33

Erano tutti in attesa del Giudice.

L’ area del cantiere era presidiata dalle forze di polizia, ma nessuno avrebbe detto o fatto nulla prima dell’ arrivo del capo del dipartimento. La scena era come congelata.

Intanto, l’ incendio era stato domato, ma la palazzina in mattoni rossi era crollata di schianto. La combustione dei materiali accumulati nella casa aveva prodotto una nube tossica che, combinandosi con la luce dell’ alba, conferiva al cielo un colore brillante.

L’ effetto era insieme affascinante e letale, pensò Mila ammirandolo.

Anche le cose malvagie potevano apparire belle. Ma i vigili del fuoco erano stati costretti a evacuare il quartiere.

«Proprio la pubblicità di cui avevamo bisogno» fu il commento di Boris.

Si rifiutava di parlare con lei. Era arrabbiato, ma Mila temeva che fosse anche deluso. Non l’ aveva messo al corrente delle sue scoperte, tagliandolo fuori. Ma, soprattutto, non si era fidata. Qualcosa si era irrimediabilmente spezzato nel loro rapporto.

Anche Gurevich la stava ignorando. Mila aveva chiamato lui quella notte, non Boris, per non destare il sospetto che fosse in combutta con il vecchio amico. All’ arrivo dei rinforzi, l’ ispettore aveva raccolto il suo rapporto senza fare una piega. La poliziotta gli aveva riferito gli sviluppi dell’ indagine solitaria – partendo dal ritaglio di giornale rinvenuto nel tombino, aggiungendo il dettaglio dell’ sms che parlava di Kairus e completando il racconto con la storia di Diana Müller.

Aveva omesso un solo particolare. Simon Berish.

Era stata lei a mandarlo via. Non voleva che i superiori lo trovassero lì. La reputazione dell’ agente speciale era abbastanza compromessa anche senza doversi esporre per un caso non suo. Mila gli aveva assicurato che dopo sarebbe andata a ragguagliarlo.

Da una decina di minuti, i vigili del fuoco li avevano autorizzati a togliersi le maschere antigas. Le esalazioni venefiche che provenivano dalle macerie fumanti erano state rese inerti da una gettata di schiuma.

L’ acufene era cessato, ma Mila non riusciva a levarsi dalla mente la voce dell’ uomo nell’ ombra.

Era stato abile ad attirarla nella trappola del nido. Mi ha osservata, si disse. Sa che subisco il richiamo della paura.

Berish aveva detto che si trattava di Kairus, ammettendo così l’ esistenza del Signore della buonanotte. Ma perché nel loro primo incontro l’ agente speciale le aveva taciuto la verità?

Una Bmw nera e con i vetri oscurati superò lo sbarramento di poliziotti che impediva a cronisti e curiosi l’ ingresso alla zona delle operazioni. Andò a parcheggiare proprio sotto il grattacielo in costruzione. Mila riconobbe la macchina del Giudice. Gurevich e Boris scattarono per andarle incontro.

Invece di scendere, il passeggero rimase seduto nell’ abitacolo e abbassò il finestrino per conversare con i due che erano in piedi all’ esterno. La poliziotta si trovava dal lato opposto della vettura e non poteva assistere al dialogo. Trascorsero alcuni minuti. Poi, finalmente, gli ispettori si scostarono per permettere l’ apertura dello sportello.

Il tacco di dodici centimetri si posò sul suolo impolverato di cemento. La chioma biondissima spuntò subito dopo. Il tailleur era immancabilmente nero e il trucco perfetto anche a quell’ ora del mattino.

Come sempre era impeccabile Joanna Shutton, il Giudice.

Su di lei giravano parecchie storie all’ interno del dipartimento. Nessuna aveva mai superato lo status di pettegolezzo – si sapeva solo che era nubile e che la sua vita privata era blindata – ma, soprattutto, nessuna di quelle voci conteneva un’ insinuazione di natura sessuale. Ciò la diceva lunga sul suo potere d’ intimidazione. Aveva un curriculum perfetto per assurgere al ruolo di comandante in capo.

Dopo essersi distinta in accademia come la migliore del corso, a Joanna Shutton non era stato riservato un ruolo di prestigio. La ragazza prometteva bene ma avrebbe fatto sfigurare i colleghi maschi, e poi era una saccente rompiscatole. Così le affidavano solo casi minori. Tuttavia, riusciva sempre a trovare il modo per distinguersi grazie a capacità d’ apprendimento, impegno e abnegazione. Si era anche guadagnata l’ appellativo denigratorio di «Giudice» che lei presto avrebbe trasformato in un titolo di merito.

I giornalisti avevano iniziato presto ad adorarla.

Era perfetta per le prime pagine e per la tv, con le sembianze di una modella e il carattere arcigno di uno sbirro vecchio stampo. Si era verificato ciò che i suoi superiori temevano. Non volevano che l’ immagine della polizia federale fosse filtrata attraverso la figura di una bionda sexy.

In soli due anni, destreggiandosi fra vari incarichi, Joanna Shutton era diventata il più giovane ispettore della storia del dipartimento. Dopo di allora, nessuno era più riuscito a ostacolare la sua ascesa verso il vertice del comando.

La donna si sfilò gli occhiali da sole e si diresse con passo sicuro verso il centro della scena, valutando con lo sguardo lo spettacolo offerto dalle rovine della palazzina di mattoni rossi.

«Chi può aggiornarmi?»

Immediatamente, intorno al capo si radunarono il solerte Gurevich, Boris e il comandante dei pompieri. Fu quest’ ultimo a parlare.

«Abbiamo domato le fiamme un’ ora fa. Lo stabile però è crollato quasi subito. A detta della vostra agente, il fuoco è divampato all’ improvviso. Però non me la sento di confermare la natura dolosa: con tutto il materiale infiammabile che era stipato là dentro, sarebbe bastata una scintilla.»

Il Giudice ponderò la frase. «Una scintilla che, a quanto pare, ha atteso anni e ha scelto proprio stanotte per incendiare tutto.»

Il commento sarcastico della Shutton cadde nel silenzio come un sasso in uno stagno. Non sapevano mai come reagire con lei, notò Mila. Non si capiva se scherzasse oppure usasse l’ ironia come una sferza, al solo scopo di tenerli in riga.

«Agente Vasquez» la convocò la donna senza neanche guardarla.

La poliziotta si avvicinò al gruppetto. L’ aura di Chanel del Giudice si espandeva tutt’ intorno, come una sfera di potere che in quel momento inglobò anche Mila. «Sissignora.»

«Mi dicono che ha visto un uomo là dentro e che questi ha provato ad aggredirla.»

Non era andata proprio così, ma Mila rispettò la versione concordata con Berish. «C’ è stata una breve colluttazione durante la quale la torcia elettrica mi è caduta. Siamo rimasti al buio ma sono riuscita a sparare dei colpi per metterlo in fuga.»

«Perciò non l’ ha ferito.»

«Non credo.» Stavolta Mila era sincera. «L’ ho solo visto scappare. Poi sono fuggita anch’ io perché rischiava di crollarmi tutto addosso.»

«E ha perso la pistola. È esatto?»

Mila abbassò lo sguardo. Non era onorevole per un poliziotto smarrire l’ arma. Non potendo rivelare che era stato Berish a sparare, si era salvata anche dal dover ammettere che la pistola le era caduta di mano per una stupida disattenzione. Comunque, non ci faceva lo stesso una bella figura. «È esatto, Giudice.»

La Shutton si disinteressò momentaneamente di lei e si guardò intorno. «Dov’ è Chang?»

Poco dopo, il medico legale emerse in una tuta d’ amianto dalle macerie incandescenti. Si tolse il copricapo e li raggiunse.

«Mi ha fatto chiamare?»

«Avete rinvenuto corpi sulla scena?»

«Nel magazzino erano presenti ingenti quantità di sostanze chimiche, idrocarburi e plastica: tutta roba che quando s’ infiamma produce temperature elevatissime. Aggiunga pure che i mattoni della costruzione hanno agito come una fornace. In simili condizioni, qualunque resto umano si sarebbe praticamente dissolto» disse sicuro il medico legale.

«Eppure quell’ uomo c’ era» affermò Mila con voce quasi stridula, senza rendersi conto che nessuno la stava accusando di mentire. «E c’ era lo scheletro di Diana Müller, una ragazzina scomparsa all’ età di quattordici anni di cui non si avevano più notizie da nove.»

«Com’ è possibile che nessuno si sia mai accorto di nulla?» chiese il Giudice.

«La casa faceva parte di un’ eredità indivisa» puntualizzò Gurevich, ignorando Mila. «A detta dell’ impresa che oggi avrebbe dovuto demolire lo stabile, non ci viveva nessuno. E poi è singolare che ai servizi sociali non sia arrivata alcuna segnalazione in tutto questo tempo. Guardatevi intorno: non ci troviamo mica in un sobborgo disabitato. È la zona degli affari, con migliaia di persone che transitano e lavorano qui ogni giorno.»

Sì, ma dopo il tramonto questo posto è un deserto, avrebbe voluto ribattere Mila, ma scosse semplicemente la testa in segno di diniego.

Solo Boris non infierì su di lei, limitandosi a evitare di guardarla. Quel silenzio feriva la poliziotta più delle velate accuse dell’ altro ispettore. Joanna Shutton, invece, sembrava imperturbabile.

«Se è andata come dice l’ agente Vasquez, allora l’ uomo che l’ ha aggredita ha anche appiccato l’ incendio e ha scelto di morire fra le fiamme» affermò Gurevich in tono saccente. «Perché mai? È insensato.»

Il Giudice si rivolse nuovamente al comandante dei pompieri. «Immagino che lei abbia parlato con l’ impresa che gestisce il cantiere.»

«Infatti, li abbiamo interpellati perché conoscevano bene l’ area in cui saremmo dovuti intervenire.»

«Mi dica, a parte l’ ingresso principale, c’ era un altro modo per avere accesso alla casa?»

Il comandante ci rifletté un momento. «Be’ , ci sarebbero le condotte fognarie che passano proprio sotto la proprietà. Non escluderei che qualcuno abbia trovato il modo di accedervi dall’ interno dell’ edificio.»

Il Giudice si voltò verso i suoi collaboratori maschi. «Ecco una possibilità che non avevate messo in conto. Cioè che gli abitanti della casa usassero una via diversa per entrare e uscire senza essere visti. L’ assalitore può averla utilizzata per scappare dopo aver dato fuoco a tutto.»

Mila incassò l’ appoggio inatteso della Shutton. Ma non si illuse.

Il Giudice finalmente la fissò. «Lo scetticismo dei suoi colleghi, mia cara, è dovuto al fatto che lei ha agito senza attendere ordini, dimostrando un’ assoluta mancanza di rispetto per le gerarchie. Inoltre ha messo a repentaglio l’ indagine. Sarà difficile riprendere il bandolo, visto che le prove, se mai ci fossero state, sono andate distrutte nell’ incendio.»

Mila avrebbe voluto dire che le dispiaceva, ma le sue parole sarebbero parse un’ infelice menzogna. Così tacque e, a capo chino, continuò a subire.

«Se pensa di essere migliore di noi, allora lo dica. Conosco il suo lavoro, so quanto è brava. Ma non mi sarei mai aspettata da una poliziotta così esperta un simile comportamento.» Poi la Shutton si rivolse agli altri. «Lasciateci sole.»

34

Il terzetto di uomini si allontanò dopo un rapido scambio di sguardi.

Nonostante costituissero una maggioranza, davanti a una donna come il Giudice i maschi apparivano sempre in inferiorità.

Rimaste sole, la Shutton attese qualche secondo prima di parlare, come se volesse riflettere bene. «Vorrei darle una mano, agente Vasquez.»

La poliziotta, che si aspettava un’ altra reprimenda, rimase interdetta. «Come ha detto, scusi?»

«Io le credo.»

Era molto più di un appoggio. Pareva proprio la proposta di un’ alleanza.

La Shutton iniziò a passeggiare e Mila le andò dietro. «Mentre venivo qui, l’ ispettore Gurevich mi ha aggiornata sull’ accaduto. Ha riferito che lei avrebbe intenzione d’ inserire nel rapporto alcuni riferimenti a fatti avvenuti vent’ anni fa.»

«Sissignora.»

«Il Mago, l’ Incantatore di anime, il Signore della buonanotte... È esatto?»

«E Kairus» aggiunse Mila.

«Già» disse il Giudice arrestandosi. «Adesso c’ è anche quest’ altro nome.»

Mila si convinse che la Shutton lo conoscesse già. Ma forse faceva parte di una verità riservata a pochi.

«Mi ricordo del caso degli insonni» affermò il capo del dipartimento. «La vicenda ha segnato anche il declino del Programma Protezione Testimoni. Qualche anno dopo, uno degli agenti speciali coinvolti perse la sua dignità per un’ altra squallida faccenda.»

Mila intuì che si stesse riferendo a Simon Berish. Non domandò cosa accadde, ma fu la Shutton a dirglielo.

«Ha accettato una somma di denaro per far fuggire un pentito della criminalità che avrebbe dovuto proteggere ma anche sorvegliare.»

Mila non riusciva a credere che fosse quello il motivo per cui Berish era considerato un reietto, non lo immaginava nei panni dello sbirro corrotto. Ma si rese anche conto che la Shutton moriva dalla voglia di raccontarle la storia. Decise di reggerle il gioco. «Quell’ agente non sarà più in servizio, immagino.»

Il Giudice si bloccò, voltandosi a guardarla. «Purtroppo non siamo mai riusciti a trovare le prove per inchiodarlo.»

«Perché mi dice tutto questo?»

«Perché non voglio che si rivolga a lui.» Lo ammise con estrema franchezza. «Qualunque cosa accada, lei verrà solo da me. Intesi?»

«Intesi. Ha qualcosa in contrario se decido di citare Kairus nel mio rapporto?» domandò per provocarla.

«Affatto» minimizzò il Giudice. Poi il tono si fece confidenziale. «Ma se vuole un consiglio – da donna a donna – non lo farei. È un caso vecchio di vent’ anni: senza prove o indizi, il rischio è di rimanere impantanati. E poi quei soprannomi non significano niente. Sono solo uno spauracchio buono per il pubblico, creato dai media per aumentare l’ audience televisiva o vendere qualche copia in più di giornali e riviste. Non si renda ridicola andando appresso a un personaggio da fumetto.»

Ma Mila non poteva evitare di pensare alla figura incontrata nella casa quella notte. Era umano, di carne e ossa come tutti. Forse il contesto – il nido e il buio misto alla paura – aveva contribuito a farglielo idealizzare. Poteva concordare sul fatto che non fosse un mostro.

Ma c’ era, ed era reale.

«Se nel rapporto affermassi di essere stata semplicemente aggredita da uno sconosciuto?»

La Shutton sorrise. «Decisamente molto meglio.» Poi la scrutò. «Ho seguito i suoi passi dall’ inizio dell’ indagine e credo si sia mossa bene. So che ha manifestato delle perplessità riguardo all’ ipotesi che dietro la serie di omicidi ci sia un’ organizzazione terroristica.»

«Infatti, e continuo a non crederlo.»

«Posso permettermi di investire nella sua idea, agente Vasquez?»

Mila non comprendeva cosa avesse in mente.

«Gurevich mi ha chiesto di toglierla di mezzo, ma ritengo che lei possa essere utile in un altro modo.» La Shutton fece cenno al suo autista che subito scese dalla macchina recandole una cartellina marrone.

Il Giudice la porse a Mila che la osservò. Era molto sottile. «Di che si tratta?»

«Voglio che segua una nuova pista. E qui dentro c’ è una cosa che, sono certa, la interesserà.»

35

L’ ufficio era sempre stato il suo rifugio, ma adesso gli sembrava una cella.

Berish andava avanti e indietro cercando un modo per evadere.

«Non sono riuscito a colpirlo» disse rivolto a Hitch che, accucciato nel suo angolo, seguiva con la testa l’ inquieta camminata del padrone.

Non si dava pace per ciò che era accaduto la notte prima. Al buio la mano gli era tremata e lui non era riuscito a colpire il bersaglio. In fondo non impugnava una pistola da un pezzo. L’ uomo d’ azione era diventato un uomo di mente, rammentò a se stesso, deridendosi.

Ma la cosa peggiore era che non fosse riuscito a vedere bene in faccia l’ artefice del tormento che l’ aveva perseguitato per vent’ anni. Così avrebbe dovuto interrogarsi ancora, senza pace.

Kairus è tornato, si ripeteva.

Quella notte, prima che lui abbandonasse il cantiere, Mila gli aveva rivelato tutto ciò che era accaduto negli ultimi giorni, ragguagliandolo sulla strage compiuta da Roger Valin e gli omicidi commessi da Nadia Niverman ed Eric Vincenti. Tutta gente che, come André García, era sparita e poi riapparsa, ma solo per uccidere.

Berish aveva ascoltato con attenzione il resoconto di crimini che erano stati etichettati prima come vendette e poi come atti terroristici, mentre un’ antica paura si faceva largo dentro di lui, seguendo una strada conosciuta ma che non percorreva da anni. Un grumo di dubbi e apprensioni gli era salito in gola.

Cosa stava accadendo? Perché quei delitti concatenati?

Ogni volta che era inquieto, provvedeva Sylvia a calmarlo. Il ricordo permeava la coltre informe delle angosce, come un miraggio luminoso che fende la nebbia. Veniva a consolarlo con il suo sorriso, e una carezza sulla mano.

Non c’ era giorno che Berish non pensasse a lei.

Anche se era convinto di essere riuscito a esiliarne la memoria in un luogo precluso anche a se stesso, Sylvia scovava sempre il modo per tornare. Come un gatto che riesce ogni volta a trovare la strada di casa. La sorprendeva negli oggetti, oppure in un paesaggio. O veniva a parlargli con le parole di una canzone.

Per quanto breve fosse stata la loro storia, lui l’ amava ancora.

Ma non era più il sentimento selvaggio che si era rivoltato ferocemente contro di lui dopo che era finita, quasi a chiedergli ragione di ciò che era accaduto e a dargliene la colpa. Si era trasformato in una lontana nostalgia. Affiorava nel cuore, lui la raccoglieva per un istante con le dita, la contemplava come fosse un panorama suggestivo e poi la lasciava di nuovo cadere.

Al loro primo incontro era stato colpito dalla sua treccia corvina. Avrebbe imparato presto che il gesto di sciogliersela era il segnale di quando voleva fare l’ amore. Non era bella, quel giorno. Ma subito capì di non poter fare a meno di lei.

Tre battiti riportarono indietro l’ agente speciale.

Berish si bloccò al centro della stanza. Anche Hitch si mise in allerta.

Nessuno bussava alla porta di quell’ ufficio.

«Probabilmente l’ uomo che abbiamo visto nella casa è riuscito a salvarsi dall’ incendio scappando attraverso le fogne.»

Mila era fuori di sé. Berish la tirò nella stanza, sperando che i colleghi non l’ avessero notata. «Perché sei venuta qui?»

La poliziotta del Limbo brandiva una cartellina marrone. «La Shutton mi ha parlato di te. Ha preso lei l’ iniziativa, consigliandomi... anzi: intimandomi di lasciarti perdere. Ma se il capo del dipartimento ha compiuto un passo simile, allora c’ è sotto qualcosa.»

Berish era spiazzato. Non riusciva a immaginare cosa la Shutton avesse potuto raccontare a Mila. O forse lo immaginava benissimo e non voleva che la poliziotta si fosse lasciata condizionare. Ma se era venuta lì, l’ eventualità si poteva escludere.

«Lo so che preferiresti crogiolarti nella tua condizione di rinnegato» stava dicendo Mila, reagendo al suo silenzio. «L’ ho capito, ma è troppo comodo adesso. Voglio sapere ogni cosa.»

L’ agente speciale cercò di farle abbassare la voce. «Ti ho già detto tutto.»

Mila indicò la porta. «Là fuori, nel mondo reale, ho dovuto mentire per te. Ho raccontato un sacco di balle al capo del dipartimento perché non ti creasse problemi. Penso che adesso tu mi debba qualcosa.»

«Non ti basta che stanotte ti abbia salvato la vita?»

«Ormai siamo entrambi coinvolti.»

Poi Mila appoggiò la cartellina che aveva portato con sé sulla scrivania.

Berish la guardò come se si trattasse di una bomba a mano pronta a esplodere. «Cosa c’ è là dentro?»

«La prova che fino a questo momento non ci eravamo sbagliati.»

L’ agente speciale girò intorno al tavolo e andò a sedersi, incrociando le mani sotto il mento. «D’ accordo. Cosa vuoi sapere?»

«Ogni cosa.»

Per le scomparse dei sette insonni, vent’ anni prima c’ era stato un epilogo.

La polizia federale indagava su cosa accomunasse un ex militare omosessuale, un ragazzo delle consegne, una studentessa, un professore di scienze in pensione, una vedova, la proprietaria di un negozio di biancheria, una commessa dei grandi magazzini.

Se avessero trovato ciò che avevano in comune, forse avrebbero capito se e perché qualcuno si era interessato a loro, facendoli sparire. Ma non era venuto fuori niente, tranne il particolare troppo debole dell’ insonnia.

