1. Cane d’un marrano
Michele Serveto ha il pregio assai singolare di essere stato bruciato in effigie dai cattolici e nella realtà dai protestanti. Questa coincidenza di per sé non gli avrebbe assicurato più di una nicchia nell’olimpo degli eccentrici, non fosse che il suo martirio venne ad assumere un significato forse superiore a quello di ogni altro nel suo secolo, poiché servì come pretesto per alzare il volume e l’intensità della controversia sulla tolleranza all’interno del protestantesimo. Questa è la ragione essenziale per raccontare di nuovo – quattrocento anni dopo la sua esecuzione – la storia della sua vita e della sua morte.
Ci sono persone che sono infastidite dalla preminenza che in questo modo viene data a un singolo rogo. «Non furono migliaia», dicono, «le vittime dell’Inquisizione? Non soffrirono forse centinaia e persino migliaia di anabattisti per mano sia dei cattolici che dei protestanti? Allora perché prestare un’attenzione speciale all’episodio di Serveto se non per gettare fango sulla memoria di Giovanni Calvino?». Per alcuni, e in certi periodi, questo può essere stato davvero il motivo, ma non per noi. Giovanni Calvino è il blocco di granito nel quale noi che apparteniamo alla tradizione puritana siamo stati scolpiti ed è proprio a causa della lealtà alla roccia nella quale siamo scavati che non vorremmo mascherarne i difetti. Evidenziarli serve non tanto a rimproverare un progenitore spirituale quanto a impegnarsi in una profonda ricerca proprio per non perpetuare solo i difetti dei nostri antenati. In questo nostro tempo, la libertà religiosa è in pericolo. Questo studio potrebbe rivelare le ragioni per le quali gli uomini diventano persecutori e le ragioni per le quali, come cristiani, non dovrebbero.
Al di là della sua drammatica morte e della controversia che ne seguì, Serveto è una figura affascinante perché riunì in una sola persona lo spirito del Rinascimento e l’ala sinistra della Riforma. Egli era al tempo stesso un discepolo dell’Accademia neoplatonica di Firenze e degli anabattisti. L’ampiezza dei suoi interessi e dei risultati conseguiti mette in mostra il tipo di “uomo universale” del Rinascimento, poiché Serveto era competente in medicina, geografia, studi biblici e teologia. In lui si fondevano le più diverse tendenze del Rinascimento e della Riforma. Il suo scontro con Calvino era qualcosa di più che un contrasto personale. Era il conflitto fra la Riforma e il Rinascimento e fra l’ala destra della Riforma e quella sinistra. In Calvino e Serveto già troviamo le correnti più significative del XVI secolo.
Non sappiamo con precisione quando nacque Serveto1. Su questo punto si possono notare alcune discrepanze nella sua testimonianza a causa di affermazioni discordi. Quel che sappiamo della sua vita deriva quasi esclusivamente dalle sue risposte a domande rivoltegli in due occasioni, entrambe nel 1553, prima in Francia e poi a Ginevra. In entrambi i casi era sotto processo e rischiava la vita, quindi stava dissimulando per depistare i suoi inquisitori. In Francia, dove la sua identità non era nota, ne aveva più motivo che a Ginevra, dove si era già esposto. Tuttavia la testimonianza resa in Francia, riguardo alla sua nascita, è la più accreditata. A Ginevra disse di avere quarantaquattro anni, la stessa età di Calvino, e in Francia di averne quarantadue. Se fosse vera la prima testimonianza, sarebbe nato nel 1509; se fosse giusta la seconda, nel 1511. L’ultima data sembra essere quella corretta, a causa di un’altra affermazione, cioè che nel 1531, alla pubblicazione del suo primo libro, egli aveva vent’anni.
