VI
Il sultano delle Madonie
Giuseppina, quarant'anni, sposata con un milanese, è appena uscita di casa. È tornata dalle vacanze e sta per cominciare il suo shopping. Vuole approfittare degli ultimi saldi prima che le vetrine della zona elegante di Palermo, tra via della Libertà e via Notarbartolo, si riempiano di articoli invernali.
È il 24 settembre 1994 e fa ancora caldo, tanto caldo che alle sei del pomeriggio non c'è quasi nessuno in giro. È un sabato e molti palermitani affollano ancora le spiagge di Mondello e Sferracavallo. Giuseppina si sofferma a guardare una delle splendide palazzine liberty sopravvissute al sacco edilizio degli anni Sessanta. Nonostante viva a Palermo da parecchi anni, ancora si stupisce per il verde brillante delle siepi di melograno nano che circondano la villa, per quella miriade di piccoli frutti ornamentali dai colori accesi che, quasi a rimarcare altezzosamente la generosità di quella terra, spuntano superbi dalla recinzione.
All'improvviso due botti e il rumore di una moto che sgomma via. Giuseppina si volta. Non capisce. Sul marciapiede dall'altra parte della strada vede un uomo per terra. È alto e robusto e indossa una giacca sulla camicia aperta. Sotto di lui c'è una macchia rossa, vermiglia e sgargiante come quei melograni, che si allarga e comincia subito a cambiare colore, a scurirsi.
Nessun urlo, nessun lamento. La donna si guarda intorno, guarda in alto verso le finestre aperte che, stranamente e silenziosamente, vanno accostandosi l'una dopo l'altra come spinte da una forza invisibile.
Allora si gira, e vede un'ombra, una figura umana che procede carponi dietro una fila di macchine. L'uomo alza la testa. Un istante, giusto il tempo di incrociare gli occhi smarriti di Giuseppina, e scappa via.
A poco a poco qualcuno comincia ad avvicinarsi alla macchia ora di un rosso torbido e che ormai cola fin sotto il marciapiede. Qualche automobile si ferma, qualche finestra si riapre; e quindi le sirene, le macchine della polizia.
Un uomo in divisa si avvicina al corpo per terra. Lo tocca sulla fronte e ne afferra delicatamente il polso. Stacca dalla cintura una radio portatile e comincia a parlare. Poi sposta con attenzione la giacca dell'uomo privo di vita, prende il portafogli dalla tasca interna ed estrae un documento: Capomaccio Massimo, nato a Gaeta nel 1958, residente a Cefalù, provincia di Palermo, professione imprenditore, segni particolari nessuno.
«Signora venga con noi, abbiamo bisogno di interrogarla.» Giuseppina capisce che il suo shopping è finito ancor prima di cominciare e sale, mansueta, sulla volante della polizia che la porta in questura.
La donna non ha visto uccidere Massimo Capomaccio, ma ha visto bene, in faccia, quell'uomo che scappava. I poliziotti prima la assillano con mille domande e poi la portano in un'altra stanza e le mostrano nasi, occhi, menti, attaccature di capelli come quelli che, da bambina, ritagliava dal «Corriere dei piccoli» e incollava con la coccoina per costruirsi le bambole di carta.
I tecnici della polizia scientifica sono quasi deliranti per la gioia: quando mai a Palermo era capitato di preparare un identikit partendo dalle dichiarazioni di un testimone oculare? Caso più unico che raro. Vogliono fare un buon lavoro perché chissà quando ricapiterà un'altra occasione così.
Consegnano un disegno a Giuseppina, il disegno di un volto come quelli degli attori che aveva visto a Roma, realizzati dagli artisti di strada di piazza Navona: «Sì, mi sembra proprio questo l'uomo che si nascondeva dietro le macchine». La donna firma i verbali e si allontana. Sotto la questura c'è il marito che l'aspetta in macchina.
Un paio di mesi dopo un poliziotto si presenta a casa di Giuseppina e le chiede di seguirlo. Stavolta niente più figurine di carta. Le fanno vedere due fotografie. Ritraggono un uomo sulla trentina, di fronte e di profilo, e sullo sfondo le righe orizzontali e i numeretti che caratterizzano le segnaletiche degli uffici matricola delle carceri. Una rapida occhiata all'ispettore seduto davanti a lei, uno sguardo interrogativo come a dire «Ma devo proprio farlo?». Appena un cenno d'assenso dalla faccia del poliziotto, inequivocabile e, soprattutto, ineluttabile. Giuseppina chiude gli occhi come a mandar via la paura che l'attanaglia e poi quasi un sussurro: «È lui. Non ho il minimo dubbio.»
Le foto sono state scattate appena due giorni prima, all'Ucciardone. Sotto ci sono un cognome e un nome: Farinella Domenico, di Giuseppe e di Manzone Rosa, nato a San Mauro Castelverde il 22 agosto 1960 - arrestato il 29 novembre 1994.
