire questa notizia in modo che lui la possa leggere. In fondo è trentaquattro anni che manda messaggi: era ora di rispondere.
Il giudice si solleva dai cuscini, mette giù le gambe dal letto, rilegge per bene il foglio.
- Non penserai che quel bastardo sia così matto da venire.
- Verrà.
- Stronzate.
- Mi credete se vi dico che verrà?
Il giudice lo guarda come se fosse un problema di algebra.
- E tu come lo sai, coglioncello?, sei nella testa di Arne Dolphin, per caso?
- Io so dov’è, cosa sta facendo, e cosa farà domani. Io so tutto di lui.
Il giudice si mette a ridere e molla una scorreggia micidiale.
Ride come un matto per minuti. Tutta una cosa di bronchi e catarro. Ma con dell’argento in mezzo. Ridiventa serio tutto d’un colpo.
- Va bene, orologiaio, che io sia dannato se ci capisco qualcosa, ma okay.
- Si sporge in avanti e avvicina il faccione a quello di Phil Wittacher.
- Non mi dirai che lo fai partire davvero, quell’orologio?
- Quello è affar mio, parliamo di quello che farà lei.
- Semplice. Appena il bastardo mette piede in città gli pianto un proiettile in mezzo agli occhi.
- Chiunque in questa città potrebbe farlo. Non si butti via. Per lei ho pensato a qualcosa di più raffinato.
- Sarebbe?
- Non piantargli un proiettile in mezzo agli occhi.
- Sei scemo?
- Quell’uomo, in questa città, è un uomo morto. A me serve vivo. Risolva lei il problema.
- Vivo in che senso?
- Giudice: io glielo porto qui. Lei trovi un modo per farlo sedere a un tavolo con me. Tempo di raccontarci un paio di storie. Poi ne faccia quello che vuole. Ma lo voglio a quel tavolo, senza testimoni, e senza proiettili in mezzo agli occhi.
- Non sarà semplice: quell’uomo è una bestia feroce. Se gli lasci il tempo, sei un uomo morto.
- Gliel’ho detto che era un lavoro degno di lei.
- Non sarà una passeggiata.
- No, quindi magari si trovi un altro paio di scarpe.
Il giudice si guarda i piedi.
- Va’ a farti fottere, moccioso.
- Non ho tempo. Devo andare da Bird.
Così va da Bird.
- Bird, tu sai come sparava Arne Dolphin?
- Mai conosciuto.
- Lo so, ma sai cosa si dice di lui?
- Un po’ lento a estrarre. Mira bestiale. Una dote di famiglia a quanto pare. Le sorelle ne avevano fatto uno spettacolino, ai tempi.
- Quella storia del fante di cuori?
- Già.
- Come diavolo facevano?
- Non so. Ma quando ci sono in mezzo le carte da gioco c’è sempre il trucco. Solo le pistole non mentono mai.
Phil Wittacher pensa che non è vero.
- Bird: un uomo contro sei, in campo aperto: ha qualche probabilità di uscirne vivo?
136
- Ci sono sei colpi in una Colt. Quindi sì.
- Lascia perdere la poesia, Bird. Ne esce vivo o no?
- Bird pensa.
- Sì, se i sei sono ciechi.
Phil Wittacher sorride.
- Siamo noi che siamo ciechi, Bird. Vediamo solo quello che ci aspettiamo di vedere.
- Lascia perdere la filosofia, ragazzo. Cosa cazzo sei venuto a chiedermi?
- Sempre dell’idea di morire?
- Sì, quindi sbrigati a far partire quell’orologio.
- Hai impegni per l‘8 giugno?
- A parte pisciare sangue e tirare sassi ai cani?
- A parte quello.
- Lasciami pensare.
Pensa.
- Direi di no.
- Bene. Avrò bisogno di te, quel giorno.
- Di me o delle mie pistole?
- Lavorate ancora insieme?
- Solo nelle grandi occasioni.
- È una grande occasione.
- Nel senso?
- Facciamo ripartire quel fottuto orologio.
Bird strizza gli occhi per guardare bene in faccia Phil Wittacher.
- Prendi per il culo?
- Sono serissimo.
Com’è che quella pistola prima era nella fondina e adesso è puntata alla testa di Phil Wittacher?
- Prendi per il culo?
- Sono serissimo.
Com’è che quella pistola è di nuovo nella fondina?
- Conta su di me, ragazzo.
- Ci servono i tuoi occhi, Bird.
- Brutto affare.
- Come vanno?
- Dipende dalla luce.
- Che carta è questa?
- Bird strizza gli occhi su quella carta scivolata fuori dal polso di Phil Wittacher.
- Fiori?
Phil Wittacher la pizzica con due dita e poi la tira in aria.
Bird estrae e spara. Sei colpi. La carta rimbalza sui sei proiettili come su un tavolo di vetro invisibile. Poi cade come una foglia morta.
- Riusciresti a beccarla a una trentina di metri?
- No.
- E se fosse ferma?
- A una trentina di metri?
- Sì.
- Con un po’ di culo potrei farcela.
- Ho bisogno che tu ce la faccia, Bird.
- Ci vuole un po’ di culo.
- Non sarebbero meglio degli occhiali?
- Va’ a farti fottere, orologiaio.
- Non ho tempo. Devo andare dalle sorelle Dolphin.
137
Così andò dalle sorelle Dolphin.
- Fra due domeniche, alle 12 e 37, farò ripartire il Vecchio.
Le sorelle Dolphin lo guardano senza muoversi. È incredibile, ma sembra a Phil Wittacher di vedere gli occhi di Melissa Dolphin brillare di qualcosa come fosse: lacrime.
- Sarà un gran casino, ma l’avete voluto voi.
Le sorelle Dolphin fanno cenno di sì col capo.
- Mi piacerebbe dirvi di stare chiuse in casa finché tutto non è finito, ma so che tanto non lo farete, quindi preferisco che veniate, e facciate la vostra parte. Però intendiamoci bene: niente improvvisazioni, e rispettare gli ordini.
Le sorelle Dolphin fanno di nuovo cenno di sì col capo.
- Okay. Quando sarà tempo, vi farò sapere. Buona notte, signore.
Spolverino, cappello.
- Mister Wittacher…
- Sì.
- Vorremmo che voi sapeste che…
- Sì?
- Insomma non è facile trovare le parole, ma ci corre l’obbligo di farvi sapere…
- Sì?
Melissa Dolphin non ha più lacrime negli occhi quando dice:
- Niente di personale, ma fra un po’ ti esce l’uccello, ragazzo.
- Prego?
- Quel che vorremmo dire è che forse sarebbe più prudente se voleste abbottonarvi l’apposita apertura dei pantaloni proprio sotto la cintura, mister Wittacher.
Phil Wittacher si guarda. Si abbottona. Rialza lo sguardo sulle sorelle Dolphin.
- Ma cosa ho fatto di male, io?, - pensa.