Per quanto riguarda il luogo non ci sono dubbi2. Era spagnolo, di famiglia nobile e devota. Una prova documentaria venuta recentemente alla luce identifica il luogo con Villanueva – dalla quale Serveto in seguito prese lo pseudonimo Villanovanus, o in francese de Villeneuve – , un piccolo villaggio sull’Alcanadre a circa novanta chilometri da Saragozza, nella provincia di Huesca e nella diocesi di Lérida. Il padre, che si qualificava «Antonio Serveto alias Revés», era un notaio. La chiesa parrocchiale possiede una pala d’altare dedicata a santa Lucia eretta dalla sua vedova, Catalina Conesa, e da suo figlio: «Mosén Juan Serveto de Revés clérigo infanzón rector de Poleñino»3. Il fratello di Michele Serveto, dunque, era un sacerdote.
Non sappiamo dove Serveto ricevette la sua prima educazione ma sappiamo molto della Spagna degli anni della sua formazione. Molte delle tendenze che appaiono nelle sue opere successive potrebbero derivare dalle correnti allora in voga nella penisola iberica. La Spagna, come il resto dell’Europa, stava godendo di un interludio tra periodi d’intensa intolleranza. La ragione era dovuta principalmente al fatto che la Chiesa cattolica non si sentiva più seriamente minacciata: la forza del settarismo medievale si era esaurita e la Riforma protestante non si era ancora scatenata. In questo pacifico intervallo, nelle terre cattoliche fiorì un movimento chiamato “evangelismo”: nel circolo di Valdés a Napoli, di Margherita di Navarra e del vescovo Briçonnet in Francia, di Colet e Moro in Inghilterra e di Erasmo nei Paesi Bassi. In Spagna gli umori mutarono in modo più netto poiché il contrasto era più appariscente, dato che la Spagna si era distinta per i rigori dell’Inquisizione.
La posizione della Spagna era stata particolare. Prima delle crociate, sotto il dominio dei mori, era stata il ponte che univa cristianesimo e islam, e alla corte dei califfi gli ebrei erano i benvenuti. Le tre religioni, come i tre anelli di Boccaccio e di Lessing, si accordavano un reciproco e genuino riconoscimento. Le crociate posero fine a questo periodo di liberalità e iniettarono un tale senso d’intolleranza che la Spagna si trovò di fronte alla scelta di allinearsi con il cristianesimo oltre i Pirenei o con l’islam oltre lo Stretto di Gibilterra.
La Spagna decise per l’Europa e la fede cristiana. Perciò fu dichiarata guerra ai mori e furono esercitate pressioni sugli ebrei. Non c’era nessun motivo razziale in tutto ciò e sia i mori che gli ebrei venivano accettati se si sottomettevano al battesimo. Migliaia di ebrei si adattarono e in tal modo si assicurarono le più alte cariche non solo dello Stato ma anche della Chiesa cristiana. Per esempio Pablo de Santa María, vescovo di Burgos, era ebreo; tra l’altro Serveto sembra aver appreso proprio da lui gran parte della sua conoscenza della cultura ebraica. Tuttavia molti conversos conservarono alcune delle pratiche giudaiche come l’osservanza del settimo giorno, lo Shabbat, e le regole kosher. In questo caso venivano considerati eretici recidivi da mandare al rogo. Torquemada, il Grande Inquisitore, era convinto che tale regressione da parte dei convertiti non potesse essere evitata fin tanto che gli ebrei fossero rimasti in circolazione a corrompere i conversos. Gli ebrei dunque dovevano essere espulsi dalla Spagna. Quando questi cercarono di assicurarsi l’immunità con alcuni doni, il Grande Inquisitore marciò a grandi passi davanti alle Loro Maestà e, scagliando con forza il suo crocifisso sopra il tavolo, esclamò: «Per trenta pezzi d’argento, Giuda tradì il suo Maestro, e voi vorreste venderlo per trentamila?». Ferdinando e Isabella cedettero a queste insistenze e le caravelle di Colombo, in procinto di salpare per la rotta occidentale verso l’India, dovettero spiegare le vele per portare gli ebrei in esilio. Solo i conversos rimasero in Spagna, e sotto sorveglianza. In quello stesso anno, il 1492, Granada cadde e lo stesso problema si presentò con i mori. La scelta era tra battesimo ed esilio. Il disprezzo per questi cristiani sospetti veniva manifestato con l’oltraggioso epiteto di marranos4. Tutto questo era successo a memoria del padre di Serveto, ma l’Inquisizione non era per niente in quiescenza anche durante la giovinezza di Michele. Ciononostante, il periodo convulso si era placato.