Sembrava un caso montato ad arte dalla stampa sulla base di mere coincidenze. In fondo, quanta gente spariva ogni giorno in città? E quanti assumevano sonniferi? Ma l’ opinione pubblica si era affezionata all’ idea macabra che ci fosse un responsabile. Ci credeva meno chi era chiamato a indagare.

Era stato allora che erano spuntati i testimoni.

«C’ è sempre qualcuno che ha visto o ha creduto di vedere qualcosa. Al dipartimento eravamo allenati a riconoscere millantatori o mitomani attratti dalle luci della ribalta, sapevamo come trattarli. Prima di tutto, valutavamo se avevano atteso troppo per farsi avanti. Poi le versioni che raccontavano, di solito, si assomigliavano più o meno tutte – è un classico. Ci parlavano di sensazioni legate a un tipo sospetto che si aggirava sotto casa di uno degli scomparsi. Allora li sottoponevamo alla prova dell’ identikit. Non so perché, ma quando si tratta di criminali la gente descrive più o meno sempre la stessa faccia: occhi piccoli e fronte spaziosa. Secondo l’ antropologia è un retaggio dell’ evoluzione – il nemico affila lo sguardo quando ci sta puntando, e la fronte è la prima cosa che ci si abitua a notare nel caso si debba individuare un avversario che si nasconde in uno spazio aperto. A ogni modo, se ricorrono i due elementi somatici, allora si può legittimamente dubitare che l’ identikit sia autentico.» Berish si schiarì la voce. «Ma uno di loro ci fornì una descrizione che sembrava attendibile.» L’ agente speciale aprì il cassetto della scrivania e porse a Mila un foglio con un identikit.

Kairus – l’ uomo che faceva sparire la gente – aveva un viso androgino.

Fu la prima cosa che notò la poliziotta mentre osservava con attenzione per capire se riconosceva il volto intravisto la notte prima fra i bagliori dei colpi della pistola di Berish. Nonostante la piatta riproduzione dell’ identikit, priva di prospettiva, dal disegno emergeva comunque la delicatezza dei tratti. Sembravano convergere intorno agli occhi neri che, come spirali gemelle, risucchiavano la luce tutt’ intorno. I capelli scuri facevano da corona a una fronte ossuta. Gli zigomi erano alti e le labbra piene. Al centro del mento, un incavo imprimeva forza e insieme grazia.

Com’ era prevedibile, Kairus non sembrava affatto un mostro.

«La deposizione del testimone era accurata, precisa, circostanziata: riscontrabile in ogni particolare. Secondo il suo racconto, Kairus era sul metro e settanta di altezza, corporatura atletica, sui quarant’ anni. Il testimone si era accorto di lui perché, nel momento dell’ incontro, un singolare comportamento aveva scolpito quella figura umana nella sua memoria.»

Il Signore della buonanotte aveva sorriso.

«Senza un motivo, come se volesse semplicemente che si ricordasse di lui. Il testimone ci spiegò che aveva provato una sensazione di disagio misto a inquietudine.»

Lo misero sotto protezione. Ma non bastò.

«Mentre lo proteggevamo, sparì nel nulla.»

Sul viso di Berish si formò la tipica espressione di chi sa di avere a che fare con una minaccia che non è in grado di comprendere.

«È come se andassi al cinema per vedere un film dell’ orrore e il mostro attraversasse lo schermo: la paura per cui hai pagato il biglietto diventa un’ altra cosa, e non sai come chiamarla. È panico, ma anche qualcosa di più. È l’ idea stessa di non avere scampo. L’ irrimediabile e improvvisa consapevolezza che non esiste distanza che possa metterti al sicuro. E che la morte conosce il tuo nome.» Berish si passò una mano fra i capelli brizzolati. «Lo abbiamo chiamato, e lui si è fatto avanti: il Signore della buonanotte era fra noi. Non solo aveva un volto, ma aveva scelto pure come voleva essere chiamato.»

Kairus.

«Tre giorni dopo la sparizione dell’ unica persona che l’ aveva visto in faccia, al dipartimento arrivò un plico. All’ interno c’ era una ciocca di capelli appartenente proprio al testimone. Era accompagnata da un biglietto. Una sola parola. Un nome. Kairus.»

Non fu solo un venire allo scoperto, era un guanto di sfida in piena regola.

«Sembrava che ci dicesse: non vi siete sbagliati fino a ora. Sono sempre stato io. Avete il mio identikit, e ora anche il mio nome. Trovatemi.»

Nel dipartimento regnava una pesante aria di sconfitta e la paura non risparmiava nessuno. Perché se tale era il livello della provocazione, allora l’ intimidazione riguardava tutti, non soltanto i più insignificanti fra gli esseri umani.

«Finì lì, non sentimmo più parlare di Kairus e non ci furono altre scomparse» proseguì Berish. «Lo scherzo più riuscito del Signore della buonanotte fu lasciarci soli davanti a un dubbio. Non poteva essere chiamato assassino perché non c’ erano cadaveri. Non poteva essere definito un rapitore, perché non esisteva prova che le sparizioni fossero avvenute con la forza. Intorno a lui e alle sue motivazioni esistevano solo ipotesi.»

Kairus era l’ autore di un crimine senza nome. Se anche fosse stato catturato, non avrebbero saputo di cosa incriminarlo. Ma per le persone scomparse veniva usato ugualmente l’ appellativo di vittime.

«Come si chiamava il testimone?»

«Sylvia.»

36

Il testimone era una donna.

Mila si accorse che Berish aveva avuto un’ esitazione nel pronunciare il nome, come se gli costasse fatica. «Questa Sylvia vi aveva già fornito il volto di Kairus, perché l’ ha fatta sparire?»

«Per dimostrarci cosa era capace di fare. E quanto fosse determinato a farlo.»

«E c’ è riuscito» concluse amaramente la poliziotta. «Perché, ovviamente, quando l’ identikit non vi ha condotto da nessuna parte, voi avete deciso di archiviare il caso, prima che il fallimento vi travolgesse. Ma, in realtà, è stato un vero e proprio insabbiamento: nell’ archivio del Limbo ho trovato solo un fascicolo ripulito. Vi siete giustificati sostenendo che il Signore della buonanotte era solo un’ invenzione, una specie di leggenda, un bluff.» Mila era fuori di sé dalla rabbia. «Invece era reale – eccome se lo era. Ne abbiamo avuto la prova stanotte, quando ce lo siamo trovato davanti.»

L’ agente speciale sembrava ancora scosso da ciò che era successo nella palazzina di mattoni rossi.

«Eri sotto il comando di Steph nel Programma Protezione Testimoni, per cui è toccato a te il compito di proteggere quella Sylvia, vero?» Sul volto di Mila adesso c’ era delusione. «Eravate coinvolti tu e il capitano Stephanopoulos, chi altri?»

Berish affrontò la poliziotta con franchezza. «Joanna Shutton e Gurevich.»

Mila si bloccò. Il Giudice? Ecco perché poco prima le aveva offerto il suo aiuto. «D’ accordo col vostro capitano Steph, avete stretto un patto per salvare le vostre carriere. Nessuno ha più cercato gli scomparsi. Non ve ne fregava niente.»

«Vieni a parlare a me di carriera?» Berish si esibì in una risata ironica. «E Stephanopoulos chiese di essere assegnato al Limbo perché non voleva rassegnarsi.»

«Però tu hai permesso agli altri di lasciar perdere in nome dell’ interesse personale. Sei stato loro complice.»

Berish sentiva di meritare l’ accusa, ma volle lo stesso ribattere. «Se potessi tornare indietro, rifarei tutto perché la Shutton e Gurevich sono degli ottimi poliziotti. Il favore non l’ ho fatto a loro, ma al dipartimento.»

Mila si chiese perché mai l’ agente speciale prendesse le difese di colleghi che sicuramente lo disprezzavano. Ripensò alla storia che le aveva raccontato il Giudice circa il sospetto che Berish fosse uno sbirro corrotto. Per un istante fu colta dal dubbio che fosse tutto vero.

La poliziotta, però, iniziava anche a capire il motivo della riservatezza con cui erano stati ammantati gli omicidi degli ultimi giorni – a cominciare dalla strage compiuta da Roger Valin. Evitando fughe di notizie, i suoi superiori non cercavano di proteggere l’ integrità delle indagini, bensì se stessi dallo scandalo per ciò che era accaduto vent’ anni prima. «E Klaus Boris ne è al corrente?»

«Tu e il tuo amico siete solo pedine in questo gioco.»

Mila provò un leggero sollievo nell’ ascoltare le parole di Berish. Non poteva essere certa che corrispondessero alla verità, ma la confortavano. «Allora perché il Giudice mi avrebbe consegnato quella cartellina?» Indicò il plico marrone sul tavolo.

«Non lo so il perché» fu costretto ad ammettere Berish. «In realtà avrebbe dovuto sbatterti fuori dal caso. Ma con Joanna non si può mai sapere, è brava a usare le persone.»

«Se leggi cosa c’ è scritto, ti renderai conto che praticamente mi ha offerto uno spunto per giungere alla verità su ciò che avete deciso vent’ anni fa.»

Berish sorrise amaramente. «E ti fidi di lei? L’ avrà fatto perché ormai ha capito che la storia verrà fuori comunque. Si sta solo preparando al peggio, credimi.»

L’ agente speciale poteva anche avere ragione. Perciò, Mila stabilì che non le importava di avere a che fare con uno sbirro che probabilmente in passato si era lasciato corrompere da un criminale pentito. «Perché non dai un’ occhiata all’ incartamento? Potresti anche decidere di darmi una mano...»

Berish sbuffò. Guardò Mila, poi la cartellina marrone. Alla fine, allungò la mano sul tavolo e la prese per leggerla.

Mila lo osservava mentre gli occhi gli scorrevano sulle righe di un unico foglio. Quando ebbe finito, lo posò.

«Se qui sopra c’ è scritto il vero, allora cambia tutto.»

37

Era un martedì di fine settembre che sembrava estate.

L’ aria calda li avvolgeva come un abbraccio da cui era impossibile divincolarsi. Hitch teneva la testa fuori dal finestrino della Hyundai, godendosi la brezza artificiale prodotta dall’ incedere dell’ auto.

Mila osservava la strada mentre, sul sedile accanto, Berish rileggeva per l’ ennesima volta il contenuto della cartellina marrone.

L’ agente speciale aveva una macchia di caffè sul polsino che cercava di nascondere tirando ostinatamente in basso la manica della giacca. Lo faceva quasi senza accorgersene. Mila notò il gesto con la coda dell’ occhio e le sembrò amabile. Berish teneva al proprio aspetto, più che apparenza era questione di decoro. Le ricordò quando era vivo suo padre, la cura che poneva nel lucidarsi le scarpe ogni mattina. Diceva che era importante presentarsi bene, per rispetto nei confronti degli altri. Anche se non aveva certo l’ età di suo padre, Berish possedeva modi da uomo all’ antica. E ciò per Mila era rassicurante.

«Da quanto tempo non dormi?» le chiese distrattamente.

«Sto bene.»

Le ultime ventiquattro ore erano state un frenetico susseguirsi di eventi. La calura del pomeriggio aveva un effetto calmante sui nervi della poliziotta. Il sobborgo che stavano attraversando era tranquillo. Composto da villette familiari una diversa dall’ altra, era abitato soprattutto dalla classe operaia. La gente lavorava e cresceva i figli, aspirando a nient’ altro che a una vita serena. La comunità doveva essere affiatata e, ovviamente, si conoscevano tutti.

Transitarono davanti alla chiesa battista in fondo all’ isolato, una costruzione bianca in mezzo a un ampio prato e con un campanile a punta. Si udivano inni gioiosi, anche se all’ esterno era parcheggiato un carro funebre.

Mila svoltò proprio lì accanto e andò a fermarsi di fronte alla terza casa della via, sotto l’ ombra di un grande olmo.

Scesero dall’ auto e una folata di vento bollente venne ad accoglierli per poi correre via. Nel giardino antistante la modesta abitazione, che si sviluppava su un unico piano, c’ erano tre bambini – due maschietti e una femminuccia. Smisero di giocare per osservare i due intrusi. I loro volti erano coperti di piccole macchie rosse.

«È in casa la mamma?» chiese Berish, mentre faceva scendere Hitch dalla macchina.

I tre non risposero, concentrandosi subito sull’ hovawart.

In quel momento, sulla porta della casa apparve una donna con in braccio un bambino sui due anni che per un istante li scrutò con aria sospettosa. Ma poi sorrise anche lui al cane.

«Buongiorno» disse la donna.

«Buongiorno» rispose Berish ricambiando il tono cordiale. «La signora Robertson?»

«Sì, sono io.»

A quel punto, i due agenti percorsero il vialetto scansando alcuni giochi e un triciclo, quindi salirono i gradini che conducevano alla terrazza.

«Siamo del dipartimento di polizia federale.» Arrivato alla porta, l’ agente speciale estrasse l’ unico foglio contenuto nella cartellina marrone e, tenendolo sollevato fra due dita, lo mostrò alla donna. «Riconosce questa denuncia?»

«Sì» disse la signora Robertson, un po’  spaesata. «Ma non ho più avuto notizie.»

Berish scambiò un rapido sguardo con Mila, poi si rivolse nuovamente alla padrona di casa. «Possiamo entrare?»

Poco dopo Hitch si divertiva in giardino insieme ai figli più grandi della signora Robertson, mentre i due agenti erano seduti nel soggiorno dell’ abitazione.

Il tappeto ai loro piedi era cosparso di costruzioni e tessere di puzzle. Sul tavolo da pranzo c’ era un cesto colmo di biancheria da stirare. Un piatto sporco era in bilico sul bracciolo di una poltrona.

«Perdonate il disordine» disse la padrona di casa mentre sistemava in un box il bambino che aveva in braccio. «È difficile star dietro a tutto con cinque ragazzini da crescere.»

Aveva già spiegato che i maggiori non erano a scuola perché avevano contratto la rosolia. Il penultimo quel giorno era rimasto a casa con lei perché all’ asilo avevano paura del contagio. Infine il più piccolo, di soli tre mesi, dormiva nella culla sistemata nell’ ingresso.

«Si figuri» disse Mila. «Anzi, ci spiace essere piombati qui senza preavviso.»

Camilla Robertson era una donnina robusta che aveva superato i trent’ anni – braccia forti spuntavano da una camicetta gialla su cui spiccava una collanina con un piccolo crocifisso d’ argento. Capelli castani tagliati corti, carnagione chiara e limpidi occhi azzurri messi in risalto da gote rosse. L’ impressione complessiva era quella di una mamma indaffarata ma felice.

«Mio marito è il pastore Robertson della chiesa battista qui all’ angolo» ci tenne a dire la donna mentre si sedeva con loro, dopo aver liberato la poltrona dal piatto sporco. «Sta celebrando le esequie di un fratello della comunità che è venuto a mancare ieri e io avrei dovuto essere insieme a lui adesso.»

«Ci dispiace molto per il vostro amico» intervenne Berish.

La donna gli riservò un sorriso sincero. «Non dovrebbe dispiacersi, adesso è nelle mani del Signore.»

La casa era arredata in maniera semplice, gli unici abbellimenti erano costituiti da cornici con foto di famiglia e quadri che raffiguravano Gesù oppure la Vergine o l’ Ultima Cena. A Mila, però, non parevano ornamenti di una fede sfacciata, semmai il tributo a una religiosità profonda che accompagnava ogni aspetto della vita familiare.

«Posso offrirvi qualcosa?» chiese la donna.

«Non si disturbi, signora Robertson» le rispose Berish.

«Camilla» lo corresse lei.

«D’ accordo, come vuole... Camilla.»

«Va bene del caffè? Ci metto un istante.»

«Sul serio, abbiamo molta fretta» provò a frenarla l’ agente speciale. Ma la donna si era già alzata per recarsi in cucina.

Furono costretti ad attenderla qualche minuto, mentre il figlio di due anni li teneva d’ occhio dall’ interno del box. Camilla tornò con un vassoio e due tazze fumanti che servì subito agli ospiti.

«Potrebbe raccontarci la storia di quella denuncia?» domandò Mila per accelerare i tempi.

La signora Robertson si rimise a sedere in punta alla poltrona, congiungendo le mani fra le ginocchia. «Che vi posso dire... È stato tanto tempo fa, praticamente un’ altra vita.»

«Non c’ è bisogno che sia precisa, può riferirci ciò che ricorda» la incoraggiò Berish.

«Vediamo... Avevo quasi sedici anni. Vivevo insieme a mia nonna in un condominio dalle parti del passante ferroviario. Mia madre mi ha lasciato da lei quando avevo pochi mesi, era una sbandata e non sapeva occuparsi di me. Mio padre, invece, non l’ ho mai conosciuto. Ma non ce l’ ho con loro, li ho perdonati.» Fece una smorfia al figlioletto nel box che la ricambiò con un sorriso sdentato. «Mia nonna Nora non mi voleva, diceva sempre che ero un peso per lei. Prendeva un sussidio per infermità perché da giovane si era fratturata il bacino lavorando in fabbrica. Sosteneva che, se non ci fossi stata io, con quei soldi se la sarebbe passata molto meglio, invece per colpa mia era costretta a fare una vita da cani. Ha cercato più volte di piazzarmi in istituto, ma scappavo sempre per tornare da lei. Chissà perché, poi... Una volta, a otto anni, sono stata affidata a una famiglia. Erano brave persone e avevano altri sei bambini – alcuni con genitori diversi, proprio come me. Vivevano in armonia ed erano sempre felici. Io, invece, ero spaesata perché non riuscivo a capire il motivo di quell’ affetto disinteressato. La donna non era mia parente, eppure si prendeva cura di me: faceva il mio bucato, mi preparava da mangiare, o cose così. Pensavo di dover essere riconoscente in qualche modo, o che si aspettassero che lo fossi. Così una sera mi sono tolta i vestiti e mi sono infilata nel letto con suo marito, come avevo visto fare in un film che davano a tarda notte alla tv della nonna. Quell’ uomo non si è arrabbiato, è stato gentile e mi ha detto che certi comportamenti non andavano bene per una bambina e di rimettermi gli abiti addosso. Però mi sono accorta subito che era molto turbato. Come potevo sapere che ciò che avevo cercato di fare con lui era roba da grandi? Nessuno me l’ aveva mai spiegato. Il giorno dopo è venuta un’ assistente sociale per portarmi via. Non li ho più rivisti.»

Camilla Robertson aveva raccontato l’ episodio con una leggerezza che sorprese Mila. Come se avesse già fatto i conti col passato e fosse pienamente in pace, senza doversi preoccupare di nascondere nulla. E nel tono di voce non c’ era rancore, solo una vaga tristezza.

Berish avrebbe voluto che giungesse al punto, ma si rese conto che doveva lasciarla parlare.

«La prima telefonata è arrivata quando avevo sedici anni, il giorno del mio compleanno. L’ apparecchio ha squillato un po’  di volte, erano le due del pomeriggio e di solito la nonna dormiva fino alle sei. Gli squilli sono terminati, per poi ricominciare subito. È stato allora che ho risposto. Dall’ altra parte c’ era un uomo che mi ha fatto gli auguri. È stato strano, nessuno si ricordava quando compivo gli anni. Fino ad allora avevo avuto solo una torta con le candeline, durante uno dei miei tanti passaggi in istituto, e avevo dovuto spegnerle insieme con cinque bambini che erano nati nello stesso periodo. Era stato bello, ma non speciale. Invece quando quell’ uomo al telefono mi ha detto che aveva chiamato solo per me, mi sono sentita... lusingata.»

Mila osservò le foto dei Robertson sparse per il soggiorno. Decine di torte di compleanno e facce sorridenti sporche di crema e panna montata.

«Quell’ uomo le ha detto chi era?» chiese Berish.

«Non gliel’ ho nemmeno domandato. Non m’ importava. Gli altri si riferivano a me chiamandomi ’ la nipote di Nora’  e quando Nora aveva bisogno di me si serviva di brutte parole. Per questo, ciò che contava era che lui conoscesse il mio nome. Mi chiedeva se stavo bene e voleva sapere alcune cose della mia vita, per esempio come andassi a scuola, chi fossero i miei amici, il mio cantante o gruppo preferito. Però sapeva anche tante cose: che mi piaceva il viola, che appena avevo in tasca un po’  di soldi correvo al cinema, che andavo matta per i film con gli animali e avrei voluto un cane di nome Ben.»

«Non l’ ha stupita che conoscesse così tanto di lei?» si meravigliò Mila.

Camilla Robertson scosse il capo, divertita. «Le assicuro che ero più colpita dal fatto che qualcuno fosse interessato a me.»

«Cos’ è accaduto dopo?»

«Le telefonate sono diventate regolari. Di solito chiamava il sabato pomeriggio. Chiacchieravamo per una ventina di minuti, ma si parlava soprattutto di me. Era piacevole e non mi pesava non sapere chi fosse o che faccia avesse. Anzi, a volte era bello pensare che mi avesse scelta per instaurare un rapporto particolare. Non mi ha mai detto di non raccontare ad altri dei nostri colloqui, perciò non sospettavo che avesse brutte intenzioni. Non ha mai preteso d’ incontrarmi o che facessi qualcosa per lui. Era il mio amico segreto.»

«Per quanto tempo vi siete sentiti?» domandò Berish.