Più o meno è l’ultimo pezzo di western che io abbia sentito dalla voce di Shatzy. Non so se ne avesse ancora un po’, ma se l’aveva l’ha portato via con sé. Se n’è andata in un modo brutto e questo io dico che è un’ingiustizia, perché ognuno dovrebbe poter scegliere su che musica ballare la propria fine. Dovrebbe essere un diritto, o almeno un privilegio dei grandi ballerini. Io l’ho anche odiata, Shatzy, per un sacco di ragioni. Ma sapeva ballare, se capite cosa voglio dire. Era in macchina con un dottore, di notte, avevano un po’ bevuto, o fumato, non mi ricordo. Pigliarono in pieno un pilone del viadotto, giù a San Fernandez. Guidava lui, e ci rimase secco, sul colpo. Shatzy invece la tirarono fuori che respirava ancora. La portarono all’ospedale e poi fu una cosa lunga, e dolorosa. Si era rotta un sacco di roba, e anche l’osso del collo, come si dice. Alla fine si ritrovò inchiodata in un letto d’ospedale, con tutto fermo per sempre, salvo la testa. Il cervello lavorava ancora, lei poteva guardare, sentire, parlare. Ma tutto il resto era come morto. Era una cosa da spaccarti il cuore. Shatzy era sempre stata una che non mollava facilmente. Aveva del talento se si trattava di spremere dalla vita qualcosa. Ma quella volta c’era poco da spremere. Non parlò per dei giorni, immobile, lì, nel suo letto. Poi un giorno mio marito, Halley, andò a trovarla. E lei gli disse:
- Generale, per pietà, facciamola finita. - Disse proprio così. Per pietà. Il fatto è che mio marito, non so, si era affezionato a quella ragazza, rappresentava qualcosa, per lui, non l’avrebbe mai lasciata andare alla deriva, o cose del genere, non l’avrebbe mai fatto. Così trovò il sistema. La fece portare in un ospedale militare. Lì certe cose sono più facili da fare. I militari ci sono abituati, se così si può dire. Era anche abbastanza ridicolo perché in quell’ospedale c’erano solo ragazzi e lei era l’unica donna. Ci scherzava anche, lei. E il giorno prima di andarsene, quando io andai a salutarla, per così dire, volle che mi avvicinassi e poi mi disse se potevo andare in giro, lì, per l’ospedale e trovare un ragazzo che avesse voglia di venire un attimo fin da lei. Lo voleva carino. Cercai di capire cosa intendeva per carino, ma lei disse solo se potevo trovarlo con le labbra belle. Così io andai e alla fine tornai con un ragazzo che aveva una faccia bellissima, i capelli neri e una faccia bellissima, una cosa da farci un pensierino, davvero. Si chiamava Samuel. Quando fu lì, Shatzy gli disse: Mi baci?
E lui la baciò, ma un bacio vero, una cosa da film, non finiva più. Il giorno dopo un medico fece 138
quello che doveva fare. Credo che si trattasse di un’iniezione. Ma non lo so di preciso. Se ne andò in un attimo.
Ho in casa centinaia di sue cassette registrate, piene di western.
E ho in mente due cose che mi disse di Gould, che non dirò mai a nessuno.
L’abbiamo sepolta qui a Topeka. La frase sulla lapide l’aveva scelta lei. Nessuna data. Solo: Shatzy Shell, niente a che vedere con quello della benzina.
Ti sia lieve la terra, piccola.
35.
Soffia il vento sotto un sole giaguaro, e la strada di Closingtown fuma polvere come la canna di un camino dove stanno bruciando la Terra intera.
Ovunque, il deserto.
Venuto da fuori e penetrato in ogni singola vena della città.
Non un suono, non una voce, non un volto.
Una città abbandonata.
Volano rimasugli di niente, e cani muti vagolano cercando l’ombra dove parcheggiare costole e rimpianti.
Domenica 8 giugno, sole allo zenit.
Da est, dalla nube di polvere, dal passato, appaiono dodici cavalieri, uno di fianco all’altro, cappelli calati sugli occhi, fazzoletto tirato sulla bocca. Pistole alla cintura, e fucile sotto il braccio.
Vengono avanti piano, contro vento, tenendo i cavalli al passo.
Sono sagome ormai distinte quando arrivano alle prime case di Closingtown.
Undici hanno lo spolverino giallo. Uno: nero.
Vengono avanti, piano, una mano alle redini, l’altra al fucile.
Spiano ogni scheggia di città, intorno a loro. Vedono il nulla.
Non parlano, avanzano allineati, uno di fianco all’altro, coprendo la strada in tutta la sua larghezza. Un pettine. Un aratro.
Minuti.
Poi quello vestito di nero si ferma.
Tutti si fermano.
A destra c’è il saloon. A sinistra il Vecchio.
Lancette ferme sulle 12 e 37.
Silenzio.
Si apre la porta del saloon.
Ne esce una vecchia con una nube di capelli bianchi che sfilano via, appena incrociano il vento.
Undici fucili si alzano e la puntano.
Lei si protegge gli occhi dal sole con una mano, attraversa il portico del saloon, scende i tre scalini, si avvicina ai dodici e va a fermarsi davanti a quello vestito di nero. Le canne dei fucili non l’hanno persa di vista un attimo.
- Ciao, Arne -, dice Melissa Dolphin.
L’uomo non risponde.
- Io fossi nei tuoi uomini terrei le chiappe molto strette e non muoverei un muscolo. Hanno più fucili puntati addosso loro che anni spalmati addosso io. Li abbiamo contati: 138. Non gli anni: i fucili.
L’uomo solleva lo sguardo. Canne di fucile, sbucate da tutte le feritoie pensabili, lo stanno guardando.
- Sai, non è che tu abbia lasciato un gran bel ricordo, da queste parti.
139
Gli undici si guardano intorno nervosi, tenendo i fucili abbassati.
Melissa Dolphin si gira e ritorna lentamente verso il saloon, sale i gradini del portico, prova a rimettersi a posto i capelli, apre la porta e sparisce dentro il saloon.
Le 138 canne di fucile restano fisse sui dodici. Non sparano.
Non se ne vanno.
Silenzio.
L’uomo in nero fa un cenno agli altri. Scende da cavallo, lo tiene per le redini, lo porta al passo fino alla staccionata del saloon. Dà un giro di redini intorno alla trave di legno. Infila il fucile nella sella. Si tira giù il fazzoletto dal volto. Barba folta e bianca. Si gira a dare un’occhiata ai 138
fucili. Nessuno punta lui. Tutti dedicati ai suoi amici. Attraversa la veranda, avvicina una mano alla porta e l’altra alla fondina della pistola. Apre.
Entra.
La prima cosa che vede è un vecchio indiano, seduto per terra.
Una statua.
La seconda cosa che vede è un saloon vuoto.
La terza è un uomo seduto a un tavolo lontano, l’ultimo nell’angolo.
Attraversa il saloon e arriva davanti all’uomo. Si toglie il cappello. Lo posa sul tavolo. Si siede.
- Saresti tu l’orologiaio?
- Io -, dice Phil Wittacher.
- Con quella faccia da bambino?
- Già.
L’uomo in nero sputa per terra.
- Che ti frega di quell’orologio? -, dice.
- Non è un orologio. È una cassaforte.
L’uomo in nero sorride.
- Piena -, aggiunge Phil Wittacher.
L’uomo in nero fa uno schiocco con la lingua.
- Bingo - dice. - Geniale. Apri la cisterna, l’acqua scende, fa partire il meccanismo e il meccanismo fa partire le lancette. Solo che se provi non funziona. E sai perché?
- Dimmelo tu.
- Perché funziona al contrario. Tu fai girare le lancette, loro fanno partire il meccanismo, il meccanismo fa partire l’acqua, l’acqua sale, mette in azione tre pistoni che aprono una cella sotterranea e pompano da sotto terra altra acqua: zeppa d’oro e ferma lì da trentaquattro anni, tre mesi e undici giorni. Sembra un orologio. Ma è una cassaforte. Geniale.
- Congratulazioni. Sai un sacco di cose.
- Più di quante tu creda, Mathias.
Come una scossa elettrica. Per un istante l’uomo in nero è un uomo che sta per alzarsi, estrarre due pistole e sparare. L’istante dopo è un uomo che sente una voce urlare:
- Fermo!
Il terzo istante lo usa per fermarsi. Il quarto per risedersi. Il quinto per voltarsi lentamente, tenendo le mani sul tavolo.
Il giudice ha due stivali lucidi con stelle colorate, borchie e tutto. Si è pettinato col profumo, e ha perfino la barba rasata di fresco. Sta in piedi all’altro capo del saloon, con un fucile puntato sull’uomo in nero.
- La conversazione non è ancora finita - dice.
- L’uomo in nero torna a fissare Phil Wittacher.
- Cosa vuoi da me?
- Raccontarti una storia, Mathias.
- Sbrigati allora.
- Hai degli impegni?
- Ammazzare quel pancione là dietro e portare via la pelle da questo stupido paese.