Durante i primi dieci anni di vita di Serveto, la figura dominante in Spagna fu quella del grande cardinale Francisco Jiménez de Cisneros, che riuniva in sé un’incredibile combinazione di vecchio e nuovo. Era una figura medievale, un francescano che faceva il possibile perché il suo cilicio sporgesse dal colletto quando indossava le vesti del suo elevato incarico, un discepolo di Madonna Povertà che percorreva la Spagna a piedi scalzi ed era medievale anche come Cancelliere del Regno nell’impiegare le risorse dello Stato per estendere oltre lo Stretto la crociata contro l’islam. Al tempo stesso però cercava di far propria la nuova cultura rinascimentale per metterla al servizio della Chiesa. Fu lui che fondò l’Università di Alcalá e incoraggiò il dibattito nel quadro della tradizione scolastica. Diede una cattedra ai tomisti, una agli scotisti e una agli ockhamisti, all’epoca chiamati “moderni”. L’Università di Salamanca, per non essere da meno, offrì tre cattedre ai moderni. Jiménez fu responsabile della prima pubblicazione della Bibbia, completa di entrambi i Testamenti, nelle lingue originali. Gli ebrei lo avevano preceduto con il Vecchio Testamento in ebraico ed Erasmo con il Nuovo Testamento in greco, ma lui fu il primo a pubblicarla per intero, secondo i migliori strumenti e principi critici del tempo. L’edizione completa, chiamata “Poliglotta Complutense”, fu pubblicata nel 1522.
Con il favore del cardinale, nello stesso periodo fiorì in Spagna il movimento mistico degli alumbrados. Francisco de Osuna mirava alla dolcezza dell’estasi, ai rapimenti dell’esaltazione spirituale. La conoscenza di Dio, diceva, è la conoscenza dell’intenso amore dell’anima purificato dalle virtù morali, illuminato dalle virtù teologali, reso perfetto dai doni dello spirito e dalle beatitudini del Vangelo. Il cuore conta più della testa, delle mani, degli occhi o dei piedi. I cerimoniali esteriori senza le disposizioni interiori non portano alcun beneficio. Si deve passare attraverso indicibili afflizioni5. Alcuni degli alumbrados indulgevano anche in sogni apocalittici di un cristianesimo rinnovato che si estendesse da Gerusalemme ai confini della Terra, una straordinaria riforma della Chiesa a opera di uomini spirituali secondo il potere dell’Altissimo. I giovani di Spagna sognavano e gli anziani avevano visioni6.
Poi, durante la seconda decade della vita di Serveto, arrivarono nuove correnti dal nord. Nell’anno 1522, Carlo, re di Spagna e del Sacro Romano Impero, riguadagnò il controllo della Castiglia e stabilì in Spagna la residenza più lunga durante il suo regno. Egli era stato educato in Olanda e aveva portato con sé, nel proprio entourage, molti dignitari di corte dei Paesi Bassi. Erano ammiratori di Erasmo da Rotterdam il quale, durante gli anni dal 1522 al 1532, godette in Spagna di una popolarità senza precedenti. Molte delle sue opere furono tradotte nella lingua locale e fu così che la Spagna s’impregnò del suo ideale di una pietà semplice e non dogmatica dedita a una vita elevata, a carità, concordia e pace, rifuggendo da tutte le dispute sulle sottili distinzioni della teologia. Erasmo credeva, in modo ancora più esclusivo di Jiménez, che il Vangelo potesse catturare le menti degli uomini senza alcuna coercizione esterna. Come Jiménez, sognava con fervore quasi apocalittico il ritorno alla originaria purezza del cristianesimo, secondo quel modello di genuina parola di Dio delle lingue antiche.