Domenico Farinella, detto Mico, giovane boss delle Madonie, formalmente il reggente, in sostituzione del padre Peppino, detenuto, del mandamento di Gangi-San Mauro Castelverde, l'articolazione di Cosa nostra più a est della provincia di Palermo.
Un territorio vastissimo che si estende dalle spiagge assolate di Cefalù e Finale di Pollina fino ai duemila metri sul livello del mare di Pizzo Carbonara; dai villaggi turistici sulla costa del Club Méditerranée e della Valtur fino agli impianti sciistici di Piano Battaglia e alle foreste di faggi e sughere di Monte San Salvatore.
Un territorio fondamentale per l'associazione mafiosa. Una cerniera tra Palermo, Caltanissetta e Catania e un avamposto di Cosa nostra nella provincia babba (stupida) di Messina, dove non ci sono uomini d'onore.
Peppino Farinella lo aveva sempre governato con grande saggezza ed equilibrio. Rispettato dalla gente per il suo prestigio personale e le sue qualità umane. Veniva dalla vecchia mafia rurale, la mafia della «composizione dei privati dissidi», la mafia dei feudi e delle «guardianie» imposte ai latifondisti della zona, per lo più pavidi marchesi e baroni in fase di decadenza. Latifondi che, poco alla volta, erano passati nelle mani degli uomini d'onore che continuavano a decidere chi ci poteva lavorare, chi poteva trarre sostentamento da quelle terre.
Sapeva come comportarsi, don Peppino. Nel suo territorio non voleva prostituzione, non voleva droga. Una volta aveva mollato un sonoro schiaffone a Santino Pullarà, cognato del figlio Mico e rampollo della famiglia mafiosa di Villagrazia di Palermo, solo perché aveva saputo di un chilo di cocaina che il ragazzo voleva smerciare tra i professionisti di Cefalù e di Finale di Pollina.
E non voleva nemmeno crearsi inimicizie o risentimenti. Nessuno dei commercianti della sua zona pagava il pizzo, anzi era proprio il boss di San Mauro Castelverde che agevolava la nascita e lo sviluppo di nuove attività produttive, sempre che il titolare, ovviamente, gli portasse il dovuto rispetto e che, in caso di bisogno, fosse disponibile.
Per le imprese edili era diverso: «Speculano, vincono gli appalti, pagano le mazzette ai politici. Devono versare il tre per cento anche a noi e devono far lavorare i nostri amici. E se danno qualche lavoro in subappalto devono pagare ancora. Sempre il tre per cento, sempre a noi».
Anche in politica era così. Apparentemente non gli interessava l'esito delle elezioni locali. Addirittura, se era necessario, interveniva in prima persona convocando al suo cospetto i due candidati a sindaco e invitandoli a comportarsi lealmente, senza trucchetti o colpi bassi. Se però uno dei due parlava troppo da «comunista» o, peggio, faceva qualche «sbirritudine», allora silenziosamente si schierava. E vinceva l'altro; regolarmente.
In fondo era pur sempre un mafioso. D'altri tempi, ma mafioso. Quando ero alla procura di Termini Imerese, avevo riaperto le indagini su un presunto incidente sul lavoro: un bracciante agricolo morto ufficialmente cadendo da una scala a pioli mentre lavorava in campagna, a San Mauro Castelverde, il paese dei Farinella.
Sul mio tavolo era giunto un dettagliato manoscritto anonimo in cui si sosteneva, invece, che il contadino era stato ucciso e che il mandante era proprio Peppino Farinella.
Spulciando tra le firme apposte sulle richieste delle carte di identità dell'anagrafe del piccolo comune madonita, ero riuscito a individuare la grafia dell'autore della lettera anonima: un pensionato ottantenne che viveva a Palermo. Messo alle strette, il vecchietto mi aveva riferito che c'erano contrasti tra don Peppino e il bracciante agricolo deceduto, la cui impudenza era stata punita con calci, pugni e bastonate, tante bastonate. Il pensionato, però, sosteneva che quelle notizie le aveva apprese da un... angelo che gli era apparso in sogno!
Quel notturno messaggero divino doveva però saperla lunga! Infatti, anche se la vicenda era stata archiviata come una delle tante morti bianche, già dal referto medico del pronto soccorso di Cefalù emergevano fratture, ecchimosi, graffi ed ematomi in troppe parti del corpo perché fossero compatibili con la caduta da una scala. Per questo motivo avevo convocato la moglie del contadino in una caserma dei carabinieri.
Un interrogatorio da Giorno della Civetta: «Nenti sacciu, nenti vitti, nenti mi risulta. Me maritu carìu! Carìu e murìu!». Non so niente, non ho visto niente e niente mi risulta. Mio marito è caduto. È caduto ed è morto.
Inutile ogni mio tentativo di far raccontare qualcosa alla donna. E poi, per inesperienza, faccio un errore, una domanda diretta: «Che rapporti aveva suo marito con Peppino Farinella?».