140
- È un tipo paziente. Aspetterà.
- Sbrigati, ho detto.
- Okay. Trentaquattro anni, tre mesi e undici giorni fa. Notte. Tu proponi a tuo fratello Arne di scappare con altri cinque e tutto l’oro. Lui si rifiuta. Capisce che tutto è finito, e che il resto sarà una schifosa guerra per quell’oro. Fa una cosa che solo tu puoi comprendere: ti regala il suo orologio d’argento.
- Poi prende la sua roba e parte, in piena notte. Dev’essere intollerabile avere un fratello così giusto, vero Mathias? Mai un errore. Un dio. Com’è stato vivere nella sua ombra per anni, decine d’anni? È una di quelle cose che può farti impazzire, vero? Ma tu non sei impazzito. Anzi. Hai aspettato. E quella notte il tuo momento è arrivato. Mi sembra di vederti, Mathias.
Vai all’orologio, apri la cassaforte, la trovi piena, porti via tutto l’oro che puoi nascondere nella sella del tuo cavallo. La mattina esci correndo da casa, gridando che Arne se n’è scappato con tutto l’oro, prendi i tuoi cinque amici e lo insegui. Lo raggiungete che è ancora nel deserto. Arne è uno contro sei: non può farcela. Quanti riesce a farne secchi prima di morire, Mathias? Due, tre?
- …
- Non importa. A quelli che rimangono ci pensi tu. Non potevano aspettarselo, erano i tuoi amici. Li colpisci alle spalle, magari mentre stanno decapitando tuo fratello, vero? Tagli la testa anche a loro, bruci gli occhi di tutti. Leghi le teste alle selle. E sulla sella del tuo cavallo leghi quella di tuo fratello Arne. Astuto. I cavalli arrivano a Closingtown che è sera. È quasi buio, le teste sono sfigurate, il cavallo è quello tuo. E soprattutto: la gente vede quello che si aspetta di vedere. Un fratello che perde per tutta la vita perché avrebbe dovuto vincere proprio quella volta? Aspettavano te morto e videro te morto. Dovesse accadere altre cento volte, per cento volte rivedrebbero la tua testa, attaccata a quella sella. Ma era di Arne, quella testa.
L’uomo in nero non muove un muscolo.
Phil Wittacher dà un’occhiata fuori dalla finestra. Ci sono undici cavalieri in spolverino giallo e 138 fucili puntati su di loro.
- Il resto è una vendetta lunga trentaquattro anni, tre mesi e undici giorni. Mezza vita a fingerti Arne Dolphin e a goderti ogni giorno il pensiero di una intera città che lo stava odiando, finalmente, quel dio che l’aveva tradita, il ladro, l’assassino del suo buon fratello Mathias, l’uomo che da sempre aveva il suo piano per fotterli tutti, il bastardo che se ne andava in giro a giocare a poker e collezionare orologi, mentre loro qui, a morire lentamente, nel vento. Geniale, Mathias. Hai dovuto rinunciare a tutto quell’oro, ma hai avuto la vendetta che cercavi. Fine della storia.
Mathias Dolphin parla piano, con una voce profonda.
- Chi la conosce oltre a te?
- Nessuno. Ma se vuoi provare ad ammazzarmi non farlo adesso. Il pancione, laggiù, ci sa fare. E cinquanta chili fa era un cacciatore di taglie: non ha grandi problemi a sparare alla schiena.
Mathias Dolphin stringe i pugni.
- Okay, cosa vuoi per il tuo silenzio?
- Il tuo orologio d’argento, Mathias.
Mathias Dolphin istintivamente abbassa lo sguardo sul proprio panciotto di cuoio, nero. Poi torna a mettere gli occhi in quelli di Phil Wittacher.
- Se sei così in gamba, orologiaio, come mai hai bisogno della combinazione per aprire quella cassaforte?
- Non mi interessa aprire la cassaforte. È il Vecchio che mi interessa. E per farlo partire senza romperlo ho bisogno di quella combinazione.
- Tu sei pazzo.
- No. Sono un orologiaio.
Mathias Dolphin scuote la testa. Riesce perfino a sorridere.
Scosta lentamente la falda dello spolverino, sfila via l’orologio dal taschino e con un gesto netto strappa la catena che lo tiene al panciotto. Posa l’orologio sul tavolo.
Phil Wittacher lo prende. Solleva il coperchietto.
- È fermo, Mathias.
141
- Non faccio l’orologiaio, io.
- Già.
Phil Wittacher avvicina agli occhi l’orologio. Legge qualcosa sul lato interno del coperchietto. Posa l’orologio, aperto, sul tavolo.
- Poker di donne e re di quadri -, dice.
- Adesso puoi far partire il Vecchio, se proprio ci tieni.
- Adesso sì.
- Mi sa che sarà una gran bella sorpresa per tutti, quando lo farai, e io non ci tengo a esserci.
Quindi dì al pancione di tirar giù il fucile, adesso devo proprio andarmene.
Phil Wittacher fa un cenno al giudice. Il giudice abbassa il fucile. Lentamente, Mathias Dolphin si alza.
- Addio, orologiaio.
Dice. Si volta. Guarda negli occhi il giudice.
- Sbaglio o ci siamo già visti, noi due?
- Forse.
- Eri giovane e arrivavi sempre un attimo in ritardo. Eri quello lì?
- Forse.
- È curioso: la gente fa per tutta la vita lo stesso errore.
- Sarebbe?
- Tu arrivi sempre un attimo in ritardo.
Poi estrae e spara. Il giudice fa appena in tempo a sollevare il fucile. Un proiettile lo colpisce al petto e lo sbatte per terra contro la parete. Al rumore dello sparo fuori si scatena l’inferno.
Mathias si butta su Phil Wittacher e, sdraiato su di lui, per terra, gli punta la pistola alla testa.
- Okay, orologiaio, questa mano la gioco io.
Fuori è sparatoria infernale. Mathias si alza tirando su Phil Wittacher come uno straccio.
Attraversa il saloon tenendoselo stretto e cercando di evitare di stare allo scoperto, davanti alle finestre. Passano davanti al giudice: accasciato per terra, con il petto sanguinante e il fucile ancora stretto in mano. Fatica a parlare, ma parla.
- Te l’avevo detto, ragazzo. Non bisognava lasciargli il tempo.
Mathias lo colpisce con un calcio in faccia, il giudice crolla disteso.
- Carogna - dice Phil Wittacher.
- Sta’ zitto. Devi solo stare zitto. E camminare. Piano.
- Si avvicinano alla porta. Passano di fianco al vecchio indiano, seduto per terra. Mathias neanche lo guarda. Resta al riparo, dietro allo stipite della porta.
Sente la sparatoria morire, quasi di colpo, come ingoiata dal nulla.
Ancora qualche sparo isolato.
Poi silenzio.
Silenzio.
Mathias spinge avanti Phil Wittacher, tenendogli la canna della pistola puntata alla schiena.
- Apri la porta, orologiaio.
Phil Wittacher la apre.
La strada centrale di Closingtown è un cimitero di cavalli e spolverini gialli.
Solo vento, polvere e cadaveri. E decine di uomini, con le armi in mano, appostati sui tetti, ovunque. In silenzio.
A guardare.
- Okay, orologiaio, vediamo se ti vogliono bene, in questo paese.
Lo spinge fuori ed esce dietro di lui.
Luce, vento, polvere.
Tutti li guardano.
Mathias spinge Phil Wittacher fino ad attraversare il portico e a scendere nella strada. Vede il suo cavallo ancora legato al suo posto. È l’unico cavallo ancora in piedi. Si guarda intorno. Tutti lo stanno guardando. Tutti hanno il fucile abbassato.
142
- Che cazzo gli prende, orologiaio? Hanno finito la voglia di ammazzare?
- Credono che tu sia Arne.
- Che cazzo dici?
- Non ammazzerebbero mai Arne.
- Che cazzo dici?