A ogni modo, la popolarità di Erasmo non significa che gli spagnoli avessero smesso di ardere di zelo per il Signore Iddio degli Eserciti. In particolare c’era un punto sul quale la rettitudine dogmatica divenne una questione di orgoglio nazionale e questo punto era la dottrina della Trinità e della divinità di Cristo. La ragione era che all’estero tutti gli spagnoli venivano considerati marrani e sospetti quanto a fede nella dottrina della Trinità, il dogma cristiano per loro più difficile da accettare e quindi più soggetto a essere sminuito. In Italia si riteneva che ogni spagnolo fosse in odore di eresia. Un personaggio di una commedia italiana recitava: «Voi spagnoli non credete in Cristo». Ariosto riferiva che gli spagnoli non credevano nell’unità di Spirito il Padre e il figlio7 e un’altra commedia ne rappresentava uno che, dopo aver ricevuto l’assoluzione da tutti i suoi peccati, ritornava dal suo confessore per riferirgli di aver omesso un peccadiglio: non credeva in Dio8.
In Francia e in Germania la reputazione degli spagnoli non era migliore e Lutero dichiarò che avrebbe preferito avere un turco come nemico piuttosto che uno spagnolo come protettore. «Gli spagnoli», diceva, «sono tutti marranos e, laddove altri eretici difendono le loro opinioni ostinatamente, i marranos alzano le spalle e non credono a nulla»9.
A causa di questi sbeffeggiamenti gli spagnoli erano particolarmente sensibili a ogni imputazione di devianza dall’ortodossia della dottrina Trinitaria. Nonostante la sua smisurata reputazione, Erasmo fu oggetto di un pesante attacco da parte dello spagnolo Zúñiga a causa di alcuni passaggi che, nella sua edizione in greco del Nuovo Testamento, sembravano essere stati concepiti per indebolire quella dottrina. Erasmo aveva omesso il cosiddetto Comma Johanneum. Il testo originale di 1Gv 5,8 diceva: «Poiché sono tre quelli che dànno testimonianza sulla terra: lo Spirito, l’acqua e il sangue e questi tre sono d’accordo come uno». La parte spuria aggiungeva: «Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza nel cielo: il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno». Erasmo non trovò quest’aggiunta in nessun manoscritto greco, né essa era nota ai primi Padri della Chiesa i quali, se ne fossero stati a conoscenza, avrebbero senza dubbio approfittato di una risposta così schiacciante agli ariani. Erasmo, quindi, espunse il versetto presente nella traduzione della Vulgata. Nel chiosare anche il Vangelo di Giovanni, egli osservò che nel Nuovo Testamento il termine “Dio” veniva applicato quasi esclusivamente al Padre. Erasmo non attaccò alcuna dottrina, affermò semplicemente dei fatti. Nondimeno fu oggetto di veementi rimostranze, proprio in Spagna10.
Si può ben dubitare che Serveto, che a quel tempo era adolescente, fosse a conoscenza di tutta questa discussione. A ogni modo non impiegò le osservazioni di Erasmo per sostenere in seguito le proprie critiche alla dottrina della Trinità. Invece di rigettare il versetto spurio nella Prima Lettera di Giovanni, cercò, piuttosto, di sovrapporgli un’interpretazione accettabile 11. Che Serveto fosse del tutto insensibile al clima liberale però è ancor più improbabile, dal momento che a quattordici anni entrò a servizio di Juan de Quintana, un francescano minorita, dottore all’Università di Parigi ed eminente membro delle Cortes di Aragona. Quintana era un uomo dallo spirito erasmiano e dall’indole pacifica che alla dieta di Augusta disse a Melantone di non riuscire a capire perché la dottrina luterana della giustificazione per fede avesse sollevato un tale polverone12. Non è dato sapere quanto Serveto conoscesse a fondo Quintana. Sappiamo però che il servizio, quale che fosse la sua natura, implicava una certa conoscenza personale. Era difficile che Serveto, curioso e precoce, non assorbisse nulla di quest’ambiente.