La donna fece mente locale. «Per circa un anno, credo... Poi le telefonate sono cessate. Ma la penultima me la ricordo ancora.» Si concesse una pausa e si fece seria. «Aveva un tono di voce diverso. Mi ha posto una domanda che non mi aveva mai fatto e che suonava pressappoco come: ’ Ti piacerebbe avere una nuova vita?’  Poi mi ha spiegato cosa intendeva. Se avessi voluto, avrei potuto cambiare nome e città, ricominciare da capo senza la nonna e magari avere anche un cane di nome Ben.»

Mila e Berish si concessero un rapido sguardo d’ intesa.

«Non mi ha spiegato come dovesse accadere una cosa del genere, mi ha detto solo che, se lo desideravo, lui poteva farlo avverare.»

Mila si allungò verso il tavolino per posare la tazza di caffè, molto lentamente perché non voleva infrangere l’ atmosfera che si era creata.

«Mi sembrava pazzesco e ho pensato a uno scherzo. Ma lui era molto serio. Gli ho assicurato che stavo bene, che non volevo un’ altra vita. La verità è che cercavo solo di rasserenarlo, mi dispiaceva che provasse pena per me. Lui mi ha detto di pensarci bene e che avrei potuto dargli una risposta il sabato successivo. Quando una settimana dopo ha richiamato, gli ho ripetuto le stesse cose. Non sembrava se la fosse presa per questo. Abbiamo ricominciato a parlare del più e del meno. Non sapevo che sarebbe stata la nostra ultima conversazione. Ricordo che quando sette giorni dopo il telefono non ha squillato, ho provato un senso di abbandono come mai mi era accaduto nella vita.» Il bambino nella culla si mise a piangere e Camilla Robertson si riebbe dai suoi pensieri. «Scusatemi» disse loro mentre si alzava per andare a controllare.

Mila si voltò verso Berish e parlò sottovoce. «Ho l’ impressione che abbia molto da raccontare.»

L’ agente speciale indicò con un dito la cartellina marrone con la denuncia. «Dobbiamo ancora parlare di questa...»

38

Poco dopo, Camilla Robertson fece ritorno col bambino.

Rimase in piedi, cullandolo fra le braccia per farlo riaddormentare. «Non sopporta il caldo e, francamente, neanche io. Il Signore ci ha regalato una lunga estate quest’ anno – sia lodato.»

«Mi dica, Camilla» intervenne Mila. «Lei ha risentito quell’ uomo al telefono...»

«È successo molti anni più tardi. Io ne avevo venticinque e non conducevo quella che si definirebbe un’ esistenza retta. Alla maggiore età, mia nonna mi ha messo fuori di casa. Mi ha detto che non aveva più obblighi verso di me. È venuta a mancare qualche tempo dopo e prego per lei tutti i giorni perché vada in paradiso.»

«Dal momento in cui si è ritrovata senza una casa, mi sembra che le cose abbiano preso una brutta piega» s’ intromise Berish.

Camilla lo fissò senza timore. «Sì, è così. All’ inizio avevo paura ma ero anche convinta che sarei stata comunque felice. Solo Dio sapeva quanto mi sbagliavo... La prima notte che ho dormito per strada mi hanno rubato quel poco che possedevo. Il secondo giorno sono finita al pronto soccorso con una costola incrinata. Dopo una settimana ho capito il sistema per sopravvivere e ho cominciato a prostituirmi. E un mese più tardi ho scoperto il segreto per essere felice in quell’ inferno, fumando la mia prima dose di crack.»

Più osservava la donna serena e conciliante che aveva davanti, meno Berish riusciva a credere che stesse parlando di se stessa.

«Ho subito diversi arresti, entravo e uscivo dal carcere o dalle comunità di recupero, ma ricominciavo sempre la stessa vita. A volte non mangiavo per giorni per poter comprare la droga. La accettavo come pagamento dai clienti – quei pochi che avevano ancora il coraggio di venire con me, visto che ero ridotta pelle e ossa, con i capelli che mi cadevano e i denti cariati.» Mentre parlava, il piccolo cercava di attaccarsi al seno attraverso la camicetta.

C’ era una dissonanza fra la scena di purezza che si svolgeva davanti agli occhi dei due poliziotti e quelle che invece evocava la donna coi suoi racconti.

«Ricordo una sera d’ inverno, pioveva a dirotto. In giro non c’ era un’ anima, ma ero costretta a stare fuori per racimolare i soldi per una dose. Inoltre non sapevo dove andare. Passavo gran parte del tempo in una specie di dimensione parallela, ero alienata. E ciò accadeva quando mi drogavo ma anche quando ero pulita, perché l’ unico istinto di sopravvivenza che conoscessi non mi spingeva a mangiare o a dormire, ma solo a farmi. Durante il temporale ho trovato rifugio in una cabina telefonica. Non ricordo quanto sono rimasta lì in attesa che spiovesse. Ero zuppa e sentivo un gran freddo. Provavo a riscaldarmi strofinandomi le mani sul corpo, ma non ci riuscivo. In quel momento, il telefono all’ interno della cabina ha squillato. Rammento ancora che l’ ho fissato a lungo, senza rendermi conto di cosa stesse accadendo. L’ ho lasciato suonare perché non avevo il coraggio di sollevare la cornetta. Qualcosa dentro mi diceva che non avevano sbagliato numero. Che la chiamata era proprio diretta a me.»

Mila attese che la donna si prendesse tutto il tempo, come fosse di nuovo in quella cabina, e nella memoria sollevasse di nuovo il ricevitore, proprio come aveva fatto molti anni prima.

«La prima parola che ha detto è stata il mio nome – Camilla. E ho riconosciuto subito la voce. Ricordo che mi ha chiesto come stavo, ma sapevo che conosceva già la risposta, così ho cominciato a piangere. Non potete immaginare come sia bello piangere dopo che non lo fai per anni e anni, pur avendone avuto le ragioni. Un solo pianto e sarei morta in quel mondo spietato: era l’ unica debolezza che non potevo concedermi.» Qualcosa s’ incrinò nella voce della donna. «Poi, per la seconda volta, l’ uomo mi ha fatto quella domanda: ’ Ti piacerebbe avere una nuova vita?’  E io gli ho detto di sì.»

Il piccolino si era riaddormentato fra le braccia della madre, mentre l’ altro bambino giocava tranquillamente nel box. Fuori, i tre figli più grandi gridavano allegri rincorrendo Hitch. Nella villetta, Camilla Robertson era circondata dalle cose più care. Aveva messo impegno e dedizione nel costruire quel piccolo mondo, come non avesse mai desiderato altro.

«Le ha spiegato come avrebbe fatto a offrirle una vita nuova?» domandò Berish.

«Mi ha dato istruzioni precise. Avrei dovuto acquistare dei sonniferi e recarmi la sera dopo presso un albergo. Lì avrei trovato una stanza prenotata a mio nome.»

Il dettaglio del narcotico amplificò subito l’ interesse di Mila e Berish: forse erano davvero vicini a una spiegazione del mistero degli insonni. Ma i due agenti evitarono perfino di guardarsi per non interferire col flusso del racconto.

«Dovevo stendermi sul letto e prendere la pillola per dormire» proseguì Camilla. «Dopo, mi sarei risvegliata in un posto diverso e avrei potuto ricominciare tutto da capo.»

Mila prese nota mentalmente dei riferimenti. Non riusciva ancora a credere che la storia fosse reale. Eppure aveva un senso. «E lei cos’ ha fatto? Ci è andata?»

«Sì» confermò la donna. «La stanza era stata fissata per me. Ho salito le scale, ho aperto la porta. A parte lo squallore, non c’ era niente che mi turbasse o mi facesse pensare a un pericolo. Ho preso il flacone con le pillole di sonnifero e mi sono stesa sul letto, senza disfarlo e senza neanche spogliarmi. Ricordo di aver tenuto la confezione fra le mani strette in grembo e di aver guardato il soffitto. Mi ero drogata per sette anni, eppure in quel momento avevo paura di buttar giù un sonnifero. Continuavo a chiedermi cosa mi sarebbe accaduto e se in effetti fossi pronta per una nuova vita.»

«Cosa è successo dopo?» chiese Berish.

Camilla Robertson lo guardò con occhi stanchi. «Con una lucidità che non credevo di possedere, mi sono detta che se non avessi cercato di uscirne da sola invece di tuffarmi nel vuoto, allora sarei sicuramente morta. Capisce, agente Berish? Per la prima volta mi sono resa conto che, nonostante l’ autodistruzione a cui mi sottoponevo, non volevo affatto morire.» Trasse un profondo respiro e la croce che portava al collo si sollevò insieme al torace. «Mi sono alzata da quel letto e sono andata via.»

Berish recuperò dalla tasca della giacca l’ identikit di Kairus. Dispiegò il foglio e lo porse alla donna. «Ha mai visto quest’ uomo?»

Camilla Robertson mostrò una breve esitazione nell’ accettare l’ offerta dell’ agente speciale. Poi prese il pezzo di carta dalla sua mano – tenendolo a distanza, quasi ne avesse timore. Gli occhi si posarono sul volto, percorrendo ogni tratto e sfumatura.

Berish e Mila rimasero in attesa, trattenendo il respiro.

«No, mai visto prima.»

I due agenti non diedero a vedere quanto fossero delusi.

«Signora Robertson, ancora un paio di domande se non le spiace» intervenne Mila. «Ha mai più ricevuto chiamate?»

«Mai più.»

La poliziotta le credeva.

«Non ce n’ è stato bisogno» aggiunse Camilla. «Dopo quell’ esperienza sono entrata in comunità, ma facendo le cose sul serio. Lì ho conosciuto il pastore Robertson e ci siamo sposati. Come vede, ce l’ ho fatta da sola» concluse con tono trionfante.

Berish le perdonò con un sorriso quel peccato di superbia. «Perché anni dopo ha deciso di denunciare quel tizio?»

«Col tempo ho cambiato opinione su di lui. Non ero più sicura che le intenzioni di quell’ uomo fossero positive.»

«Cosa gliel’ ha fatto pensare?» Il punto di vista interessava molto Berish.

«Non saprei di preciso. Quando ho conosciuto mio marito e ho visto come si dedica agli altri, mi sono domandata perché mai uno che ha dei buoni propositi debba avvertire la necessità di nascondersi nell’ ombra. E poi...»

Berish e Mila rimasero in bilico sulla pausa.

«Poi... c’ era qualcosa di... malefico.»

Berish ponderò la risposta. Non voleva dare a Camilla l’ impressione che avesse detto un’ assurdità, perché invece lui intuiva un senso in quelle parole.

«Un’ ultima cosa» chiese Mila. «Rammenta il nome dell’ albergo e la camera in cui si recò quel giorno?»

«Certo, dovrei...» Camilla Robertson sollevò lo sguardo al soffitto per richiamare il ricordo. «La trecentodiciassette dell’ Ambrus Hotel.»

39

L’ Ambrus Hotel era un luogo dimenticabile.

Si trattava di uno stretto parallelepipedo, incastonato in una fila di edifici uguali.

La facciata non si distingueva dalle altre. Quattro finestre per ogni piano, fino al sesto. Il panorama era rappresentato da un ponte della ferrovia su cui passava un treno più o meno ogni tre minuti. Sul tetto spiccava un’ insegna al neon che però a quell’ ora del pomeriggio era spenta.

All’ esterno si era formata una colonna d’ auto – il suono dei clacson si mescolava con la musica house proveniente da un’ autoradio. I pendolari del centro erano costretti ad attraversare quella parte della città per raggiungere la tangenziale che li avrebbe portati nei sobborghi in cui risiedeva la classe media. Ma molti di loro, specie impiegati di sesso maschile, si sarebbero fermati lì per qualche ora. Infatti, tutt’ intorno, era un florilegio di bar a luci rosse, locali che promettevano spettacoli di lap dance e sexy shop che attendevano clienti. Le insegne ammiccanti erano un irresistibile richiamo per uomini in cerca di evasione. L’ ingresso della metropolitana rigettava ragazze carine e molto truccate.

La funzione dell’ Ambrus Hotel nell’ economia locale era piuttosto evidente.

Mila e Berish s’ immisero in una porta girevole e sbucarono in una hall polverosa. Il ponte della ferrovia impediva alla luce del giorno di penetrare e le applique gialle non riuscivano a rischiarare l’ ambiente, immerso in una penombra zafferano. L’ odore del fumo delle sigarette impregnava l’ aria.

Da fuori provenivano ancora i rumori del traffico, ma ovattati. Una musica lontana permeava la sala e, dalla voce della cantante, a Berish sembrò di riconoscere un vecchio disco di Édith Piaf – un’ aura di romanticismo maledetto che accoglieva i dannati volontari di quell’ involontario inferno.

Su un divano in pelle lisa era seduto un anziano uomo di colore con una giacca a quadroni e il colletto della camicia abbottonato ma senza cravatta. Fissava un punto impreciso davanti a sé e mormorava la canzone in sottofondo con una mano appoggiata a un bastone bianco.

Mila e Berish sfilarono davanti al cieco, percorrendo la guida bordeaux che attraversava la moquette fino al bancone della reception. Dall’ altra parte non c’ era nessuno. Attesero.

«Guarda» disse l’ agente speciale indicando la rastrelliera con le chiavi, ciascuna attaccata a un pomo d’ ottone con inciso un numero. «La trecentodiciassette è libera.»

La tenda di velluto rosso che conduceva nel retro si scostò. Fece capolino un uomo magrissimo in jeans e Tshirt nera, accompagnato dalle note di un giradischi. Era lui che ascoltava Édith Piaf, notò Berish.

«Salute» disse infilandosi in bocca l’ ultimo pezzetto di un sandwich.

«Salute a lei» gli rispose l’ agente speciale, ricambiando così l’ anacronistico benvenuto.

L’ uomo aveva una cinquantina d’ anni. Si pulì le mani con un tovagliolo. I tendini delle braccia erano tesi e la pelle ricoperta di tatuaggi sbiaditi. I capelli brizzolati erano tagliati a spazzola, un cerchietto dorato pendeva dal lobo sinistro, e un paio di occhialini da lettura poggiavano sulla punta del naso – era il ritratto di una rockstar invecchiata.

«Vi serve una stanza?» disse sedendosi al suo posto dall’ altra parte del bancone e abbassando subito lo sguardo sul registro delle presenze. Evidentemente, alla clientela abituale dell’ albergo non piaceva essere scrutata dal portiere. E lui li osservava il meno possibile.

Per un attimo, Mila e Berish si scambiarono un’ occhiata. Li aveva presi per una coppia occasionale in cerca di privacy.

«Sì» rispose lei, lasciandoglielo credere. «Grazie.»

«I nomi per la registrazione li avete già inventati, oppure ci penso io?»

«Faccia lei» rispose Berish.

«E volete anche gli asciugamani?» Il portiere indicò con la penna una pila di teli di spugna su un carrello della biancheria.

«No, va bene così» concluse Mila, ma poi aggiunse: «Potremmo avere la stanza trecentodiciassette?»

L’ uomo sollevò lo sguardo dal registro. «Perché?»

«È il nostro numero fortunato» rispose Berish sporgendosi oltre il bancone. «C’ è qualche problema?» Studiò la reazione del portiere.

«Siete satanisti, spiritisti o semplicemente curiosi?»

Berish non capì.

«Ve l’ ha detto qualcuno di venire qui? Perché altrimenti non si spiega.»

«Spiegare cosa?» chiese Mila.

«Cazzo, non fate finta di non saperlo. Io vi avverto, se volete proprio quella camera vi costerà il quindici per cento in più. Non mi fregate.»

«Pagheremo senza problemi» disse Berish per placarlo. «Ora ci dice cos’ ha di particolare la stanza trecentodiciassette?»

L’ uomo fece un gesto di biasimo con la mano. «Mah, roba da idioti... Dicono che una trentina d’ anni fa ci hanno ammazzato qualcuno, ogni tanto c’ è chi lo viene a sapere e la chiede per andarci a scopare.» Poi li fissò. «Non sarete mica amanti del bondage? L’ altra settimana ho dovuto tirare giù uno in mutande di pelle che aveva chiesto a una puttana d’ impiccarlo all’ armadio.»

«Stia tranquillo, non le daremo problemi» lo rassicurò Berish, tagliando corto.

«Perché quei malati di mente arrivano a frotte. Se becco chi ha messo in giro la storia della trecentodiciassette, gliela faccio vedere io» aggiunse l’ uomo mentre si voltava verso la rastrelliera per recuperare il pomo d’ ottone con il numero corrispondente. «Un’ ora va bene?»

«Benissimo» disse Berish.

Pagarono e presero la chiave.

Per salire utilizzarono l’ ascensore. Nella cabina di legno ci si stava a malapena in due. Il meccanismo di corde e carrucole li sollevò lentamente fino al terzo piano. Quando vi giunsero, si arrestò con un breve scossone.

Le ante si aprivano a mano e Berish fece scorrere anche la grata che li separava dal pianerottolo. Dopo aver richiuso la cabina, seguirono le indicazioni per le stanze.

Arrivarono davanti a quella che stavano cercando. Era l’ ultima in fondo al corridoio, accanto al montacarichi. Una porta nera – di legno laccato, simile alle altre – su cui spiccavano tre numeri di metallo brunito.

317

«Che ne pensi?» chiese Mila prima che l’ agente speciale infilasse la chiave nella toppa.

«Che la vicinanza al montacarichi la rende perfetta per portare via senza problemi dei corpi addormentati.»

«Allora credi che il Signore della buonanotte si sia servito sempre della stessa camera per adescarvi le sue vittime?»

«E perché non avrebbe dovuto? Non so se sia vero o meno che ci hanno ammazzato qualcuno, ma di certo la diceria ha fatto comodo a Kairus.»

«Certo» convenne la poliziotta. «Prenotando spesso la stessa stanza, anche usando nomi falsi, prima o poi qualcuno avrebbe potuto insospettirsi. Ma grazie alla sua fama macabra, la trecentodiciassette era già la più richiesta dell’ albergo. Una scelta azzeccata, direi.»

Berish girò la chiave nella serratura.

Entrarono.

La 317 si presentava come una comune camera d’ albergo. Le pareti erano rivestite da carta da parati rosso scuro. Il pavimento era coperto da una moquette dello stesso colore ma con grandi fiori blu – scelta apposta perché i clienti non distinguessero i punti in cui si sarebbe macchiata nel corso degli anni. Un lampadario impolverato sovrastava un letto matrimoniale marrone in legno laccato. Il copriletto era di raso bordeaux e presentava alcune bruciature di sigaretta. C’ erano due comodini coi ripiani in marmo grigio. Su uno era appoggiato un apparecchio telefonico nero. Sulla parete sopra il letto era visibile l’ ombra lasciata negli anni da un crocifisso che poi era stato rimosso. Tutte le finestre erano sul lato ovest e si affacciavano sulla strada. A una trentina di metri di distanza passava la ferrovia sopraelevata, col suo andirivieni di vagoni.

Senza fornire spiegazioni, Berish si mise subito alla ricerca di qualcosa nella stanza.

«Credi davvero che troveremo degli indizi per capire le motivazioni di Kairus?» chiese Mila.

«Vedi» disse mentre apriva l’ armadio e i cassetti, «lui li contattava al telefono e li conquistava poco a poco con la promessa di una nuova vita. Non ci voleva molto a blandirli, visto che si rivolgeva soprattutto a chi non aveva altro che dolore e indifferenza. Gli bastava mostrarsi amico, concedere attenzioni che nessuno gli avrebbe dato. Poi, quando era giunto il momento, diceva loro di venire qui con una confezione di sonniferi. Il sonno è la condizione in cui tutti siamo più indifesi. Lui li convinceva a consegnarsi, vulnerabili. Ti rendi conto di quale forza di persuasione sia necessaria? Questo è Kairus.»

A parte una sfilata di grucce vuote, qualche coperta impolverata e una vecchia Bibbia con la copertina in finta pelle su cui era inciso il logo dell’ hotel, la ricerca di Berish non diede frutti. Ma lui non demorse e proseguì la perlustrazione in bagno.

Era rivestito da piastrelle bianche smaltate, mentre il pavimento era a scacchi bianchi e neri. C’ erano un lavandino, un water e una vasca al posto della doccia.

Dalla soglia, Mila vide l’ agente speciale che tirava fuori dallo stipetto celato dallo specchio un flacone di bagnoschiuma consumato per metà e una scatola vuota di preservativi. «Non hai risposto alla mia domanda... Perché il Signore della buonanotte voleva quelle persone?»

«Stava costruendo un esercito... L’ armata delle ombre, ricordi?»

«Sì, ma a quale scopo tornare per uccidere?»

Nel momento in cui Berish stava per rispondere, uno squillo acuto – stridulo e fastidioso – risuonò negli ambienti. I due agenti si affacciarono dalla porta del bagno e puntarono lo sguardo nella camera.

Il telefono nero su uno dei comodini pretendeva la loro attenzione.

Berish mosse un passo sulla moquette, mentre Mila non riusciva a schiodarsi dalla soglia del bagno.

L’ agente speciale si voltò verso di lei, indicandole l’ apparecchio. «Dobbiamo rispondere.»

La poliziotta lo osservò come se le avesse appena proposto di gettarsi insieme dalla finestra.

Intanto il telefono non cessava di chiamarli a raccolta intorno a sé.

