La religiosa
La risposta del signor marchese di Croismare, se mai me ne darà, mi fornirà le prime righe di questo scritto. Prima di scrivergli, ho voluto conoscerlo. È un uomo di mondo, si è distinto sotto le armi, è anziano, vedovo, ha una figlia e due figli ai quali vuole molto bene e dai quali è adorato. Di nobili natali, è uomo colto, intelligente, di umore gaio, con un gusto spiccato per le belle arti. È soprattutto una persona originale.
Mi hanno fatto l’elogio della sua sensibilità, del suo senso dell’onore, e della sua probità; e dal vivo interesse che ha dimostrato per il mio affare, nonché da tutto quello che mi è stato detto di lui, ho desunto che non mi ero affatto compromessa rivolgendomi a lui. Non c’è però da illudersi che si risolva a mutare la mia sorte senza sapere chi sono, ed è questo il motivo che mi induce a vincere il mio amor proprio e la mia ritrosia nel cominciare queste memorie in cui descrivo una parte delle mie sventure, rinunciando ad ogni pretesa di stile, con l’ingenuità dei miei giovani anni e la franchezza del mio carattere. Poiché il mio protettore potrebbe esigerlo, o potrebbe anche venirmi l’estro di portarle a termine in un tempo in cui fatti remoti potrebbero non esser più presenti alla memoria, ho pensato che il riassunto che li conclude, e la profonda impressione che me ne resterà finché vivo, basteranno a farmeli ricordare con esattezza.
Mio padre era avvocato. Aveva sposato mia madre allorché era già in età alquanto avanzata. Ebbe tre figlie. Possedeva un patrimonio più che sufficiente per accasarle convenientemente, ma per questo occorreva almeno che la sua tenerezza fosse equamente suddivisa, e non mi è certamente possibile fare di lui un simile elogio.
Certamente io ero superiore alle mie sorelle per intelligenza e per l’aspetto, nonché per il carattere e le doti che possedevo, ma pareva che questo affliggesse i miei genitori.
Poiché i vantaggi che la natura e il mio impegno personale mi avevano accordato diventavano per me fonte di dispiaceri, fin dalla più tenera età ho desiderato assomigliare alle sorelle per essere amata, vezzeggiata, festeggiata e perdonata come loro. Se avveniva che qualcuno dicesse a mia madre: “Avete delle figliole deliziose..." mai il complimento mi riguardava. A volte ero ampiamente vendicata di siffatta ingiustizia, ma le lodi ricevute mi costavano così care quando restavamo sole, che l’indifferenza, e persino le ingiurie, sarebbero state altrettanto gradite: quanto più grande era stato l’interesse che gli estranei mi avevano testimoniato, tanto maggiore era il risentimento dei miei una volta che se n’erano andati. Quante volte ho pianto per non essere nata brutta, sciocca, stupida, orgogliosa, con tutti quei difetti, insomma, per cui le mie sorelle meritavano la predilezione dei nostri genitori!
Mi sono chiesta allora da dove provenisse quella stranezza in un padre e in una madre che erano peraltro onesti, giusti e devoti. Debbo confessarvelo, signore? Alcuni discorsi sfuggiti a mio padre, che era violento per natura, in certi impeti di collera, l’avere associato alcune circostanze a diversi intervalli di tempo, talune mezze parole di vicini, chiacchiere di domestici, mi hanno fatto sospettare una ragione che in parte li scuserebbe. Forse mio padre nutriva qualche dubbio sulla mia nascita; forse ricordavo a mia madre una colpa commessa e l’ingratitudine di un uomo cui aveva dato troppo ascolto: come posso saperlo? Ma quand’anche i miei sospetti fossero infondati, che rischierei nel confidarveli? Voi brucerete questo mio scritto e io vi prometto di bruciare le vostre risposte.
Dato che eravamo venute al mondo a poca distanza l’una dall’altra, crescemmo tutte e tre insieme. Si presentarono dei partiti. La maggiore delle mie sorelle fu chiesta in sposa da un giovane attraente. Era bello ed aveva più criterio di quanto la sua giovane età promettesse. Mi accorsi che egli aveva posto l’occhio su di me e intuii che presto lei sarebbe stata soltanto il pretesto delle sue assiduità. Presentii tutte le afflizioni che una simile preferenza mi avrebbe attirato e misi in guardia mia madre. Fu forse la sola cosa nella mia vita che le sia stata gradita, ed ecco come ne venni ricompensata. Quattro giorni dopo, o almeno pochi giorni dopo, mi fu detto che era stato fissato per me un posto in convento, e fin dal giorno seguente vi fui condotta. Stavo tanto male a casa mia che quella decisione non mi addolorò affatto.
Così entrai a Santa Maria, il mio primo convento, tutta allegra. Nel frattempo il pretendente di mia sorella, non vedendomi più, mi dimenticò, ed essi si sposarono. Si chiama K; è notaio ed abita a Corbeil, e ha un pessimo rapporto con la moglie. La mia seconda sorella andò sposa a un certo signor Bauchon, mercante in seterie a Parigi, in via Quincampoix, e con lui si trova bene.
Dopo che le mie sorelle furono sistemate, credetti che avrebbero pensato a me e che non avrei tardato a uscire di convento. Avevo allora sedici anni e mezzo. Le mie sorelle avevano ricevuto doti abbastanza cospicue, ed io mi ripromettevo di esser trattata alla stessa maniera; la mia fantasia si abbandonava a progetti seducenti fino a che fui chiamata in parlatorio. Era padre Serafino, il direttore spirituale di mia madre, ed anche il mio. Non gli fu quindi difficile spiegarmi il motivo della sua visita: il suo compito era quello di convincermi a prendere il velo. Mi ribellai a una proposta così strana e gli dichiarai chiaro e tondo che non sentivo nessuna inclinazione per la vita monastica.
“Tanto peggio” mi disse, “perché i vostri genitori si sono spogliati di tutto per le vostre sorelle e non vedo proprio che cosa potrebbero fare per voi nelle strettezze in cui sono ridotti a vivere... Riflettete, signorina: dovete entrare per sempre, in questa casa oppure andarvene in qualche convento di provincia dove vi si riceverà per una modica pensione e dal quale uscirete soltanto alla morte dei vostri genitori che può essere ancora lontana...”
Mi risentii con molta amarezza, versai fiumi di lacrime. La superiora era già al corrente di tutto e mi aspettava al ritorno dal parlatorio. Ero in disordine da non poter spiegare. Mi disse:
“Ma che cosa avete, mia cara figliola? [Sapeva meglio di me che cosa avessi.] In che stato siete! Non si è mai vista una disperazione simile alla vostra. Mi fate tremare.
Avete forse perduto il vostro signor padre o la vostra signora madre?”
Fui tentata di risponderle gettandomi tra le sue braccia: “Piacesse a Dio!...,” ma mi contentai di esclamare: “ahimè! non ho né padre, né madre; sono una sventurata che detestano e che vogliono seppellire viva qui dentro.”
Lasciò che passasse la piena e che tornasse la calma. Le spiegai con maggior chiarezza ciò che mi era stato appena annunciato. Sembrò aver pietà di me; mi compianse. Mi incoraggiò a non abbracciare uno stato per il quale non sentivo alcun gusto; mi promise di pregare, di fare le sue rimostranze, di perorare la mia causa. Oh, signore, come sono ipocrite queste superiore di convento! Non ne avete idea. In effetti, scrisse. Non ignorava quali sarebbero state le risposte. Me le comunicò, e soltanto molto tempo dopo imparai a dubitare della sua buona fede. Intanto venne a scadere il termine che mi era stato concesso perché prendessi una decisione, ed ella venne a ricordarmelo con studiata tristezza. Dapprima rimase silenziosa, poi lasciò cadere qualche parola di commiserazione da cui capii il resto. Ci fu un’altra scena di disperazione, e poche altre avrò da descriverne. Sapersi controllare è la loro grande arte. Poi mi disse, e a onor del vero credo che allora piangesse:
“Allora, figliola mia, ci state dunque per lasciare! cara figliola, non vi vedremo più!...”
Aggiunse altre parole che non udii. Ero riversa su una sedia; ora tacevo, ora singhiozzavo, restavo immobile oppure mi alzavo, mi appoggiavo alla parete o andavo a sfogare il mio dolore sul suo petto. Le cose erano a questo punto allorché soggiunse:
“Ma perché non fate una cosa? Statemi ad ascoltare e non andate a raccontare che ve l’ho consigliato io; conto su una discrezione assoluta da parte vostra giacché non vorrei per nulla al mondo che mi si dovesse rimproverare. Che cosa vi si chiede? Che prendiate il velo? E allora, perché non lo prendete? Dopo tutto a che cosa vi impegnate?
A niente. A restare ancora due anni con noi. Chi sarà vivo allora? Chi sarà morto? Due sono lunghi... possono avvenire tante cose in due anni...”
A queste insidiose affermazioni fece seguire tante carezze, tante manifestazioni d’amicizia, tante dolci bugie: sapevo dov’ero, non sapevo dove mi avrebbero condotta, e così mi lasciai persuadere. Ella dunque scrisse a mio padre. La sua lettera era perfetta: oh, quanto a questo non si poté far di meglio. Non vi si taceva niente: né la mia pena, né il mio dolore o le mie proteste. Vi assicuro che una fanciulla più scaltra di me ne sarebbe stata tratta in inganno; tuttavia finiva col dare il mio consenso. E con quale sollecitudine furono fatti i preparativi! Venne stabilito il giorno, vennero confezionati i miei abiti, giunse il momento della cerimonia senza che, ancor oggi, io possa scorgere il minimo intervallo tra tante cose.
Dimenticavo di dirvi che vidi mio padre e mia madre, che non trascurai nulla per toccarne il cuore, e che li trovai inflessibili.
Il sermone fu fatto dall’abate Blin, dottore della Sorbona, e la vestizione dal signor vescovo di Alep. Questa cerimonia di per sé non è già allegra, ma quel giorno fu più triste. Anche se le monache, piene di sollecitudine, fossero tutte intorno a me per sostenermi, venti volte mi sentii mancare le ginocchia e mi vidi sul punto di cadere sui gradini dell’altare. Non sentivo niente, non vedevo niente, ero istupidita. Mi portavano, e io andavo; mi interrogavano e vi era chi rispondeva per me. Ciononostante, quella crudele cerimonia ebbe fine; tutti se ne andarono ed io rimasi in mezzo al banco al quale mi avevano aggregata. Le mie compagne mi attorniarono; mi abbracciavano e si dicevano: “Ma guardatela, sorella, com’è bella, come il velo nero fa risaltare il candore della sua carnagione! come le sta bene il soggolo! come le arrotonda il volto! e come le fa lisce le guance! come l’abito dà rilievo alla sua vita sottile e alle sue braccia!...”
Io le ascoltavo appena. Ero desolata. E tuttavia, devo ammetterlo, quando fui sola nella mia cella, mi ricordai delle loro adulazioni e non potei fare a meno di controllare nel mio piccolo specchio. Mi sembrò che non fossero del tutto fuori luogo.
Quel giorno alla novizia vengono riserbati onori particolari. Per me furono addirittura esagerati, ma io non vi fui molto sensibile. Finsero di credere il contrario e me lo dissero, benché fosse chiaro che non era affatto vero. La sera, dopo le preghiere, la superiora venne nella mia cella:
“In verità,” mi disse dopo avermi osservata per un momento, “non so perché quest’abito vi ripugni tanto; vi sta a meraviglia e voi siete incantevole; suor Susanna è una bellissima monaca, tutti vi ameranno di più per questo. Vediamo un po’, camminate. Non vi tenete abbastanza dritta: non dovete stare curva in quel modo...”