Il servizio presso quell’ecclesiastico non fu né severo né restrittivo. Quintana congedò Serveto per due anni affinché proseguisse i suoi studi in legge all’Università di Tolosa13. Molto probabilmente questa università fu scelta dai genitori di Serveto per la sua reputazione di cittadella dell’ortodossia proprio in quel territorio un tempo dominato dagli eretici albigesi. Un protestante considerò questa città «molto superstiziosa, essendo piena di reliquie e altri strumenti d’idolatria, tanto che si verrebbe condannati come eretici se non si sollevasse il cappello davanti a un’immagine o non ci si genuflettesse e non si suonasse la campana chiamata Ave Maria, o se si assaggiasse un sol boccone di carne nel giorno del santo. E non c’era nessuno che si dilettasse in lingue e letterature che non fosse tenuto d’occhio e sospettato di eresia»14. Questo resoconto si riferisce a un periodo successivo, ma gli esili e i roghi iniziarono nei primi anni Trenta del XVI secolo, e già verso la fine del decennio precedente l’università era devotissima alla fede15.
D’altra parte, è molto probabile che la reputazione dell’università in campo religioso non avesse niente a che fare con la scelta. Serveto desiderava studiare legge e in quel campo Tolosa era eccellente. L’università contava circa diecimila studenti e seicento professori. Delle quattro facoltà, Teologia, Medicina e Lettere non potevano competere con Giurisprudenza 16. Però la giurisprudenza non escludeva la teologia. Quando aprì il Codice di Giustiniano, il grande testo di diritto romano, l’occhio di Serveto sarebbe potuto cadere sulla sezione dedicata alle pene per le offese alla religione. Avrebbe scoperto che, per la reiterazione del battesimo e per la negazione della Trinità, la pena prevista era la morte.
Nonostante le misure adottate per impedire qualsiasi ripresa dell’eresia albigese, Tolosa non era estranea alle nuove correnti riformatrici. I francescani in particolare si radunavano qui per la purificazione della Chiesa e la conversione del nuovo mondo. Gruppi di studenti sgobbavano sulle «profezie della Sacra Scrittura» dalle quali, come testimoniò in seguito Serveto, «lo Spirito Santo entra in noi come un fiume di acqua viva»17.
«Vi supplico», disse, «leggete la Bibbia mille volte. Se non ne provate gusto avete perduto la chiave della conoscenza»18. Il suo entusiasmo fu così grande che il Codice di Giustiniano non fu più riaperto19. C’era qualcosa in quella particolare edizione della Bibbia usata da Serveto che evocò un fervore così appassionato? Evidentemente non usò il Nuovo Testamento di Erasmo, perché in quel caso avrebbe notato con ogni probabilità l’omissione del passaggio trinitario nella Prima Lettera di Giovanni. Probabilmente stava conducendo ricerche negli imponenti tomi in ebraico, greco e latino della Poliglotta Complutense, donati al mondo nel 1522 dal suo grande compatriota, Jiménez.
L’edizione non aveva tutta questa importanza. Qualsiasi edizione conteneva materiale esplosivo a sufficienza. Serveto era spagnolo e può darsi che si arrabbiasse per gli sfottò dei compagni di studi che lo chiamavano “chien espagnol de Marrane ”. Ma, frecciatine a parte, uno spagnolo sensibile e curioso difficilmente avrebbe mancato di interessarsi al problema dei mori e degli ebrei. Se la religione cristiana era una rivelazione dell’Altissimo, perché questi popoli, uno dei quali un tempo prescelto dal Signore, rifiutavano così ostinatamente di credere? La grande pietra d’inciampo era la dottrina della Trinità. Per loro stava semplicemente a significare triteismo e confliggeva ovviamente con la grande affermazione: «Ascolta, Israele, il Signore Iddio nostro è l’unico Signore». L’interpretazione della dottrina data da mori ed ebrei non era certamente perversa, basti ricordare che le rappresentazioni pittoriche raffiguravano la Trinità talvolta come tre vecchi uomini identici, altre volte come distinti, con il Padre che indossava una tiara, il Figlio che portava la croce e lo Spirito una colomba. O ancora, con un corpo solo e tre teste o con una testa e tre facce20. Muhammad, secondo Serveto, era pronto ad ammettere che Cristo fosse il più grande dei profeti, lo Spirito di Dio, la potenza di Dio, il soffio di Dio, l’anima di Dio, la Parola nata dalla sempre Vergine per il soffio di Dio; ma Dio solo sapeva quanto questa dottrina della Trinità fosse stata oggetto di derisione da parte dei musulmani21. Per quanto riguarda gli ebrei, Serveto disse: «Mi vengono le lacrime quando vedo le oscure risposte che sono state accampate contro Rabbi Kimhi per aver criticato i cristiani su questo argomento»22.