Al solo sentire il nome del rispettato capomafia la donna impallidisce e non apre più bocca. Nemmeno per dire che non sa niente.
Solo uscendo a notte inoltrata dalla caserma, dopo essersi persino rifiutata di firmare un inutile verbale, ripete ad alta voce, forse per convincere anche se stessa: «Carìu e murìu, carìu e murìu».
L'indomani scoprirò che la famiglia del bracciante aveva percepito dalle assicurazioni sociali l'indennizzo per la morte «sul lavoro» del congiunto e riscuoteva una piccola pensione; e tutto proprio grazie ai buoni uffici di don Peppino e alle sue amicizie importanti.
Ci sa proprio fare il saggio capomafia: il bastone e la carota, letterale il primo e decisamente grottesca la seconda. Se fosse emersa quella che sospettavo essere la verità, la donna avrebbe perso risarcimento e mensile dell'Inail. Da lei non avrei mai saputo nulla e senza alcun altro spunto investigativo non mi rimane che archiviare ancora una volta l'indagine.
L'anziano boss madonita si definiva «un uomo di pace». Era molto legato a Salvatore Riina che aveva ospitato, latitante, nel suo territorio. Con tutti gli onori, organizzandogli grandi riunioni conviviali e memorabili battute di caccia, ma non aveva mai apprezzato la scelta del suo amico Totuccio di andare allo scontro frontale con lo Stato.
Adesso don Peppino Farinella è in carcere, fa la spola tra Pianosa, l'Asinara e altre sezioni detentive destinate ai 41 bis. Il suo potere, come da regola, è passato temporaneamente al figlio maschio, il reggente del mandamento.
Mico però è di tutt'altra pasta. È giovane, alto, magro, piace alle donne forse proprio per quel suo fare decisamente indisponente. Ama la bella vita, i grandi alberghi, gli orologi di marca e le macchine veloci, Ferrari e Lamborghini sopra tutte. Ha anche aperto un paio di autosaloni di lusso tra Tusa e Palermo, intestati ovviamente a qualche prestanome.
Conduce un'esistenza vistosa e dispendiosa. I carabinieri della compagnia di Cefalù me lo descrivono arrogante, presuntuoso, a tratti sprezzante, sicuro del suo potere. Si crede intoccabile. La sua famiglia è imparentata con mezza Cosa nostra: una sorella del padre «si è maritata» con uno degli Scaduto di Bagheria; suo cugino Rodolfo, figlio di un'altra sorella di don Peppino, ha sposato la figlia di Benedetto Capizzi, influente uomo d'onore del mandamento di Santa Maria di Gesù; e lui stesso è convolato a giuste nozze con la figlia di Giovambattista Pullara, capofamiglia di Villagrazia di Palermo.
Forse anche matrimoni d'amore, ma certamente matrimoni d'interesse, matrimoni di potere. E perché fosse chiara a tutti l'importanza delle nozze nelle dinamiche mafiose Mico Farinella aveva fatto da testimone, da compare d'anello, a Massimo Capomaccio, suo amico e, soprattutto, sua longa manus nel settore degli appalti.
Adesso Massimo è lì, coperto da un pietoso lenzuolo, morto ammazzato su un marciapiede di via Rapisardi. Mico, cui corrisponde l'identikit dell'uomo che Giuseppina aveva visto nascondersi dopo l'omicidio, è latitante da un annetto, da quando Gioacchino La Barbera ha messo nero su bianco che era il reggente del mandamento di Gangi-San Mauro Castelverde.
La latitanza non lo ha cambiato. Si diverte a sfidare la sorte e a dimostrare la sua incoscienza. Frequenta uno dei più forniti autosaloni di Palermo con scintillanti Porsche Carrera e Lotus Elan in vetrina. Proprio accanto c'è l'abitazione di un magistrato del tribunale, vigilata dai carabinieri. A Mico piace appoggiarsi al blindato dell'Arma per il gusto di far intervenire i militari di guardia, solitamente carabinieri ausiliari che non sono in grado di riconoscerlo e si limitano a chiedergli cortesemente di spostarsi da lì.
Cosa nostra non gradisce questo suo atteggiamento e, tutto sommato, nemmeno suo padre. Questo figlio scapestrato e incosciente non appare in grado di reggere da solo un mandamento importante come quello delle Madonie, figuriamoci poi se può mantenere i rapporti con i mafiosi di Catania e Caltanissetta. E allora creano una sorta di protettorato. Gli mettono a fianco il capofamiglia di Caltagirone, Pietro Rampulla, il «tecnico», l'artificiere della strage di Capaci. Una sorta di gran visir che gestisca gli affari per conto di un sultano poco adatto e incompetente.
