Introduzione
Abbiamo conosciuto Alfonso Sabella negli anni Novanta, nel pieno della stagione d'oro dell'antimafia. Siciliano, era il più giovane magistrato del pool di Gian Carlo Caselli, a Palermo. Davanti alla porta del suo ufficio, al secondo piano di quella che era allora la procura più blindata d'Italia, abbiamo fatto ore di attesa per strappargli qualche notizia; qualcosa di nuovo da scrivere, da mandare in onda.
Erano giorni d'inferno. Mesi tosti. Dopo Falcone, dopo Borsellino, dopo le bombe del 1993.
Indagini sulla mafia militare, sui «gruppi di fuoco», sugli omicidi si intrecciavano con altri filoni: mafia e politica, livelli superiori, le stragi, i mandanti. Scenari torbidi e sconvolgenti.
Su tutto, il processo Andreotti.
Erano giorni di morti ammazzati per strada. Cadaveri e lenzuoli, blitz e interrogatori, macchine blindate che schizzavano via. Scorte. Sirene. Funerali. Orrori. Titoli grossi sui giornali. Ma anche successi.
Erano gli anni in cui lo Stato forse ci provò davvero a battere la mafia, riuscendo ad arrivare fin dentro la città proibita.
Dopo la presa del grande capo, Totò Riina, era venuta giù una valanga di arresti. Un record, nei numeri e nel merito. Catture di spicco. Arsenali di armi, casseforti e codici segreti che spuntavano da insospettabili casali di campagna. E poi i pentiti. Confessioni, rivelazioni choc che uscivano dalla pancia di Cosa nostra.
Sembrava che la più grande organizzazione criminale d'Europa stesse ormai crollando sotto i colpi della giustizia. Nel periodo '93-'99, durante la gestione di Gian Carlo Caselli, furono sgominati interi gruppi di fuoco, catturati più di trecento latitanti di mafia: capi, boss e gregari. A uno a uno finivano in trappola: Bagarella, Brusca, Aglieri, i fratelli Graviano. Lo Stato c'era.
E dietro quella collana di successi, affianco al procuratore capo, c'era quasi sempre lui, un giovane magistrato che aveva imparato a conoscere la mafia come le sue tasche. La mafia in carne e ossa, fatta di uomini, giovani, vecchi, a volte anche di donne e di bambini. Fatta di abitudini, di segnali, di intrecci familiari, di rapporti con i potenti e con la politica, di storie. Fatta di onnipotenza, di orrori e di errori. Di crudeltà ma anche di insospettabili vincoli d'amore.
La mafia ruggente e la mafia intimorita.
Solo se si conoscono a fondo gli esseri umani che la compongono, la mafia si può battere. Questa sembrava essere la filosofia vincente di quella squadra di magistrati: un tratto di umanità, un'intelligenza nuova che entrava nelle inchieste e si dimostrava arma letale.
Il giovane magistrato aveva ormai la fama di cacciatore. Ne prese quasi un centinaio. A tutti strinse la mano.
Dietro ogni sua indagine c'era una meticolosa conoscenza del territorio, dei comportamenti criminali, dei linguaggi e dei simboli. Dietro ogni cattura, come in un bird-watching, c'erano ore e ore passate a osservare, a scrutare, ad aspettare. Ad ascoltare tutti i sospiri, tutte le voci che riportava la foresta di microspie piazzate in giro per la Sicilia dalla polizia giudiziaria. Ore passate a pedinare le ombre.
Prima di entrare in azione c'era un lungo studio. Uno studio umano dei singoli soggetti. Una minuziosa conoscenza della «preda». Una pre-visione dei comportamenti, un'intuizione di quelli che sarebbero stati i passi falsi.
Dopo ogni cattura, sempre, c'era il rispetto del prigioniero.
Intorno al giudice ragazzino che scovava i latitanti si era creata una specie di leggenda.
Poi, forse a un passo dalla vittoria finale, quella stagione di caccia - inspiegabilmente - venne chiusa.
Alfonso Sabella oggi vive a Roma. Non si occupa più di mafia. Da anni gli è stata tolta la scorta.
Lo abbiamo incontrato, a un decennio da quegli avvenimenti, e insieme a lui, davanti a qualche buona birra e a un registratore, abbiamo ripercorso le tappe di quella straordinaria stagione della lotta a Cosa Nostra, di quella dimenticata primavera di Palermo.
Silvia Resta
Francesco Vitale