Mi atteggiò la testa, i piedi, le mani, la vita, le braccia; fu quasi una lezione di Marcel sulle grazie monastiche, giacché ogni stato ha le proprie. Poi si sedette e mi disse:
“Va bene così, ma adesso parliamo un po’ seriamente. Ci sono due anni davanti a voi. I vostri genitori possono cambiar parere; forse voi stessa vorrete restare quando vorranno farvi uscire. Ciò non sarebbe impossibile.”
“Disingannatevi, signora!”
“Siete stata a lungo tra di noi, ma non conoscete ancora la nostra vita. Ha le sue pene, lo ammetto, ma ha anche le sue dolcezze...”
Vi sarà facile immaginare, signore, tutto quello che poté aggiungere a proposito del mondo e del chiostro. È scritto ovunque, e ovunque nella stessa maniera, grazie a Dio mi hanno fatto leggere le innumerevoli storie che i religiosi vanno diffondendo sul loro stato, che ben conoscono e che detestano, contro il mondo che amano, che disprezzano e che non conoscono.
Non starò a descrivervi nei particolari il mio noviziato: ad osservarne tutta l’austerità, non si resisterebbe. Invece, è il tempo più dolce della vita monastica. Una madre delle novizie è la suora più indulgente che si possa trovare. La sua arte consiste nel nascondervi le spine dello stato; è il corso di seduzione più abile e sottile che si possa immaginare. È lei che rende più fitte le tenebre che vi circondano, che vi culla, che vi addormenta, che vi sottomette, che vi suggestiona. La nostra madre si attaccò a me in modo particolare. Non credo che esista un’anima, giovane e senza esperienza, in grado di resistere a quella sua arte funesta. Il mondo ha i suoi precipizi, ma non penso che vi si arrivi per una china così facile. Se avevo starnutito due volte di seguito, ero dispensata dall’uffizio, dal lavoro, dalla preghiera; mi coricavo prima, mi alzavo più tardi: la regola cessava di esistere per me. Immaginate, signore, che vi erano giorni in cui non sospiravo altro che il momento di sacrificarmi. Non accade fatto seccante nel mondo senza che se ne parli; si ritoccano i fatti veri, se ne inventano dei falsi: e poi sono lodi a non finire e rendimenti di grazie a Dio che ci preserva da quelle umilianti avventure.
Intanto si avvicinava il tempo che avevo affrettato col desiderio. Allora mi feci triste. Sentii risvegliarsi e farsi più grandi le ripugnanze. Andavo a confidarle alla superiora o alla madre delle novizie. Sono donne che sanno vendicarsi di tutte le seccature che le provocate. Non crediate infatti che si divertano della parte ipocrita che debbono recitare e delle sciocchezze che sono costrette a ripetervi: alla fine diventa così monotono per loro! Ma poi vi si adattano, e tutto per un migliaio di scudi che entra nelle casse del convento. Ecco l’alto scopo per il quale mentono tutta la vita e preparano a giovani innocenti una disperazione di quaranta, di cinquant’anni, e forse un’infelicità eterna: giacché è certo, signore, che su cento religiose che muoiono prima dei cinquant’anni ve ne sono giusto cento dannate, senza contare quelle che nel frattempo diventano pazze, stupide o furiose.
Un giorno avvenne che una di queste scappò dalla cella nella quale la tenevano rinchiusa. Io la vidi. Ecco l’epoca della mia felicità e della mia sventura, a seconda del modo, signore, mi tratterete. Non ho mai visto niente di più orrido. Era scarmigliata, quasi senza l’abito, e si trascinava dietro catene di ferro; aveva gli occhi smarriti; si strappava i capelli; si percuoteva il petto con i pugni: correva, urlava, rivolgeva a sé e alle altre le più terribili imprecazioni, cercava disperatamente una finestra per buttarsi di sotto. Fui presa dal terrore. Tremavo in tutte le membra. Vidi la mia sorte nel destino di quella sventurata e senza indugio, dentro di me, presi la mia decisione: sarei morta mille volte piuttosto che subire quella sorte.
Intuendo quale effetto quello spettacolo avrebbe prodotto su di me, si sentirono in dovere di prevenirlo. Su quella monaca mi furono dette non so quante ridicole menzogne che si contraddicevano fra loro: che era già un po’ stramba quando era stata accolta in convento; che aveva avuto un grande spavento in un momento delicato; che era vittima di visioni; che si credeva in relazione con gli angeli; che aveva fatto letture perniciose tali da turbarne la mente; che aveva sentito parlare gli innovatori di una morale troppo rigorosa i quali le avevano incusso un tale timore dei giudizi di Dio, che la sua mente già scossa ne era stata sconvolta; che ella non vedeva più che demoni, l’inferno e voragini di fuoco; che tutte ne erano grandemente rattristate; che un caso simile in convento era assolutamente inaudito, e chissà quante altre cose ancora.
Naturalmente non mi convinsero. Ad ogni istante mi tornava in mente la mia monaca folle ed io mi ripetevo il giuramento di non pronunciare alcun voto.
E intanto ecco giungere il momento in cui si trattava di dimostrare se sapevo tener fede alla mia parola. Una mattina, dopo l’uffizio, vidi entrare la superiora nella cella. Aveva una lettera in mano. Il suo volto era atteggiato a tristezza e abbattimento.
Le braccia le pendevano lungo il corpo. Sembrava che la sua mano non avesse la forza di sollevare quella lettera. Mi guardava, e i suoi occhi sembravano gonfi di lacrime. Ella taceva, ed io pure; aspettava che parlassi per prima. Ne ebbi la tentazione, ma mi trattenni. Mi chiese come mi sentissi; mi disse che l’uffizio quel giorno era stato davvero lungo; che io avevo tossito un po’; che le sembrava stessi poco bene. Al che risposi: “No, mia cara madre.” Teneva sempre la lettera in quella sua mano penzolante, e mentre faceva tutte quelle domande la posò sui suoi ginocchi dove in parte era nascosta dalla mano; infine, dopo essersi dilungata su qualche domanda a proposito di mio padre, di mia madre, vedendo che non le chiedevo che cosa fosse quella carta, mi disse: “Ecco una lettera...”
A queste parole, sentii che il mio cuore si turbava e aggiunsi con la voce spezzata e le labbra tremanti:
“È di mia madre?”
“Avete indovinato: prendete, leggete...”
Mi ripresi un poco, afferrai la lettera, la lessi dapprima con una certa fermezza, ma via via che andavo avanti nella lettura, spavento, indignazione, collera, dispetto, le passioni più diverse si succedevano in me; avevo voci diverse, assumevo espressioni diverse, facevo movimenti diversi. Qualche volta tenevo appena in mano quel foglio, a volte lo tenevo come se avessi voluto strapparlo, o lo stringevo con violenza come se fossi stata tentata di appallottolarlo e di buttarlo lontano da me.
“Ebbene, figliola mia, che cosa risponderemo a questa?”
“Signora, lo sapete bene.”
“Ma no, non lo so. Le circostanze sono contrarie, la vostra famiglia ha subìto delle perdite. Gli affari delle vostre sorelle vanno male, tutte e due hanno molti figli. Si sono dissanguati per maritarle e si rovinano per sostenerle. È impossibile che vi costituiscano un po’ di dote; avete preso l’abito; hanno affrontato delle spese; con questo vostro passo avete suscitato delle speranze; la voce della vostra professione imminente si è sparsa in società. D’altra parte, potete sempre contare sul mio appoggio.
Non ho mai spinto nessuno a scegliere la vita religiosa. Dio soltanto può chiamarci a questa scelta, ed è molto pericoloso mescolare la propria voce alla sua. Non mi metterò mai a parlare al vostro cuore, se la grazia è per lui muta. Fino ad oggi non ho da rimproverarmi l’infelicità di un’altra persona, vorreste che cominciassi con voi, figliola mia, voi che mi siete tanto cara? Non ho neppure dimenticato che avete fatto i primi passi obbedendo ai miei suggerimenti e non tollererò che se ne abusi per farvi assumere impegni contrari alla vostra volontà. Perciò vediamo insieme la situazione, concertiamoci. Volete fare professione?”
“No, signora.”
“Non sentite nessuna inclinazione per lo stato religioso?”
“No, signora.”
“Non obbedirete ai vostri genitori?”
“No, signora.”
“Che cosa intendete divenire, allora?”
“Tutto, eccetto monaca. Non voglio esserlo, non lo sarò.”
“Ebbene, non lo sarete; ma cerchiamo di mettere insieme una risposta per vostra madre...”
Ci accordammo su alcune idee. Ella scrisse e mi fece leggere la lettera che anche quella volta mi parve eccellente.
Intanto mi fecero parlare con il direttore spirituale della casa, mi mandarono il dottore che aveva tenuto la predica alla vestizione, mi raccomandarono alla madre delle novizie, incontrai il vescovo d’Alep; dovetti sostenere alcune discussioni con delle pie donne che s’immischiavano dei fatti miei senza che le conoscessi. Erano abboccamenti continui con monaci e preti. Venne mio padre, mi scrissero le mie sorelle, per ultima si fece viva mia madre: resistei a tutto. Nel frattempo fu deciso il giorno della professione dei voti; nulla fu trascurato per ottenere il mio consenso, ma quando si vide che era inutile sollecitarlo, si scelse il partito di farne a meno.
Da quel momento fui rinchiusa nella mia cella, mi fu imposto il silenzio, fui isolata da tutti, abbandonata a me stessa. E vidi chiaramente che erano decisi a disporre di me senza di me. Non volevo pronunciare i voti: questo almeno era sicuro, e tutti i terrori veri o falsi che volevano incutermi di continuo non riuscivano a far vacillare la mia decisione. Tuttavia ero in uno stato pietoso. Non sapevo quanto potesse durare, e se fosse venuto a cessare, sapevo ancor meno quello che poteva accadermi. In mezzo a tante incertezze, scelsi un partito, signore, che giudicherete come meglio crederete. Non vedevo più nessuno, né la superiora, né la madre delle novizie, né le mie compagne.
Feci avvertire la prima e finsi di adeguarmi alla volontà dei miei genitori, ma il mio proposito era di far terminare in maniera clamorosa quella persecuzione e di protestare pubblicamente contro la violenza che intendevano usare contro di me. Dissi dunque che erano padroni della mia sorte, che avrebbero potuto disporre a loro piacimento, che dal momento che esigevano che facessi professione, l’avrei fatta. Allora la gioia si diffuse in tutta la casa, le carezze ricominciarono con tutte le lusinghe e tutte le seduzioni. “Dio aveva parlato al mio cuore. Nessuna più di me era fatta per lo stato di perfezione. Era impossibile che ciò non accadesse, tutti se lo erano sempre aspettato. Non si adempiono i propri doveri con tanta edificazione e costanza, quando non si è veramente chiamate."
La madre delle novizie non aveva mai visto in nessuna delle sue allieve una vocazione più manifesta. Era assai sorpresa dal capriccio che mi era preso, ma aveva sempre detto alla nostra madre superiora che occorreva tener duro e che sarebbe passato; che le monache migliori avevano avuto di quei momenti; che erano suggerimenti dello spirito maligno il quale raddoppiava i suoi sforzi quando era sul punto di perdere la sua preda; che ormai stavo per sfuggirgli; che per me non c’erano più che rose; che gli obblighi della vita monastica mi sarebbero parsi tanto più sopportabili in quanto me li ero così ingigantiti; che quell’improvviso appesantimento del giogo era una grazia del cielo che si serviva di tale mezzo per renderlo più leggero...”