Mila si assunse l’ onere di accontentarlo. Finalmente avanzò verso il comodino ma, quando appoggiò la mano sul ricevitore, nella sua mente irruppero le parole con cui il Signore della buonanotte si rivolgeva alle sue vittime.

Ti piacerebbe avere una nuova vita?

Era sicura che dall’ altra parte sarebbe stata accolta con quella stessa frase. Sollevò la cornetta e gli squilli cessarono di colpo. Se la portò all’ orecchio e ascoltò un vuoto fatto di silenzio. Sembrava provenire da un pozzo scuro e senza fondo.

Berish la interrogò con lo sguardo, lei stava per dire qualcosa anche solo per mettere fine a quella quiete opprimente. Ma le parole le si sciolsero in bocca, precedute da una musica.

Era un brano classico, una melodia antica e lontana.

Mila tese il braccio col ricevitore in direzione del collega, in modo che anche lui potesse udirla.

L’ enigmatico messaggio era la conferma che si trovavano sulla pista giusta. E forse costituiva anche l’ indizio che li avrebbe condotti al prossimo omicidio. Ma sicuramente era la prova che Kairus conosceva in anticipo le loro mosse. E che, a distanza, li osservava.

La linea s’ interruppe.

In quello stesso istante, Mila avvertì un brivido mai provato prima. Guardò l’ agente speciale e ripeté la domanda che già gli aveva posto, in forma diversa, per ben due volte da quando avevano messo piede nella camera 317, senza ottenere una risposta da lui. Ma stavolta fu più diretta.

«Berish, cos’ è l’ armata delle ombre?»

«Posso dirti che non si tratta di terroristi.»

«Allora cosa sono?»

«Un culto.»

40

«Hai mai sentito parlare dell’ Ipotesi del male?»

La voce di Simon Berish riecheggiava nella grande biblioteca. Mila lo osservava seduta a uno dei lunghi tavoli della sala di lettura, circondato da antiche librerie colme di testi che si innalzavano verso gli alti soffitti. Sul piano di mogano erano sparsi vari tomi che l’ agente speciale aveva pescato dagli scaffali. Adesso si muoveva impaziente intorno a lei. Hitch, nel frattempo, scorrazzava soddisfatto per l’ ampio locale.

Erano soli.

«Veramente, no» ammise Mila rispondendo alla domanda dell’ agente speciale.

«Per prima cosa, ci tengo a precisare che questa storia non c’ entra nulla con i demoni o Satana, Dio o i santi.»

«Allora qual è il punto?»

«Il punto è l’ idea del culto, e non ha a che vedere con la religione, altrimenti finora avremmo avuto assassinii rituali, caratterizzati da un evidente simbolismo e dalla ripetizione della stessa liturgia di morte. Certamente fra i nostri omicidi ci sono molte similitudini, ma a noi interessano di più le differenze.»

Mila vide che c’ era una luce diversa negli occhi dell’ agente speciale, come chi stesse sperimentando una felice epifania. «Be’ , gli aspetti comuni li conosciamo» disse lei. «A uccidere sono persone scomparse che tornano dopo tanto tempo. Nei primi due casi, il movente è il rancore.»

«Può sembrarlo» la corresse Berish, «ma non è così.» Provava a ragionare ad alta voce. «Roger Valin stermina la famiglia del proprietario di un’ industria farmaceutica perché il medicinale che avrebbe potuto prolungare la vita di sua madre era troppo costoso? Ma su, andiamo: non sta in piedi.» L’ agente speciale si portò le mani ai fianchi. «Nadia Niverman ammazza l’ avvocato del marito. Attenzione però: non se la prende con il coniuge.»

«Voleva che lui vivesse nella paura.»

«È per questo che poi si è suicidata?»

Mila tacque. In effetti non ci aveva pensato. La tortura di John Niverman era durata troppo poco.

«Come vedi, il movente del rancore da cui scaturirebbe la vendetta è debole in entrambi gli omicidi. Ma adesso prendiamo i casi degli altri due assassini... Eric Vincenti uccide ’ il becchino’ , un usuraio con cui non ha mai avuto a che fare.»

«Ma il legame manca anche nel delitto commesso da André García» constatò Mila. «Perché se la prende con uno spacciatore? Non ci risulta che, prima di sparire, l’ ex militare fosse dedito alle droghe.»

La poliziotta per la prima volta aveva davanti un quadro delle incongruenze. Era stata così impegnata a confutare la tesi altrui sul terrorismo che non si era preoccupata di avvalorare la propria. «Allora stai dicendo che quelle persone sono state uccise solo perché se lo meritavano?»

«No, neanche questo.» Berish appoggiò le mani sul tavolo e si protese verso di lei. «La risposta è il senso dell’ Ipotesi del male.»

L’ agente speciale afferrò uno dei libri e le girò intorno per mostrarglielo. Lo depose davanti a lei e Mila vide che si trattava di un antico testo di zoologia aperto al capitolo dedicato all’ etica animale.

«Esiste un postulato antropologico che si richiama a questo argomento.»

Le indicò l’ illustrazione di una leonessa che si avventa contro dei cuccioli di zebra. Il disegno era in bianco e nero, ma era comunque molto vivido.

«Cosa t’ ispira questa immagine?»

«Non saprei» disse Mila. «Sgomento, e anche un senso di ingiustizia.»

«Bene» convenne Berish, asciutto. Poi voltò la pagina.

Una seconda figura rappresentava la stessa leonessa che sfamava i propri cuccioli con la carne delle zebre.

«Cosa provi adesso?»

La poliziotta rifletté un momento. «Mi sembra perlomeno giustificato.»

«È questo il punto. La leonessa che uccide i cuccioli di zebra per sfamare i propri cuccioli è buona o cattiva? Certo, la zebra soffrirà per la morte dei suoi piccoli, ma l’ unica alternativa è che la leonessa veda morire i propri a causa della fame. Le categorie di bene e male si confondono perché non esistono leoni vegetariani, giusto? Nel mondo animale, quando la scelta è obbligata, il giudizio rimane sospeso. Ma per gli esseri umani?»

«Noi siamo più evoluti. Dovrebbe essere più semplice scegliere fra bene e male.»

«La risposta, in realtà, è in un’ altra domanda. Se esistesse un solo uomo sulla terra, sarebbe buono o cattivo?»

«Né l’ una né l’ altra cosa... o forse entrambe le cose.»

«Esatto» disse Berish. «Le due forze non sono affatto una dicotomia, due opposti necessari per cui senza il male non esisterebbe il bene e viceversa. Il bene e il male a volte sono il risultato di una convenzione ma, soprattutto, non esistono in forma assoluta. L’ Ipotesi del male, infatti, recita: ’ Il bene di alcuni coincide sempre con il male di altri, ma è valido anche il contrario’ .»

«È un po’  come affermare che facendo del male si può anche fare del bene, e che per fare del bene a volte è necessario fare del male.»

Berish annuì, soddisfatto della nuova allieva. Mila era ammirata dal modo in cui l’ aveva condotta lungo il ragionamento. Non ci aveva mai pensato. L’ Ipotesi del male era una sintesi stupefacente di ciò che vedeva ogni giorno come poliziotta. Ma spiegava anche tante cose di lei.

È dal buio che vengo, ed è al buio che ogni tanto devo ritornare.

Quanto all’ agente speciale, la solitudine e gli anni di emarginazione avevano lasciato in lui un segno profondo. Si intuiva che morisse dalla voglia di condividere le conoscenze che aveva accumulato in quel lungo periodo. E Mila si sentiva una privilegiata.

«Allora, adesso dimmi: come si trasforma una vittima come Roger Valin o Nadia Niverman o Vincenti o García in un omicida?» chiese Berish.

«Convincendola che ciò che farà alla fine migliorerà la vita di altre persone.»

«Giusto» disse lui. «E poi?»

«Per Valin e la Niverman non si è trattato di vendetta. Dovendo decidere chi colpire, la loro scelta è ricaduta semplicemente sui bersagli che conoscevano meglio. È stata l’ esperienza a spingerli, non il rancore.»

«La motivazione è così potente che Nadia Niverman è venuta di persona in metropolitana per consegnarti l’ indizio del dente, e poi si è suicidata per non rischiare di essere catturata ma, soprattutto, per dimostrare che la sua fede nel culto era talmente forte da farle scegliere la morte.» Poi Berish aggiunse: «Chi dà origine a un culto crea una nuova società – piccola o grande che sia –, le fornisce un codice di condotta e quindi un nuovo ideale di giustizia».

«Kairus ha motivato i suoi adepti.»

«Li ha salvati da esistenze miserevoli, li ha indottrinati dando uno scopo alle loro inutili vite. Li ha resi partecipi di qualcosa di grande: un progetto... Uno spacciatore che sfruttava l’ infelicità degli altri per piazzare la sua droga, un industriale farmaceutico che avrebbe potuto salvare delle vite e invece mirava solo al profitto, un avvocato che avrebbe dovuto difendere la legge e invece la aggirava con l’ inganno, un usuraio che sfruttava lo stato di bisogno dei debitori per portargli via ogni cosa: gli assassini non puntavano semplicemente a punirli per le loro malefatte. Eliminandoli hanno eliminato il problema.»

«Una missione» disse Mila.

«I nazisti, le sette millenariste, gli estremisti rastafariani, perfino i cristiani per le crociate si sono serviti dell’ Ipotesi del male per giustificare le proprie idee o le proprie imprese» continuò Berish. «L’ hanno chiamato ’ il male necessario’ .»

«Alla luce di ciò, Kairus è una guida.»

«Molto di più» disse Berish con voce che diventava greve. «È un predicatore.»

L’ eco dell’ ultima frase si perse verso il soffitto e, per un attimo, il silenzio fu di nuovo padrone della biblioteca.

Nell’ epoca di internet e del dominio della Rete, quel posto era l’ anacronistica vestigia del sapere. All’ apparenza, inutile come un ombrello per fronteggiare un uragano. Ma qui verrebbero gli uomini se un cataclisma informatico mettesse improvvisamente fine all’ era digitale, pensò per un istante Berish. Poi osservò il suo cane: li separavano milioni di anni di evoluzione, e quella biblioteca era la prova del primato umano.

Ma esiste un istinto animale anche negli uomini. Ed è la parte più vulnerabile di ciascuno. È su quella che agiscono i predicatori, si disse l’ agente speciale. Poi ripensò agli insonni.

Kairus li ha fatti sparire e li ha trasformati da vittime in carnefici.

Lo stesso destino poteva essere toccato alla sua Sylvia. Ma Berish, per il momento, preferì scansare quella prospettiva dalla mente.

«Ci sono diverse categorie dei cosiddetti ’ manipolatori di coscienze’ .» Cercava di arrivare al punto per gradi. «I seminatori d’ odio sono coloro che, senza apparire, creano un ideale malvagio sperando che qualcuno decida di seguirlo: si servono di informazioni artefatte e le diffondono per istigare gli altri alla violenza. Poi ci sono i cercatori di vendetta, che riescono a imporre come obiettivo di una moltitudine sconosciuta l’ annientamento di un loro nemico.» Berish si chinò alle spalle di Mila per mostrarle un altro testo, stavolta di antropologia. In quella posizione poteva sentire l’ odore di lei. Era uno strano insieme di sudore e deodorante, ma non era cattivo, anzi. Proveniva dai suoi capelli e dal collo. E quel piacere rubato costrinse l’ agente speciale a chiedersi da quanto tempo non stesse così vicino a una donna. Troppo, fu la risposta.

«Non sono solo queste le tipologie, vero?» chiese lei per riprendere il filo del discorso.

«No» ammise Berish tirandosi su. «In effetti, ne esiste una terza. Ed è quella che ci interessa... I predicatori.»

All’ agente speciale tornò in mente la domanda che Kairus aveva posto al telefono a Camilla Robertson – «Ti piacerebbe avere una nuova vita?» – prima di indirizzarla alla camera 317 dell’ Ambrus Hotel.

Era la promessa con cui il Signore della buonanotte reclutava i suoi discepoli.

«La qualità principale di un predicatore è il mimetismo – e in ciò il talento di Kairus è più che dimostrato, visto che non riusciamo a trovarlo da vent’ anni. Entra nella vita delle persone, magari spacciandosi per una figura amica. S’ interessa a loro, crea un legame. E così le conquista. La seconda dote è la disciplina. È zelante, puntiglioso ed è fermo nel proprio credo.» Berish avanzò verso di lei brandendo un pugno per dare enfasi alle parole. «La sua volontà è talmente integra, la sua visione così fervente da imporsi in maniera assoluta sui suoi seguaci. Il nome ’ culto’  attribuito al fenomeno dipende dal fatto che, ugualmente a ciò che accade in una vera religione, gli adepti adorano e obbediscono ciecamente al leader, che però non è una divinità ipotetica e distante. Il loro dio è una persona in carne e ossa.»

Mila si alzò dal tavolo, ma fu un moto istintivo perché non sapeva dove andare.

C’ era paura in quel gesto, ma anche spaesamento, notò Berish. Improvvisamente, anche lo slancio dell’ agente speciale cessò. Forse nel fervore della spiegazione aveva detto qualcosa di sbagliato. Forse, senza rendersene conto, era stato insensibile con lei.

«No, non posso... di nuovo» blaterò fra sé la poliziotta, scuotendo il capo.

Berish comprese che Mila stava pensando al Suggeritore e a ciò che aveva dovuto passare per colpa di quel caso. E adesso la storia, fatalmente, si ripeteva. C’ era un altro nemico invisibile – l’ ennesimo manipolatore di coscienze – che minacciava d’ intromettersi nella sua vita. Prima della sua lezione sull’ Ipotesi del male, il culto e i predicatori, la poliziotta non aveva guardato Kairus sotto quel profilo.

Ma non poteva essere solo questo. C’ era sicuramente dell’ altro.

Le si avvicinò. «Che succede?»

«Non me la sento, tutto qui.»

«Perché?» insistette lui ed ebbe come la conferma che le ragioni della collega andavano al di là di ciò che le era accaduto anni prima col Suggeritore. Il problema investiva qualcosa di contingente alla sua vita attuale. «Sei la persona più adatta a dare la caccia al Signore della buonanotte. Per quale motivo adesso vuoi tirarti indietro?»

Mila si voltò a fissarlo con occhi spaventati. «Perché ho una figlia.»

[eBL 134]

41

Tornare a casa quella sera non era stato facile.

Le era sembrato di camminare all’ indietro, come se la vita si riavvolgesse riportandola in luoghi in cui non sarebbe voluta più tornare. Luoghi dentro di sé, soprattutto.

«Non posso» era stata l’ ultima frase con cui si era congedata da Berish. Ed era seria. L’ indomani mattina avrebbe chiamato il Giudice per rinunciare all’ incarico. L’ agente speciale era deluso, anche se in verità avrebbe dovuto esserne sollevato, visto che le resistenze al principio erano partite solo da lui. Mila era convinta che Berish avesse un credito da riscuotere dalla storia di Kairus.

Ma lei non voleva averci niente a che fare.

La visita alla stanza 317 dell’ Ambrus Hotel, la musica antica ascoltata per telefono, l’ Ipotesi del male... Ne aveva abbastanza.

Perciò percorse l’ ultimo tratto che la separava dal palazzo con passo accelerato. La coppia di giganti sul cartellone pubblicitario la salutò con il solito, fisso sorriso. Per un attimo si allontanò dai suoi pensieri e si rese conto di aver tradito la propria routine.

Non aveva provveduto alla cena del vagabondo che abitava nel vicolo sotto casa.

Lo vide disteso su un giaciglio di cartoni. Sotto una coltre di coperte, dormiva un sonno tranquillo, come quello dei bambini. Si avvicinò. Mise una mano in tasca e prelevò un po’  di spiccioli che stava per appoggiare ai suoi piedi. Però fu costretta a ripensare a ciò che aveva detto Berish circa l’ Ipotesi del male. Quell’ atto di generosità avrebbe placato la coscienza di chi lo compiva, ma non era detto che costituisse il bene di chi lo riceveva. Perché il vagabondo avrebbe potuto spendere il denaro per un’ altra bottiglia con cui perseverare nel proprio disfacimento, piuttosto che investirlo in un pasto caldo.

Ma poi Mila lasciò andare lo stesso le monete.

In fondo, quell’ uomo le somigliava. Era in continua lotta con l’ asprezza del mondo. Come un asceta o un cavaliere medioevale. La puzza era la sua armatura, gli serviva per tenere lontani i nemici.

Quindi lo affidò ai suoi sogni – o forse ai suoi incubi. Arrivata al portone, sentì nascere dentro un’ urgenza. Si affrettò a prendere le chiavi. Era stanca, non dormiva da chissà quanto e negli ultimi giorni aveva dedicato pochi momenti al sonno. Si rendeva conto di avere i sensi alterati.

Ma, prima di concedersi il riposo, aveva bisogno di vedere la figlia.

L’ aveva chiamata Alice come la protagonista del libro che leggeva sempre da piccola. Una fiaba ambigua e pericolosa, la storia di un mondo parallelo e nascosto, come quello che lei visitava ogni giorno. Un paese di cui la gente normale non sospettava nemmeno l’ esistenza.

In casa le luci erano spente, lo schermo del computer creava un alone luminoso intorno a Mila, che era distesa sul letto, in accappatoio.

Alice aveva sei anni. E se sua madre avesse dovuto scegliere un aggettivo per definirla, avrebbe detto «attenta». Ti scrutava con occhi profondi e intensi, come se riuscisse a capire cose che alla sua età avrebbero dovuto rappresentare un enigma.

Ma, a differenza di Mila, Alice era molto sensibile alle emozioni degli altri. Sapeva sempre la cosa giusta da fare per consolare qualcuno o per dimostrargli affetto. Erano gesti non convenzionali, spesso spiazzanti.

Una volta, nel parco, un bambino si era sbucciato un ginocchio e aveva cominciato a piangere. Alice gli era andata vicino e, senza dire una parola, aveva iniziato a raccogliere le sue lacrime con le dita. Prima quelle finite per terra, poi sui vestiti e, infine, sulle guance. Una alla volta, le riponeva in un fazzoletto. Dapprima il bambino non ci aveva fatto caso, ma poi aveva preso a guardarla con stupore. La lasciava fare e intanto dimenticava la ferita e persino di piangere. Quando ebbe smesso del tutto, anche lei si fermò, gli sorrise e si allontanò con il tesoro di lacrime. Mila era sicura che al bambino fosse rimasta la sensazione di aver perduto qualcosa. Ciò che tu butti via, io raccolgo – la volta successiva ci avrebbe pensato bene prima di abbandonarsi alla disperazione per così poco.

Nello schermo del computer, Mila fissò la figlia mentre dormiva in un altro letto, in un’ altra casa. La schiena era rivolta all’ obiettivo della microcamera nascosta, ma sul cuscino si stendeva una lunga chioma che lei sapeva essere color biondo cenere.

Assomigliano ai capelli di suo padre, si disse senza che ce ne fosse bisogno.

Come per il Suggeritore, anche il nome di quell’ uomo era stato bandito dalla sua vita. Non potendo dimenticare entrambi e ciò che le avevano fatto, aveva deciso di cancellare per sempre la forma dei loro nomi dalle sue labbra.

C’ era stato un momento, durante la gravidanza, in cui aveva anche pensato di riuscire a superare tutto. Immaginava di poter vivere serenamente – lei e sua figlia. Era stato il periodo in cui aveva ricominciato a provare qualcosa per gli altri, si sentiva come una cieca a cui avessero restituito la vista. Ma era durato poco. Il tempo necessario a comprendere che non sarebbe mai riuscita a fuggire dal male, che «lontano» per lei non sarebbe mai stato «abbastanza lontano», che il buio poteva ancora raggiungerla ovunque.

Dopo aver partorito, l’ empatia svanì.

Allora capì di non essersi sbagliata: l’ intervallo in cui si era sentita di nuovo umana era merito della bambina, non suo. Perciò decise che non sarebbe stato sano per Alice crescere accanto a una madre come lei – non del tutto inadatta a provare emozioni, ma incapace di provare le sue emozioni. Aveva il terrore di non riuscire a comprendere se la figlia era triste o infelice, o quando aveva bisogno del suo aiuto.

I primi mesi erano stati orribili. Di notte la bambina si svegliava nella culla e piangeva. Mila rimaneva a letto, vigile ma incapace di provare pena per il disperato richiamo. Lo stato di totale alienazione affettiva le impediva di comprendere i bisogni di un esserino così fragile. Potrei lasciarla soffocare nel sonno solo perché non riesco a rendermi conto che sta male, si diceva.

Dopo pochi mesi, aveva chiesto alla nonna di Alice di occuparsene.

Ines era rimasta vedova presto e aveva avuto una sola figlia, Mila. Nonostante non fosse più giovane, aveva accettato di prendersi cura della nipote. Mila le andava a trovare di tanto in tanto. Di solito, si fermava una notte per andar via l’ indomani.

Le interazioni fra lei e Alice erano ridotte al minimo. Mila aveva anche provato a baciarla o accarezzarla, come farebbe una madre normale. Ma quei gesti erano risultati impacciati pure alla piccola, che infatti non li richiedeva.

Mila aveva nascosto sua figlia.

Ma invece che al resto del mondo, l’ aveva celata a se stessa. Piazzare una microcamera nella cameretta per controllare di tanto in tanto che stesse bene era solo un modo per assolversi in parte dalla colpa di non essere presente nella sua vita. Ma, a volte, arrivava qualcosa che azzerava di nuovo tutto, vanificando gli sforzi e facendola sentire inadeguata.