Quale, dunque, fu lo stupore di Serveto quando approfondì lo studio della parola sacra per non trovare un bel niente sulla Trinità. L’espressione stessa manca – né vi è alcuna menzione dell’unica sostanza e delle tre persone. La parola chiave, homooùsios, che descrive la relazione del Figlio con il Padre, è assente. C’è qualcosa riguardo al Padre, qualcosa riguardo al Figlio, qualcosa riguardo allo Spirito Santo, ma non viene mai dichiarato che sono tre in uno. Dovremmo noi allora, pensò Serveto, chiedere ai mori e agli ebrei di aderire a una dottrina non enunciata nella parola di Dio? Se accettano il battesimo e in seguito peccano in questo dogma dell’Uno e Trino, dovremmo noi, allora, mandarli al rogo? E se la dottrina non è biblica, quando e dove si formò? Serveto si mise a cercare. Può darsi che avesse fatto parecchi progressi sull’argomento mentre era ancora a Tolosa, ma su questo punto non abbiamo informazioni precise.
I suoi studi s’interruppero quando fu convocato di nuovo al servizio di Quintana. La ragione fu che Quintana era stato chiamato a ricoprire la carica di confessore di Sua Maestà Imperiale e a recarsi al suo seguito in Italia per l’incoronazione e poi in Germania nella speranza di sistemare la questione di Lutero. Dopo sette anni di permanenza in Spagna, Carlo v adesso era pronto a dedicarsi all’Europa. Egli comprese che se si voleva salvare il cristianesimo e respingere i turchi, bisognava per prima cosa placare i dissensi in Europa. Egli stesso era stato in disaccordo con il papa per qualche tempo perché Sua Santità, che si sforzava di mantenere un equilibrio nei poteri, si era avvicinato alla Francia, cui dava il proprio sostegno. La motivazione era che Carlo, con l’elezione a imperatore del Sacro Romano Impero in Germania, aveva fatto pendere la bilancia troppo pesantemente dalla propria parte in un momento in cui aveva già il controllo di Spagna, Borgogna, Paesi Bassi e Austria.
Nel conflitto che ne seguì le truppe imperiali saccheggiarono Roma e fecero prigioniero il papa. Questo successe nel 1527. L’imperatore ebbe l’acume di percepire che un papa prigioniero perdeva così tanto prestigio da diventare inutile e quindi si doveva ripristinare qualche forma di libertà. Per tale ragione si risolse ad andare in Italia e ad accettare l’incoronazione dalle mani del papa. Carlo era già stato incoronato nel 1520 nel suo regno. La benedizione del papa era come il matrimonio in chiesa dopo la cerimonia civile. Alcuni dei predecessori di Carlo ne avevano fatto a meno, ma restaurare l’antica usanza era un modo per riconciliare l’armonia fra i due grandi poteri del mondo medievale, che corrispondevano al Sole e alla Luna nel firmamento: l’imperatore e il papa. Fatto ciò, Carlo si dedicò alla Germania per tentare di pacificare i luterani, tramite un uomo di Chiesa moderato come Quintana.
Nel luglio del 1529 l’imperatore lasciò la Spagna sulla nave ammiraglia di Andrea Doria e la corte lo seguì. Gli olandesi, che avevano diffuso il culto di Erasmo, si allontanarono dalla Spagna e la moda erasmiana declinò. Ma questo evento non fu l’unica causa. Ombre minacciose si stavano allungando su tutta l’Europa. In Italia il sacco di Roma segnò la fine del periodo rinascimentale in Vaticano e l’anno in cui Carlo V lasciò la Spagna fu quello in cui scoppiò la guerra religiosa in Svizzera. Settarismo, dogmatismo, fanatismo e atrocità erano alle porte.