Mi sembrava abbastanza singolare che la stessa cosa potesse venire da Dio e dal diavolo, a seconda di come a loro piacesse considerarla. Vi sono molte circostanze simili in religione, e tra coloro che mi hanno consolata, alcuni mi hanno detto che i miei pensieri erano altrettante istigazioni di Satana, altri che erano ispirazioni di Dio. Lo stesso male viene o da Dio che ci mette alla prova, o dallo spirito maligno che ci tenta.
Mi comportai con discrezione; ritenni di poter rispondere di me. Vidi mio padre.
Mi parlò freddamente. Vidi mia madre. Mi abbracciò. Ricevetti lettere di congratulazioni delle mie sorelle e di molti altri. Seppi che a tenere il sermone sarebbe stato un certo signor Sornin, vicario di Saint-Roch e che il signor Thierry, cancelliere dell’università avrebbe ricevuto i miei voti. Tutto andò bene sino alla vigilia del gran giorno, a parte il fatto che avendo saputo che la cerimonia sarebbe stata clandestina, che ci sarebbero state pochissime persone e che la porta della chiesa sarebbe stata aperta soltanto ai parenti, per mezzo della suora addetta alla ruota convocai tutte le persone del vicinato, i miei amici, le mie amiche; ottenni anche il permesso di scrivere ad alcuni dei miei conoscenti. Nessuno si aspettava tutta quell’affluenza di gente. Fu necessario, lasciarla entrare, e l’assemblea fu all’incirca quanta ne occorreva per il mio progetto.
Oh, signore, che notte fu quella che precedette la cerimonia! Non mi coricai affatto e rimasi tutto il tempo seduta sul letto. Invocai l’aiuto di Dio: alzavo le mani al cielo, lo chiamavo a testimone della violenza che mi veniva inflitta. Mi raffigurai la parte che dovevo sostenere ai piedi dell’altare, una fanciulla che protestava ad alta voce contro un’azione cui sembrava aver acconsentito, lo scandalo degli astanti, la disperazione delle monache, il furore dei miei genitori. “Oh, mio Dio, che ne sarà di me?...” Pronunciando queste parole mi sentii mancare e caddi svenuta sul guanciale; quando rinvenni fui presa da un grande brivido. Il tremito mi faceva battere le ginocchia, battere i denti rumorosamente. Poi, m’invase una terribile vampata di calore.
La mia mente si offuscò. Non ricordo né di essermi spogliata, né di essere uscita dalla cella. Tuttavia fui trovata nuda in camicia da notte, stesa per terra davanti alla porta della superiora, immobile e quasi senza vita. Queste cose le seppi in seguito. Ero stata riportata nella mia cella e la mattina seguente la superiora, la madre delle novizie, e quelle che vengono chiamate le assistenti attorniavano il mio letto. Ero molto abbattuta.
Mi rivolsero alcune domande e si resero conto dalle mie risposte che non ero affatto consapevole di ciò che era avvenuto. Nessuno me ne parlò. Mi chiesero come stavo, se persistevo nella mia santa risoluzione e se mi sentivo in grado di sopportare la fatica della giornata. Risposi di sì, e contrariamente ad ogni loro attesa non vi fu nessun mutamento.
Tutto era stato predisposto fin dal giorno prima. Furono suonate le campane perché tutti quanti sapessero che si stava per creare un’infelice. Il cuore mi batté ancora.
Mi sembrava che avessero vinto. Vennero a vestirmi con cura: quel giorno è un giorno di gala. Adesso che ricordo tutte quelle cerimonie, mi sembra che avrebbero avuto qualcosa di solenne e di assai commovente per una giovane innocente che non si fosse sentita portata ad una vocazione diversa.
Fui condotta in chiesa. Si celebrò la santa messa. Il buon vicario il quale supponeva in me una rassegnazione che non avevo affatto, mi tenne un lungo sermone in cui non vi era una sola parola che non fosse in contrasto con i miei sentimenti. Era davvero ridicolo tutto quello che mi diceva sulla mia felicità, sulla grazia, sul mio coraggio, il mio zelo, il mio fervore e tutti i nobili sentimenti che mi attribuiva. Il contrasto fra il suo elogio e il passo che stavo per compiere mi turbò; ebbi momenti d’incertezza, ma che durarono poco. Sentii ancor meglio che mi mancava tutto quello che era necessario per essere una buona monaca.
Infine giunse il momento terribile. Allorché dovetti entrare nel luogo in cui dovevo pronunciare i voti, le gambe non mi ressero; due delle mie compagne mi presero sotto le braccia. La mia testa era reclinata su una di loro ed esse mi trascinavano a fatica. Non so che cosa accadesse nell’animo dei presenti, ma ciò che vedevano era una giovane vittima morente che si portava all’altare e da ogni petto sfuggivano sospiri e singhiozzi tra i quali sono certa che non si udivano quelli di mio padre e di mia madre.
Erano tutti in piedi; alcune giovinette erano salite su delle sedie e stavano aggrappate alle sbarre della grata. Aleggiava un profondo silenzio allorché colui che presiedeva alla mia professione mi disse:
“Maria Susanna Simonin, promettete di dire la verità?”
“Lo prometto.”
“È per vostra libera scelta e di vostra spontanea volontà che siete qui?”
Risposi: “No.” Ma quelle che mi accompagnavano risposero per me “Sì.”
“Maria Susanna Simonin, promettete a Dio castità, povertà e obbedienza?”
Esitai un momento. Il prete aspettava, ed io risposi:
“No, signore,”
Ricominciò:
“Maria Susanna Simonin, promettete a Dio castità, povertà e obbedienza?”
Gli risposi con voce più ferma:
“No, signore.”
Si interruppe e mi disse:
“Figliola mia, riprendetevi, ed ascoltatemi.”
“Signore,” gli dissi, “voi mi chiedete se prometto a Dio castità, povertà e obbedienza: vi ho sentito bene e vi rispondo di no.”
E voltandomi poi verso i presenti tra i quali si era levato un gran mormorio, feci cenno che volevo parlare; il mormorio cessò e io dissi:
“Signori, e soprattutto voi, padre mio e madre mia, vi chiamo tutti a testimoni...”
A queste parole una delle suore lasciò cadere il velo della grata e vidi che era inutile proseguire. Le monache mi circondarono, mi subissarono di rimproveri; io le ascoltavo senza proferir parola. Fui condotta nella mia cella dove fui confinata sottochiave. Qui, sola, abbandonata alle mie riflessioni, cominciai a tranquillizzarmi l’animo. Ripensai al passo compiuto e non ne fui affatto pentita. Mi resi conto che dopo lo scalpore suscitato, era impossibile che restassi più a lungo in quel luogo, e che forse non avrebbero osato rimandarmi in convento. Non sapevo che cosa avrebbero fatto di me, ma niente mi sembrava peggiore del farmi monaca contro la mia volontà. Per un periodo alquanto lungo nessuno mi rivolse la parola. Coloro che mi portavano da mangiare, entravano, posavano il pasto per terra e se ne andavano in silenzio. Dopo un mese mi consegnarono degli abiti secolari. Mi tolsero quelli del convento. Venne la superiora e mi disse di seguirla. La seguii fino al portone d’ingresso; salii su una carrozza dove trovai mia madre, sola, che mi aspettava. Mi sedetti sul sedile davanti a lei e la carrozza partì. Restammo per qualche tempo l’una di fronte all’altra senza proferir parola. Io tenevo gli occhi bassi e non osavo guardarla. Non so cosa stesse succedendo dentro di me, ma d’un tratto mi gettai ai suoi piedi e piegai la testa sulle sue ginocchia. Non dicevo parola, ma singhiozzavo e mi sentivo soffocare. Lei mi respinse duramente. Non mi rialzai. Il sangue cominciò a uscirmi dal naso. Nonostante la sua resistenza, le afferrai una mano e inondandola di lacrime e di sangue, premendo la bocca su quella mano, la baciavo e le andavo dicendo:
“Siete sempre mia madre, e io sono sempre vostra figlia...”
Mi rispose respingendomi ancor più rudemente e strappando la sua mano dalle mie:
“Alzatevi, sciagurata, alzatevi.”
Obbedii, mi sedetti di nuovo e mi tirai la cuffia sul viso. C’era stata tanta autorità e tanta fermezza nel suono della sua voce che sentii il bisogno di nascondermi ai suoi occhi. Le lacrime e il sangue che mi colava dal naso si mescolavano, mi scendevano lungo le braccia e senza accorgermene ne ero tutta coperta. Dalle poche parole che disse, ne dedussi che il suo abito e la sua biancheria si erano macchiati e che la cosa la seccava. Giungemmo a casa dove fui condotta senza indugio in una cameretta che era stata allestita per me.
Per le scale mi gettai ancora ai suoi ginocchi, la trattenni per le vesti, ma il solo risultato fu di farla voltare verso di me e guardarmi con un moto sdegnoso della testa, della bocca e degli occhi, che voi riuscirete a immaginare meglio di quanto non sappia descrivere.
Entrai nella mia nuova prigione dove trascorsi sei mesi e inutilmente sollecitai la grazia di parlarle, di vedere mio padre, o di scrivere loro. Mi portavano da mangiare, mi servivano. Un domestico mi accompagnava alla messa nei giorni di festa, poi mi rinchiudeva di nuovo. Io leggevo, lavoravo, piangevo, a volte cantavo; così passavano le mie giornate. Mi sosteneva il sentimento segreto che la mia sorte, per quanto dura, potesse cambiare. Ma ormai era deciso che sarei stata monaca, e lo fui.
Tanta mancanza di umanità, tanta caparbietà da parte dei miei genitori finirono col confermarmi ciò che sospettavo sulla mia nascita; non ho mai trovato altro modo per scusarli.
Mia madre credeva apparentemente che un giorno potessi rimettere in discussione la divisione dei beni, che reclamassi la legittima, e intendessi far considerare la figlia naturale alla stregua delle figlie legittime. Ma quella che era soltanto una congettura, si trasformò in certezza.
Mentre ero rinchiusa in casa, raramente esercitavo le pratiche esteriori della religione: tuttavia permettevano che andassi a confessarmi la vigilia delle feste solenni.
Vi ho già detto che avevo lo stesso direttore spirituale di mia madre. Gli parlai, gli descrissi tutta la durezza del comportamento adottato nei miei confronti da circa tre anni. Ne era a conoscenza. Ebbi a lamentarmi soprattutto di mia madre con amarezza e risentimento. Quel prete era entrato in religione in età già avanzata e aveva una certa umanità. Mi ascoltò tranquillamente e mi disse:
“Figliola mia, compiangete vostra madre, compiangetela ancor più di quanto non la biasimate. È di animo buono; siate certa che si comporta così suo malgrado.”
“Suo malgrado, signore? E chi può obbligarvela? Non è lei che mi ha messo al mondo? E che differenza c’è tra me e le mie sorelle?”
“Molta.”
“Molta! Non vi capisco...”
Stavo per cominciare un confronto tra me e le mie sorelle, quando mi interruppe e mi disse:
“Via, via, il difetto dei vostri genitori non è la mancanza di umanità. Cercate di sopportare con pazienza la vostra sorte, e di farvene almeno un merito agli occhi di Dio.
Vedrò vostra madre e siate certa che per aiutarvi farò ricorso a tutto l’ascendente che possiedo sul suo animo.”
Quel molta, che mi aveva risposto, fu per me come un lampo di luce: non dubitai più sulla verità di ciò che avevo pensato sulla mia nascita.
Il sabato seguente, verso le cinque e mezzo del pomeriggio quando calava la sera, la domestica addetta al mio servizio, salì da me e mi disse:
“La signora vostra madre ordina che vi vestiate.”
Un’ora dopo:
“La signora vuole che scendiate con me.”