Il magistrato di turno nel giorno dell'omicidio di Massimo Capomaccio è un altro collega, ma una ventina di giorni dopo il procuratore aggiunto assegna anche a me il fascicolo. Venendo da Termini Imerese sono uno dei pochi che conosce la mafia delle Madonie. È uno dei tanti effetti dell'onda lunga causata dalla frantumazione delle inchieste operata nel 1989 dall'ufficio istruzione di Palermo dopo che il Csm aveva chiamato a dirigerlo Antonino Meli, preferendolo a Giovanni Falcone.
Da allora, e praticamente fino al 1993, nessun magistrato palermitano aveva messo il naso in indagini sul mandamento di Gangi-San Mauro Castelverde il cui territorio ricade nel circondario del tribunale di Termini.
I poliziotti sono stati i primi a intervenire sul luogo del delitto e, quindi, le indagini sono affidate alla squadra mobile di Palermo che ha, giustamente, contattato il fratello maggiore dell'ucciso, Michele, un omone di quarant'anni che si muove impacciatamente e sembra a suo agio solo quando può dirigere un cantiere edile o guidare una pala meccanica. Michele fa qualche confidenza ai poliziotti sui rapporti tra suo fratello e Mico Farinella. Ma ha paura, tanta paura. Non intende raccontare alcun episodio specifico, non vuole firmare alcun verbale. Le sue sono solo confidenze generiche, però pretende la verità sulla morte di Massimo.
Inutili i tentativi dei poliziotti di fargli dire di più, di fargli fare qualche nome. E poi di quegli sbirri non si fida più di tanto. Non li conosce bene e loro non conoscono le persone che giravano attorno a suo fratello. Nomi come quelli di Vincenzo Maranto, Samuele Schittino, Carmelo Corriere, Salvatore Caccamisi forse non direbbero nulla agli investigatori della mobile di Palermo.
Non è certo così per il capitano dei carabinieri di Cefalù, Pietro Salsano, che è pratico di quel territorio, che ha sempre indagato sui Farinella, sui Capomaccio e sul loro entourage e che delle Madonie conosce ogni angolo, ogni sasso, ogni cespuglio.
E proprio a Salsano Michele decide di rivolgersi. Quell'ufficiale originario del Salento, intelligente e rigoroso, pur se sta dall'altra parte, merita la sua fiducia.
Una sera d'ottobre Pietro Salsano si presenta a casa mia. Gli faccio due spaghetti con la bottarga di Favignana, quella vera, quella che, grazie a Dio, viene ancora abusivamente preparata pressando e lasciando stagionare le sacche delle uova di tonno rosso tra assi di conifere mediterranee, resinose e profumate, ma ritenute «impure» dalla legge.
Pietro mi dice che ha parlato a lungo con Michele Capomaccio e che ha avuto da lui centinaia di preziose informazioni sugli uomini d'onore delle Madonie. Per quanto ha capito, Michele ha solo bisogno di una piccola spinta per decidere di metter tutto quanto a verbale. Forse è il caso che lo interroghi io personalmente.
Lo convoco in ufficio nel pomeriggio del 27 ottobre 1994. Malgrado avessi in passato indagato su di lui per qualche gara di appalto pilotata non lo avevo mai visto in faccia.
Più della sua corporatura decisamente titanica, mi colpiscono i suoi occhi, limpidi e sinceri. Gli faccio subito le condoglianze per la morte del fratello e comincio a parlargli del mio lavoro da pm a Termini Imerese, dei tanti fatti, più o meno rilevanti, di cui avevo appreso l'esistenza ma di cui non avevo mai capito la reale portata, il vero significato. Una scusa per fargli capire che, sia pur dall'esterno, conosco il suo mondo e gli uomini che lo popolano. Michele si fida di me e a poco a poco si apre. E mi racconta i retroscena di quelle vicende. Per me è come spalancare finalmente una porta dalla quale ho sempre potuto sbirciare solo attraverso il buco della serratura. Mi dà anche una dritta buona. Mi dice di aver incontrato circa sei mesi prima Mico Farinella, già latitante, in compagnia di un venditore ambulante di biancheria, un certo Tommaso Armillieri, originario di San Mauro Castelverde, che vive a Palermo.
Al momento di firmare il verbale però Michele inaspettatamente si tira indietro. Non se la sente, ha paura. Cerco inutilmente di convincerlo. Gli spiego anche che quelle cose ormai le ha dette davanti a un magistrato e che quindi, che firmi o non firmi, io potrei comunque utilizzare le sue dichiarazioni. Ma è irremovibile.
Dopo Michele è il turno di Andrea Randazzo, socio in affari di Massimo che, sempre su suggerimento del capitano di Cefalù, avevo pure convocato in ufficio.
La paura che trapelava dagli occhi di Michele Capomaccio è addirittura poca cosa rispetto a quella di Andrea Randazzo, laureato in Legge e, come Michele e Massimo, anche lui di taglia XXL. Indossa giacca e cravatta su una camicia evidentemente fatta su misura e ha con sé una valigetta che non molla un attimo.