- Vorrebbero, ma non ci riescono. Preferiscono che lo faccia lui per loro.
Phil Wittacher fa un cenno verso il centro della strada.
Mathias guarda. Cappello lucido nero, spolverino chiaro, fino a terra, stivali luccicanti, due pistole al cinturone, impugnature d’argento. Viene avanti tenendo le braccia incrociate e sfiorando con le mani le pistole. Sembra un prigioniero o un matto. Un uccello con le ali chiuse.
- Chi cazzo è?
- Uno che spara più veloce di te.
- Digli che se non si ferma ti faccio saltare le cervella.
- Lo farai comunque, Mathias.
- Diglielo!
Phil Wittacher pensa: - sei magnifico, Bird. Poi urla:
- BIRD!
Bird continua a camminare, lento. Dietro di lui il Vecchio guarda la scena coi suoi occhi fatti di carte da poker.
- BIRD, FERMATI. BIRD!
Bird non si ferma.
Mathias preme la canna della pistola sulla nuca di Phil Wittacher.
Ancora tre passi e sparo, ragazzo.
- BIRD!
Bird fa tre passi e poi si ferma. È a una ventina di metri dai due. Rimane immobile.
Phil Wittacher pensa: che storia. Poi dice, nel vento:
- Bird, lascia stare. Partita persa. Le carte buone le ha lui.
Pausa.
- Poker di donne e re.
Allora spalanca le ali, Bird. Ma girando su se stesso, lo spolverino che si apre nel vento.
Quattro colpi rapidissimi, sparati in faccia al Vecchio.
Donna.
Donna.
Donna.
Donna.
Mathias mira a Bird e spara.
Due colpi in mezzo alla schiena.
Bird cade, ma cadendo spara ancora.
Quinto colpo.
Re.
Il Vecchio fa: CLAC.
Da una finestra del saloon, Julie Dolphin allinea occhio, mirino, uomo, e dice Addio fratello, e preme il grilletto.
La testa di Mathias esplode di sangue e cervello.
L’indiano, nel saloon, canta piano e intanto apre un pugno e lascia scivolare tra le dita della terra d’oro.
L’orologio d’argento, là sul tavolo, inizia a ticchettare.
La lancetta del Vecchio trema e poi si muove.
12 e 38.
Phil Wittacher è in piedi, sporco di sangue. Che stanchezza, pensa.
Nel silenzio, il Vecchio si scuote e mormora qualcosa con una voce che sembra un tuono sparato dal centro della terra.
143
Tutta Closingtown lo guarda.
Forza Vecchio, dice Phil Wittacher.
Silenzio.
Poi come un’esplosione.
Il Vecchio si spalanca.
Un fiotto di acqua sale nel cielo.
Brilla nella luce del mezzogiorno e non la smette più, fiume luccicante sparato nell’aria.
Acqua e oro.
Tutta Closingtown col naso all’insù.
Phil Wittacher con gli occhi a terra. Si china, prende un pugno di polvere. Si rialza. Apre le dita.
Non c’è vento, qui, pensa.
Bird chiude gli occhi.
L’ultima cosa che dice è:
- Merci.
Bird lo seppellirono con le braccia incrociate sul petto: le mani sfioravano le pistole, anche loro lì, nella bara, sfavillanti. In molti portarono la cassa fin sul colmo della collina, perché pensavano sarebbe stato un onore, anni dopo, dire: l’ho accompagnato io, Bird, quel giorno, all’altro mondo.
Avevano scavato una bella fossa, larga e profonda, e messo una pietra, scura, col suo nome.
Calarono la cassa nella buca e poi tutti si tolsero il cappello e si girarono verso il pastore. Il pastore disse che lui non aveva mai sepolto nessun pistolero, e che non era sicuro di sapere cosa dire.
Chiese se quell’uomo avesse mai fatto qualcosa di buono, in vita sua. Chiese se qualcuno ne sapesse qualcosa. Allora il giudice, che aveva un proiettile dalle parti della spina dorsale ma non gliene fregava un cazzo, disse che Bird aveva colpito quattro donne e un re, da trenta metri, senza sprecare una pallottola. Chiese se poteva bastare. Il pastore disse che temeva di no. Allora si aprì un dibattito, e tutti provarono a scavare nella memoria per riuscire a ricordarsi una cosa buona, anche una sola, che Bird avesse fatto nella vita. Era buffo, ma gli tornavano in mente solo un sacco di carognate.
Alla fine, tutto quello che riuscirono a trovare fu quella storia che lui aveva studiato il francese.
Aveva l’aria di essere una cosa quanto meno gentile. Chiesero al pastore se poteva bastare. Il pastore disse che era come pescare trote in un bicchiere di whiskey. Allora il giudice gli puntò addosso una pistola e disse:
- Pesca.
Così il pastore disse un sacco di cose interessanti sulle possibilità di redimere una vita di peccati coltivando lo studio delle lingue. Non se la cavò male. Amen, dissero tutti alla fine, ed erano abbastanza convinti. Riempirono la fossa di terra, e se ne tornarono a casa.
Coi soldi trovati addosso a Bird fecero venire dalla città un mariachi. Lo portarono sulla collina e poi gli chiesero quante canzoni poteva suonare per quella cifra. Lui fece due calcoli poi disse: Milletrecentocinquanta. Gli diedero i soldi e gli dissero di cominciare, e che facesse pure con comodo, tanto Bird non aveva fretta. Lui prese la chitarra e iniziò. Cantava canzoni in cui tutto andava molto di sfiga, ma la gente, inspiegabilmente, era abbastanza felice. Andò avanti per sette ore. Poi arrivarono dalla città le prime fucilate. Lui capì l’antifona, salì sul suo mulo, e tagliò la corda. Però era un mariachi onesto, e non smise di cantare fino a quando non sparì all’orizzonte, e poi per giorni e mesi e anni.
Ecco perché, da quelle parti, quando la gente sente cantare un mariachi, alza il bicchiere e dice: Alla tua, Bird.
Non un alito di vento, e folate limpide di rosso tramonto sull’orizzonte di Closingtown. Phil Wittacher si preme il cappello sulla testa e sale a cavallo. Guarda lontano, davanti a sé. Poi si gira verso le sorelle Dolphin: immobili, in piedi, i capelli bianchi ben ordinati in una geometria senza errori.
144
Silenzio.
Il cavallo abbassa la testa un paio di volte, poi alza il muso, ad annusare l’aria.
Julie Dolphin ha gli occhi che luccicano di lacrime. Tiene le labbra strette. Fa un cenno con la mano, piccolo, ma a Phil Wittacher sembra bellissimo.
- Culo stretto e pistole cariche ragazzo - dice Melissa Dolphin. Il resto è poesia inutile.
Phil Wittacher sorride.
- Non è un duello, la vita - dice.
Melissa Dolphin spalanca gli occhi.
- Certo che lo è, idiota.
Musica.
-
THE END.
EPILOGO.
- No, è una cosa completamente diversa.
- Pensi che sia una questione di esperienza, o… di saggezza, se vogliamo usare questo termine?
- Di saggezza?… non so, credo che sia piuttosto… diciamo che è diverso il modo in cui senti il dolore…
- In che senso?
- Voglio dire… quando sei giovane il dolore ti colpisce ed è come se ti sparassero… è la fine, ti sembra che sia la fine… il dolore è come uno sparo, ti fa saltare in aria, è come un’esplosione… ti sembra senza rimedio, una cosa irrimediabile, definitiva… il punto è che non te l’aspetti, questo è il nocciolo della faccenda, che quando sei giovane il dolore non te lo aspetti, e lui ti sorprende, ed è lo stupore che ti frega, lo stupore. Lo stupore, capisci?
- Sì.