Trovai alla porta una carrozza sulla quale salii con la domestica e venni a sapere che andavamo dai Foglianti 16, da padre Serafino.
Ci aspettava. Era solo. La domestica si allontanò ed io entrai nel parlatorio. Mi sedetti inquieta e curiosa di ciò che aveva da dirmi. Ed ecco come mi parlò:
“Signorina, l’enigma la condotta severa dei vostri genitori vi sarà spiegata; me ne ha dato il permesso la signora vostra madre. Siete una fanciulla assennata, avete intelligenza, fermezza di propositi. Avete un’età in cui vi si potrebbe confidare un segreto, anche se non vi riguardasse. Già molto tempo fa ho esortato per la prima volta la vostra signora madre a rivelarvi quello che adesso state per sapere; non vi si è mai potuta risolvere: è duro per una madre confessare una colpa grave alla propria creatura.
Conoscete il suo carattere; è difficilmente compatibile con quella umiliazione che comporta una simile confessione. Ha ritenuto di poter farvi fare ciò che voleva, senza ricorrervi; si è sbagliata; ne è irritata; oggi decide di seguire il mio consiglio. È stata lei ad incaricarmi di dirvi che non siete figlia del signor Simonin.”
Gli risposi senza esitare:
“Lo sospettavo.”
“Ora, signorina, vedete, considerate, soppesate, giudicate voi se la vostra signora madre può, senza il consenso, o anche con il consenso del vostro signor padre, considerarvi alla stessa stregua di figlie delle quali non siete la sorella; se può confessare al vostro signor padre un fatto sul quale egli ha già fin troppi sospetti.”
“Ma, signore, chi è mio padre?”
“Questo, signorina, non mi è stato confidato. Non vi è alcun dubbio, signorina,” aggiunse, “che le vostre sorelle hanno goduto di incomparabili vantaggi su di voi e che sono state prese tutte le precauzioni possibili e immaginabili, attraverso i contratti di matrimonio, rogiti, stipulazioni, fidecommessi ed altri mezzi, per ridurre a zero la vostra legittima nell’eventualità in cui faceste ricorso alla legge per ottenerla. Se perdete i vostri genitori, troverete ben poca cosa. Se rifiutate di entrare in convento, forse rimpiangerete di non esservi.”
“È impossibile, signore, e io non chiedo nulla.”
“Voi non sapete che cos’è la fatica, il dolore, l’indigenza...”
“Conosco almeno il prezzo della libertà e il peso di una condizione alla quale non si è chiamati.”
“Vi ho detto quanto avevo da dirvi; ora spetta a voi, signorina, fare le vostre riflessioni.”
Poi si alzò.
“Vi prego, signore, ancora una domanda.”
“Chiedete pure ciò che volete.”
“Le mie sorelle sono a conoscenza di ciò che mi avete rivelato?”
“No signorina.”
“E come hanno potuto avere il coraggio di spogliare la loro sorella? Giacché loro mi credono tale.”
“Ah, signorina! l’interesse, l’interesse! Non avrebbero trovato i buoni partiti che hanno trovato. Ognuno pensa a se in questo mondo, e non vi consiglio di contare su di loro nel caso in cui vi vengano a mancare i vostri genitori. Potete essere sicura che vi contenderanno fino all’ultimo centesimo la piccola parte che dovreste dividere con loro.
Hanno molti figlioli; sarà un pretesto ineccepibile per ridurvi alla mendicità. Inoltre non possono più fare niente; sono i mariti che fanno tutto. Se nutrissero qualche sentimento di commiserazione, l’aiuto che vi darebbero all’insaputa dei loro mariti diverrebbe fonte di discordie domestiche. Io non vedo altro che cose del genere: o figli abbandonati, o figli, sia pure legittimi, aiutati a scapito della pace domestica. Senza contare, signorina, che il pane che si riceve dagli altri è un pane amaro. Se avete fiducia in me, vi riconcilierete con i vostri genitori; farete ciò che vostra madre si aspetta da voi; prenderete il velo; vi verrà costituita una piccola pensione con la quale passerete dei giorni, se non proprio felici, almeno sopportabili. Non vi nasconderò d’altro canto che l’abbandono apparente di vostra madre, l’ostinatezza nel volervi rinchiudere, e alcune altre circostanze che mi sfuggono, ma che un tempo sapevo, hanno prodotto su vostro padre esattamente lo stesso effetto che su di voi. La vostra nascita gli era sospetta. Ora non più. E pur non essendone al corrente, non ha dubbi che voi gli apparteniate come figlia solo in virtù della legge che attribuisce i figli a colui che porta il titolo di marito.
Suvvia, signorina, voi siete buona e saggia; pensate a ciò che avete appena saputo.”
Mi alzai, mi misi a piangere. Vidi che anche lui era intenerito; alzò lentamente gli occhi al cielo e mi riaccompagnò. Ritrovai la domestica che mi aveva accompagnata; risalimmo in carrozza e tornammo a casa.
Era tardi. Buona parte della notte riflettei su quanto mi era stato rivelato; continuai a riflettervi l’indomani. Non avevo padre; gli scrupoli mi avevano privato di madre; si erano premuniti affinché non potessi aspirare ai diritti della mia nascita legale; una prigionia domestica durissima, senza nessuna speranza, nessuna risorsa. Forse se certe spiegazioni mi fossero state date prima, dopo che le mie sorelle si erano sistemate, mi avrebbero tenuta in quella casa che la gente continuava a frequentare e si sarebbe trovato qualcuno al quale il mio carattere, la mia intelligenza, il mio aspetto e i miei doni, sarebbero sembrati una dote bastante. La cosa non era ancora impossibile, ma lo scalpore suscitato in convento la rendeva più difficile. Si concepisce difficilmente che una fanciulla sui diciassette anni sia potuta giungere a tali estremi senza una fermezza di carattere poco comune. Gli uomini lodano molto questa qualità, ma mi sembra che ne facciano volentieri a meno nelle fanciulle di cui intendono fare le loro spose. Pure, era una via d’uscita da tentare prima di prendere in considerazione un’altra soluzione.
Decisi di parlarne a mia madre e le feci chiedere un colloquio che mi fu accordato.
Era inverno. Mia madre era seduta in una poltrona davanti al fuoco: aveva un volto severo, lo sguardo fisso e i lineamenti immobili. Mi avvicinai a lei, mi buttai ai suoi piedi e le chiesi perdono di tutti i miei torti.
“Il perdono dipende da ciò che state per dirmi. Alzatevi; vostro padre è assente, avete tutto il tempo di spiegarvi. Avete visto padre Serafino, sapete infine chi siete e ciò che potete aspettarvi da me, se il vostro progetto non è quello di punirmi finché vivrò per una colpa che ho già fin troppo espiata. Ebbene, signorina, che cosa volete da me?
Che cosa avete deciso?”
“Mamma,” le risposi, “so che non ho niente e che non posso pretendere niente.
Lungi da me l’intenzione di accrescere le vostre sofferenze, qualunque sia la loro natura; forse mi avreste trovata più sottomessa alla vostra volontà se mi aveste messa prima al corrente di alcune circostanze che difficilmente potevo sospettare. Ma adesso finalmente so. Mi conosco, e non mi resta che comportarmi secondo le necessità della mia condizione. Non sono più sorpresa delle distinzioni che sono state fatte tra me e le mie sorelle; riconosco che sono giuste, le sottoscrivo. Ma sono pur sempre vostra figlia, voi mi avete portato nel vostro seno e spero che non lo dimenticherete.”
“Che sia meledetta,” esclamò vivamente, “se non vi riconoscessi mia per quanto è in mio potere!”
“Ebbene, mamma,” le dissi, “rendetemi il vostro affetto, rendetemi la vostra presenza; rendetemi la tenerezza di colui che si crede mio padre.”
“Poco ci manca, che non sappia la verità sulla vostra nascita come noi due. Non vi vedo mai accanto a lui senza sentire i suoi rimproveri; me li rivolge con la durezza con la quale vi tratta; non sperate da parte sua i teneri sentimenti di un padre. E inoltre, debbo confessarvelo, voi mi ricordate un tradimento, un’ingratitudine così odiosa da parte di un altro, che non posso sopportarne l’idea; quell’uomo si frappone fra noi, mi respinge, e l’odio che debbo a lui si riversa su di voi.”
“Come!” replicai, “non posso sperare che mi trattiate, voi e il signor Simonin, come un’estranea, un’estranea che avreste accolta per spirito umanitario?”
“Non possiamo farlo, né l’uno, né l’altra. Figlia mia, non mi avvelenate ulteriormente la vita. Se non aveste delle sorelle, so quel che dovrei fare; ma ne avete due, e tutte e due hanno una famiglia numerosa. Da tanto tempo ormai si è spenta la passione che mi sorreggeva; la coscienza ha ripreso i suoi diritti.”
“Ma colui al quale debbo la vita?”
“Non c’è più; è morto senza ricordarsi di voi; e questa la meno grave delle sue colpe...”
A questo punto la sua espressione si alterò, i suoi occhi si accesero, lo sdegno le scompose i tratti del volto. Voleva parlare, ma il tremito delle labbra le impediva di articolare parola. Era seduta; piegò la testa fra le mani per nascondermi i moti violenti che le sconvolgevano l’animo. Rimase per un certo tempo in quello stato, poi si alzò, fece qualche giro intorno alla camera senza dir parola; cercava a fatica di trattenere le lacrime che scorrevano, e andava dicendo:
“Mostro! Non è certo per volontà sua se non siete morta soffocata nel mio seno con tutto quello che mi ha fatto soffrire, ma Dio ci ha tenute in vita l’una e l’altra perché la madre espiasse la propria colpa attraverso la figlia... Figlia mia, voi non avrete nulla, non avrete mai nulla. Il poco che posso fare per voi, lo tolgo alle vostre sorelle: ecco le conseguenze di un momento di debolezza. Spero tuttavia di non avere niente da rimproverarmi morendo; avrò guadagnato la vostra dote con la mia economia. Non abuso dei mezzi del mio sposo. Ogni giorno metto da parte quello che di tanto in tanto ottengo dalla sua liberalità. Ho venduto i gioielli che avevo ed ho avuto da lui il permesso di disporre a mio piacimento della somma che ne ho ricavato. Mi piaceva il gioco, non gioco più; mi piacevano gli spettacoli, e me ne sono privata; mi piaceva la compagnia, vivo ritirata; mi piaceva il fasto, vi ho rinunciato. Se entrate in convento, secondo la mia volontà e quella del signor Simonin, la vostra dote sarà il frutto di tutto ciò che io sopporto ogni giorno.”
“Ma, mamma,” le risposi, “vengono ancora a casa nostra delle persone dabbene.
Forse vi sarà qualcuno che soddisfatto della mia persona, non esigerà nemmeno i risparmi che avete destinato alla mia sistemazione.”
“Ormai è da escludersi. Lo scandalo che avete suscitato, vi ha perduto.”
“È un male senza rimedio?”
“Senza rimedio.”
“Ma se io non trovo un marito, è proprio necessario che mi rinchiuda in un convento?”
“A meno che non vogliate perpetuare il mio dolore e i miei rimorsi finché non chiuda gli occhi. Arriverò a quel giorno: le vostre sorelle, in quel momento terribile, saranno intorno al mio letto: ditemi se potrò vedervi in mezzo a loro; quale sarebbe l’effetto della vostra presenza in quegli ultimi istanti! Figlia mia, giacché lo siete mio malgrado, le vostre sorelle hanno ricevuto per legge un nome che voi portate con la frode. Non addolorate una madre che sta per spirare; lasciatela scendere in pace nella tomba; fate che possa dire a se stessa, allorché sarà sul punto di apparire davanti al grande giudice, che ha riparato il proprio errore per quanto stava in lei; lasciatela illudersi che, dopo la sua morte, voi non seminerete discordia in questa casa, e che non rivendicherete diritti che non vi spettano.”