Sono le otto di sera e siamo in autunno inoltrato. La finestra del mio ufficio è aperta per far uscire la cortina nebbiosa prodotta dalle decine di sigarette fumate durante l'interrogatorio precedente, ma Andrea Randazzo suda. Eccome se suda. Il collo della sua camicia è ormai madido e persino il dorso della mano destra, con cui stringe con forza il manico di quella valigetta, luccica per le goccioline prodotte dalla eccessiva traspirazione.
Dopo un paio di risposte tecniche sul ruolo che ricopriva nelle società di costruzioni di Massimo Capomaccio, Andrea si alza in piedi. Lascia la valigetta, appoggia entrambe le mani sulla scrivania, e mi dice: «Dottore ho paura, una fottuta paura! È da un mese che non rientro a casa e dormo qua e là. Non ho capito il motivo per cui Massimo è stato ucciso e non so se è per qualcosa che riguarda pure me. La prego, mi aiuti!».
«Certo che posso aiutarla, dottor Randazzo, ma ho bisogno di conoscere tutto quello che sa lei.»
«E io glielo faccio sapere» mi dice risiedendosi. Prende la valigetta, la apre e mi mostra un floppy disk: «Vede, in questo periodo ho preparato un diario di tutto quello che ho fatto con Massimo. Giorno per giorno. Ci ho messo pure le sue confidenze. Il file è in questo dischetto, anche se devo ancora completarlo».
Mi fa allora una strana proposta. Mi dice che non ha il coraggio di verbalizzare quello che sa, ma che il lunedì successivo, ultimato il diario, mi lascerà il floppy a casa sua, dove io, con una perquisizione, potrò trovarlo. Secondo Randazzo in questo modo, quando io, poi, lo dovrò interrogare sul contenuto del dischetto, lui sarà costretto a confermarmelo e, quindi, Cosa nostra non avrà nulla da ridire sul suo comportamento.
Gli faccio presente che, al di là della correttezza formale dell'operazione, per lui sarebbe pur sempre un palliativo. I mafiosi certamente sanno che, in quel momento, io lo sto interrogando, e non ci metterebbero molto a fare due più due. E in ogni caso avrebbe sempre avuto il «dovere», riguardo all'associazione mafiosa, di negare l'evidenza, di disconoscere il contenuto del file, addirittura di sostenere che l'avevamo creato noi per fregarlo.
L'unica cosa da fare è chiudere quel verbale in fretta, fare in modo che, all'esterno, si sappia che il suo interrogatorio è durato qualche decina di minuti e, dunque, che non mi ha detto niente di rilevante. Gli do un paio di giorni per riflettere. Nel frattempo mi impegno a farlo proteggere, discretamente, dai carabinieri. Sono fiducioso perché posso contare su un alleato di prim'ordine: la paura, il terrore del dottor Randazzo.
Ci rivediamo lunedì 31 ottobre, è il ponte dei Morti e il mio ufficio è praticamente deserto. Andrea è stato portato in procura dai carabinieri di Cefalù che sono entrati con una macchina di servizio dall'ingresso laterale, dalle celle del palazzo di Giustizia, da dove passano i detenuti. Nessuno sa niente.
Andrea è un fiume in piena. Accetta di collaborare, di essere sottoposto al programma di protezione. È disposto a lasciare la Sicilia, le sue imprese edili, le sue attività di consulenza e a trasferirsi, senza una lira e un lavoro, in qualche paesino del Nord. Pur di salvarsi la vita.
Cominciamo alle nove del mattino e finiamo alle sette di sera. Non è certamente un mafioso. È stato solo l'amico e il «consigliori» di Massimo Capomaccio. Mi dice subito che, il giorno dell'omicidio, Massimo aveva un appuntamento a Palermo proprio con Mico Farinella e poi parla della sua attività. Racconta di intrecci tra banche compiacenti, imprese, enti pubblici. Mi riferisce di gare pilotate, di società intestate a teste di legno, di appalti acquisiti con la forza, di mazzette a politici e funzionari, di noli a freddo e noli a caldo per eludere i divieti di subappalto; e, soprattutto, parla degli uomini d'onore che erano dietro a quegli affari e di pizzo ed estorsioni, tante e capillari.
Si sofferma a lungo sulla Rgl, la Realizzazione grandi lavori, un'impresa su cui si concentravano gli interessi di almeno una decina di famiglie mafiose o presunte tali, dai Pullarà di Villagrazia ai Brusca di San Giuseppe Jato, dal nipote di Bernardo Provenzano, Carmelo Gariffo, ai Bisconti di Belmonte Mezzagno, dai Biancorosso di Castronovo di Sicilia ai Farinella di San Mauro Castelverde, e sull'ultimo appalto che la società si era aggiudicato, il completamento della Palermo-Sciacca, un affare di svariati miliardi di lire finito, ovviamente, in mano a Cosa nostra.
C'è da lavorare per un anno intero. Ma prima abbiamo un paio di emergenze: catturare Mico Farinella e scoprire chi ha ucciso Massimo Capomaccio.