Non sei una buona madre se non conosci il nome della bambola preferita di tua figlia.

Una di quelle frasi a effetto che svelavano una verità fastidiosa. Da quando l’ aveva sentita pronunciare da una madre snaturata, Mila ne aveva fatto un’ ossessione.

Per questo cercò nello schermo. La vide sul pavimento, accanto al comodino. La bambola dai capelli rossi da cui Alice non si separava mai – doveva esserle scivolata dalle braccia mentre dormiva.

Mila non ricordava come si chiamasse, o forse non l’ aveva mai saputo. Doveva scoprirlo, prima che fosse troppo tardi. Era consapevole che ciò non avrebbe fatto di lei una madre migliore, erano ben altre le sue mancanze. Ma qualcosa dentro di lei la spingeva a porre rimedio almeno a questo.

Mentre ci pensava e si riprometteva di cambiare, le palpebre iniziarono a pesarle. Le tornò in mente la musica che aveva ascoltato per telefono all’ Ambrus Hotel. La dolcezza della melodia stavolta prevalse su qualunque significato malvagio. Si lasciò cullare dal ricordo delle note. La stanchezza l’ avvolgeva come una coperta calda. Gli ultimi brandelli di coscienza cominciarono a mescolarsi con il delirio del primo sonno.

Ma mentre si assopiva, nello schermo vide una mano ritirarsi sotto al letto di sua figlia.

42

«Avanti, rispondi.»

Guidava col cellulare incollato all’ orecchio. Dall’ altra parte il telefono continuava a squillare senza che nessuno si decidesse a sollevare la cornetta – il logorante elenco di un unico suono, il segnale in codice per la disperazione. Intanto, Mila spingeva sull’ acceleratore.

Dopo che la paura l’ aveva aggredita restituendole coscienza, si era attaccata al telefono per contattare sua madre. Contemporaneamente, cominciava a rivestirsi e provava anche a sembrare lucida. Si era ricordata di prendere la pistola di riserva che conservava nell’ armadio – visto che l’ arma d’ ordinanza era andata dispersa nell’ incendio del nido di Kairus. Altro non avrebbe potuto fare.

L’ immagine della mano affusolata che arretrava nell’ ombra sotto al letto di Alice era ancora viva nella sua memoria. Si era trattato solo di un istante, ma Mila era sicura di ciò che aveva visto.

Non poteva avvertire i colleghi della polizia. A parte che non sapeva cosa dirgli, non le avrebbero creduto. E avrebbe perso tempo prezioso.

La Hyundai sfrecciava sulle strade scansando i veicoli nell’ ora in cui i nottambuli uscivano in cerca di avventura e trasgressione. Mila bruciava i semafori e superava gli incroci senza toccare mai il freno, affidandosi alla sola sorte per evitare collisioni.

Non aveva mai corso tanti rischi. Eppure era così che, di solito, riusciva a sentirsi viva. Ma c’ era qualcosa di diverso stavolta. Comprese cose di cui aveva sentito parlare spesso dagli altri genitori, senza mai provarle di persona. Era ciò che sua madre definiva «il terzo occhio per guardare il mondo, quello che ti spunta in mezzo agli altri due dopo che hai partorito».

Un figlio era esattamente questo. Un senso nuovo, completamente diverso dagli altri cinque, che ti offre una percezione inimmaginabile di ciò che ti circonda. E improvvisamente, tutto quello che coinvolge la carne della tua carne ti riguarda direttamente.

«Se ti concentri, puoi sentire quando Alice è contenta oppure il suo dolore» diceva ancora sua madre. Ma Mila non l’ aveva mai sperimentato. Non voleva rivelarle di non poter provare empatia, l’ avrebbe delusa. Mentre guidava come una disperata per raggiungere al più presto la casa in cui viveva la figlia, non sapeva se l’ ansia che le montava dentro fosse paragonabile al provare qualcosa attraverso qualcuno.

Ciò di cui era perfettamente consapevole, invece, era che se fosse accaduto qualcosa di male alla sua bambina, il dolore – il sentimento amico che la ripuliva dalle brutture del mondo – stavolta sarebbe stato insopportabile.

La zona residenziale in collina si staccava dal resto della città come una compagine aliena. Le abitazioni a loro volta erano cosmi separati.

Così era cresciuta Mila. Con il padre e la madre, solo loro tre. Pianeti con orbite differenti e distanti che talvolta – raramente – s’ incrociavano.

L’ auto sobbalzava violentemente sui dossi dissuasori di velocità, affrontati senza rallentare, emettendo un sordo rumore di lamiere. Percorse il lungo viale costeggiato da silenziosi giardini e sbandò in prossimità della meta. Una lunga frenata concluse la corsa della Hyundai che, dopo aver saltato il marciapiede, affondò con le ruote nel prato davanti alla casa.

Mila fece cadere il cellulare sul sedile del passeggero, rimpiazzandolo con la pistola, poi scese dall’ abitacolo. Non era neanche sicura di riuscire a respirare.

Le finestre dei due piani della villetta erano buie.

Si precipitò verso il patio sotto il quale una lampada bianca vegliava accanto alla porta d’ ingresso verde. Intorno, solo il canto dei grilli. Si incollò al campanello e poi iniziò a percuotere il legno con il palmo della mano – non possedeva neanche la chiave della casa in cui era cresciuta. L’ unica risposta che ottenne veniva dai cani dei vicini che cominciarono ad abbaiare.

Erano bastati pochi attimi per dimenticare i dettami appresi durante l’ addestramento in polizia. Non aveva controllato il perimetro della casa, verificando che non ci fossero segni di effrazione. Non aveva pensato a proteggere la propria incolumità, evitando di esporsi alla probabile ritorsione di un eventuale nemico. Infine, aveva infranto la regola più importante, quella secondo cui qualunque cosa accada è necessario mantenere il controllo.

Non ottenendo repliche alla propria insistenza, Mila stava per sparare alla serratura. Ma in un attimo di recuperata razionalità, ricordò che sua madre teneva sempre una copia della chiave di casa nascosta sotto un vaso in giardino. Tornò indietro e cominciò a cercarla. La trovò al terzo tentativo, sollevando una pianta di begonie.

Quando finalmente riuscì a entrare, trovò l’ ingresso immerso in un pesantissimo silenzio.

«Dove siete?» domandò ad alta voce. «Rispondi» gridò.

Vide una luce accendersi in cima alle scale. Salì i gradini due alla volta. Sua madre si affacciò oltre la balaustra allacciandosi una vestaglia. «Che succede? Mila, sei tu?» chiese con voce impastata dal sonno.

Ma lei giunse sul pianerottolo e la scansò, dirigendosi verso la cameretta di Alice.

«Ma cosa...» riuscì a balbettare la donna che per poco non perse l’ equilibrio.

I battiti del cuore di Mila erano passi giganteschi – un’ enorme creatura che avanzava dentro di lei, come il mostro in una fiaba.

Giunta in fondo al corridoio, mentre le luci della casa si accendevano alle sue spalle, allungò una mano nel buio per cercare l’ interruttore nella stanza di Alice.

Un lampadario a forma di ape illuminò l’ ambiente.

La bambina era coricata e Mila l’ afferrò con un braccio solo, come per strapparla alle fauci del letto diventato un’ orrenda creatura, mentre con l’ altra mano puntava la pistola. Alice si spaventò e gettò un urlo. Lei non se ne curò, invece scagliò una pedata al materasso per scoprire cosa nascondeva.

I polmoni pompavano aria nel suo torace e per alcuni secondi furono l’ unico suono che Mila riuscisse a sentire. Le orecchie improvvisamente tappate, come se stesse precipitando da un’ altezza siderale. Un respiro, poi due – in affanno. E i rumori cominciarono a tornare. Primo fra tutti, il pianto di Alice che si dimenava fra le sue braccia.

Sul pavimento solo un groviglio di coperte, peluche e cuscini.

43

In cucina, Ines preparava una tisana.

Mila la osservava trafficare col bollitore e le sembrò di rivivere una scena di quando era bambina – stessi bigodini fra i capelli, stessa vestaglia rosa –, quando di notte sua madre metteva sul fuoco un po’  d’ acqua per lei e iniziava così il rito consolatorio dopo un brutto sogno.

«Non capisco cosa mi sia successo» disse. «Mi dispiace.»

Non voleva dirle che aveva nascosto una telecamera nella stanza di sua figlia – nessuno lo sapeva. E non voleva che Ines pensasse che non si fidava di lei. Così le aveva raccontato una bugia.

«Lo so che non chiamo mai la sera, ma mi era venuta voglia di sapere come stava Alice e, quando non mi hai risposto al telefono, è scattato il panico.»

«L’ hai già detto» commentò Ines voltandosi con un sorriso. «Non ripetermelo più. È anche colpa mia che ho il sonno pesante, avrei dovuto sentire gli squilli.»

Era toccato alla nonna rimettere a letto Alice, tranquillizzarla e attendere con pazienza che prendesse di nuovo sonno. Mila era rimasta in corridoio, con le spalle appoggiate al muro, a capo chino, ad ascoltare sua madre che ancora una volta si sostituiva a lei.

Avrebbe voluto dire alla figlia che andava tutto bene, che non c’ erano pericoli, che si era sbagliata e nessuno si nascondeva sotto il letto. D’ altronde la casa era sigillata. Non dormo da più di quarantotto ore, si era detta per giustificarsi. La percezione della realtà era stata alterata dalla mancanza di sonno. E si era aggiunta la novità di un altro manipolatore di coscienze in circolazione. Tutto questo aveva risvegliato dentro di lei la paura che tornassero i giorni del Suggeritore.

Ines versò il contenuto del bollitore in due tazze e le portò al tavolo, dove si sedette insieme a Mila. La luce calda del basso lampadario formava una specie di bolla protettiva intorno a loro.

«Allora, come stai?» le domandò sua madre.

«Sto bene» rispose lei senza dilungarsi. Sapeva che Ines si sarebbe accontentata di quelle due parole, senza indagare oltre. La madre non condivideva la sua scelta di fare la poliziotta. Avrebbe preferito altro per lei. Magari che diventasse medico o architetto. Sicuramente che sposasse qualcuno.

«È già da un po’  che vorrei parlarti, Mila.»

La voce aveva un tono preoccupato.

«Si tratta di Alice. L’ altro giorno a scuola è salita sul cornicione del secondo piano. Ci hanno messo un po’  a convincerla a venire via, non voleva scendere. Diceva che non era pericoloso. Anzi, secondo lei era divertente.»

«Ancora con questa storia?» Mila provò a protestare, non era la prima volta che ne parlavano.

«Alice non ha il senso del rischio. Ricordi quella volta al mare? Si è spinta verso il largo, stava per annegare. Oppure quando l’ ho persa di vista per un attimo e l’ ho ritrovata che camminava al centro della strada, con le auto che la schivavano suonando i clacson?»

«Alice è una bambina normalissima, ce l’ hanno detto anche i dottori.»

«Io preferirei sentire un altro parere. Che ne sa uno psicologo infantile? Non passa con lei ore e ore ogni giorno.»

Mila abbassò lo sguardo sulla tazza. «Nemmeno io, è questo che vuoi dire?»

Ines sospirò. «Non intendevo... È solo che ho imparato a conoscere quella bambina meglio di chiunque altro, visto che vive con me. Non sto dicendo che qualcosa non va in lei, sono solo preoccupata perché non posso sorvegliarla tutto il tempo.» La donna allungò una mano per prendere quella della figlia. «Lo so che ci tieni a lei e so anche quanto ti costa starle lontano.»

Mila sentiva il peso insopportabile dell’ arto di sua madre sopra al suo. Avrebbe voluto ritrarsi perché non le piaceva il contatto fisico. Però si sforzò, con la pelle che le doleva e un senso di repulsione, come se un rettile le stesse scivolando fra le dita. «Cosa suggerisci di fare?»

Ines tolse la mano e guardò la figlia con occhi compassionevoli. «Alice mi chiede sempre del padre. Forse dovresti farle incontrare...»

«Non dire il suo nome» disse Mila, precedendola. «Io non lo chiamo più così. Anzi, non lo chiamo affatto.»

«D’ accordo, ma sarebbe il caso che Alice sapesse almeno che faccia ha.»

Mila ci pensò un momento. «Va bene. Domani la porterò da lui.»

«Mi sembra la cosa giusta, è grande abbastanza.»

Mila si alzò dalla sedia. «Passo nel pomeriggio.»

«Perché non rimani qui stanotte?»

«Non posso, devo alzarmi presto per andare a lavorare.»

Ines non insistette, tanto sapeva che non sarebbe servito. «Riguardati.»

Sembrava seriamente in ansia per lei. E con quell’ unica raccomandazione – riguardarsi: una parola che solo le mamme sanno riempire di molteplici significati – la donna aveva voluto farle capire che doveva cambiare per il proprio bene. Mila avrebbe voluto rispondere che era tutto a posto, ma la frase sarebbe suonata insincera. Si limitò a recuperare la pistola che aveva lasciato sul tavolo, poi però, arrivata sulla porta della cucina, tornò a voltarsi verso sua madre. Ciò che stava per chiedere la imbarazzava. «La bambola preferita di Alice è quella coi capelli rossi, vero?»

«Gliel’ ho comprata io il Natale scorso» confermò Ines.

«Sai per caso che nome le ha dato?» chiese quasi distrattamente.

«Mi sembra che la chiami Miss

«Miss» ripeté Mila assaporando la conquista di quel nome. «Ora vado. Grazie.»

44

Contava di trovarlo alla tavola calda cinese.

Così varcò la soglia speranzosa. Nella sala gremita di poliziotti, il tavolo di Simon Berish era vuoto. Al solito posto, però, c’ erano ancora gli avanzi di una colazione non terminata.

Mila stava per chiedere alla cameriera da quanto tempo se ne fosse andato, quando notò sotto la sedia la presenza di Hitch. Subito dopo, vide uscire il suo padrone dalla toilette mentre con una salvietta di carta provava a smacchiarsi la camicia sporca di caffè. Non era difficile immaginare cosa gli fosse accaduto. Dal fondo, udì sghignazzare il solito gruppo di poliziotti. Ne faceva parte lo sbirro che qualche giorno prima aveva schizzato uova e bacon addosso a Berish.

L’ agente speciale tornò al proprio posto e riprese con calma a mangiare. Mila si fece largo fra le sedie e lo raggiunse. «Stavolta offro io» disse.

Berish la fissò, interdetto. «Siccome è un po’  che non mi relaziono con il prossimo, sono arrugginito riguardo al giusto significato di gesti e parole. Non capisco i doppi sensi, mi sfuggono le sfumature e perfino con le metafore ho qualche difficoltà... Perciò la tua offerta di pagarmi la colazione dovrebbe essere un modo per dirmi che vuoi che collaboriamo, è esatto?»

Il sarcasmo di Berish le stava per strappare un sorriso, ma riuscì a trattenersi. Come faceva quell’ uomo a essere cordiale dopo aver appena ricevuto l’ ennesima umiliazione dai colleghi?

«Ho capito, la smetto subito» disse lui sollevando le mani in segno di resa davanti alla sua espressione contrariata.

«Bene, così andiamo d’ accordo.» Mila si sedette. Ordinò qualcosa da mangiare per sé e un pasto da portare via.

Berish si chiese a chi fosse destinato, ma preferì farsi gli affari propri. Intanto la fissava e, quando la cameriera si allontanò, le pose una domanda che aveva in mente da un po’ . «Come mai una poliziotta capace come te, e che è stata in grado di risolvere il caso del Suggeritore, ha scelto il Limbo?»

Mila ci pensò su, anche se conosceva già la risposta. «Così non devo dare la caccia ai colpevoli. Io cerco le vittime.»

«È un sofismo. Ma è sensato. Allora puoi spiegarmi perché lo chiamano il Limbo: mi sono sempre domandato da cosa derivi il nome.»

«Forse è per via delle foto sulle pareti della sala dei passi perduti. Quelle persone si trovano in una condizione sospesa... Vivi che non sanno di essere vivi. E morti che non possono morire.»

Berish assimilò la spiegazione, gli sembrò ragionevole. Gli appartenenti alla prima categoria se ne andavano in giro per il mondo come spettri – ignari e ignorati –, attendendo solo che qualcuno dicesse loro che erano ancora in vita. I secondi, invece, venivano annoverati erroneamente fra i vivi perché chi li stava ancora aspettando non riusciva a rassegnarsi.

La parola chiave era «ancora» – un prolungamento indefinito del tempo, che ha come soluzione la verità o l’ oblio.

«Sei sempre dell’ idea che non debba riferire al Giudice, e nemmeno a Gurevich e Boris, che sei coinvolto nella mia indagine?»

La domanda di Mila riportò l’ agente speciale alla realtà. «Lascia che loro badino ai terroristi, noi dobbiamo occuparci di un culto.»

«Qualche idea su come procedere?»

Berish abbassò il tono di voce e si sporse sul tavolo. «Ricordi la musica che abbiamo sentito per telefono all’ Ambrus Hotel?»

«Sì. E allora?»

L’ agente speciale gongolava. «Ho scoperto di che brano si tratta.»

Mila era incredula. «E come hai fatto?»

«Ammetto di non essere un esperto di classica... Ma stamattina sono andato in conservatorio e ho chiesto di parlare con un docente.» Lo imbarazzava un po’  raccontare il resto della storia. «Gli ho accennato il motivo e lui l’ ha riconosciuto.»

«Vuoi dire che glielo hai cantato?» Mila si lasciò scappare un’ espressione divertita.

«Non avevo altra scelta. Ma in cambio della performance il docente mi ha regalato questo...» Berish tirò fuori dalla tasca un cd.

L’ uccello di fuoco di Igor Stravinskij.

«È un balletto che il musicista ha composto nel 1910... Se seguiremo l’ indizio, arriveremo al prossimo omicidio.»

«Francamente, non capisco come intendi usare l’ informazione...»

«Nella storia narrata nel balletto, la musica che abbiamo sentito corrisponde alla scena del principe Ivan che cattura l’ uccello di fuoco.»

Mila provò a ragionare. «Gli elementi sono tre: la cattura, l’ uccello di fuoco e il nome Ivan. Il primo potrebbe significare una specie di sfida.»

«È esatto solo in parte» disse l’ agente speciale per mettere le cose in chiaro. «Kairus non è in competizione con noi: il predicatore vuole indottrinarci. Perciò le sue non sono sfide, ma prove. Ogni volta che ci sottopone a un esame, vuole che riusciamo a superarlo. Anche la telefonata nella camera trecentodiciassette lo era. Ci umilia per farci sentire inferiori, ma in fondo parteggia per noi. Perciò le risposte ai suoi complessi enigmi sono sempre semplici.»

«Cosa c’ è di semplice nell’ immagine di un uccello di fuoco?» obiettò la poliziotta.

«Non lo so, ma lo scopriremo. Al momento mi concentrerei soprattutto sul nome Ivan.»

«Pensi si riferisca all’ identità della prossima vittima?»

«Oppure a quella dell’ omicida... Pensaci bene: che senso avrebbe indicarci un nome se non avessimo la possibilità di trovare subito un riscontro?»

«E dove?»

Berish batté la mano sul tavolo. «Dobbiamo setacciare l’ archivio degli scomparsi alla ricerca di un collegamento col nome Ivan.»

«Tenendo presente che ci interessa un intervallo di vent’ anni, sai di quanti individui stiamo parlando?»

«No, sei tu l’ esperta.»

«Non ne abbiamo il tempo. Ne è trascorso troppo dall’ ultimo omicidio e sicuramente un nuovo discepolo del predicatore si prepara a colpire fra poco.»

Berish sembrava deluso, avrebbe voluto che la sua idea funzionasse.

«Bisognerà pensare a qualcos’ altro» disse Mila, per provare a consolarlo. «Forse dovremmo cominciare a chiederci cosa vuole realmente il Signore della buonanotte da noi.»

Berish sollevò lo sguardo su di lei. «Alla fine del cammino iniziatico, ci attende una rivelazione.»

Lo sguardo di Mila si perse nel vuoto per un istante. «Non so se riuscirò ad andare fino in fondo.»

«Suppongo che sia sempre per via di tua figlia.»

Mila sentiva di aver detto anche troppo. Rispettò il copione materno e gli lasciò credere che il suo timore dipendesse unicamente da Alice. Se c’ è qualcosa nel buio, io devo per forza affacciarmi a guardare. Così avrebbe dovuto dirgli, mettendolo in guardia. Invece, decise di avvalorare la sua tesi e si ritrovò a domandare: «Hai famiglia, Berish?»

«Mai stato sposato e niente figli.» Il pensiero corse a Sylvia e a ciò che sarebbe potuto accadere se fossero rimasti insieme. Ma l’ agente speciale impedì al ricordo che più gli faceva male di intromettersi nel presente. «Non mi metto in gioco come te, me ne rendo conto. Ma so anche che si tratta di un rischio calcolato.»

«Cosa intendi?»

«Sono persone.»

«Parli dei nostri nemici.»

«Sono esseri vulnerabili come tutti noi. Solo che non riusciamo a vederli. Ma esiste una spiegazione del loro comportamento, ed è razionale. Magari ci sembrerà assurda ma, come mi ha insegnato l’ antropologia, sarà comunque una ragione umana.»