“Mamma,” le risposi, “state tranquilla quanto a questo; fate venire un uomo di legge; fategli redigere un atto di rinuncia ed io sottoscriverò tutto quello che vorrete.”
“È impossibile: un figlio non si disereda da solo; può essere unicamente il castigo di un padre o di una madre irritati a giusto titolo. Se piacesse a Dio richiamarmi a sé domani, domani dovrei giungere a questi estremi e aprirmi con mio marito al fine di prendere con lui le stesse decisioni. Non mi esponete a una confessione che mi renderebbe odiosa ai suoi occhi e che comporterebbe conseguenze tali da disonorarvi.
Se mi sopravviverete, resterete senza nome, senza fortuna e senza una posizione definita. Ditemi, disgraziata, che ne sarà di voi; quali idee volete che porti con me morendo? Bisognerà perciò che dica a vostro padre... Che cosa gli dirò? Che non siete sua figlia!... Figlia mia, se bastasse gettarsi ai vostri piedi per ottenere da voi... Ma voi non sentite niente; voi avete l’anima inflessibile di vostro padre...”
In quel momento entrò il signor Simonin. Vide il turbamento di sua moglie. Le voleva bene e aveva un carattere violento. Si fermò di botto e volgendo uno sguardo terribile verso di me, esclamò:
“Uscite!”
Se fosse stato mio padre, non gli avrei obbedito, ma non lo era. Aggiunse, parlando al domestico che mi faceva luce:
“Ditele di non farsi più vedere.”
Mi rinchiusi nella mia piccola prigione. Riflettei su quanto mia madre mi aveva detto. Caddi in ginocchio; pregai Dio che mi ispirasse; pregai a lungo con il viso che toccava il pavimento. Non si invoca quasi mai la voce del cielo se non quando non sappiamo a cosa decidersi, ed è raro che essa non ci consigli di obbedire. Fu dunque la decisione che presi: “Vogliono che mi faccia monaca. Forse è tale anche la volontà di Dio. Ebbene, mi farò monaca. Giacché debbo essere comunque infelice, che importa il luogo!” Raccomandai alla domestica che si occupava di me di avvertirmi quando mio padre fosse uscito. Il giorno dopo sollecitai subito un incontro con mia madre; mi fece rispondere che aveva promesso al signor Simonin di non rivolgermi la parola, ma che potevo scriverle con una matita che mi venne data. Scrissi perciò su un pezzetto di carta quel foglio fatale è stato ritrovato, e se ne è fatto uso contro di me in maniera inconfutabile:
“Mamma, sono spiacente per tutti i dolori che vi ho inflitto; ve ne chiedo perdono; intendo non causarvene più. Fate di me tutto ciò che vorrete; se è vostra volontà ch’io entri in religione, mi auguro che sia anche quella di Dio.”
La domestica prese lo scritto e lo portò a mia madre. Poco dopo risalì e mi disse con trasporto:
“Signorina, giacché bastava una sola parola per fare la felicità di vostro padre, di vostra madre, e la vostra, perché averla differita tanto a lungo? Il signore e la signora hanno una faccia come non ho mai visto da quando sono qui: si bisticciavano continuamente per causa vostra. Grazie a Dio, ora è finita...”
Mentre mi parlava, pensavo che avevo appena firmato la mia sentenza di morte e tale presentimento, signore, si avvererà, se voi mi abbandonate.
Trascorsero alcuni giorni senza che sentissi parlare di niente; ma una mattina, verso le nove, la porta si aprì bruscamente; era il signor Simonin che entrava in veste da camera e berretta da notte. Da quando sapevo che non era mio padre, la sua presenza non mi incuteva spavento. Mi alzai, gli feci la riverenza. Mi sembrò di avere due cuori: non potevo pensare a mia madre senza intenerirmi, senza aver voglia di piangere, ma con il signor Simonin le cose stavano diversamente. Non vi è dubbio che un padre ispira un certo tipo di sentimento che non si prova per altri che lui al mondo: per saperlo, bisogna essersi trovati faccia a faccia a un uomo che ha rivestito a lungo, e che ha appena perduto, questo carattere augusto; gli altri lo ignoreranno sempre. Se passavo dalla sua presenza a quella di mia madre, mi sembrava di essere un’altra.
Mi disse:
“Susanna, riconoscete questo biglietto?”
“Sì, signore.”
“L’avete scritto liberamente?”
Non potei che rispondere di sì.
“Siete almeno decisa a mettere in atto ciò che promettete?”
“Lo sono.”
“Avete delle preferenze per un convento particolare?”
“No, mi sono indifferenti.”
“Basta così.” Mi lasciò e scese.
Ecco quanto risposi; ma disgraziatamente le mie parole non furono scritte.
Trascorsi una quindicina di giorni nell’ignoranza più completa di ciò che stava accadendo, ma ebbi l’impressione che si fossero rivolti a diversi conventi, e che lo scandalo che avevo suscitato la prima volta impediva che fossi ricevuta come postulante.
A Longchamp 17 furono sollevate meno difficoltà. Probabilmente perché si lasciò intendere che conoscevo la musica e che avevo una bella voce. I miei genitori esagerarono abbondantemente le difficoltà che avevano incontrato e la grazia che mi facevano accogliendomi in quel convento. Mi indussero persino a scrivere alla superiora. Non misuravo le conseguenze di quella testimonianza scritta che esigevano da me; evidentemente temevano che un giorno potessi rinnegare i miei voti; volevano avere un’attestazione scritta di mio pugno che li avevo pronunciati in piena libertà.
Senza tale motivo, come mai quella lettera che doveva restare nelle mani della superiora, sarebbe passata in seguito nelle mani dei miei cognati? Ma è meglio chiudere gli occhi su questo particolare: mi fanno vedere il signor Simonin come non voglio vederlo. Ormai non è più di questo mondo.
Mi condussero a Longchamp: fu mia madre ad accompagnarmi. Non chiesi di salutare il signor Simonin; confesso che il pensiero mi venne solo strada facendo. Mi aspettavano: ero già conosciuta per la mia storia e i miei doni musicali. Non si parlò della prima, ma tutti avevano fretta di vedere se l’acquisizione fatta dal convento fosse all’altezza delle aspettative. Dopo che ci fummo intrattenute su molti argomenti senza interesse, giacché potete bene immaginare che dopo quel che mi era accaduto non si fece parola né di Dio, né di vocazione, né dei pericoli del mondo, né della dolcezza della vita in convento, e che non si sfiorarono nemmeno le pie insulsaggini con cui si cerca di riempire quei primi momenti, la superiora disse:
“Voi, signorina, conoscete la musica, sapete cantare. Noi abbiamo qui un clavicembalo; se volete, potremmo andare nel nostro parlatorio...”
Avevo il cuore oppresso, ma non era il momento di mostrare la mia ripugnanza.
Mia madre uscì per prima, io la seguii; la superiora chiudeva il breve corteo con alcune monache spinte dalla curiosità. Era già sera; portarono delle candele; mi sedetti davanti al clavicembalo. A lungo accennai a varie arie sulla tastiera, cercando un brano nella mia testa che è piena di musica, e non riuscii a trovarne. Dato che la superiora mi esortava, cantai sciattamente, per abitudine, perché il pezzo mi era familiar fiaccole, luce più orrenda delle tenebre... 18 Non so quale effetto produsse il mio canto, ma non mi ascoltarono a lungo: mi interruppero con delle lodi che mi meravigliai di aver meritato così rapidamente e senza tanta fatica. Mia madre mi affidò alla superiora, mi porse la mano da baciare, e se ne andò.
Eccomi dunque in un altro convento, postulante, e per di più con l’aria di postulare di mia spontanea volontà. Ma voi, signore, voi che conoscete tutto quello che è accaduto fino a questo momento che cosa ne pensate? Allorché volli ricorrere contro i miei voti, la maggior parte di questi fatti non furono allegati; gli uni, perché erano verità destituite di prove, gli altri, perché mi avrebbero resa odiosa senza giovarmi; non si sarebbe vista in me che una figlia snaturata, che insultava la memoria dei propri genitori per ottenere la libertà. Avevano la prova di ciò che era contro di me, ciò che era a mio vantaggio non poteva essere allegato, né essere provato. Personalmente non volli nemmeno che venisse insinuato nei giudici il sospetto della mia nascita; alcune persone, poco esperte di leggi, mi consigliarono di chiamare in causa il direttore spirituale mio e di mia madre. La cosa era impossibile, e quand’anche lo fosse stata, non l’avrei permessa. Ma a proposito, prima ch’io lo dimentichi e che il desiderio del mio tornaconto vi impedisca di pensarci, a meno che non siate di diverso parere, credo che non si debba far sapere che conosco la musica e suono il clavicembalo. Basterebbe per farmi riconoscere: l’esibizione di queste mie qualità mal si accorda con l’esistenza oscura e la sicurezza che vado cercando. Le persone della mia condizione ignorano tali cose, e anch’io debbo ignorarle. Se fossi costretta ad espatriare, me ne servirei invece per guadagnarmi da vivere. Espatriare! Ma ditemi perché quest’idea mi spaventa.
Perché non so dove andare; perché sono giovane e senza esperienza; perché temo la miseria, gli uomini e il vizio; perché ho sempre vissuto fra quattro mura e se mi trovassi fuori di Parigi, mi crederei sperduta nel mondo. Forse tutto questo non è vero, ma è quello ch’io sento. Dipende soltanto da voi, signore, ch’io non sappia dove andare, o che fare.
A Longchamp, come nella maggior parte dei conventi, la superiora cambia ogni tre anni. Allorché vi fui condotta, era stata da poco chiamata a tale carica, una certa signora De Moni. Non posso dirvene troppo bene. Eppure a perdermi è stata la sua bontà. Era una donna assennata, che conosceva il cuore umano. Era piena di indulgenza, benché nessuno meno di lei ne avesse bisogno; eravamo tutte figlie sue. Non vedeva se non le colpe che non poteva fare a meno di vedere, o la cui gravità non le consentiva di chiudere gli occhi. Ne parlo in maniera disinteressata; io ho compiuto il mio dovere in tutto e per tutto ed ella riconoscerebbe che non commisi alcuna colpa di cui mi dovesse punire o che mi dovesse perdonare. Se dimostrava una certa predilezione, erano i meriti ad ispirargliela. Dopo di che, non so se sia opportuno dirvi che tra le sue favorite non fui la meno diletta. So che sto facendo di me stessa un grande elogio, più grande di quanto non immaginiate, giacché non l’avete conosciuta. Il nome di favorita è quello che le altre d’animo meschino danno alle preferite della superiora. Se avessi un difetto da rimproverare alla signora De Moni, è di essersi sempre lasciata dominare apertamente dalla sua inclinazione per la virtù, la pietà, la franchezza, la dolcezza, i doni naturali, l’onestà, e inoltre di non aver ignorato che quelle che non potevano aspirare alla sua predilezione ne erano di conseguenza tanto più umiliate. Aveva anche il dono, forse più comune in convento che fuori, nel mondo, di giudicare immediatamente i caratteri. Era raro che una monaca che non le fosse piaciuta a prima vista, le piacesse in seguito. Non le ci volle molto a prendermi in simpatia, e nei primi tempi ebbi in lei una fiducia assoluta. Sventurate coloro che non gliela concedevano senza sforzo! Bisognava proprio che fossero cattive, prive di qualità, e che ne fossero consapevoli. Volle parlarmi della mia avventura a Santa Maria, gliela raccontai senza nulla dissimulare, proprio come a voi; le raccontai tutto quello che ho scritto a voi. La mia nascita, le mie pene, niente fu dimenticato. Mi compianse, mi consolò, mi fece sperare in un avvenire più dolce.