- Da vecchio… cioè, quando invecchi… non esiste più quella cosa dello stupore, non riesce più a prenderti di sorpresa… lo senti, questo sì, ma è solo stanchezza che si aggiunge a stanchezza, non esplode più niente, capisci?, è solo come se ti aggiungessero qualche chilo sulle spalle… è come camminare ed avere le scarpe sempre più fradice, di fango, e pesanti. A un certo punto ti fermi, e li finisce. Ma non salti in aria, come da giovane, non è più quella cosa là. Per questo la boxe la puoi fare finché campi, se vuoi. Non ti fa più male, secondo me dopo un po’ non ti fa più male. Un giorno sei troppo stanco e te ne vai, tutto lì.
- Tu hai lasciato per stanchezza?
- Ho pensato che ero stanco. Tutto lì.
- Stanco di pugni?
- No… i pugni mi piacevano ancora, darli e prenderli, boxare mi piaceva… non mi andava di perdere, certo, ma avrei potuto continuare per un bel po’ continuando a vincere… non so… a un certo punto ho pensato che non avevo più voglia di stare là sopra… là sopra tutti ti guardano, non c’è scampo, sei negli occhi di tutti, anche se ti caghi addosso ti vedono, non puoi far nulla che ti vedono, e io ero stanco, di quello… penso che tutto d’un colpo mi è venuta una voglia bestiale di stare in un posto in cui nessuno poteva vedermi. Così sono sceso. Tutto lì.
- Sei sceso in un modo clamoroso, però, nel bel mezzo di una sfida per il mondiale…
- Quarta ripresa, con Butler, sì…
- Be’, fece molta impressione, sono immagini che sono diventate famose, tu che improvvisamente smetti di combattere, ti giri…
- Odio quelle immagini, ci faccio una figura da stupido, o da vigliacco, e invece era tutta un’altra cosa… è che non puoi sceglierti tu il momento in cui ti accorgi delle cose importanti, io me 145
ne sono accorto là sopra, nel bel mezzo di quell’incontro, d’improvviso mi è sembrato tutto così meravigliosamente chiaro, ed era così evidente che dovevo scendere da lì, e trovare un posto dove non fossi sotto gli occhi di tutti, non importava se ero nel bel mezzo dell’incontro, non aveva nessuna importanza…
- … era una sfida di cui si era parlato per mesi e mesi…
- … sì…
- … era un campionato del mondo…
- Sì, va be’, ma… okay, era un campionato del mondo, che ti devo dire, lo sapevo cos’era un campionato del mondo, non ero uno stupido… Io avevo il campionato del mondo ficcato in testa dal primo giorno che sono entrato in palestra… Fa ridere dirlo, ma non mi importava molto della boxe, mi importava di salire fino a lassù, proprio in cima, campione del mondo. Poi le cose sono cambiate, ma all’inizio… cristo, che ambizione, quando sei un ragazzo puoi sognare delle cose… ci credi veramente, magari la gente ti odia perché sei presuntuoso, o sembri un pazzo megalomane, ed è tutto vero, ma dentro… cristo che forza lì dentro, una forza bella, vita allo stato puro, non come quelli che stanno a far di conto, e a nascondere nel materasso le loro speranze, sai mai la gente poi se ne accorge, quelli che si mimetizzano per fregarti all’ultimo round, magari con un colpo sporco…
oh, io ero insopportabile, ma… Mondini mi detestava per quello, mi ha sempre detestato… ma… è in quegli anni che ho imparato a essere vivo.
- Poi è una malattia che non ti passa più.
- Mondini, lui, cosa ha significato per te?
- Quella non è una bella storia.
- Hai voglia di parlarne, Larry?
- Non so. È girata male, e forse non c’era un modo di farla girare giusta.
- Vi lasciaste dopo l’incontro con Poreda.
- Te lo ricordi quell’incontro, Dan?
- Certo.
- Okay, allora ti dico una cosa. Prima di quella quarta ripresa, te la ricordi?
- L’ultima…
- Sì, prima dell’ultima, nell’angolo, durante il minuto di pausa, be’, Mondini non era già più lì, se n’era andato…
- Non è venuto all’angolo?
- No, non è quello, all’angolo c’era, fece tutte le cose che doveva fare, l’acqua, i sali, e quelle stronzate… ma non c’era più, non era più Mondini, non era più il mio Maestro, era uno che mi aveva abbandonato, mi spiego?
- Poreda ha ripetuto spesso che Mondini gli aveva dato dei soldi per vincere quell’incontro.
- Lascia stare cosa dice Poreda.
- Però lui…
- Conta un cazzo quel che dice Poreda.
- Ci fu anche un’inchiesta…
- Puttanate. Io mi alzai da quello sgabello ed ero solo, questo è tutto quello che conta.
- Fu uno dei round più violenti a cui io abbia mai assistito.
- Non lo so, mi ricordo poco, non era più boxe, a quel punto, era odio e violenza, non ero io, lassù, era qualcosa che combatteva al posto mio…
- Mondini gettò la spugna a ventidue secondi dalla fine del round.
- Non doveva farlo.
- Dopo disse che non gli piaceva vedere i suoi allievi fatti a pezzi.
- Stronzate. Ascoltami bene, io potevo continuare, avrei potuto continuare così per tutta la settimana, ero giovane e Poreda era vecchio, e sentimi bene, io forse non ricordo tutto di quel round, ma una cosa la ricordo ed è la faccia che aveva Poreda, era uno che aveva male fino nel buco del culo, era uno che non ne poteva più, sarebbe morto prima lui di me, com’è vero Iddio, quando vidi l’arbitro interrompere e quell’asciugamano volare sul tappeto, credevo l’avessero tirato dall’angolo di Poreda, giuro, pensai che finalmente l’avevano capita, e credo che alzai anche le braccia, perché 146
pensavo di aver vinto. E invece l’asciugamano era il mio. Assurdo.
- I colpi di Poreda erano pesanti, Mondini lo sapeva.
- Mondini non doveva buttare la spugna.
- Perché lo fece?
- Chiedilo a lui, Dan.
- Ha sempre detto che era stato per salvarti.
- Da che?
- Diceva che…
- Per salvarmi da che cosa?
- Lui diceva…
- Cambiamo argomento, va’.
- …
- Cristo, son passati tanti anni e ancora mi fa saltare i nervi, quella faccenda… mi spiace, Dan, magari lo tagliamo questo pezzo, eh?, si può?
- Non preoccuparti non c’è problema… possiamo poi rimontare l’intervista come vogliamo…
- … è che è una storia… non so, non l’ho mai capita, cioè l’ho capita, ma poi… bah, stronzate.
- Dopo sei passato al clan dei fratelli Battista.
- Da qualche parte dovevo andare, loro avevano i mezzi per portarmi al mondiale…
- Circolavano molte chiacchiere su quel clan, alcuni dicevano che…
- Sai una cosa di Mondini?, voglio dirti una cosa di Mondini, non l’ho mai detta a nessuno, ma te la voglio dire, qui in trasmissione… be’, quattro anni dopo quel match… non ci eravamo più visti né sentiti né niente… io stavo coi Battista, no?, era quando mi stavo preparando per combattere con Miller, chi vinceva andava a sfidare Butier per il mondiale, era quel periodo lì, be’… un giorno mi fanno leggere un giornale e sopra c’è un’intervista a Mondini. Non era la prima, ogni tanto mi succedeva di leggere qualcosa su di lui, e quasi sempre lui riusciva a dire qualcosa contro di me, una battuta, anche solo una frase, ma sembrava che ci tenesse, ogni volta, a darmi la frecciatina. Be’, quella volta mi metto a leggere, e l’intervistatore chiedeva a Mondini se io avevo qualche possibilità, contro Miller. E lui diceva: Adesso che sta coi Battista, certo che ce l’ha una possibilità.