Ponderarono in silenzio quell’ affermazione. Pur circondati da una moltitudine vociante e chiassosa, avvertirono entrambi il freddo di un’ improvvisa solitudine. Mila chiese il conto e la cameriera le portò la ricevuta e anche il pasto da asporto che aveva ordinato.

«Hai un cane anche tu» constatò Berish per spezzare il gelo, contravvenendo alla precedente decisione di farsi gli affari propri.

«Veramente è per un vagabondo che vive sotto casa mia.» E non aggiunse altro.

Ma l’ agente speciale sembrava interessato. «È un tuo amico?»

«Non so nemmeno come si chiama. E poi – ragionandoci – a cosa gli serve chiamarsi in un modo o in un altro? È del tutto superfluo per uno che ha scelto di essere dimenticato, non ti pare?»

Berish sembrava condividere il pensiero, però parve anche illuminarsi. «Forse mi hai appena suggerito un’ idea su come sfruttare la pista dell’ identità nascosta nella musica di Stravinskij.»

«E sarebbe?»

«Per trovare un nome ci serve un uomo che non ne ha mai avuto uno.»

45

Berish usò un telefono pubblico per chiamare.

Mila lo attendeva in auto insieme a Hitch, domandandosi il motivo di tanta prudenza. Terminata la conversazione, l’ agente speciale riabbassò il ricevitore e rimase dov’ era. La poliziotta non capiva. Il collega passeggiava sul marciapiede, come se attendesse l’ arrivo di qualcuno.

Trascorsero venti minuti senza che accadesse nulla.

Quando ormai Mila stava per scendere dalla Hyundai per andare a chiedere spiegazioni, Berish si diresse nuovamente verso il telefono pubblico che, evidentemente, si era messo a squillare. Parlò con un misterioso interlocutore, poi tornò da lei.

«Dobbiamo andare in un paio di posti» le annunciò con tono laconico.

Mila accese il motore senza fare domande, anche se cominciava ad averne abbastanza. Passarono prima dal residence in cui abitava Berish. Il collega non la invitò a salire nell’ appartamento e poco dopo ridiscese senza dire una parola. Ma, mentre montava in auto, Mila si accorse che aveva una busta nella tasca interna della giacca.

Le indicò la strada e, mezz’ ora dopo, arrivarono nell’ area industriale che si trovava al margine ovest della città – una serie di capannoni tutti uguali, tir che facevano la spola sulle strade. Il luogo in cui erano diretti era uno stabilimento per la lavorazione delle carni.

Quando giunsero nel parcheggio aziendale, Berish le fece cenno di fermarsi e spegnere il motore.

Accanto ad anonimi edifici bianchi era posizionata una rampa di carico. Da lì gli animali venivano introdotti nel ciclo produttivo. Una ciminiera rigettava fumo grigio che conferiva all’ aria un odore acre e, a tratti, nauseante.

«Allora, chi è il tuo amico?» chiese la poliziotta, curiosa e un po’  seccata dal fatto che il collega non le avesse ancora svelato nulla.

«Non gli piacciono le domande» si limitò ad avvertirla lui.

Mila non era sicura di reggere. Sperava solo che cadesse in fretta il ridicolo velo di riservatezza che Berish aveva imposto alla faccenda.

L’ agente speciale rimase in silenzio. Poi, da una porticina sul retro della fabbrica, uscì un uomo tarchiato, sulla cinquantina, con indosso un camice bianco e un elmetto, che si diresse verso la Hyundai a passo sostenuto, tenendo le mani in tasca.

Berish sbloccò le sicure dell’ auto per farlo salire dietro.

«Salve, agente, da quanto tempo» esordì il piccoletto.

Hitch gli abbaiò contro.

«Ancora con questo cagnaccio?»

Evidentemente, non si sopportavano.

Poi l’ uomo guardò Mila. «Questa chi è?»

«Agente Vasquez» si presentò lei, piccata. «Tu chi sei?»

L’ uomo la ignorò e si rivolse nuovamente a Berish. «Le hai detto che non mi piacciono le domande?»

«Gliel’ ho detto» confermò l’ agente speciale riservandole uno sguardo di biasimo. «Ma non le ho ancora spiegato cosa ci facciamo qui perché volevo che ci pensassi tu.»

L’ uomo sembrò apprezzare la premura di Berish, perciò stavolta si rivolse direttamente a Mila. «Io non ho un nome» le disse. «Il mio lavoro non esiste. Ciò che sentirai fra poco dovrai dimenticarlo.»

«Non so ancora di cosa ti occupi» replicò Mila.

L’ uomo si lasciò scappare un sorrisetto. «Io faccio sparire la gente.»

Nei successivi quindici minuti, Mila comprese il significato di quell’ espressione.

«Mettiamo che tu sia un facoltoso uomo d’ affari con qualche problemuccio con la legge. Uno come me ti aiuta a scomparire dalla circolazione.»

«Fai veramente questo?» domandò la poliziotta, stupita e inorridita. «Aiuti i delinquenti a farla franca?»

«Solo chi ha commesso crimini fiscali o finanziari. Anch’ io ho la mia etica, cosa credi?»

Intervenne Berish. «Il nostro amico qui è un escape artist, un vero professionista della fuga: con un computer riesce a cancellare l’ esistenza di una persona violando luoghi a cui un uomo di legge non potrebbe neanche avvicinarsi senza un mandato: archivi statali, database di banche e assicurazioni, e così via.»

«Io elimino le tracce del tuo passaggio e contemporaneamente ne creo di false per eludere eventuali inseguitori. Acquisto per te un biglietto aereo per il Venezuela, poi faccio risultare un acquisto con carta di credito al duty free dell’ aeroporto di Hong Kong, infine noleggio un Piper per Antigua anche se all’ atterraggio a bordo ci sarà solo il pilota... Funziona così: mentre chi ti dà la caccia si è perso nel mio gioco dell’ oca, tu sei già comodo e tranquillo a prendere il sole su una spiaggia nel Belize.»

Mila fissò Berish. «Davvero si può fare?»

L’ agente speciale annuì. Il senso della tacita risposta era che anche gli scomparsi del Signore della buonanotte avrebbero potuto imboccare quella strada. Pur non disponendo dei mezzi economici di un manager dell’ alta finanza, bastava il supporto di un bravo esperto d’ informatica.

Ed era anche probabile che Kairus lo fosse.

«La spiegazione è sempre razionale, ricordi?» puntualizzò Berish rammentandole quanto le aveva detto qualche ora prima.

Stavolta fu il turno di Mila d’ annuire.

«Ma il nostro artista della fuga può fare anche l’ inverso, cioè penetrare nelle banche dati più inaccessibili per scovare qualche traccia dell’ uomo che stiamo cercando.» E per rendere meglio l’ idea aggiunse: «Sono cose che voi al Limbo non potete fare».

Erano bastati pochi minuti di conversazione perché Mila si rendesse conto di quanto fossero inadeguati i mezzi di cui disponeva abitualmente nell’ attività di ricerca. I volti nella sala dei passi perduti gliene avrebbero chiesto conto d’ ora in poi.

Berish si girò sul sedile per guardare in faccia l’ uomo senza nome. «Allora, puoi darci una mano?»

Nel riflesso del retrovisore Mila vide che il collega, mentre poneva la domanda, faceva scivolare nella tasca dell’ altro la busta che aveva preso dal suo appartamento al residence prima di recarsi lì.

Avevano lasciato Hitch a guardia dell’ auto e seguivano l’ esperto lungo i corridoi dell’ industria di macellazione.

«Quando avremo finito, potrai portare una bella bistecca alla tua bestiaccia» assicurò il piccoletto a Berish.

«Come mai lavori qui?» scappò detto a Mila.

Ma quello non se la prese. «Mai detto che lavoro qui.»

«Come, scusa?»

«Io non possiedo computer, cellulari o carte di credito. Io non esisto, ricordi? Tutta quella roba lascia tracce. Berish mi contatta attraverso un messaggio a una casella vocale che ascolto mediamente ogni ora. Poi lo richiamo al numero che mi ha indicato di volta in volta.»

«E allora che ci facciamo in questo posto?» domandò Mila, sempre più curiosa.

«Un impiegato oggi è in malattia e allora c’ è un computer libero. Useremo quello.»

Inutile chiedere come facesse a saperlo, pensò la poliziotta. Quel tizio era davvero bravo a reperire informazioni.

Incrociarono diversi operai ma nessuno fece caso a loro. Il posto era troppo grande perché la gente si accorgesse di strani movimenti o facce sconosciute.

Arrivati nei pressi di un ufficio, l’ esperto si guardò intorno. Assicuratosi che non ci fosse nessuno in giro, si servì di un passepartout per entrare.

Era un piccolo locale con una scrivania e un paio di schedari. Oltre ad alcuni poster con le mucche al pascolo, che risultavano alquanto macabri in quel contesto, c’ erano le foto di famiglia dell’ impiegato che vi lavorava.

«Tranquilli, non verrà nessuno» li rassicurò l’ uomo. Poi si mise a trafficare col computer. «Cosa vi serve?»

«Stiamo cercando un tizio scomparso negli ultimi venti anni che si chiama Ivan o che ha un nome affine» riferì Berish.

«Un po’  debole come pista» commentò l’ esperto. «Non c’ è altro?»

L’ agente speciale integrò l’ informazione con il dettaglio del balletto L’ uccello di fuoco di Stravinskij e con la scena della cattura della creatura da parte del principe. «Chi ci ha fornito la traccia vorrebbe che trovassimo un riscontro, non dev’ essere impossibile.»

«Una sfida» disse l’ uomo, soddisfatto. «Bene, mi piacciono le sfide.»

No, è una prova, pensò Mila, e fu tentata di correggerlo con le stesse parole con cui Berish aveva spiegato a lei lo scopo del predicatore. Invece lo osservò mentre si metteva al lavoro. In religioso silenzio, iniziò a digitare comandi sulla tastiera, accedendo via internet agli archivi digitali di banche, ospedali, giornali e perfino in quello della polizia. Le dita si muovevano leggere sui tasti, come se conoscessero la strada per entrare in tutti i luoghi dell’ universo informatico. Password, chiavi elettroniche, codici criptati furono violati con una facilità estrema. Sullo schermo si materializzava ogni genere d’ informazione. Articoli di stampa, cartelle cliniche, fedine penali, estratti conto bancari.

Trascorse quasi un’ ora e Berish non aveva detto una parola. Si aggirava per la stanza con fare inquieto, guardando fuori dalla finestra di tanto in tanto. La poliziotta gli si avvicinò. «Come vi siete conosciuti?» disse indicando l’ esperto con un gesto del capo.

«Lavorava per il Programma di Protezione, ci aiutava a nascondere i testimoni da quelli che avrebbero avuto interesse a farli tacere.»

Mila non chiese altro, ipotizzava che Berish non potesse condividere di più. O probabilmente era lei che non voleva conoscere tutta la verità. Perché la scena di lui che passava di nascosto una busta sospetta all’ esperto la turbava ancora. Le risuonavano nella testa le parole di Joanna Shutton riferite indirettamente a Berish: «Uno degli agenti speciali coinvolti perse la sua dignità per un’ altra squallida faccenda... Accettò una somma di denaro per far fuggire un pentito della criminalità che avrebbe dovuto proteggere ma anche sorvegliare».

La consulenza dell’ esperto non era certamente a buon mercato. Ma, soprattutto, cosa ci faceva l’ agente speciale con tutto quel contante in casa?

Poi, il ticchettio dei tasti cessò all’ improvviso. L’ uomo senza nome era pronto per il responso.

«Si chiama Michael Ivanovič. È scomparso quando aveva sei anni.»

L’ età di Alice, pensò subito Mila. Era strano come le sparizioni dei bambini la toccassero particolarmente da quando aveva una figlia.

«Hanno sempre pensato che l’ avesse rapito un maniaco» proseguì l’ esperto. «Se davvero si tratta della stessa persona, adesso avrà all’ incirca ventisei anni.»

Mila guardò Berish. «È scomparso nello stesso periodo degli insonni.»

«Se all’ epoca non l’ abbiamo annoverato fra le prime vittime di Kairus, evidentemente non c’ era il dettaglio del sonnifero.»

Sette persone sparite nel nulla, a cui si era aggiunta Sylvia, la testimone. Ma esisteva un nono scomparso.

«Dov’ è stato tutto questo tempo?» chiese Mila.

«Non saprei dirlo» rispose l’ esperto. «Ma posso affermare con certezza che le sue tracce sono improvvisamente riapparse in Rete una settimana fa. È come se ’ virtualmente’  fosse tornato.»

«Anche se non risulta il particolare del narcotico, mi sembra un po’  grossa come coincidenza, non vi pare?» affermò Berish entusiasta. «Secondo me è lui.»

Mila assentì. «Adesso come lo troviamo?»

«Le tracce di cui vi parlavo servono proprio a questo. Ivanovič ha chiamato una compagnia telefonica per farsi attivare una linea cellulare, lasciando nome e cognome. Ha fatto lo stesso richiedendo l’ apertura di un conto corrente on line. Ma gli indirizzi non coincidono, segno che voleva solo lanciare un messaggio nell’ etere nella speranza che qualcuno lo raccogliesse. Michael vuole farvi sapere chi è ma, contemporaneamente, non vuole essere trovato.»

Perché ha un compito da portare a termine, pensò Mila. Deve uccidere qualcuno.

«E adesso?» chiese Berish.

«Ho la risposta per te» sorrise il mago del computer. «Da un vecchio referto medico di quando era bambino risulta che Michael Ivanovič è portatore di un’ anomalia congenita piuttosto rara che va sotto il nome di Situs Inversus totale.»

«Vale a dire?» domandò Mila.

«Che ha tutti gli organi invertiti – cuore a destra, fegato a sinistra e così via» rispose Berish.

La poliziotta non ne aveva mai sentito parlare. «E cosa ce ne facciamo di questa informazione?»

«I soggetti con Situs Inversus – in una percentuale che raggiunge il novantacinque per cento dei casi – soffrono di cardiopatie. Perciò hanno bisogno di frequenti controlli medici» aggiunse l’ uomo.

Per Berish l’ idea era ottima. «Non dobbiamo cercare il suo nome, ma la sua anomalia. Così, anche se in questi anni si è servito di false identità, potremo ricostruire i suoi movimenti attraverso chi lo ha avuto in cura.»

«Non sarà così semplice» affermò l’ altro smorzando l’ entusiasmo. «In Rete non risulta alcuna cartella clinica che descriva un caso di Situs Inversus in un ragazzo di ventisei anni.»

«Com’ è possibile?» domandò Berish.

«Magari in tutto questo tempo Michael Ivanovič non si è mai rivolto a un ospedale, ma a medici generici o a specialisti. Ci vorrà un po’  di più per scoprire chi siano.»

Berish sbuffò. «Il fatto è che non abbiamo il tempo che ti serve.»

L’ uomo alzò le mani. «Spiacenti, ma per ora non posso fare di più.»

«Va bene» intervenne Mila e si rivolse all’ agente speciale. «È inutile scoraggiarsi. Sono sicura che se lo lasciamo lavorare, tirerà fuori qualcosa sul conto del nostro Michael.»

Berish volle coltivare la stessa speranza. «D’ accordo, proviamo. E nell’ attesa cosa facciamo?»

Mila guardò l’ ora. «Io ho un appuntamento.»

46

La prima volta che Alice aveva chiesto di suo padre aveva più o meno quattro anni.

La domanda, però, esisteva già da un po’  nella sua testa. Come capita spesso coi bambini, assumeva altre forme – nei gesti o nei discorsi. A un tratto Alice prese a disegnare la sua famiglia includendo una figura di cui non aveva mai sentito parlare. Chissà quando era sorta in lei la consapevolezza di avere un altro genitore. Certamente era accaduto confrontandosi coi suoi coetanei o sentendo Ines parlare di suo marito, il nonno. Se Mila aveva avuto un padre, perché non lei? A ogni modo, la prima domanda che aveva posto in proposito era stata una specie di compromesso.

«Quanti anni ha il mio papà?»

Un modo per girare intorno alla questione senza perdere di vista il bersaglio principale.

Un po’  di tempo dopo Alice era tornata sull’ argomento, a proposito della statura. Come se la preziosissima informazione potesse cambiare il suo destino. Da lì in poi, gli interrogativi si erano susseguiti. Il colore degli occhi, il numero di scarpe, il suo piatto preferito.

Era come se, pezzo dopo pezzo, Alice stesse cercando di ricomporre l’ immagine del padre.

Un esercizio certosino e spossante, specie per una bimba – Mila se ne rendeva conto. Ines aveva cominciato a farle intendere che forse era il caso che genitore e figlia s’ incontrassero. Mila aveva rimandato, perché attendeva il momento giusto. Anche se non sapeva esattamente come l’ avrebbe individuato. Quando la notte prima Ines era tornata alla carica, Mila non aveva esitato a dirle di sì, quasi non ci fossero mai state discussioni. Dopo ciò che era accaduto – l’ irruzione in casa, panico e sconcerto – Mila sentiva di essere in debito con Alice. Dubitava di essere una buona madre ma non poteva impedire alla bimba di sentirsi una brava figlia.

E le brave figlie vanno a trovare i loro papà.

Inoltre, gli eventi di quella settimana l’ avevano riportata inevitabilmente ai giorni del Suggeritore. La richiesta della bambina non era più così impossibile da soddisfare. Forse era destino che bisognasse fare i conti col passato. O forse Alice le stava comunicando che non si poteva ignorare il male compiuto.

Anche perché, senza quel male, lei non sarebbe nata.

La strada si inerpicava sulle colline, accarezzata dalle fronde degli alberi.

Alice guardava fuori dal finestrino e, per un attimo, a Mila sembrò di vedere se stessa bambina nel retrovisore. Anche a lei piaceva rubare istanti alla velocità. Immagini che le sfuggivano davanti agli occhi e di cui poteva cogliere solo frammenti. Una casa, un albero, una donna che stendeva i panni ad asciugare.

Madre e figlia non si erano dette molto dall’ inizio del breve viaggio. Mila aveva tirato fuori dal bagagliaio della Hyundai il seggiolino di sicurezza da piazzare sul sedile posteriore per Alice e poi aveva lasciato che Ines sistemasse la nipotina, assicurandosi che fosse ben allacciata con le cinture e in compagnia della sua bambola preferita.

Quel giorno Ines le aveva fatto indossare un abito rosa di cotone, con le bretelline che le lasciavano scoperte le spalle. Portava scarpine da ginnastica bianche e fra i capelli aveva un fermaglio dello stesso colore.

Dopo qualche chilometro, Mila le aveva chiesto se per caso avesse caldo o volesse sentire la radio e Alice aveva scosso il capo e si era stretta ancor di più a Miss, la bambola dai capelli rossi.

«Sai dove stiamo andando, vero?»

La bambina aveva continuato a fissare fuori. «La nonna me l’ ha detto.»

«E sei contenta di andarci?»

«Non lo so.»

Con una semplice affermazione, Alice aveva messo fine a ogni velleità di Mila di proseguire la conversazione. Un’ altra madre avrebbe approfondito il senso di quel dubbio. Un’ altra madre magari avrebbe proposto di tornare indietro. Un’ altra madre, forse, avrebbe saputo cosa fare. Ma Mila sentiva di essere già «l’ altra madre» per Alice, perché quella vera ormai era sua nonna.

L’ edificio in pietra grigia apparve in lontananza.

Quante volte era andata in visita negli ultimi sette anni? Doveva essere la terza. La prima era avvenuta nove mesi dopo l’ accaduto, ma non era riuscita a superare la soglia ed era corsa via. La seconda volta era arrivata fino alla stanza, l’ aveva visto e non gli aveva detto niente. In fondo era così poco il tempo che avevano passato insieme, che non avevano argomenti da condividere.

L’ unica notte trascorsa con lui l’ aveva segnata più di mille tagli. Il dolore che aveva provato era stato devastante, ma anche così bello, così intenso che non poteva paragonarsi a nessuna forma d’ amore. Lui che la spogliava svelando il segreto del suo corpo ferito, lui che percorreva coi baci le sue cicatrici, lui che le affidava tutta la sua disperazione, sapendo che lei ne avrebbe fatto buon uso.

Erano almeno quattro anni che non tornava a trovarlo.

Un inserviente di colore venne ad accoglierle nel parcheggio. Mila aveva avvertito per telefono della loro visita.

«Buongiorno» le salutò l’ uomo, sorridendo. «Ci fa piacere che siate venute. Oggi va molto meglio, sapete? Venite, vi sta aspettando.»

La recita era a beneficio della bambina, per non spaventarla. Doveva sembrare tutto naturale.

Entrarono dall’ ingresso principale. Dietro un bancone stazionavano due guardie private che chiesero a Mila se ricordava la procedura da seguire per accedere alla struttura. Lei consegnò pistola, distintivo e cellulare. Le guardie controllarono anche la bambola dai capelli rossi. Alice seguiva le operazioni con curiosità, senza protestare. Poi madre e figlia passarono attraverso un metal detector.

«Riceve ancora minacce di morte.» L’ inserviente si riferiva al loro ospite principale.