Per conoscere il nome del sicario dovremo rimandare di poco più di un anno, quando Tony Calvaruso ci rivelerà che a sparare era stato un certo Michelino Traina, killer alle dipendenze di Giovanni Brusca. Il boss di San Giuseppe Jato pretendeva da Massimo Capomaccio una cinquantina di milioni di lire che quest'ultimo non aveva intenzione o possibilità di fargli avere. Brusca, avendo saputo dell'appuntamento tra Massimo e Mico Farinella, il quale da par suo aveva fatto ben poco per proteggere il suo compare d'anello, aveva mandato Michelino a eseguire il delitto e Mico era stato costretto a nascondersi dietro le macchine in sosta in via Rapisardi.
Riguardo alla latitanza del «sultano» delle Madonie, anche Andrea Randazzo mi conferma quanto mi aveva detto Michele Capomaccio su Tommaso Armillieri, il venditore di biancheria, e mi fa un altro nome: Robertino borotalco, all'anagrafe Alberto Raccuglia, gestore di un negozio di scarpe a Palermo, in via Lincoln, dove Mico ogni tanto si recava.
Non sono certo poche due indicazioni secche per cercare un latitante ma, prima di mettermi al lavoro, ho un problema diplomatico da risolvere.
Le indagini sul delitto Capomaccio sono affidate alla squadra mobile ma le indicazioni che ho avuto io sono da ricondurre ai carabinieri. Impossibile pensare di far lavorare insieme due diverse forze di polizia sulla medesima pista. Occorre fare una scelta che, per me, a quel punto è obbligata.
I carabinieri di Cefalù conoscono il latitante, conoscono il territorio dove dovrebbe muoversi, conoscono i posti dove può rifugiarsi e, soprattutto, conoscono le persone che gli stanno vicino, a cominciare da Tommaso Armillieri.
Affido a loro le ricerche di Mico e alla polizia lo sviluppo delle altre dichiarazioni di Andrea Randazzo. Visibilissimo il disappunto di Luigi Savina, che dirige la squadra mobile da poche settimane, quando gli comunico le mie decisioni. Ma non posso fare diversamente.
Successivamente diventerò amico di quel bravissimo poliziotto. Ci legheranno sincero affetto e grande stima reciproca, ma il nostro rapporto non nasce certo in quell'occasione. Farinella, legatissimo a Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella ai quali aveva anche fornito appoggi durante la latitanza, in quel momento, è una preda troppo ambita. E poi le indicazioni di Michele Capomaccio e Andrea Randazzo sembrano buone. Per la polizia non è facile rinunciare. Arriva anche qualche pressione dall'alto perché io riveda la mia decisione. Ne parlo pure con Caselli che riconosce la mia autonomia e mi dà il conforto necessario sulla correttezza della mia scelta. L'iniezione di fiducia da parte del mio capo è fondamentale per me. È la prima volta che mi metto, da solo, sulle tracce di un latitante di mafia. Per quanto avessi maturato una discreta esperienza con alcuni rapinatori ai tempi di Termini Imerese, il confronto con gli uomini d'onore che si sono resi irreperibili è tutta un'altra cosa.
L'obiettivo principale è ovviamente Tommaso, il venditore ambulante di biancheria. Si capisce subito che l'indicazione è buona. I carabinieri di Cefalù pensavano di seguirlo discretamente nei suoi giri ai mercatini dei paesi delle Madonie e della costa, pensavano di vederlo vendere lenzuola e federe e litigare sul prezzo con casalinghe parsimoniose. Invece in quei giorni si muove come un manager. Si sposta con una vecchia ma sgusciante Autobianchi A112, incontra imprenditori, commercianti, avvocati, gioiellieri e, tanti, sospetti mafiosi. E resta quasi sempre a Palermo. Troppo rischioso per i militari di Cefalù farsi vedere in città. Il venditore di biancheria madonita potrebbe riconoscerli. È necessario fare intervenire gli uomini del Ros con i loro volti anonimi, le loro facce sconosciute e la loro straordinaria capacità di muoversi nell'ombra, silenziosamente e discretamente.
I carabinieri fanno un ottimo lavoro e, già il giorno dopo l'inizio dei pedinamenti, emerge un dato interessante. Tommaso, in uno dei suoi frenetici giri per Palermo, finisce in via Lincoln, la larga strada che dalla stazione ferroviaria arriva fino al mare. Grandi magazzini di abbigliamento, negozi di prodotti per l'agricoltura e di mobili di qualità improbabile, la sede del «Giornale di Sicilia», l'ingresso dello splendido Orto botanico e, al numero 159, il negozio di scarpe di Robertino borotalco. Proprio lì Tommaso si ferma per qualche minuto e poi va via.