Allora l’intervistatore glielo faceva ripetere, perché voleva capire bene. E lui nell’intervista diceva: Lawyer è un bluff, boxava bene, da giovane, ma i soldi l’hanno rintronato, adesso è un fantoccio nelle mani dei Battista, e quelli lo porteranno dove vorranno, magari anche al mondiale. Poi diceva anche qualche stronzata sulla mia macchina e sulle donne che mi portavo in giro, non so, non ne sapeva niente, lui, non ci vedevamo da anni, che ne sapeva lui delle donne che mi portavo in giro io… cazzo, era stato il mio Maestro, lui lo sapeva che ero un grande, sapeva anche com’ero fatto, non poteva dimenticarsi tutto per una foto sul giornale, o qualche stronzata letta da qualche parte, li aveva anche visti, i miei incontri, lo sapeva che potevo fare a meno di tutti i Battista di questa terra, lui capiva di boxe, eccome ci capiva, era solo cattiveria, e rancore. Così feci una cosa assurda, andai dritto alla sua palestra, e prima che qualcuno riuscisse a fermarmi gli arrivai davanti e gli dissi Vaffanculo Mondini e iniziai a picchiare, lo so che è orrendo, ma insomma lui era anche stato un pugile, poteva difendersi, e lo fece, e io picchiai, senza guantoni, ma picchiai fino a quando non lo vidi per terra, e poi ancora gli dissi Vaffanculo, un’altra volta, ed è quella l’ultima immagine che ho di lui, lui per terra che si passa una mano sulla faccia e poi la guarda, tutta sporca di sangue, è l’ultima volta che l’ho visto. Non ho mai più letto sue interviste, non ne ho mai più voluto sapere.
Orrendo, eh?
- Non l’hai mai più sentito?
- Era il mio Maestro, cazzo. Tu l’hai mai avuto un Maestro, Dan?
- Io?
- Sì, tu.
- Forse… sì forse, qualcuno…
- Dev’essere difficile fare i Maestri, non riesce a nessuno di farlo bene, sai?
- Forse.
- Dev’essere difficile.
147
- …
- …
- Ne hai avuti altri?… di Maestri, dico.
- No. Dopo Mondini, no. All’angolo, coi Battista, era come avere un idraulico, o un assicuratore, non avrebbe fatto differenza. Io ho boxato da solo, in tutti quegli anni. Da solo.
- Non ti hanno insegnato niente?
- A non scuocere gli spaghetti. L’unica cosa.
- E l’incontro con Miller?
- Miller?
- Sì.
- Miller era uno affamato. Sarebbe piaciuto a Mondini. Veniva da non so che periferia, stava sempre a menarla che lui aveva conosciuto la strada, e quindi niente poteva più spaventarlo.
Cazzate. Tutti hanno paura.
- Tutti?
- Ma sì, tutti…
- Tu avevi paura?
- Io… è una cosa strana… all’inizio no, non avevo paura, veramente, poi dopo è cambiato…
sai una cosa, una cosa che ti può far capire… prima di ogni combattimento… si sale là sopra, no?, e in quei pochi istanti prima che inizi hai l’avversario all’altro angolo, si saltella, si porta qualche colpo nel vuoto… proprio subito prima dell’incontro, no?… be’, lì molti Maestri, se guardi, stanno davanti al loro pugile, si mettono apposta tra lui e l’avversario, per non fargli vedere il nemico, capisci?, si mettono in mezzo, fissando dritto negli occhi il loro ragazzo e gli urlano delle cose in faccia, e tutto questo è perché lui non guardi l’avversario, non deve guardarlo, non deve avere il tempo di pensare, e di aver paura, capisci?… Be’, Mondini invece faceva il contrario. Si metteva di fianco a te e guardava l’avversario come se guardasse un paesaggio dal balcone di casa sua.
Serafico. Commentava, faceva battute. Con Sobilo, per dire… Sobilo aveva il cranio rapato a zero, e un teschio tatuato proprio in cima alla pelata… mi ricordo che Mondini continuava a ripetere Dì Larry, ma gli hanno cagato in testa?, e io gli dicevo È un tatuaggio, Maestro, e lui Ma figurati e cercava gli occhiali per vedere, ma non li trovava e… boh, non è che fosse facile avere paura, in quel modo lì. Dopo, le cose son cambiate. Erano anche pugili diversi… facevano paura davvero…Miller ne aveva già uccisi due, per dire, quando io lo incontrai, sicuramente era stata solo sfiga, però intanto ci avevano lasciato la pelle… quella era boxe pesante, Mondini me l’aveva sempre detto, erano pugni diversi, c’era questa cosa strana che ci potevi anche morire… strano… morire… sai una volta cosa mi disse Pearson?, il vecchio Pearson, te lo ricordi, il campione dei medi…
- Bill Pearson?
- Lui. Mi disse una cosa intelligente. Mi disse che dovevi aver paura del tuo avversario: così non avevi più tempo di aver paura della morte. Disse così.
- Bello.
- Sì, bello. E aveva ragione. Io imparai a un certo punto ad avere un po’ paura degli avversari. Mi teneva la mente occupata.
- Tirava fuori il meglio da te. Era un buon sistema.
- Miller, era così terrificante?
- Be’, certo, lui… faceva impressione… poi non era così cattivo come sembrava, ma… mi ricordo la sensazione strana di quelle due o tre volte che mi trovai chiuso all’angolo, mi ero fatto sorprendere, con lui non dovevi farlo, mai, e io invece ci ero cascato e mi trovai lì, sarà successo due volte, o tre, ma mi ricordo benissimo, per un attimo ti sentivi come… finito, spacciato, da qualche parte nella mente pensavi che se non ti sbrigavi a trovare un modo per uscire da lì ci avresti lasciato la pelle, non era solo questione di perdere o di vincere, ci lasciavi la pelle… dio, ti venivano un sacco di idee su come uscire da lì, ti garantisco, diventavi un’anguilla, giuro…
- Alla fine però ad andare giù fu lui.
- Era potente ma era lento. Nella boxe non puoi permetterti di essere lento. Lui era normale fino alla quarta, quinta ripresa… poi gli si appesantivano le gambe, gli si rallentava tutto… il 148
problema con lui era resistere in quelle prime riprese, poi veniva la parte facile… se si può dire facile…
- Andò al tappeto quattro volte, prima che l’arbitro lo fermasse.
- Sì, aveva del cuore, lui, ed era orgoglioso… forse c’entra quella storia della fame, era uno che veniva dalla fame… era un bel tipo… cioè… era proprio quello che ti immagini sia un pugile, in tutto e per tutto, affamato, feroce, cattivo e… bambino, un po’ bambino… una volta, qualche anno fa, entro in un bar e me lo trovo lì, a bere, seduto al bancone, tutto vestito elegante, una giacca d’argento, e la cravatta blu, o qualcosa del genere, faceva morire dal ridere, ma lui pensava di essere molto elegante… mi offrì da bere e si mise a parlare che non finiva più, diceva che aveva in mente di tornare, aveva una buona offerta da un Casinò di Reno, era ancora in forma, e anche se parlava un po’ lento… sai, trascinando un po’ le parole, no?, be’… sembrava abbastanza in forma, diceva che l’unico problema era la mano sinistra, aveva una mano sinistra che si rompeva solo a girare una maniglia, e allora io gli dissi che doveva fottersene, che a lui bastava il destro, che io me lo ricordavo ancora, il suo destro, me lo ricordavo ogni volta che mi alzavo dal letto… e lui era soddisfatto, rideva, e beveva, e rideva… a un certo punto mi disse una cosa che mi è rimasta in mente, mi disse che lui, prima di un incontro, doveva toccare con la mano la testa di un bambino, così, come una carezza, una roba del genere, sulla testa di un bambino, era una cosa che gli portava fortuna, e mi disse che quel giorno, contro di me, era uscito dagli spogliatoi e poi come sempre era andato verso il ring passando in mezzo alla folla, e si era guardato intorno tutto il tempo, e non c’era un ragazzino a pagarlo, e quando era arrivato sul ring, e tutti applaudivano e gridavano, lui continuava a pensare solo a quella cosa, che non aveva trovato un ragazzino da toccare sulla testa, e ancora li, in piedi sul ring, negli ultimi istanti prima del gong, ancora cercava un ragazzino, nelle prime file. E disse che invece c’erano solo adulti. E vecchi. E disse che è molto brutto quando cerchi un ragazzino e non lo trovi. Disse proprio così. È molto brutto quando cerchi un ragazzino e non lo trovi.