Percorsero un lungo corridoio pieno di porte chiuse. C’ era odore di disinfettante. Ogni tanto Alice perdeva il passo di Mila ed era costretta ad accelerare. Per un attimo la bambina allungò la mano verso quella della madre ma, accortasi dell’ errore, la ritrasse subito.

Presero un ascensore con cui raggiunsero il secondo piano. Altri corridoi, stavolta più animati. Dalle stanze provenivano suoni cadenzati – lo stantuffo ripetuto dei respiratori e il tintinnio dei monitor cardiaci. Le persone impiegate in quel posto erano vestite di bianco e si muovevano disciplinatamente, ripetendo un’ essenziale routine fatta di siringhe che si riempivano, fleboclisi che venivano cambiate, sacche da svuotare o cateteri da gettare.

A ciascuno era assegnato un ospite, finché il tempo a sua disposizione non si esauriva. Almeno così era stato detto a Mila da un medico. «Noi siamo qui perché queste persone alla nascita hanno ricevuto un esubero di giorni.» E lei aveva pensato a una specie di errore di fabbricazione. Come se la vita e la morte avessero preso uno slancio e adesso proseguissero appaiate e costanti in un lentissimo prolungamento di esistenza, finché la prima non cedeva alla seconda.

Ma nessuna fra le persone distese nei letti di quella clinica poteva sperare di tornare indietro dal viaggio intrapreso.

Morti che non sapevano di essere morti e vivi che non potevano morire. Era così che Mila aveva definito per Berish gli scomparsi del Limbo. E in quel confine accadeva la stessa cosa.

L’ inserviente le condusse fino alla stanza. «Volete restare sole con lui?»

«Sì, grazie» rispose Mila.

Mila fece un passo avanti rispetto ad Alice che, invece, rimase ferma sulla soglia, le scarpine da ginnastica perfettamente allineate e la bambola sempre stretta a sé.

Fissava l’ uomo disteso supino nel letto, con le braccia che spuntavano dal candido lenzuolo perfettamente ripiegato all’ altezza del torace. I palmi delle mani erano appoggiati mollemente sulle coperte. Il tubo fissato alla gola, attraverso cui respirava, era stato celato con un velo di garza, per non turbare la giovane visitatrice, pensò Mila.

Alice fissò suo padre con uno sguardo immobile. Forse doveva trovare il modo di far coincidere ciò che aveva davanti agli occhi con l’ immagine di lui che si era costruita nella testa.

Mila avrebbe potuto farle credere fin dall’ inizio che era morto, sarebbe stato molto più facile – anche per lei. Ma, visto come stavano le cose, sarebbe stata una verità bugiarda. Era comunque destino che arrivasse il giorno degli interrogativi più importanti – risposte che andavano oltre il colore degli occhi o il numero di scarpe. Allora, tanto valeva attendere per spiegarle che quel corpo inutile era l’ invalicabile prigione per l’ anima dannata di suo padre.

Ma, per fortuna di entrambe, c’ era ancora tempo.

Alice non si mosse, inclinò il capo per un attimo, come se avesse colto una sfumatura nella scena – cose che gli adulti non possono vedere. Poi si rivolse a Mila e disse soltanto: «Adesso possiamo andare».

47

La sparizione di Michael Ivanovič era avvenuta in un’ epoca in cui le foto dei bambini scomparsi venivano stampate sui cartoni del latte.

Un’ idea investigativa semplice ma potenzialmente molto efficace. Il risultato era che, ogni mattina, tutte le famiglie del paese si ritrovavano a tavola con quel volto. Tramite l’ astuto espediente, i cittadini erano indotti a memorizzarlo e potevano segnalare eventuali avvistamenti fortuiti. Se esisteva un rapitore, era un modo per farlo sentire braccato.

Ma c’ era anche un effetto collaterale.

Il minore scomparso finiva per essere idealmente adottato dall’ intero paese. Era il figlio o il nipote per la cui sorte si stava in ansia e si pregava ogni sera, e il ritrovamento veniva atteso come l’ estrazione dei numeri della lotteria, con la sicurezza che ci sarebbe stato un vincitore.

Ma poi era sorto un problema: gli investigatori – e con loro i produttori di latte – si erano domandati per quanto tempo la foto dovesse restare sui cartoni. Perché, più tempo trascorreva, più diminuivano le probabilità di un lieto fine. A quel punto, non era piacevole per nessuno fare colazione con l’ immagine di un bambino che poteva essere morto. Così, da un mattino all’ altro, la foto spariva. Ma nessuno protestava. Preferivano dimenticare.

Michael Ivanovič – che subito tutti ribattezzarono affettuosamente «il piccolo Michael» – era apparso per diciotto mesi sui cartoni del latte. Aveva compiuto sei anni da una settimana il giorno in cui sparì nel nulla. I suoi genitori si stavano separando ed erano alle prese con le dispute legate al divorzio. I media avevano insinuato che i due fossero troppo impegnati a litigare per prestare la dovuta attenzione al loro unico figlio. Così, qualcuno ne aveva approfittato per intromettersi furtivamente nella loro vita, e si era preso Michael.

Il fatto era avvenuto in un pomeriggio di primavera inoltrata, nel giardinetto che si trovava proprio davanti al luogo di lavoro della madre. Michael giocava sull’ altalena mentre lei discuteva animatamente da un telefono pubblico con quello che presto sarebbe diventato l’ ex marito. La donna giurò agli inquirenti di non aver distolto quasi mai lo sguardo dal figlio. E che, comunque, era tranquilla perché udiva costantemente il cigolio dell’ altalena.

Solo che il sedile di legno continuava a dondolare senza il peso di Michael.

Per il rapimento del piccolo era stato fermato un idraulico trentacinquenne. A denunciarlo era stata la convivente dopo aver trovato in casa la maglietta verde a righe bianche che il bambino indossava il giorno della sparizione. L’ uomo però si giustificò asserendo di averla raccolta da un bidone della spazzatura e di aver deciso di tenersela perché il bambino ormai era famoso e gli piaceva l’ idea di possedere il «souvenir di una celebrità». Alla fine, la sua versione fu ritenuta attendibile e lo incriminarono unicamente per intralcio alle indagini.

A parte quell’ episodio, per venti anni non era emerso un solo indizio sulla sorte di Michael Ivanovič. Non una traccia, una voce, nemmeno una falsa pista. Nessuno lo diceva, ma tutti credevano fosse morto.

Come di solito accadeva in casi simili, fu diramato un avviso in forma riservata a beneficio di tutti i medici legali del paese. Conteneva la descrizione anatomopatologica del bambino ai fini dell’ identificazione, nel caso fosse stato rinvenuto il cadavere di un minore.

Il comunicato riportava il dettaglio – mai diffuso alla stampa – di una condizione congenita di Michael Ivanovič, che andava sotto il nome di Situs Inversus.

Quando ebbe terminato di leggere, Berish richiuse il fascicolo. Ne aveva stampata una copia scaricandola dall’ archivio del Limbo grazie alla password che gli aveva fornito Mila.

La nona vittima in ordine di tempo del Signore della buonanotte, si ripeté.

Nell’ incartamento però non c’ erano indicazioni su chi, oggi, potesse essere il bersaglio di Michael Ivanovič. Era troppo giovane al momento della scomparsa, perciò era improbabile che avesse individuato l’ obiettivo in base alla propria esperienza – come avevano fatto Roger Valin e Nadia Niverman. Il collegamento fra vittima e omicida sarebbe stato sicuramente casuale – come per Eric Vincenti e André García.

Ma il fatto che Kairus stavolta avesse scelto il più giovane dei suoi discepoli per quel compito di morte, significava che voleva che gli investigatori facessero tutto il possibile per trovarlo. Perché?

«Deve farci sentire inadeguati» pensò Berish ad alta voce. «Ha in mente un bersaglio grosso stavolta.»

L’ agente speciale aveva trascorso gran parte del pomeriggio rinchiuso nel suo ufficio ad aspettare una chiamata dell’ amico esperto d’ informatica. Finito di studiare il fascicolo di Michael Ivanovič, lo ripose nel cassetto, guardò l’ ora e poi Hitch che se ne stava tranquillo nel suo angolo senza protestare. Erano passate le diciotto e a entrambi era venuta fame. Così decise di portare fuori il cane.

Attivò la segreteria telefonica e uscì insieme a Hitch per comprare qualcosa da mangiare.

Un chiosco vendeva panini e bibite a due passi dall’ ingresso del dipartimento. Gli hot dog erano la passione di Hitch – il suo padrone era convinto che fosse anche per via del nome di quel cibo.

Si misero in fila con gli altri poliziotti che, come al solito, lanciavano a Berish occhiatine sdegnate. Per la prima volta, dopo tanto tempo, l’ agente speciale poteva sentire la puntura dei loro sguardi su di sé, come se la corazza che l’ aveva sempre protetto si fosse indebolita.

Hitch percepì la sua tensione perché sollevò la testa e abbaiò per accertarsi che andasse tutto bene. Berish lo accarezzò sul muso. Quando giunse il suo turno, acquistò un paio di hot dog, dei tramezzini al tonno e una lattina di Red Bull, quindi si allontanarono con passo spedito. Sulla via del ritorno, ripensò a quanto era appena accaduto. Non era cambiato niente, eppure era come se fosse cambiato tutto. Tornare a essere operativo dopo anni d’ inattività lo faceva sentire vivo. Dopo decine d’ interrogatori in cui era riuscito a ottenere la confessione dei peccati di assassini e criminali, aveva compreso che non era peggiore di loro. Ma aveva sempre creduto che si aprissero perché riconoscevano in lui una specie di sodale.

Non sembro uno sbirro, per questo mi dicono le cose.

Invece adesso quel talento si presentava per ciò che era in realtà: una condanna. E una voce in fondo al suo cuore stava decretando che era giunto il momento di porre termine alla pena.

Hai finito di pagare, Simon. È ora di essere di nuovo un poliziotto.

Mentre rimuginava su quei pensieri, percorreva il corridoio verso l’ ufficio. In una mano portava il sacchetto con i panini, nell’ altra la lattina di Red Bull e non gli venne in mente che avrebbe avuto bisogno di liberare una delle due per aprire la porta.

Fu Hitch ad attirare la sua attenzione sul fatto che era già aperta.

«Ciao, Simon.»

Per poco non gli cadde la lattina di mano. Dovette fare ricorso a tutto l’ autocontrollo di cui disponeva per non farsi venire un infarto. «Sant’ Iddio, Steph.»

Il capitano del Limbo era seduto di fronte alla scrivania, con le gambe accavallate. «Non volevo spaventarti, scusa.» Poi batté le mani per attirare il cane. «Vieni, bello.»

Hitch andò subito incontro a Stephanopoulos, che gli afferrò la testa pelosa fra le mani, strofinandogliela affettuosamente.

Berish tirò il fiato, si richiuse la porta alle spalle e mise gli hot dog nella ciotola del cane. «Quando uno si abitua a essere ignorato, certe sorprese potrebbero essere fatali.»

Steph rise. «Me ne rendo conto. Ma prima ho bussato, lo giuro.» Poi divenne serio. «Non sarei entrato per aspettarti se non avessi avuto qualcosa d’ importante di cui discutere.»

Berish osservò l’ espressione del suo vecchio superiore. «Vuoi uno dei miei tramezzini?» disse prendendo posto dall’ altro lato della scrivania.

«No. Ma tu mangia pure, se vuoi. Non ci vorrà molto.»

Berish aprì la lattina di Red Bull e diede una sorsata. «Allora, che c’ è?»

«Lo dirò senza girarci intorno, e mi aspetto una risposta altrettanto diretta.»

«Va bene.»

«Tu e Mila Vasquez state conducendo un’ indagine non autorizzata?»

«Perché non lo domandi a lei? Non è una tua agente?»

Steph non sembrò contento della mezza ammissione. «Le ho detto io di venire da te.»

«Questo lo so.»

«Ma non mi aspettavo che avreste fatto comunella. Ti rendi conto che questo può danneggiare la sua reputazione nel dipartimento?»

«Credo che sappia badare a se stessa.»

«Tu non sai un cazzo, invece.» Steph ebbe uno dei suoi soliti scatti d’ irruenza. «Mila è attratta dal buio come i bambini dalla marmellata. Da piccola le sono accadute cose terribili – cose che né io né te potremo mai neanche immaginare, grazie a Dio. Poteva uscirne in due modi: cedere al terrore per il resto della vita, oppure usarlo come una risorsa. Mila s’ infila nelle situazioni più rischiose perché ne ha bisogno. Tipo quei reduci di guerra che vorrebbero subito tornare al fronte. La paura di morire crea dipendenza.»

«Ho capito il tipo» tagliò corto Berish. «Ma so anche che nessuno di noi due la potrà mai persuadere o frenare.»

Stephanopoulos scosse il capo, contrariato, e piantò gli occhi in quelli dell’ agente speciale. «Sei convinto di prendere Kairus, vero?»

«Stavolta sì» gli confermò Berish.

«E hai già detto a Mila perché t’ interessa tanto chiudere i conti col Signore della buonanotte?» Fece una pausa. «Le hai parlato di te e Sylvia?»

L’ agente speciale si ritrasse sulla sedia. «No, non gliel’ ho detto» ammise freddamente.

«E pensi di farlo? Oppure per te è solo un dettaglio trascurabile?»

«Perché dovrei?»

Steph sbatté la mano sulla scrivania, spaventando Hitch. «Perché è da allora che hai cominciato a precipitare. Sei diventato uno stronzo, hai sputtanato anche la carriera diventando il reietto del dipartimento. E tutto per via di ciò che è accaduto a Sylvia.»

«Avrei dovuto proteggerla, invece...»

«Invece Kairus te l’ ha portata via.»

Ti piacerebbe avere una nuova vita?

Le parole del Signore della buonanotte al telefono con le sue vittime risuonarono nella stanza. Ma soltanto Berish le udì.

Anche Sylvia era stata nella camera 317 dell’ Ambrus Hotel? Anche lei aveva preso l’ ascensore fino al terzo piano? E aveva visto la carta da parati rosso scuro? E camminato sulla moquette con gli enormi fiori blu? E a quel punto, dopo aver ingerito un sonnifero, si era lasciata prendere dal Signore della buonanotte?

Ci fu un lungo silenzio, poi fu ancora Steph a parlare. «Qual è la tua colpa, Berish? Esserti fatto fregare dal mostro oppure innamorarti dell’ unica testimone che l’ aveva visto in faccia? Pensaci bene.»

«Avrei dovuto proteggerla» ripeté con voce ferma, come un disco rotto.

«Quanto tempo hai passato con lei? Un mese? Ti sembra normale gettare via il resto della vita per così poco?»

Berish non disse nulla.

Forse Steph si rese conto che era tutto inutile. Si alzò e si avvicinò a Hitch, accucciandosi per accarezzarlo. «In qualità di capo del Programma Protezione Testimoni, sono responsabile quanto te per ciò che è successo.»

«Infatti sei andato a seppellirti nel Limbo.»

Il capitano si lasciò scappare un risolino amaro, si rimise in piedi e afferrò la maniglia della porta, pronto ad andar via. «Siccome alcuni degli scomparsi stanno tornando, pensi che riapparirà anche lei, vero? Ti prego, fammi sentire dalla tua voce che mi sto sbagliando: dimmi che non credi che Sylvia sia ancora viva.»

Berish sostenne lo sguardo dell’ anziano capitano, anche se non sapeva cosa rispondere. Il silenzio si stava facendo pesante e Steph non mollava. Fu lo squillo del telefono a spezzare la tensione.

L’ agente speciale afferrò il ricevitore. «Sì?»

«Fra poco mi vorrai tanto, tanto, tanto bene.» La voce apparteneva all’ esperto di informatica senza nome e, in sottofondo, si sentiva il rumore di un macchinario industriale. Chissà da quale telefono sicuro stava chiamando.

«Hai qualcosa per me?» Berish cercava di essere evasivo perché Steph continuava a fissarlo dalla porta.

«Michael Ivanovič si è rivolto a un medico privato con un nome falso all’ incirca un mese fa.»

«Sicuro?»

«Ascolta questa: il dottore capisce che la Provvidenza gli ha fatto un regalo e adocchia la possibilità di scrivere un bell’ articolo per una rivista medica sul caso di Situs Inversus, così si mostra preoccupato per le condizioni del cuore di Ivanovič. Ma quello capisce tutto e taglia la corda. Il dottore, però, non si rassegna e lo segue fino a casa. Probabilmente Michael lo scopre e il giorno dopo lo sprovveduto medico brucia insieme alla sua auto. La polizia e l’ assicurazione pensano che un problema all’ impianto elettrico abbia generato un rapido incendio che non ha lasciato scampo al conducente – non ha avuto nemmeno il tempo di uscire dall’ abitacolo. Chi doveva indagare, però, non si è preoccupato di andare a fondo: primo, perché certi eventi possono capitare, e poi perché il dottore non era tipo che avesse nemici. Così chiudono il caso come un comune incidente. Io, però, mi sono preso la briga di andare a leggere gli appunti nel portatile del medico e, partendo dal movente, ho ricostruito tutta la storia.»

«Aspetta un attimo.» Berish coprì la cornetta e si rivolse nuovamente a Stephanopoulos. «Prometto che dirò a Mila di Sylvia e, per quanto mi sarà possibile, la terrò fuori dai guai.»

Il capitano del Limbo sembrò prendere per buone le sue parole. «Grazie» disse prima di lasciare la stanza.

Quando Steph se ne fu andato, Berish tornò al suo interlocutore telefonico. «Hai un indirizzo?»

«Esatto, amico mio.»

L’ esperto glielo comunicò e l’ agente speciale prese nota, sperando che Michael Ivanovič vivesse ancora lì. Stava per riattaccare in modo da chiamare subito Mila, quando la voce al telefono lo fermò.

«Ancora una cosa... Ivanovič poteva scegliere mille modi per uccidere il dottore. Però c’ è un dettaglio che avrebbe dovuto insospettire la polizia e l’ assicurazione.»

«E sarebbe?»

«La perizia sull’ incidente sostiene che le sicure della macchina bruciata fossero difettose, ma forse erano state semplicemente manomesse. Inoltre, secondo il medico legale le condizioni del corpo erano tali da far supporre una lenta combustione, altro che ’ rapido incendio’ . Perciò non escludo che l’ assassino avesse previsto tutto e fosse lì vicino a godersi lo spettacolo.»

Berish pensò all’ uccello di fuoco del balletto di Stravinskij. «Vuoi dire che questo Michael Ivanovič è un piromane?»

«Credo che al nostro amico piaccia veder bruciare le persone.»

48

Si incontrarono a due isolati di distanza dall’ indirizzo di Michael Ivanovič.

Erano giunti ciascuno per conto proprio. Berish fece salire Hitch sul sedile posteriore della Hyundai e prese posto, senza domandare a Mila dove fosse stata quel pomeriggio – ma dall’ espressione del volto si accorse subito che qualcosa non andava.

«Siamo certi che abiti proprio lì?» chiese la poliziotta.

«Così ha detto il nostro informatore.»

«Allora, come ci muoviamo?»

Berish guardò l’ ora: erano passate le otto. «C’ è il rischio di trovarlo in casa.»

«Avevi in mente una perquisizione?»

«Non lo so cosa avevo in mente, forse sarebbe il caso di avvertire il tuo amico Boris.»

A Mila scappò una smorfia di disappunto. «Vuoi davvero che gli spieghi come ho ottenuto l’ informazione? Perché me lo chiederà, è sicuro.»

Berish non ci aveva pensato. Farlo significava bruciare la sua fonte. Non esisteva altro modo per collegare Mila a Michael Ivanovič. «Hai ragione. Ma se scopriamo qual è il suo obiettivo dovremo dare comunque l’ allarme.»

«Io direi che a questo possiamo pensarci dopo.»

Berish annuì.

Gli appartamenti erano disposti circolarmente su due piani, il complesso si sviluppava intorno a una buca rettangolare colma di liquami che una volta era una piscina.

Berish e Mila varcarono il cancello e si diressero subito verso il retro. Per salire inosservati avrebbero usato la scala antincendio. L’ appartamento di Michael Ivanovič era il 4B.

Arrivati alla base dei gradini, l’ agente speciale si raccomandò con il suo cane. «Se arriva qualcuno, abbaia. Hai capito, vero Hitch?»

Gli hovawart – come d’ altronde suggeriva il loro nome – erano perfetti per fare la guardia. Perciò l’ animale si sedette educatamente, come se avesse inteso il comando.

Quindi entrambi i poliziotti sfoderarono le pistole.

«Non è la mia solita arma» lo avvertì Mila. «Con quella che ho perso nell’ incendio del nido di Kairus mi sentivo più a mio agio. Perciò non garantisco nulla.»

Berish si rese conto che la precisazione era un modo delicato per ricordargli quanto la sua mira fosse stata inefficace quando, dentro l’ assurdo labirinto all’ interno della palazzina di mattoni rossi, aveva avuto l’ occasione di sparare a Kairus. Lo apprezzò, ma la parola «incendio» gli riportò anche alla mente l’ ultima frase dell’ esperto di computer riferita a Michael Ivanovič.

Credo che al nostro amico piaccia veder bruciare le persone.

Ne aveva fatto parola con Mila, ma non le aveva detto che quel particolare lo agitava oltremodo. Sui libri di antropologia criminale aveva imparato che la piromania era la manifestazione più acuta di un’ indole sadica.