La conferma decisiva della bontà della pista che abbiamo imboccato arriva l'8 novembre. I carabinieri hanno seguito discretamente Tommaso e, verso le otto di sera, lo hanno visto entrare in un complesso edilizio di fronte all'Università degli Studi, uno di quei mostruosi condomini con dieci ingressi, venti scale e mille interni, con i balconi rigorosamente chiusi, in barba alle leggi urbanistiche, da «rimovibili», si fa per dire, verande in alluminio e plexiglas. Ironia della sorte quella via è intitolata proprio a Ernesto Basile, il grande architetto che, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, aveva fatto di Palermo una delle più belle città d'Europa.
È già buio e i carabinieri non sono riusciti a capire in quale di quella miriade di appartamenti si è infilato Tommaso e allora decidono di aspettarlo, ma sono costretti a posizionarsi lontano, rintanati in una macchina parcheggiata in una zona non illuminata. Fortunatamente a Palermo non tutti i lampioni funzionano.
Dopo una ventina di minuti Tommaso esce dal palazzo e, a passo veloce, si dirige verso la sua A112. Pochi secondi dopo dallo stesso cancello d'ingresso, al numero 160, escono altri due uomini e uno è proprio lui, è Mico Farinella. I carabinieri ne sono sicuri. Hanno visionato decine di foto del latitante e hanno passato ore a vedere e rivedere il filmato delle nozze di Massimo Capomaccio facendo attenzione a come si muoveva uno dei testimoni dello sposo.
Ma non c'è tempo per riflettere. I due uomini salgono su una moto parcheggiata proprio lì, una Honda Africa Twin, e spariscono zigzagando tra le macchine che affollano anche a quell'ora via Basile.
Una scena analoga si ripete l'indomani sera, alla stessa ora. Seguendo Armillieri, i carabinieri giungono davanti a una gioielleria. Dopo un quarto d'ora Tommaso esce dal negozio e dietro di lui Mico con lo stesso uomo del giorno precedente. Stavolta però i carabinieri fanno almeno in tempo a prendere il numero di targa della grossa enduro.
È una moto pulita, intestata a una persona pulita: Giuseppe Mammano, trent'anni, palermitano, consulente finanziario. Il nostro uomo, adesso, dovrebbe diventare lui.
È già difficile pedinare una persona che si muove con un'auto, figuriamoci se si sposta su due ruote. E poi Mammano è attentissimo. Non si ferma agli incroci, passa con il rosso, imbocca vie contro senso. Al massimo rischia qualche multa ma così, per lui, è facile accorgersi se qualcuno lo sta seguendo perché è costretto a fare le sue stesse manovre spericolate. Nei giorni successivi gli investigatori lo perdono in continuazione.
Ovviamente si decide di non mollare Tommaso. Si prova a seguirli tutti e due. Ma non emerge nulla di rilevante fino al 22 novembre quando la cosa sembra proprio fatta. Alle 18.30 Armillieri e Mammano si incontrano al Foro italico e, il primo con la macchina e il secondo con la moto, imboccano la vicina via Lincoln e si fermano davanti al negozio di Robertino borotalco. Una rapida occhiata in giro e i due entrano.
Sul posto ci sono diversi uomini dei carabinieri, quelli che seguivano Tommaso e quelli che, con le moto, erano dietro a Giuseppe. L'occasione sembra ottimale. Tutti i protagonisti delle nostre indagini si trovano contemporaneamente nello stesso luogo. Anche Mico deve essere lì.
Infatti dopo un'oretta il figlio di don Peppino esce dal negozio ma, caso strano, nemmeno stavolta i militari riescono a bloccarlo, e dire che sono lì in forze. Mico sale sulla moto di Mammano e sparisce con lui per le strade di Palermo.
Questa, almeno, è la versione che mi viene fornita dal Ros. Non ne ho la certezza matematica ma nutro il più che legittimo sospetto che, almeno questa volta, i carabinieri avessero deciso appositamente di lasciarlo andare. Teoricamente non era una brutta idea. L'indagine stava andando bene e nessuno dei soggetti seguiti si era accorto di nulla. Avevamo già isolato almeno tre contatti sicuri: Tommaso, Giuseppe e Robertino; era anche emerso qualche elemento di contorno dalle intercettazioni telefoniche ed erano stati identificati altri personaggi che comunque gravitavano nell'ambiente del latitante. E poi, soprattutto, nel giro di due settimane avevamo già visto fisicamente Mico per ben tre volte. Se si fosse riusciti a seguire il boss madonita ci avrebbe potuto portare dai due latitanti più ricercati del momento, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella.
Forse è proprio questa l'idea del Ros, idea che non mi viene comunicata e che, in quel contesto, mi avrebbe visto decisamente contrario al pari, per quanto mi è sembrato di intuire, dei carabinieri di Cefalù e di quelli del comando provinciale di Palermo che stavano fornendo ausilio logistico all'indagine.