Terminò intanto il periodo del postulato e giunse quello di indossare l’abito. Lo indossai. Feci il mio noviziato senza ripugnanza. Sorvolo su quei due anni perché il solo sentimento triste che provai fu quello di avanzare a passo a passo verso l’inizio di uno stato per il quale non ero affatto tagliata. A volte questo sentimento mi assaliva con forza. Allora ricorrevo senza indugio alla mia buona superiora, che mi abbracciava, che dava sollievo alla mia anima, che mi esponeva energicamente le sue ragioni e che finiva sempre col dirmi:
“E gli altri stati non hanno forse le loro spine? Noi non sentiamo che le nostre.
Su, figliola mia, mettiamoci in ginocchio, e preghiamo.”
Allora si prosternava, pregava ad alta voce, ma con tanto calore ed eloquenza, con tanta dolcezza ed elevazione, e forza, che la si sarebbe detta ispirata dallo Spirito di Dio. I suoi pensieri, le sue espressioni, le sue immagini, penetravano fin nel profondo del cuore. Dapprima la si ascoltava; poi, a poco a poco, si era trascinati, ci si univa a lei, l’anima trasaliva, e si condividevano i suoi slanci. Il suo scopo non era quello di sedurmi, ma in pratica accadeva proprio questo. La si lasciava con un cuore ardente, la gioia e l’estasi impresse sul volto, ed erano così dolci le lacrime che si versavano! Lo stesso effetto si verificava in lei e vi rimaneva a lungo, proprio come in noi. Non mi riferisco alla mia sola esperienza, ma a quella di tutte le suore. Alcune mi hanno detto che sentivano nascere nel loro intimo il bisogno di essere consolate, come nasce quello di un piacere molto grande, e credo che a me sia mancata soltanto un po’ più d’abitudine per arrivare a questo punto.
Ciò nonostante, mentre si avvicinava il momento della mia professione, provai una malinconia così profonda da mettere realmente a dura prova la mia buona superiora.
Quella sua virtù la abbandonò, come mi confessò lei stessa:
“Non so,” mi disse, “che cosa stia accadendo in me; quando venite, mi sembra che Dio si ritragga e che il suo spirito taccia; inutilmente mi sforzo di eccitarmi, cerco delle idee, voglio esortare la mia anima; mi ritrovo una donna banale, limitata; ho paura di parlare.”
“Ah, mia cara madre,” le dissi, “quale presentimento! Se fosse Dio a rendervi muta!...”
Un giorno che mi sentivo più incerta e più abbattuta che mai, mi recai nella sua cella; dapprima la mia presenza la lasciò turbata: evidentemente lesse nei miei occhi, in tutta la mia persona, che il sentimento profondo racchiuso in me era al di sopra delle sue forze; e lei non voleva lottare senza la certezza di essere vittoriosa. Tuttavia cominciò ad esortarmi e a poco a poco si infervorò. Via via che il mio dolore decresceva, la sua esaltazione aumentava; d’un tratto si mise in ginocchio ed io seguii il suo esempio. Mi convinsi che ero sul punto di condividere il suo slancio, e me lo auguravo. Pronunciò alcune parole, poi, all’improvviso, tacque. Aspettavo inutilmente: non aggiunse altro; si rialzò, si sciolse in lacrime, mi afferrò la mano e stringendomi fra le braccia:
“Ah, mia cara figliola,” disse, “che effetto crudele avete prodotto su di me!
Ecco, è finita, lo spirito mi ha abbandonata, lo sento; che Dio stesso vi parli giacché non si compiace più di farsi sentire per bocca mia.”
In vero non so che cosa fosse accaduto in lei: forse le avevo ispirato una sfiducia nelle sue forze che non scomparve più, forse l’avevo resa timida, o avevo veramente spezzato i suoi rapporti con il cielo. Il fatto si è che il dono di saper consolare, non le tornò più. Il giorno prima della mia professione, l’andai a trovare. La sua malinconia non era da meno della mia. Mi misi a piangere, ed ella pure. Mi gettai ai suoi piedi, mi benedisse, mi fece rialzare, mi abbracciò e mi congedò dicendo:
“Sono stanca di vivere, mi auguro di morire. Ho chiesto a Dio di non farmi conoscere un giorno simile, ma tale non è la sua volontà. Andate, adesso. Parlerò a vostra madre, passerò la notte in preghiera, pregate anche voi. Ma adesso coricatevi, ve lo ordino.”
“Permettete,” le risposi, “che mi unisca a voi.”
“Ve lo permetto dalle nove alle undici, non oltre. Alle nove e mezzo comincerò a pregare e così pure farete voi; ma alle undici mi lascerete pregare da sola e voi vi riposerete. Coraggio, mia cara figliola, veglierò davanti a Dio per il resto della notte.”
Volle pregare, ma non ne fu capace. Io dormivo, e intanto quella santa donna se ne andava per i corridoi bussando ad ogni porta, svegliava le monache e le faceva scendere silenziosamente in chiesa. Vi si recarono tutte, e allorché tutte vi furono riunite, le invitò a rivolgersi al cielo per me. Dapprima ciascuna pregò per conto proprio, poi la superiora spense i lumi e tutte insieme cantarono il Miserere, salvo la madre che prosternata ai piedi degli altari, si torturava crudelmente dicendo:
“Oh, mio Dio, se mi avete abbandonata per una colpa che ho commesso, concedetemi il perdono. Non vi chiedo di restituirmi il dono che mi avete tolto, ma che voi stesso vi rivolgiate a quell’innocente che dorme mentre io vi invoco qui per lei. Mio Dio, parlatele, parlate ai suoi genitori, e perdonatemi.”
L’indomani entrò di buon’ora nella mia cella; ancora immersa nel sonno. Io non la sentii. Si sedette accanto al mio letto. Mi aveva posato leggermente una mano sulla fronte e mi guardava. Sul suo volto si manifestavano di volta in volta inquietudine, turbamento e dolore, e fu così che mi apparve allorché aprii gli occhi. Non mi fece parola di quanto era accaduto durante la notte; mi chiese soltanto se mi fossi coricata presto. Le risposi:
“All’ora che mi avete ordinato.”
Mi chiese se avessi dormito:
“Profondamente,” risposi.
“Me lo aspettavo,” esclamò, e poi volle sapere come mi sentissi.
“Benissimo! E voi, mia cara madre?”
“Ahimè,” soggiunse, “non ho visto nessuno pronunciare i voti senza inquietudine, ma per nessuno ho provato il turbamento che provo per voi. Vorrei di tutto cuore che foste felice.”
“Se mi amerete sempre, lo sarò.”
“Ah, se non dipendesse che da questo! Non avete pensato a niente durante la notte?”
“No.”
“Non avete fatto nessun sogno?”
“Nessuno.”
“Che cosa provate adesso, nel vostro cuore?”
“Mi sento come stupidita. Obbedisco al mio destino senza ripugnanza e senza slancio; sento che la necessità mi travolge e mi lascio andare. Ah, mia cara madre! non c’è in me l’ombra di quella dolce gioia, di quella trepidazione, di quella malinconia, di quella dolce inquietudine che talvolta ho notato in altre giunte a questo stesso momento.
Mi sento vuota, non saprei nemmeno piangere. Lo vogliono, è necessario. Ecco la sola idea che mi passi per la mente... Ma voi non mi dite niente.”
“Non sono venuta per far conversazione con voi, ma per vedervi ed ascoltarvi.
Aspetto vostra madre. Cercate di non commuovermi; lasciate che i sentimenti s’accumulino nella mia anima. Quando ne sarà colma, vi lascerò. Debbo tacere; io mi conosco. Ho un solo impulso, ma violento; non deve trovare sfogo con voi. Riposatevi ancora un momento, ch’io vi veda; ditemi soltanto qualche parola e lasciate che io colga qui ciò che sono venuta a cercarvi. Poi me ne andrò e Dio farà il resto.”
Tacqui, ricaddi sul guanciale, le tesi una mano ch’ella afferrò. Sembrava che meditasse, e che meditasse profondamente; si sforzava di tenere gli occhi chiusi, ma a volte li apriva, volgeva lo sguardo verso l’alto prima di posarlo nuovamente su di me; si agitava; aveva l’anima in tumulto, senza posa perdeva e ritrovava il controllo di sé. In verità quella donna era nata per essere profetessa: ne aveva il volto e il carattere. Era stata bella, ma l’età, svigorendo i tratti del volto e incidendovi rughe profonde, aveva conferito dignità alla sua fisionomia. Aveva occhi piccoli, ma che davano l’impressione di guardare dentro lei stessa o di attraversare gli oggetti vicini e di scrutare al di là di essi, a una distanza infinita, sempre nel passato o nell’avvenire. Di tanto in tanto mi stringeva con forza la mano. Mi chiese bruscamente che ore fossero:
“Saranno presto le sei.”
“Addio, me ne vado. Fra poco verranno a vestirvi ed io non voglio esser presente per farmi distrarre. La mia sola preoccupazione è di mantenermi calma nei primi momenti.”
Era appena uscita che la madre delle novizie e le mie compagne fecero il loro ingresso; mi tolsero gli abiti del convento e mi rivestirono con quelli secolari; è un uso che voi conoscete. Non sentii niente di quello che si diceva intorno a me; ero ridotta quasi allo stato di automa; non mi accorsi di niente. Solo, a tratti, ero percorsa da leggeri fremiti convulsi. Mi dicevano ciò che bisognava fare, spesso erano costrette a ripeterlo, perché la prima volta non sentivo; io lo facevo. Non perché pensassi ad altro, ma perché ero come assente. Avevo la testa stanca come quando si è riflettuto troppo. Nel frattempo la superiora si intratteneva con mia madre. Non ho mai saputo ciò che fosse accaduto durante quell’incontro che durò a lungo; mi riferirono soltanto che quando si separarono, mia madre era così turbata che non riusciva a ritrovare la porta dalla quale era entrata, e che la superiora era uscita con i pugni stretti alle tempie.
Suonarono le campane. Scesi. C’era poca gente. Mi fu rivolto, bene o male, un fervorino; non sentii niente. Disposero di me durante tutta quella mattinata che è stata inesistente nella mia vita, giacché non ho mai saputo quanto fosse durata; non so né cosa ho fatto, né cosa ho detto. Mi hanno sicuramente interrogata, sicuramente ho risposto. Ho pronunciato i voti, ma non ne conservo alcun ricordo e mi sono ritrovata monaca con la stessa innocenza con cui fui fatta cristiana; non capii niente di quella mia professione come non avevo capito niente in quella del mio battesimo, con la differenza che l’una conferisce la grazia e l’altra la presuppone. Ebbene, signore, benché io non abbia protestato a Longchamp come avevo fatto a Santa Maria, credete che sia per questo più vincolata? Faccio appello al vostro giudizio; faccio appello al giudizio di Dio. Mi trovavo in uno stato di prostrazione così profonda che qualche giorno dopo, allorché mi fu detto che ero di turno in coro, non capii che cosa volesse dire. Chiesi se era proprio vero che avevo pronunciato i voti; fu necessario aggiungere a queste prove la testimonianza di tutta la comunità; quella di alcuni estranei che erano stati invitati alla cerimonia. Rivolgendomi più volte alla superiora, le ripetevo: “Ma allora, è proprio vero?”
E mi aspettavo sempre che rispondesse:
“No, figliola mia, vi ingannano.”