- Poi ritornò effettivamente sul ring, dieci riprese con Bradford, uno spettacolo abbastanza triste.
- Voi che siete là sotto lo chiamate triste… voi… ma non è triste… che c’entra triste… non è così, sai, Dan?… non è triste, è bello… magari boxano che fanno pena, e tu te li ricordi meno grassi e più veloci, e allora dici - Che triste, - ma… se ci pensi… stanno solo cercando di rubare ancora un po’
di fortuna alla loro esistenza… ne hanno il diritto, è come due che si amano e dopo anni e anni che vivono insieme, metti dopo trent’anni che vivono e dormono insieme, c’è sempre la sera che a letto…
magari spengono la luce, magari non si mettono nemmeno proprio tutti nudi, ma c’è sempre la sera che fanno ancora una volta un po’ d’amore… e allora cos’è, triste?, solo perché sono vecchi e… a me sembra bello, se hai fatto la boxe ti sembra bello, e io quell’incontro l’ho visto… quello di Miller, dio, era grasso come… però ho pensato okay, va bene così, i pugni erano veri, non avevano niente di cui vergognarsi, se lo volevano fare facevano bene a farlo, spero che li abbiano pagati il giusto, se lo meritavano…
- Tu però non sei più tornato, sul ring.
- Io no.
- Mai avuto la tentazione?
- Oddio, proprio mai… non si può dire… però… no, non ho mai pensato veramente di tornare.
- Dopo la vittoria su Miller… dopo cinque anni di pugilato professionistico, con un record di 8 vittorie e una sola sconfitta, diventasti lo sfidante ufficiale di Butler, per il mondiale. Cosa ricordi di quei momenti?
- Bei tempi: si mangiava bene e le ore passavano veloci. Sai chi la diceva questa?, Dnink, il vice di Mondini… aveva fatto pugilato per due anni, due soli anni, quand’era giovane, ma per lui quello era rimasto il paradiso… credo che le avesse prese a ogni incontro, ma era giovane e… non so che altro, comunque sembrava che fossero stati gli unici due anni degni di nota della sua vita, e così tutti stavano sempre a chiedergli - Ehi Drink, com’erano quegli anni?, - e lui: - Bei tempi: si mangiava bene e le ore passavano veloci. - Che tipo.
- Tu hai sempre detto di avere una grande ammirazione per Butler. Avevi paura di lui, 149
prima di incontrarlo, la prima volta, a Cincinnati?
- Butler era intelligente. Era un tipo particolare di pugile. Lo avresti detto tagliato più per… il biliardo o cose del genere… cose di nervi, precisione, calma… senza violenza… sai cosa diceva di lui Mondini, quando guardavamo i suoi incontri? Diceva: - Impara: le lettere le scrive con la testa: i pugni consegnano solo la posta, nient’altro. - Io guardavo e imparavo. Mi ricordo che molti, ai tempi, dicevano che aveva una boxe noiosa, c’era questa storia che con lui il pugilato diventava una cosa noiosa, era noioso come guardare uno che legge un libro, dicevano. Ma la verità è che lui faceva lezione, ogni volta che boxava, lui faceva lezione. Era l’unico più forte di me.
- A Cincinnati, quel giorno, tu gli togliesti la corona di campione del mondo, mandandolo al tappeto a trentadue secondi dalla fine del match.
- Il round più bello della mia vita, tutto in apnea, una meraviglia.
- Butler disse che a un certo punto gli sarebbe piaciuto scendere in platea per potersi godere lo spettacolo.
- Era un signore, Butler, veramente un signore. Sai l’altr’anno, al Madison, prima di Kostner-Avoriaz, ci siamo ritrovati lui e io, e altri vecchi campioni, la solita passerella di ex campioni prima del match, no?, là sopra il ring, con tutti che applaudivano, be’, insomma, era una cosa lunga, non finiva mai, ce n’era sempre ancora uno, di ex campione, e a un certo punto Butler, che era di fianco a me, si volta verso di me e mi dice - Lo sai qual è il terrore di tutti i pugili?, - e io dico - No, non lo so… - pensavo fosse una barzelletta, così dissi - No, non lo so… e invece era una cosa seria. - Lui mi disse: - Morire senza i soldi per il funerale. - Non stava scherzando. Era serio. Morire senza i soldi per il funerale. Poi si girò di nuovo dall’altra parte, e non disse più niente. Be’, adesso ti sembrerà scemo, ma ci ho ripensato, e sai che quella storia è vera?, se ripenso a tutti i pugili con cui ho parlato, prima o poi veniva fuori sempre quella storia di dove essere sepolti, e del funerale, sembra una cazzata, ma è così, come dice Butler e… è una cosa che mi ha fatto pensare, perché… io, ad esempio, a me non è mai venuta in mente quella faccenda, non credo di aver mai pensato una volta a come sarebbe finita col mio funerale, non so, non è il genere di cosa che mi viene da pensare…
capisci?, non… anche in quello, sembra che c’entro poco, io, con… è come se non fosse il mio mondo, il ring e tutto… credo che fosse l’idea che aveva in testa Mondini, che io non c’entravo con quel mondo, con la boxe, e che non importava se avevo talento o cosa, non c’entravo e basta, credo che fosse questa la ragione per cui non ci ha mai creduto, lui, in me, creduto veramente, alla fine era questa la ragione, lui pensava che non era il mio posto, non ha mai voluto cambiare idea, su quello, e… mai… così.
- Otto mesi dopo il match di Cincinnati, tu concedesti la rivincita a Butler. E andasti incontro alla seconda sconfitta della tua carriera.
- Sì.
- Molti dissero che non eri preparato per quell’incontro, qualcuno parlò perfino di una combine, dicevano che i Battista avevano già in mente il terzo incontro, e una montagna di soldi…
dicevano che ti avevano costretto a perdere…
- Non so… era tutto molto strano in quel momento… loro non mi chiesero mai niente, te lo giuro… i Battista non mi dissero mai niente, però… non so, era un po’ come se tutti avessimo in testa che la cosa giusta era fare una bella, alla fine, e decidere chi era il più forte… credo che anch’io, in qualche modo desiderassi una cosa del genere, non tanto per i soldi, quelli non erano così importanti, era che… sembrava più giusto, che so, era come dovevano andare le cose. Così sul ring ci salii senza ben sapere cosa volevo… credo che volessi boxare… dare spettacolo… e guarda, se lui avesse avuto paura, o anche solo avesse pensato per un attimo di poter perdere… be’ avrebbe perso, sarebbe finita per sempre, per lui… io non mi sarei certo tirato indietro… solo che… il fatto è che lui salì lì sopra con una sola idea, inchiodata in testa a martellate, una sola precisa idea, e quell’idea era di spazzarmi via da lì. E lo fece. Capiva tutto un attimo prima di me, sapeva cosa avrei fatto, e dove sarei andato, sembrava che fosse lui a pensare i miei pugni prima che li pensassi io. E intanto martellava. A un certo punto capii che era persa, e allora mi giurai che almeno sarei rimasto in piedi fino alla fine, me lo giurai, mentre ero seduto all’angolo, e Battista mi diceva non so che stronzata che nemmeno stavo ad ascoltare, io mi dissi - Vaffanculo Larry, tu uscirai da questo incontro in 150
piedi, fosse l’ultima cosa che fai. - Poi suonò la campana, mancavano quattro round alla fine, decisi di buttare tutto il cuore che avevo nelle gambe e di mettere su la più bella danza che Butler avesse mai visto. Di portare i colpi neanche ci pensavo, ma di volargli intorno, questo sì. Potevo farcela, per quattro round potevo farcela. Così mi misi a danzare e incominciai a portare a spasso Butler. Ci cascò per un minuto, poco più di un minuto. Poi lo vidi sorridere e scuotere la testa. Si piantò in centro ring e lasciò che facessi il mio numero. Ogni tanto accennava una finta, ma in realtà aspettava e basta. Quando entrò col jab quasi non lo vidi partire, sentii solo che le gambe se n’erano andate, e senza gambe non è un gran bel danzare…
- Lo sai che in molti dissero che era un pugno fantasma, che ti eri buttato giù?