Non ho ancora una grande esperienza nella ricerca dei latitanti di mafia, ma sono perfettamente consapevole che il contatto che abbiamo stabilito con Mico è troppo flebile. Non conosciamo il suo covo, non sappiamo dove va a dormire e dove va a mangiare, abbiamo difficoltà serie a seguire Mammano, il soggetto che «lo porta». So pure che, quando inevitabilmente verrà meno la riservatezza sulla collaborazione di Andrea Randazzo, le piste Armillieri e Raccuglia andranno definitivamente perse, con il rischio che Mico tagli i ponti con tutte le persone collegate ai due.
Il caso vuole, peraltro, che nei giorni che seguono Tommaso Armillieri ritorni a vendere biancheria nei mercati, nessuno si faccia più rivedere al negozio di Robertino borotalco e risulti sempre più difficile pedinare Mammano.
Vado su tutte le furie e quasi quasi rimpiango di non aver affidato l'indagine alla squadra mobile. Convoco il responsabile del Ros e gli do un termine: «Se non chiude l'indagine entro il mese di novembre, alle otto del mattino del 1° dicembre le ricerche di Farinella passeranno alla polizia».
Fortunatamente nel frattempo c'è stata una novità interessante. Il 18 novembre il capitano Salsano ha convinto a parlare anche un altro fratello di Massimo Capomaccio, Bruno, trentasette anni, più anziano dell'ucciso e più giovane di Michele.
Bruno è uno dei tanti imprenditori edili del Palermitano e ha ricevuto alcune confidenze dai suoi colleghi che si sono aggiudicati appalti nella zona delle Madonie. Non ha granché da nascondere e non ha problemi a rivelarmi tutto quello che sa. Tra l'altro mi dice che suo fratello Massimo, per conto di Mico Farinella, quale acconto del pizzo dovuto, aveva già riscosso quindici milioni di lire da certo Lino Lo Scrudato, un imprenditore del Nisseno che stava realizzando alcuni appartamenti a Cefalù per conto di una cooperativa edilizia.
Mico aveva richiesto a Lo Scrudato, che si era confidato con Bruno, altri trenta milioni di lire a saldo che doveva consegnargli a Palermo, presso lo studio tecnico di un geometra, tale Vincenzo Catanzaro.
Facciamo la visura all'ufficio registro e viene fuori che la ditta individuale di Catanzaro ha sede in via Ernesto Basile al numero 160, proprio in quel palazzo dal quale avevamo visto uscire Mico la sera dell'8 novembre. Non ci vuol molto a tirare le somme e a decidere di intercettare qualche altro telefono.
Il 29 novembre Lino Lo Scrudato parte da Mussomeli per andare a Palermo. Alle sei del pomeriggio ha un appuntamento presso lo studio del geometra Catanzaro. In una tasca dei pantaloni, assicurate da un paio di elastici, ha trecento banconote da centomila lire.
In via Basile alcuni giovanotti camminano con dei libri sotto il braccio. Sembrano proprio studenti che hanno appena finito le lezioni all'università, dall'altra parte della strada. Ma negli zaini, da cui spuntano mazzi di fotocopie, nascondono pistole Beretta calibro 9 parabellum. La mattina un paio di loro, nella sala ascolto della procura, avevano sentito Lo Scrudato e Catanzaro prendere accordi per vedersi quel pomeriggio.
Alle 18, puntualissimo, Lino ferma la sua Fiat 131 targata Caltanissetta in via Basile. Entra nel palazzo al numero 160. Davanti, sul marciapiede, c'è parcheggiata una grossa moto da enduro: una Honda Africa Twin.
Il costruttore esce dieci minuti dopo, sale sulla sua 131 e si allontana. La moto è ancora lì, davanti a quel palazzo che farebbe letteralmente rivoltare nella tomba Ernesto Basile, e lì sono ancora gli «studenti universitari». Passeggiano e si scambiano appunti sull'ultima lezione di Economia aziendale o di Scienze delle preparazioni alimentari.
Dovranno aspettare ancora un'oretta. Alle 19.20 dallo studio del geometra Catanzaro escono due persone che ormai i carabinieri del Ros conoscono bene. Dagli zaini spuntano le pistole e prima che Giuseppe Mammano possa prendere le chiavi della moto, gli studenti-carabinieri lo hanno già bloccato e ammanettato così come hanno fatto altri loro colleghi con il suo compagno, con il compare di Massimo Capomaccio, con l'uomo che Giuseppina riconoscerà due giorni dopo in una foto segnaletica: Mico Farinella, reggente del mandamento di San Mauro Castelverde.
In tasca ha trecento banconote da centomila lire fissate con degli elastici. Forse pensava di spenderle per acquistare l'ennesimo Rolex d'oro o per dare un anticipo per una nuova Ferrari. Invece ce le deve consegnare tutte, insieme alla sua libertà.
Chissà cosa ne penserà suo padre Peppino. Lui non sarebbe mai andato personalmente a ritirare il pizzo, troppo imprudente, troppo rischioso. E, soprattutto, troppo poco dignitoso.