Le sue reiterate assicurazioni non mi convincevano affatto, non riuscendo a capire come avessi potuto dimenticare ogni circostanza di tutta una giornata così tumultuosa, così varia, così densa di avvenimenti insoliti e straordinari, persino la faccia di coloro che si erano affaccendate intorno a me, e quella del prete che mi aveva rivolto il suo fervorino, e di colui davanti al quale avevo pronunciato i voti. La sola cosa che ricordi è di aver cambiato gli abiti del convento con quelli secolari. Da quel momento sono stata ciò che fisicamente si dice alienata. Sono stati necessari mesi interi per trarmi da quello stato, ed io attribuisco alla lunghezza di quella specie di convalescenza l’oblio profondo di quanto è accaduto. Proprio come coloro che hanno sofferto di una lunga malattia, che hanno parlato con lucidità, che hanno ricevuto i sacramenti e che, dopo aver ritrovato la salute, non ne conservano il benché minimo ricordo. Ne ho visti diversi esempi in convento e ho detto a me stessa: “Ecco quello che probabilmente è accaduto il giorno della professione.” Resta poi da sapere se tali azioni siano azioni compiute dall’uomo e se egli sia realmente presente, anche se in apparenza lo è.
In quello stesso anno subii tre perdite gravi: quella di mio padre, o per meglio dire di colui che passava per tale. Era anziano. Aveva lavorato molto. Si spense. Quella della mia superiora, e quella di mia madre.
Questa degna religiosa avvertì molto tempo prima l’approssimarsi della sua ora.
Si condannò al silenzio. Si fece portare la bara nella cella. Aveva perso il sonno e passava i giorni e le notti a meditare e a scrivere. Ha lasciato quindici meditazioni che a me sembrano di grande bellezza. Ne possiedo una copia. Se un giorno vi cogliesse la curiosità di vedere quali pensieri suggerisce quell’istante supremo, ve le farò leggere. Si intitolano: Gli ultimi istanti della suora De Moni.
All’avvicinarsi della morte, si fece vestire. Stava distesa sul suo letto dove le somministrarono gli ultimi sacramenti. Tra le braccia, teneva un crocifisso. Era notte. Il bagliore delle candele rischiarava quella scena lugubre. Noi le stavamo intorno, ci scioglievamo in lacrime, la sua cella risuonava di grida, quando, d’un tratto, le brillarono gli occhi. Si sollevò bruscamente, parlò. La sua voce era forte quasi come prima della malattia. Le tornò il dono perduto. Ci rimproverò per quelle nostre lacrime che sembravano lacrime di invidia per la sua felicità eterna.
“Figlie mie,” disse, “il vostro dolore vi ottenebra la ragione, ma è lassù,” diceva indicando il cielo, “che io potrò aiutarvi; i miei occhi si abbasseranno sempre su questa casa; intercederò per voi, e sarò esaudita. Avvicinatevi tutte quante, che io vi abbracci; venite ad accogliere la mia benedizione e il mio addio.”
Fu nel pronunciare queste ultime parole che passò a miglior vita quella donna rara, lasciando dietro di sé rimpianti che non finiranno mai.
Mia madre morì al ritorno da un breve viaggio che fece verso la fine dell’autunno presso una delle sue figliole. La sua salute era stata molto scossa da certi dispiaceri. Non ho mai saputo il nome di mio padre, né la storia della mia nascita. Colui che era stato il suo direttore spirituale, e anche il mio, mi consegnò un pacchetto da parte sua: erano cinquanta luigi con un biglietto, avvolti e cuciti in un pezzo di stoffa.
C’era scritto:
“Figlia mia, è ben poca cosa, ma la mia coscienza non mi consente di disporre di una somma maggiore; è il resto di quanto ho potuto economizzare sui piccoli regali del signor Simonin. Vivete santamente, è la cosa migliore che possiate fare, anche per la vostra felicità in questo mondo. Pregate per me; la vostra nascita è la sola colpa grave ch’io abbia commesso; aiutatemi ad espiarla e che Dio mi perdoni di avervi messa al mondo in considerazione delle buone opere che voi farete. Soprattutto non turbate la pace della famiglia, e benché la scelta dello stato che avete abbracciato non sia stata volontaria come avrei desiderato, guardatevi bene dal cambiarla. Perché non sono stata io, rinchiusa in un convento per tutta la vita? Non sarei tanto angosciata al pensiero che fra poco dovrò subire il temibile giudizio. Pensate, figlia mia, che la sorte di vostra madre nell’altro mondo, dipende molto dalla vostra condotta su questa terra: Dio, che vede tutto, mi attribuirà, nella sua giustizia, tutto il bene e tutto il male che farete voi.
Addio, Susanna; non chiedete niente alle vostre sorelle. Non sono in grado di aiutarvi.
Non sperate niente da vostro padre. Egli mi ha preceduta, ha già visto il grande giorno, mi attende; la mia presenza sarà per lui meno terribile della sua per me. Addio, ancora una volta! Ah, infelice madre! ah, infelice figlia! Sono arrivate le vostre sorelle; non sono contenta di loro: prendono, portano via, leticano per questioni di interesse che mi affliggono. Quando si avvicinano al mio letto, mi volto dall’altra parte. Che cosa vedrei in loro? Due creature nelle quali la povertà ha spento il sentimento della natura.
Anelano a quel poco che lascio, al medico e all’infermiera fanno domande senza pudore, che svelano con quale impazienza attendano il momento in cui me ne andrò e che le renderà padrone di tutto ciò che mi circonda. Hanno avuto sentore, non so come, che potessi avere un po’ di denaro nascosto tra i materassi; hanno tentato di tutto per farmi alzare e ci sono riuscite. Per fortuna il mio depositario era venuto il giorno prima ed io gli avevo consegnato il pacchetto con questa lettera che ha scritto sotto la mia dettatura. Bruciate la lettera, e quando saprete della mia morte, evento ormai imminente, farete dire una messa per me e rinnoverete i vostri voti, giacché desidero sempre che 29 non abbandoniate il convento: l’idea d’immaginarvi nel mondo, senza mezzi, senza sostegno, giovane, renderebbe ancor più penosi i miei ultimi istanti.”
Mio padre morì il 5 gennaio, la mia superiora verso la fine di quel mese, e mia madre il giorno dopo Natale.
Alla madre De Moni successe suor Santa Cristina. Ah, signore! Quale differenza fra l’una e l’altra! Vi ho detto che donna fosse la prima. Questa aveva invece un carattere meschino, una mentalità ristretta e piena di confuse superstizioni. Aveva una certa inclinazione per le idee nuove, conferiva con sulpiziani, con gesuiti. Prese in antipatia tutte le favorite di colei che l’aveva preceduta: in poco tempo la casa fu piena di discordie, di odi, di maldicenze, di accuse, di calunnie e di persecuzioni. Fu necessario spiegare questioni teologiche in cui non capivamo niente, sottoscrivere certe formule, piegarci a pratiche singolari. La madre De Moni non approvava affatto quelle penitenze che si praticano sul corpo. Si era flagellata soltanto due volte in vita sua: una volta, il giorno prima della mia professione, un’altra in una circostanza analoga. Di quelle penitenze diceva che non correggevano alcun difetto e servivano unicamente a incoraggiare l’orgoglio. Voleva che le sue suore stessero bene e avessero il corpo sano e lo spirito sereno. Subito dopo aver assunto la sua carica, per prima cosa si era fatta consegnare tutti i cilici e le discipline, e inoltre aveva proibito di alterare gli alimenti con la cenere, di dormire per terra e di procurarsi strumenti del genere. La seconda invece, fece riconsegnare ad ogni suora il cilicio e la disciplina e fece ritirare il Nuovo e l’Antico Testamento. Le favorite del regno precedente non sono mai le favorite del regno che segue. Io fui indifferente, per non dire di peggio, alla superiora attuale, per la semplice ragione che la precedente mi aveva prediletta, ma non tardai a peggiorare la mia sorte con azioni che voi chiamerete imprudenza o fermezza, a seconda del punto di vista dal quale le considererete.
La prima, fu quella di abbandonarmi a tutto il dolore che provavo per la scomparsa della nostra superiora; di farne l’elogio in ogni circostanza; di occasionare confronti fra lei e quella che allora ci governava, confronti certamente non favorevoli a quest’ultima; di descrivere la vita al convento negli anni precedenti; di suscitare il ricordo della pace di cui godevamo, la sua indulgenza per noi, il cibo sia spirituale che temporale del quale allora ci nutriva; e di esaltare le abitudini, i sentimenti, il carattere di suor De Moni. La seconda fu quella di gettare nel fuoco il cilicio e di disfarmi della mia disciplina; di richiamare l’attenzione delle mie amiche sull’argomento e di spingerne alcune a seguire il mio esempio. La terza, fu quella di procurarmi un Antico e un Nuovo Testamento. La quarta, di rifiutare ogni scelta, di attenermi al titolo di cristiana, senza accettare il nome di giansenista o di molinista. La quinta fu quella di osservare strettamente la regola della casa rifiutandomi di fare qualcosa in più o in meno di quanto esigeva, e quindi, di non prestarmi a nessun atto facoltativo, giacché quelli obbligatori mi sembravano già abbastanza duri; di non salire all’organo che nei giorni di festa, di non cantare se non quando avrei dovuto farlo nel coro, di non tollerare più che si abusasse della mia compiacenza e dei miei doni, e che si esigesse da me tutto, e tutti i giorni. Lessi le Costituzioni 19, le rilessi tanto da saperle a memoria. Se mi veniva ordinata una cosa che non vi fosse espressa in maniera chiara, o che non vi fosse espressa affatto, o che mi sembrasse in contraddizione con tali regole, risolutamente mi rifiutavo di obbedire, prendevo il libro e dicevo: “Questi, e non altri, sono gli impegni che ho assunto.”
I miei discorsi fecero sì che alcune delle mie compagne si schierassero dalla mia parte. L’autorità delle maestre ne risultò assai sminuita; non potevano più disporre di noi come se fossimo state loro schiave. Quasi non passava giorno senza qualche scena clamorosa. Nei casi incerti le mie compagne mi consultavano ed io ero sempre dalla parte della regola contro il dispotismo. Ben presto ebbi l’aria, e forse anche il comportamento, di una faziosa.
I grandi Vicari dell’arcivescovo venivano chiamati di continuo. Io mi presentavo, mi difendevo, difendevo le mie compagne, e non è accaduto una sola volta che fossi condannata, giacché stavo bene attenta ad essere sempre dalla parte della ragione. Dal punto di vista dei miei doveri, ero inattaccabile: li adempivo scrupolosamente, né chiedevo mai i piccoli favori che una superiora è sempre libera di accordare o di rifiutare. Non comparivo mai nel parlatorio; visite non ne ricevevo giacché non conoscevo nessuno. Avevo però bruciato il cilicio e gettato la disciplina; avevo consigliato ad altre di fare la stessa cosa; non volevo sentir parlare di giansenismo né in bene, né in male. Quando mi chiedevano se ero sottomessa alla Costituzione, rispondevo di esserlo alla Chiesa; se accettavo la Bolla, rispondevo che accettavo il Vangelo 20. Ispezionarono la mia cella: vi scoprirono l’Antico e il Nuovo Testamento.
Mi ero lasciata sfuggire alcune affermazioni indiscrete sull’intimità sospetta di alcune delle favorite; la superiora aveva dei colloqui lunghi e frequenti con un giovane ecclesiastico ed io ne avevo messo in luce la ragione e il pretesto. Non tralasciai niente di quanto poteva farmi temere, odiare, perdere, e ottenni il mio scopo. Non vi furono più lamentele sul mio conto presso i superiori, ma si ingegnarono a rendermi dura la vita.