- La gente vede quel che vuole vedere. A quel punto si erano convinti che avevo venduto l’incontro, e così… ma quello era un pugno vero, te lo dico io…
- Hai mai venduto un incontro, Larry?
- Che domanda è, Dan?… siamo alla radio… non si fanno domande del genere…
- Mi chiedevo solo se ti era successo di vendere un incontro… ormai sono passati anni…
- E dai… che domande sono… perché avrei dovuto vendere un incontro… che c’entra adesso…
- Okay, come non detto.
- Lo sai come vanno le cose, no?… proprio tu… dai….
- Okay, senti, adesso che hai lasciato e… fai un’altra vita… volevo sapere se ti manca il ring, e il pubblico, e i titoli sui giornali:, o la palestra, quel mondo, quella gente.
- Se mi manca?… oddio, è… è un po’ difficile dirlo, sono cose diverse, è una storia finita, quella… non è che ci pensi ogni giorno… mi manca, sì, qualcosa mi manca, è giusto che ti manchi…
c’erano delle cose molto belle, sai la boxe ti fa vivere delle cose davvero uniche, non c’è niente come… insomma è una cosa speciale, davvero, io molte volte sono stato… mi succedeva di essere felice, mi ha dato molta felicità, anche in modi strani, non è facile da spiegare, ma… come dire…
era… faceva di te un uomo felice, ecco, per dire, mi ricordo una volta, a San Sebastiano, non so nemmeno più con chi dovevo combattere, be’ avevo dei problemi di peso, mi succedeva ogni tanto, e così, per rientrare nel peso, Mondini mi svegliò, alle cinque del mattino, che era ancora buio…. mi misi la tuta pesante, e sopra l’accappatoio, con il cappuccio rialzato sulla testa, e l’idea era quella di saltare la corda per un’oretta buona e sudare come una bestia e, insomma, si faceva così, era l’unico sistema per perdere peso in poco tempo… solo che… il problema era che eravamo in un albergo, e Mondini diceva che non voleva che io saltassi la corda in stanza, che avrei svegliato tutti, e così andammo di sotto, a cercare un posto qualsiasi, e non c’era nessuno, nell’albergo, a quell’ora, così aprimmo un po’ di porte a caso e finimmo in una grande sala, sai quelle che tengono per i matrimoni, per le feste, così, c’era un tavolo che non finiva più e un piccolo palcoscenico per l’orchestrina, e grandi finestre che davano sulla città. Mi ricordo che c’erano tutte le sedie capovolte sul tavolo e c’era anche una batteria, sul palcoscenico, no?, ma coperta con un lenzuolo, un lenzuolo rosa, pensa te. Mondini spense la luce e mi disse Salta, e non smettere fino a quando non vedi il colore delle macchine, in strada. Poi se ne andò. Così io rimasi lì, da solo, tutto imbacuccato e col cappuccio tirato sopra la testa, e iniziai a saltare la corda, da solo, nel buio, con intorno tutta una città che dormiva, e io lì al ritmo di quella corda, e col rumore dei miei piedi, sul legno, solo quello, e il cappuccio sulla testa, e gli occhi fissi davanti a me e… il caldo addosso, e poi l’alba, a poco a poco, dalle grandi finestre, ma lentamente, delicatamente, cristo era come stare… che ne so, era bellissimo, mi ricordo che saltavo, e i pensieri andavano al ritmo dei miei piedi, e quello che pensavo era io sono imbattibile, io sono al sicuro, precisamente quello, sono al sicuro, io sono al sicuro, mentre saltavo, e pensavo, io sono al sicuro… così.
- …
- Immagino che sia quello, sentirsi felici.
- Già.
- Già.
- …
- …
- Com’è la vita, adesso, Larry?
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- La vita?
- Sì, voglio dire, come ti va?
- Questa è una domanda privata, Dan, non sono domande da fare alla radio.
- No, sinceramente, era una mia curiosità, mi piacerebbe saperlo, come ti va…
- Okay, ma allora spegni quel registratore, che c’entra il pubblico…
- Magari anche a loro piacerebbe sapere…
- Dai, non dire stronzate, spegni quella roba…
- Okay, okay…
- Poi la riaccendi, no?
- Okay, se vuoi la
Clic.
Gould spense la luce dei bagni. Alzò lo sguardo all’orologio.
Tre minuti alle sette. Aprì l’armadietto, si tolse il camice bianco e lo appese alla gruccia di plastica. Prese dal tavolo il cartellino con sopra scritto Grazie e lo mise via, sul piano in alto. Poi guardò il vaso di vetro con le mance. Aveva messo a punto un suo sistema per prevedere il totale prima di contare i soldi: era un sistema che incrociava diverse variabili, comprese alcune tipo il tempo atmosferico, il giorno della settimana o la percentuale di bambini che avevano usato i gabinetti. Così si mise anche quella volta a calcolare e alla fine si fissò in mente una cifra. Poi svuotò il vaso di vetro sul tavolo e iniziò a contare. Di solito aveva una percentuale di errore che non superava il 18 per cento. Quel giorno andò molto vicino a beccare la cifra esatta. Sette per cento in più. Stava migliorando. Raccolse le monete e le mise in un sacchetto di nylon. Lo chiuse e lo ripose nella cartella. Diede un’occhiata in giro, che tutto fosse a posto. Poi prese il cappotto, dall’armadietto, e se lo infilò. Nell’armadietto c’erano un paio di stivali di gomma, un atlante geografico e un po’ di altre cose. C’erano anche tre foto, appese allo sportello. Ce n’era una di Walt Disney e una di Eva Braun. Poi ce n’era una terza. Gould chiuse l’armadietto. Mise a posto la sedia, spingendola sotto il tavolo, prese la cartella, andò verso la porta, si voltò, diede ancora un’occhiata, poi spense la luce. Uscì, si chiuse la porta alle spalle e salì le scale. Il supermercato, sopra, stava chiudendo anche lui. Cassette semivuote, e commessi che spingevano treni di carrelli. Andò a posare le chiavi da Bart, nello stanzino della sorveglianza.
- Tutto bene, Gould?
- Da dio.
- Stai buono, eh?
- A domani.
Uscì dal supermercato. Era buio e tirava un vento gelido. Ma l’aria era pulita, di vetro pulito.
Si tirò su il bavero del cappotto e attraversò la strada. Diesel e Poomerang lo stavano aspettando, appoggiati a un cassonetto della spazzatura.
- Com’era la merda?
- Abbondante.
- È la stagione, cagano che è un piacere, d’inverno, nondisse Poomerang.
- Avevano tutti e tre le mani sprofondate nelle tasche. Odiavano i guanti. Se ci pensi, di tutte le cose belle che puoi fare con le mani, non ce n’è una che puoi fare se ti sei messo i guanti.
- Andiamo?
- Andiamo.
Nota dell’autore.
Grazie al Maestro Silvano Modena, a Ivan Malfatto e a tutti gli atleti dell’Accademia Pugilistica Rodigina.
Grazie a Emanuela Audisio, Bruno Fornara, Arianna Montorsi, Marina Nonno, la Palestra Doria di Milano, Giorgio Saracco, il Maestro Tazzi, Rino Tomasi. Grazie a Lag e a Elena Testa.
Grazie a Jake La Motta, cui ho rubato due battute: una è a pagina 74, l’altra a pagina 216.
Aveva del talento, come umorista. La sua più bella resta: “Eravamo così poveri che a Natale il mio 152
vecchio usciva di casa, sparava un colpo di pistola in aria, poi rientrava in casa e diceva: spiacente, ma Babbo Natale si è suicidato”.
FINE.
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