Ed esisteva un nome apposito per quelli come Ivanovič. Avere a che fare con «una creatura del fuoco» era pericoloso perché lo scopo di tale genia non era solo la morte, bensì la distruzione.

Arrivarono nei pressi della porta d’ ingresso. Non c’ era modo di osservare l’ interno. Si guardarono. Berish accostò l’ orecchio, ma gli unici suoni che sentì provenivano dalle tv accese dei vicini – alcuni tenevano le finestre aperte per via della calura.

Non gli restava molto tempo per decidere, c’ era il rischio che qualcuno li notasse.

L’ agente speciale diede il proprio assenso e Mila si piegò sulle ginocchia per avere una visione migliore della serratura mentre la scassinava.

Pochi secondi e la porta era aperta.

Berish spinse il battente e poi puntò la pistola all’ interno, immerso nella penombra. Alle sue spalle, Mila accese la torcia e illuminò un tinello con al centro un tavolo ricoperto di vecchi giornali e vuoti di bottiglia. L’ appartamento proseguiva lungo un corridoio e pareva deserto.

Entrarono.

Berish avanzò di qualche passo mentre Mila si richiuse la porta alle spalle. L’ alloggio non doveva essere troppo grande, al massimo tre locali. Si fermarono sulla soglia del soggiorno per ascoltare i rumori della casa.

«Sembra che non ci sia nessuno» mormorò l’ agente speciale. «Comunque teniamo le pistole» si raccomandò, come se ce ne fosse bisogno.

«Lo avverti anche tu?» chiese Mila.

Berish intuì che si riferiva a un forte profumo artificiale, come di detergente per pavimenti. Ma il posto non sembrava granché pulito. Scosse il capo perché non capiva da dove provenisse.

Nella stanza il pezzo forte dell’ arredamento era un divano marrone dall’ imbottitura strappata. Un vecchio modello di televisore col tubo catodico era accantonato in un angolo e, accostata a una parete, c’ era una credenza vuota. Due sedie spaiate e un tavolino completavano la misera mobilia. Il tutto era dominato da un lampadario con quattro bracci su cui poggiavano delle campane in vetro smerigliato.

Non dava l’ idea di una casa vissuta, semmai di un alloggio provvisorio. E Berish capì immediatamente che non era stata certo quella la residenza di Michael Ivanovič negli ultimi venti anni.

Si è trasferito qui da poco, si disse. Il posto gli sarebbe tornato utile come covo finché non avesse portato a termine la missione. Dopodiché se ne sarebbe andato.

«Al nostro amico non piaceva la posizione del divano.» Mila si servì della torcia per indicare in basso.

Berish si accorse che, in effetti, una delle gambe di legno del divano era rotta. «Può averci nascosto qualcosa sotto.»

L’ afferrarono entrambi per i braccioli e lo scostarono di lato. Puntarono il fascio di luce, ma non c’ era nulla.

L’ agente speciale sembrava deluso.

«Probabilmente ha fatto la stessa cosa con gli altri mobili della stanza» disse Mila indicandogli il parquet graffiato dallo spostamento della credenza.

Se Ivanovič aveva in programma di stabilirsi per poco nella casa, perché mai aveva cambiato la disposizione dell’ arredamento? A Berish la cosa non tornava.

Alla loro destra, una tenda sporca separava il soggiorno da un piccolo bagno. Mila la scostò e vide che c’ erano la tazza scheggiata di un water, un lavabo di ceramica scadente, invaso dal calcare, e una doccia.

«Mancano i rubinetti» fece notare Berish. Sono stati rimossi, si disse. Registrò l’ ulteriore stranezza e provò a comprenderne il motivo, sperando che i suoi studi antropologici gli venissero in soccorso.

«Andiamo a vedere cosa c’ è di là» propose Mila, interrompendo il ragionamento del collega.

L’ ultima camera era quella in cui Michael Ivanovič, probabilmente, dormiva. La porta era accostata e la poliziotta diresse il fascio della torcia dentro la fessura.

«Guarda.»

Berish si posizionò accanto al suo braccio e vide.

All’ interno della stanza c’ era una piantina della città attaccata alla parete con le puntine da disegno. E un’ area era cerchiata in rosso.

«Tu pensi che...» Mila non finì la frase, perché era ovvio che potesse trattarsi del luogo in cui l’ omicida aveva deciso di colpire. Dovevano solo cercare una conferma. Per questo la poliziotta si mosse verso la stanza.

Berish la vide procedere con passo sicuro e, in un istante, si rese conto che quella mossa era stranamente prevedibile. La sua mente aveva anticipato il gesto di Mila perché se lo aspettava.

Quale motivo aveva spinto Michael Ivanovič a lasciare in evidenza un indizio tanto importante? Poteva trattarsi di sicurezza in se stesso e nel proprio nascondiglio, ma non ci avrebbe giurato. La risposta gli venne dall’ antropologia.

In meno di mezzo secondo, l’ agente speciale elaborò una serie di dati all’ apparenza insignificanti.

L’ odore di detergente – il liquido infiammabile più facilmente reperibile in commercio. Ha rimosso i rubinetti dal bagno – l’ acqua spegne le fiamme. Ha spostato i mobili – così un eventuale intruso è costretto a piazzarsi esattamente dove vuole lui. La piantina cerchiata di rosso – un invito a entrare nell’ altra stanza. La porta della camera semiaperta – l’ innesco.

«Ferma.»

Mila si voltò a osservarlo, interdetta.

L’ agente speciale sollevò lo sguardo al soffitto, verso il lampadario.

Prese la torcia dalle mani della poliziotta e la puntò in alto, scorgendo i cavetti che fuoriuscivano dai portalampade: le campane in vetro smerigliato erano piene di un liquido oleoso.

«Cos’ è quella roba?» chiese Mila scansandosi.

«Una bomba incendiaria.»

Poi Berish seguì con la torcia il percorso dei cavetti che terminava alla porta della camera da letto. Fece scorrere il fascio di luce sul battente e vide che a uno dei cardini era collegato un dispositivo rudimentale composto da due elettrodi e una pila a basso voltaggio, tenuti insieme dal nastro isolante. Se Mila avesse aperto la porta il circuito si sarebbe fatalmente chiuso. Non si sarebbe verificata un’ esplosione, Berish lo sapeva. Invece una cascata di fiamme liquide li avrebbe investiti, bruciando rapidamente i loro abiti per poi divorare anche le carni.

Più che una morte, sarebbe stato un supplizio. Tipi©o passatempo delle creature del fuoco.

«Il nostro Michael è in gamba.» L’ agente speciale ponderava la semplicità ma anche l’ ingegnosità della trappola.

Mila, invece, era ancora scossa. «Avrei dovuto fare più attenzione.»

A Berish bastò strappare via un cavetto per disinnescare l’ ordigno. Quindi entrò nella stanza.

Arrivati di fronte alla piantina si accorsero che il cerchio rosso contrassegnava una strada.

«Il posto non è lontano. Sono appena nove isolati da qui.» Ma poi la poliziotta lesse sul volto dell’ agente speciale il suo stesso scetticismo. «Ma chi ci dice che Michael Ivanovič volesse lasciarci davvero un indizio e non sia, invece, solo una finzione per farci cadere nella trappola incendiaria?»

«Be’ , lo scopriremo recandoci lì di persona.»

49

Capirono che il posto era giusto quando videro la gente per strada.

Mila e Berish giunsero davanti a una palazzina di sei piani. Risuonava un allarme antincendio e gli inquilini stavano abbandonando lo stabile. Ma non c’ era fumo.

Notarono che fuori era parcheggiata un’ autopattuglia. Lo sportello del guidatore era spalancato e i lampeggianti erano accesi.

«L’ agente di ronda nel quartiere ci ha preceduto» disse Mila mentre scendeva dalla macchina. Quindi individuò subito il portiere che stava aiutando la gente a sfollare. Insieme a Berish gli andò incontro mostrando il distintivo – Hitch li seguiva.

«Dov’ è il fuoco?» domandò Mila cercando di sovrastare con la voce il suono della sirena.

«Non lo so, ma i rilevatori di fumo indicano che si tratta di un appartamento al quarto piano.»

«Chi ci abita?»

«Un pezzo grosso del dipartimento. Vive da solo, si chiama Gurevich.»

Sentendo il nome dell’ ispettore, Mila e Berish impallidirono.

«Cos’ è successo?» chiese quest’ ultimo.

«Quando è scattato l’ allarme sono uscito subito per favorire l’ evacuazione del palazzo. Ma dovrebbe esserci un vostro collega lassù.»

«Questo è l’ unico ingresso?»

«Ce n’ è un altro sul retro.»

«Perciò non ha visto uno sconosciuto uscire dal palazzo...»

«No, ma con tanta confusione non sono sicuro.»

Berish guardò Mila. «Devi chiamare Klaus Boris, e dirgli di mandare le squadre speciali.»

Lei annuì. «E noi che facciamo?»

«Ovvio, saliamo.»

Il suono dell’ allarme antincendio riecheggiava nella tromba delle scale ed era ancora più insopportabile.

Berish fece cenno a Hitch di aspettarli seduto. Il cane ubbidì e si mise a fare la guardia.

Arrivati sul pianerottolo, Mila vide che la porta dell’ appartamento di Gurevich era accostata. Scambiò un rapido cenno d’ intesa con Berish ed entrambi si posizionarono ai lati dell’ entrata. Scandirono un simbolico conto alla rovescia annuendo insieme per tre volte, poi l’ agente speciale varcò la soglia con la pistola spianata, mentre la poliziotta gli copriva le spalle.

L’ appartamento era in penombra e dall’ ingresso non si vedeva nessuno. I due si addentrarono per qualche metro. Non c’ erano fiamme, né fumo. Ma dal corridoio che avevano di fronte proveniva un forte sentore di bruciato. Non si trattava dell’ odore normale di un incendio, notò Mila. C’ era qualcos’ altro in fondo a quel miasma, una nota aspra, penetrante. Ci mise un po’  a riconoscerla. Era la stessa esalazione che emanava la sua pelle quando un tempo la intaccava con un ferro rovente per procurarsi il dolore di cui aveva bisogno.

Vide che Berish si portava una mano alla bocca, cercando di trattenere un conato – anche lui aveva capito. Poi le fece un cenno per farle intendere che dovevano procedere. Così fecero.

L’ arredamento era composto da mobili d’ epoca e quadri antichi. Su tutto regnava un pesante senso di passato. La carta da parati scura e i tappeti contribuivano a conferire all’ ambiente un tono austero.

Il corridoio principale sembrava la galleria di un museo. Non c’ era tempo di domandarsi come mai un ispettore del dipartimento vivesse in un simile lusso. Dovevano solo andare avanti.

Arrivarono nei pressi di una stanza. La porta era aperta e sul pavimento ai loro piedi si allungava una lama di luce. Controllarono intorno che non ci fossero nascondigli per il killer, nel caso avesse voluto attirarli in un’ altra trappola. Poi ripeterono il rito del conto alla rovescia.

Ancora una volta, fu Berish a varcare per primo la soglia. Mila vide il suo sgomento.

C’ erano due corpi a poca distanza l’ uno dall’ altro.

L’ agente dell’ autopattuglia era riverso su un tappeto imbevuto del sangue che gli sgorgava da una ferita alla gola. Supino e con la testa voltata verso di loro, esanime.

Gurevich era irriconoscibile. Un fumo maleodorante si levava dalle carni. Sul volto ustionato spiccavano gli occhi bianchissimi rivolti al soffitto. Mila era convinta che fosse già morto, invece le pupille si mossero verso di lei, come se la riconoscessero.

«Occupati del poliziotto» disse a Berish urlando per sovrastare l’ allarme. «Io penso a lui.»

Si inginocchiò accanto all’ ispettore, non sapendo cosa fare per alleviare le sue pene. I vestiti si erano attaccati alla pelle e formavano uno strato simile a lava incandescente. Poco più in là c’ era una tenda di velluto che era stata strappata dai supporti. Probabilmente il poliziotto l’ aveva usata per domare le fiamme prima di essere colpito da Ivanovič. C’ era anche la tanica di cui il piromane si era servito per spargere il liquido infiammabile.

Mila si voltò a guardare Berish che teneva sempre d’ occhio la porta ma si era chinato sul poliziotto e gli auscultava il torace nella speranza di sentire qualche battito. Poco dopo si rialzò scuotendo il capo.

«Gurevich è ancora vivo» gli comunicò lei.

«Le pattuglie staranno arrivando, e ci sarà sicuramente un’ ambulanza.»

«Non sappiamo se Ivanovič è ancora in casa o nel palazzo – potrebbe essere armato, visto che ha colpito alla gola quel poveraccio. Dobbiamo controllare e mettere in sicurezza gli ambienti.» Mila vide che anche Berish si sforzava di escogitare un piano.

«Uno di noi due deve andare di sotto a spiegare la situazione ai nostri» disse l’ agente speciale.

In quel momento, Gurevich prese la mano di Mila. «È sotto shock, meglio che vada tu» affermò la poliziotta.

«Userò la radio per chiedere alla sala operativa di mettermi in contatto diretto col personale dell’ ambulanza, così posso riferirgli subito le condizioni del ferito. Tu non fare mosse azzardate, chiaro?»

La poliziotta notò che il tono di Berish era stranamente protettivo. Per un attimo le sembrò Steph. «Va bene» disse per rasserenarlo.

Berish ridiscese le scale guardandosi continuamente le spalle. Il portiere aveva detto che il palazzo aveva un ingresso posteriore, quindi era anche probabile che Michael Ivanovič lo avesse usato per darsi alla fuga.

Trovò Hitch nel punto in cui l’ aveva lasciato. Era tranquillo.

Quando varcarono il portone, dal fondo della strada Berish intravide i lampeggianti delle pattuglie che si avvicinavano.

Le sirene si mescolarono all’ allarme antincendio e formarono una cacofonia che, in qualche modo, agitò maggiormente Berish.

La prima macchina della polizia federale si arrestò accanto alla folla che si era aggiunta agli inquilini per assistere alla scena. Ne scesero tre uomini con la divisa delle forze speciali, fra cui un sergente. Berish gli andò incontro senza pensare alle conseguenze.

«È successo tutto al quarto piano. Uno dei nostri è morto, l’ ispettore Gurevich è ferito gravemente e l’ agente Mila Vasquez è di sopra con lui. Il responsabile si chiama Michael Ivanovič, sicuramente è armato. Potrebbe essere fuggito ma non posso escludere che si trovi ancora nel palazzo.» Si accorse che il sergente l’ aveva riconosciuto e probabilmente si stava domandando cosa ci facesse lì lo sbirro reietto del dipartimento. «Dica ai suoi uomini di controllare tra i curiosi.» Indicò col capo la piccola folla. «L’ omicida è un piromane a cui piace godersi lo spettacolo, potrebbe essere ancora nelle vicinanze.»

«Sissignore. Sta arrivando un’ ambulanza.» Poi il sergente andò dagli uomini delle forze speciali che si stavano radunando davanti allo stabile e comunicò gli ordini, dando disposizioni perché si preparassero a salire.

Per non intralciarli, Berish si diresse verso l’ autopattuglia che il poliziotto di ronda morto aveva lasciato incustodita. Si sedette al posto di guida e afferrò il microfono della radio. «Centrale, sono l’ agente speciale Berish. Dovete mettermi subito in contatto con il personale medico dell’ ambulanza diretta a casa dell’ ispettore Gurevich.»

Una voce femminile rispose dall’ altoparlante. «D’ accordo, agente, stiamo effettuando un ponte radio.»

In attesa che gli passassero i paramedici, Berish batteva l’ indice con impazienza sul microfono della trasmittente e si guardava intorno. L’ assembramento di vicini e curiosi aumentava progressivamente.

Dov’ era Michael Ivanovič in quel momento? Si nascondeva fra quei volti e lo stava osservando? Forse avrebbe voluto sentire l’ odore che Berish aveva ancora nelle narici – fumo e carne umana. L’ agente speciale pensò che non l’ avrebbe più dimenticato.

«Equipaggio ambulanza, due-sei-sei» annunciò una voce maschile alla radio. «Qual è la situazione? – passo.»

«Abbiamo un ustionato. Ha difficoltà di respirazione, sembra grave ma è ancora cosciente – passo.»

«Da cosa è stata determinata l’ ustione? – passo.»

«Crediamo una miscela di sostanze chimiche. L’ atto è doloso ed è opera di un piromane – passo.» Mentre parlava, Berish spostò distrattamente lo sguardo sul retrovisore.

Vide Hitch che si muoveva dietro la macchina, abbaiando.

Fra l’ allarme e la radio, l’ agente speciale non l’ aveva udito.

«La causa dell’ ustione è cessata? – passo» stava domandando il paramedico.

Ma Berish lo ignorò, concentrandosi invece su quanto accadeva sul retro dell’ autopattuglia.

«Signore, ha capito la domanda? – passo.»

«Vi richiamo.» L’ agente speciale chiuse la comunicazione.

Lasciò il microfono sul sedile, uscì dall’ abitacolo e si diresse verso il retro della vettura. Hitch si agitò ancora di più, e Berish vide che indicava il bagagliaio.

È qui, si disse. Michael Ivanovič si è nascosto per sfuggire alla cattura. Non avrebbe potuto scegliere un posto più adatto.

L’ agente speciale cercò con gli occhi i colleghi, ma nessuno guardava nella sua direzione. Capì che avrebbe dovuto agire da solo. Estrasse la pistola, sforzandosi di mantenere salda la mano intorno all’ impugnatura. Quindi allungò l’ altra verso il bagagliaio. Con un gesto secco, azionò il pulsante della serratura e, contemporaneamente, puntò l’ arma all’ interno.

Quando la bocca di lamiera si spalancò davanti a lui, fuoriuscì un miasma che conosceva. Il corpo umano che lo emanava presentava ustioni meno gravi di quelle di Gurevich.

Era ancora cosciente, ed era nudo.

L’ uomo che aveva di fronte non era Michael Ivanovič. Anche se in quel momento non indossava la divisa, Berish ricordava di averlo visto fare colazione alla tavola calda cinese.

In un attimo la dinamica di ciò che era accaduto gli fu chiara, come in un film proiettato nella sua testa. Nel finale, lui si chinava per auscultare, forse troppo frettolosamente, il battito di un poliziotto ferito a morte. Ma, oltre al suono assordante di un allarme, c’ era il fatto che avesse posto l’ orecchio sul lato sbagliato del torace. Il sinistro.

Il cuore nel Situs Inversus è a destra, si disse. Poi levò subito lo sguardo al quarto piano del palazzo.

50

Si era sollevato dal tappeto nell’ istante in cui Gurevich aveva perso i sensi.

Il poliziotto redivivo aveva uno strano sorriso stampato sul volto. Impugnava un coltello e la guardava come si osserva una preda quando si capisce di averla presa in trappola.

Davanti agli occhi di Mila si svolgeva una scena irreale. La sua mente era in tilt, ma era riuscita lo stesso ad attribuire un’ identità al morto vivente.

In un attimo le fu tutto chiaro.

Michael Ivanovič aveva fermato un’ autopattuglia e, dopo aver neutralizzato l’ occupante, ne aveva indossato la divisa. Vestito da poliziotto, si era presentato alla porta di Gurevich, fugando con l’ aspetto ogni domanda riguardo ai motivi di una visita a tarda sera. Gli aveva dato fuoco ma non era riuscito a fuggire in tempo dal palazzo. Quando li aveva sentiti arrivare, si era procurato una ferita alla gola col coltello – sufficiente a fargli perdere sangue e a inscenare la sua morte.

Con una mano il falso poliziotto si ripulì il collo dal sangue, confermando così che era una ferita superficiale. Con l’ altra, invece, aveva già gettato via il coltello per estrarre dalla tasca della divisa uno strano affare. Era composto da una bottiglietta di plastica piena di un liquido arancione in cui erano immersi due cavetti, che fuoriuscivano dal tappo e terminavano in una scatola avvolta col nastro isolante nero.

Mila intuì subito che si trattava di un ordigno incendiario.

Avrebbe potuto sparare a Ivanovič prima che questi muovesse un solo passo. Ma, a causa di quell’ aggeggio, non era sicura che fosse una buona idea. Non sapeva se era azionato da un pulsante che il piromane avrebbe potuto premere comunque prima di accasciarsi.

Ivanovič continuava a sorridere. «Il fuoco purifica l’ anima, lo sapevi?»

«Fermo» gli intimò lei.

Michael Ivanovič allungò il braccio all’ indietro, con un gesto elegante – come un discobolo che si appresti al lancio perfetto. Mila sollevò l’ arma e prese la mira. Stava per sparare quando scorse alle spalle del piromane una grande nuvola bianca che rapidamente lo ingoiò, dirigendosi subito verso di lei.

Nella nebbia chimica scaturita dall’ estintore, riconobbe le sagome scure degli agenti delle forze speciali. Urlavano frasi concitate ma si muovevano al rallentatore. Erano alieni, erano spettri – venuti da un altro mondo o da un’ altra dimensione per salvarla.

In meno di un secondo furono addosso a Michael Ivanovič, schiacciandolo a terra con il loro peso. Mila scorse gli occhi del piromane conquistati dalla sorpresa mentre gli agenti lo immobilizzavano togliendogli dalla mano il pericoloso giocattolo.