In agosto Carlo approdò a Genova per stipulare la pace col papa. Gli imperialisti non videro la cosa di buon occhio. Erano già stati sul punto di arruolare Erasmo per pubblicare il De Monarchia di Dante in modo da sostenere le rivendicazioni dell’Impero contro la Chiesa, ma ora ecco che l’imperatore tornava a baciare il piede papale23. Carlo sapeva cosa si stava accingendo a fare. Un po’ di spettacolo era il modico prezzo da pagare per la pace e il potere. Il papa a sua volta compensava la propria debolezza calcando la scena di uno dei più maestosi spettacoli, superiore a ogni sfarzo medievale. Roma sarebbe stata il palcoscenico naturale ma c’erano buone ragioni per scegliere Bologna e, come dice il proverbio, «dov’è il papa, ivi è Roma»24.
L’occasione era ghiotta. Grazie alla munificenza privata e pubblica vennero eretti in ogni angolo archi trionfali e iscrizioni dorate per celebrare le vittorie dell’imperatore e la scoperta delle Isole Antipodi. Dalle bocche spalancate di leoni scolpiti sgorgava vino rosso, e vino bianco dai becchi delle aquile. Sulle abitazioni volteggiavano e scintillavano fronzoli porpora e dorati. Pifferi e tamburi, trombe e tromboni suonavano come nel Giorno del Giudizio. I cani correvano intorno e i cavalli s’impennavano. Un fiume di centomila persone di tutte le età si ammassò nelle strade e si arrampicò su mura, finestre e frontoni per vedere l’imperatore e il papa, i dignitari dalla Bretagna e dall’Île du Levant, principi e pari, cardinali e canonici in abbigliamento splendente. Il Santissimo Padre, Clemente VII, cavalcava in mezzo a quattro cardinali a piedi. Sulla sua testa era posata una tripla corona. Sedeva su un seggio dorato sotto un baldacchino d’oro.
Quando il papa e l’imperatore s’incontrarono, Sua Maestà baciò il piede di Sua Santità e implorò di essere accolto come suo figlio25.
Gli imperialisti minimizzarono e Serveto stette a osservare torvo. Un quarto di secolo più tardi scrisse: «Con questi nostri occhi lo abbiamo visto [il papa] trasportato in pompa magna sopra le teste dei principi, mentre faceva con la mano il segno della croce, adorato da tutta la gente inginocchiata nelle strade, cosicché quelli che riuscivano a baciargli i piedi o le pantofole si ritenevano più fortunati degli altri e dicevano d’aver ottenuto molte indulgenze e che per quanto li riguardava le pene dell’inferno sarebbero state rimesse per molti anni. Oh abominevole tra tutte le bestie, la più spudorata tra le meretrici!»26.
Cos’era successo a Serveto? Questo non è il linguaggio di un imperialista frustrato. Queste sono parole di un settario medievale o di un riformatore protestante. Questo è il linguaggio di quel Wyclif che confrontava sdegnosamente la povertà di Cristo con l’opulenza del papa. Questo è il linguaggio di quel Jan Hus che dipingeva Cristo come l’umile a cavallo di un asino mentre il papa viaggiava sopra un destriero dal morso dorato e le nappe ondeggianti fino al suolo. È il linguaggio di un Melantone, e di quel Lutero che pubblicò un libro di xilografie raffiguranti da una parte Cristo a piedi nudi e dall’altra il papa trasportato in una portantina; da una parte Cristo che estrae una moneta dalla pancia del pesce, dall’altra il papa che incassa i proventi delle indulgenze; infine Cristo che ascende al cielo e il papa come un anticristo che scende all’inferno.
Da qualche parte Serveto aveva assimilato, se non il virus dei protestanti, il feroce catastrofismo dei francescani spirituali che avevano predetto la rovina del papato come preludio al ripristino del cristianesimo nella grande età dello Spirito.