Fu proibito alle altre monache di avvicinarmi e ben presto mi ritrovai sola. Avevo un numero ristretto di amiche; sospettarono che avrebbero cercato di sottrarsi di nascosto all’imposizione che avevano dovuto subire e che non potendo intrattenersi con me di giorno, sarebbero venute a trovarmi di notte o ad ore proibite. Ci spiarono: mi sorpresero ora con l’una, ora con l’altra. Di tale imprudenza ne fecero l’uso che vollero e fui castigata nel modo più disumano: mi condannarono per settimane intere a restare in ginocchio per tutto il tempo dell’uffizio, separata dalle altre, in mezzo al coro; a vivere di pane e d’acqua; a starmene chiusa in cella; ad attendere alle mansioni più umili del convento. Quelle che venivano definite le mie complici non erano trattate molto meglio di me. Quando non potevano cogliermi in fallo, sospettavano di me; mi venivano impartiti tutti insieme ordini incompatibili fra loro e mi punivano per non averli eseguiti. A mia insaputa si anticipavano le ore delle funzioni, dei pasti; si sovvertiva l’organizzazione abituale della vita claustrale di modo che, pur stando bene attenta, ogni giorno infrangevo qualche regola e ogni giorno venivo punita. Non mi manca il coraggio, ma nessuno resiste all’abbandono, alla solitudine, alla persecuzione.
Le cose arrivarono a un punto tale che il tormentarmi divenne un divertimento. Era ormai lo svago di cinquanta persone congiurate contro di me. Mi è impossibile entrare nei dettagli di quelle cattiverie: mi impedivano di dormire, di vegliare, di pregare. Un giorno mi rubavano parte degli abiti, poi era la volta delle chiavi o del breviario.
Danneggiavano la mia serratura. Mi impedivano di far bene ciò che dovevo fare o rovinavano le cose che avevo fatto bene. Mi venivano attribuiti discorsi mai fatti e azioni mai compiute. Mi rendevano responsabile di tutto, e la mia vita era un susseguirsi di colpe reali o simulate, e di castighi.
La mia salute non resse davanti a prove tanto lunghe e tanto dure; piombai nello sconforto, nel dolore, nella malinconia. Da principio andavo a cercare forza ai piedi dell’altare, e talvolta ve la trovai. Oscillavo tra la rassegnazione e la disperazione, sottomettendomi di volta in volta all’asprezza del mio destino, o pensando di liberarmene con mezzi violenti. In fondo al giardino c’era un pozzo profondo: quante volte ci sono andata! Quante volte vi ho guardato dentro! Accanto, c’era una panchina di pietra; quante volte mi ci sono seduta, con la testa appoggiata all’orlo del pozzo!
Quante volte, nel tumulto dei pensieri, mi sono alzata bruscamente, decisa a porre un termine alle mie angustie! Chi mi ha trattenuta? Perché preferivo piangere, gridare a gran voce, calpestare il velo, strapparmi i capelli e graffiarmi il viso con le unghie? Se era Dio che mi impediva di perdermi, perché non evitarmi anche tutte quelle manifestazioni?
Vi dirò una cosa che forse vi parrà molto strana e che nondimeno è vera: sono assolutamente certa che le mie frequenti visite a quel pozzo sono state notate e che le mie crudeli nemiche hanno caldamente sperato che un giorno o l’altro avrei messo in atto il proposito che covava dentro di me. Quando mi dirigevo da quella parte, ostentatamente se ne allontanavano e guardavano altrove. Diverse volte ho trovato la porta del giardino aperta in ore in cui avrebbe dovuto essere chiusa, e stranamente nei giorni in cui avevano particolarmente infierito su di me, in cui avevano spinto all’esasperazione l’irruenza del mio carattere e credevano che la mia mente fosse alienata. Ma non appena credetti di intuire che quel mezzo per liberarmi dalla vita era, per così dire, offerto alla mia disperazione, che mi conducevano per mano a quel pozzo e che lo avrei trovato sempre pronto ad accogliermi, smisi di curarmene. La mia attenzione si volse altrove. Rimanevo nei corridoi e misuravo l’altezza delle finestre; la sera, mentre mi spogliavo, saggiavo senza rendermene conto la forza delle mie giarrettiere; un altro giorno rifiutavo il cibo: scendevo al refettorio e rimanevo con la schiena contro la parete, le mani penzoloni lungo i fianchi, gli occhi chiusi, e non toccavo le pietanze che mi venivano servite. Quando ero in quello stato perdevo a tal punto la coscienza di me stessa che tutte le monache uscivano e io rimanevo lì. Si allontanavano ostentatamente senza far rumore e mi lasciavano sola; poi venivo punita per non essere stata presente agli esercizi. Che dirvi d’altro? Mi levarono con tutti i mezzi la voglia di togliermi la vita, poiché mi sembrò che, lungi dall’opporvisi, tali mezzi mi venissero offerti. Evidentemente non vogliamo venir cacciati da questo mondo e forse, se avessero finto di trattenermi, oggi non sarei più viva. Forse, quando ci si toglie la vita, si vuol far sì che gli altri si disperino. Ma se così facendo crediamo di dar loro soddisfazione, allora la nostra vita ce la teniamo. Si tratta di moti assai sottili del nostro animo. In verità, se è possibile che ricordi in quali condizioni mi trovavo quando ero accanto a quel pozzo, credo che dentro di me gridassi contro quelle disgraziate che si allontanavano per favorire un delitto: “Fate un passo verso di me, mostratemi il benché minimo desiderio di salvarmi, accorrete per trattenermi e siate certe che arriverete troppo tardi.” In realtà vivevo soltanto perché desideravano la mia morte.
Fuori dal chiostro l’accanimento nel tormentare e nel volere l’altrui perdita finisce con l’esaurirsi, nei chiostri invece non si esaurisce mai. Ero giunta a questo punto allorché riandando col pensiero alla mia vita passata, mi venne l’idea di fare annullare i miei voti. Fu dapprima un pensiero superficiale: sola, abbandonata, senza appoggi, in che modo condurre in porto un progetto così difficile, anche se avessi goduto di tutto quell’aiuto che a me mancava? L’idea bastò comunque a tranquillizzarmi; il mio spirito si acquietò, ritrovai la padronanza di me stessa. Evitai qualche castigo e sopportai con maggior pazienza quelli che mi venivano inflitti. Il cambiamento fu notato e suscitò stupore. Di colpo si arrestò la cattiveria, come un nemico vile che ti insegue e al quale fai fronte nel momento in cui meno se lo aspetta.
Una domanda che dovrei rivolgerle, signore, è perché fra tante idee funeste che passano per la testa di una monaca disperata, non vi è quella di appiccare il fuoco alla casa. A me non è venuta in mente, e neppure ad altre, benché sia la cosa più facile da farsi: in un giorno di gran vento basta portare una torcia in un solaio, in una legnaia o in un corridoio. Non vi sono mai stati conventi bruciati: eppure in queste circostanze si spalancano le porte e si salvi chi può. Forse perché preferiamo ignorare un aiuto che dovremmo condividere con quelle che odiamo? Ma quest’ultima supposizione è troppo sottile per essere vera.
A forza di riflettere su una cosa, se ne sente la fondatezza e si arriva persino a crederla possibile. A questo punto si è davvero molto forti. Per me si trattò di una quindicina di giorni. La mia mente galoppa. Che cosa doveva fare? redigere un memoriale e farlo esaminare da qualcuno: due iniziative non prive di pericolo. Da quando c’erano stati in me tutti quei mutamenti, venivo osservata più attentamente di sempre. C’era un occhio che mi seguiva di continuo; ogni mio passo veniva spiato, ogni mia parola soppesata. Fui di nuovo avvicinata, furono sondati i miei pensieri. Mi interrogavano, ostentavano commiserazione e amicizia; riandavano alla mia vita passata, mi accusavano fiaccamente, mi scusavano; speravano che mi comportassi meglio, mi prospettavano un avvenire più tranquillo. Ciò nonostante, giorno e notte, ad ogni istante, con ogni pretesto, bruscamente, sordamente, entravano nella mia cella, scostavano le tende, se ne andavano. Dopo aver preso l’abitudine di coricarmi vestita, avevo presa anche quella di scrivere la mia confessione. Nei giorni che sono stabiliti andavo a chiedere carta e inchiostro alla superiora, la quale non me li rifiutava.
Cominciai quindi ad attendere il giorno della confessione e intanto andavo redigendo a memoria tutto quello che intendevo esporre. Si trattava, in sintesi, di quanto ho scritto a voi fino a questo punto, con la sola differenza che mi servivo di nomi inventati.
Commisi però tre sciocchezze: la prima fu di dire alla superiora che avrei avuto molto da scrivere e adducendo questo pretesto, di chiederle più carta di quanta ne viene concessa di solito; la seconda, di occuparmi del mio memoriale e di trascurare la confessione; la terza, di non rimanere al confessionale che un istante, dato che appunto non avevo preparato la confessione e perciò non ero pronta a quell’atto di religione. Di tutto ciò non sfuggì nulla, e se ne dedusse che la carta che avevo chiesto era stata destinata ad uno scopo diverso da quello che avevo dichiarato. Ma se, come appariva chiaro, non era servita alla mia confessione, che cosa ne avevo fatto?
Pur non avendo immaginato di suscitare tante inquietudini, sentii comunque che non si doveva trovare nella mia cella uno scritto di tale importanza. In un primo momento pensai di cucirlo nel traversino o nei materassi, poi di nasconderlo fra gli abiti, di sotterrarlo in giardino, di buttarlo nel fuoco. Non immaginerete mai quale fosse la mia fretta di scriverlo e l’imbarazzo che mi creò quando fu scritto. Prima lo sigillai, poi me lo infilai in seno e mi recai all’uffizio che stava suonando. La mia inquietudine era tale che ogni mio movimento la tradiva. Ero seduta accanto a una giovane monaca che mi voleva bene; a volte mi era capitato di cogliere la pietà nel suo sguardo e di vederla piangere per me. Non mi rivolgeva mai la parola, ma certamente soffriva delle mie pene. Noncurante di ciò che poteva accadere, decisi di affidarle il mio memoriale. In un momento di preghiera, durante il quale tutte le monache si inginocchiano curvandosi fino a sembrare immerse nei loro stalli, mi sfilai delicatamente il plico dal petto e glielo tesi dietro di me. Ella lo prese e a sua volta se lo nascose in petto. Fu questo il favore più grande fra quanti ne avevo ricevuti da lei e che già erano assai numerosi: per mesi interi, senza compromettersi, si era data da fare per rimuovere tutti i piccoli ostacoli che venivano frapposti fra me e i miei doveri per avere il diritto di castigarmi. Veniva a bussare alla mia porta quando era l’ora di uscire; rimetteva ordine dove era stato creato disordine; andava a suonare o a rispondere quando era necessario, si trovava ovunque mi dovevo trovare io. Io ignoravo tutto ciò.
Avevo scelto il partito migliore. Quando uscimmo dal coro, la superiora mi disse:
“Suor Susanna, seguitemi.”
La seguii; poi, fermandosi davanti a un’altra porta:
“Ecco,” mi disse, “la vostra cella. Quella dove dormivate prima, la prenderà suor San Girolamo.”
Entrai, e lei entrò con me. Stavamo entrambe sedute senza parlare quando apparve una monaca con degli indumenti che posò su una sedia.
La superiora mi disse allora:“Suor Santa Susanna, spogliatevi e indossate questi abiti.”
Obbedii in sua presenza mentre lei seguiva attenta tutti i miei movimenti.
La suora che aveva portato quegli indumenti era già sulla porta. Tornò indietro, prese quelli che mi ero tolti ed uscì. La superiora la seguì. Non mi fu detto il perché di tutto quell’armeggiare, né io lo chiesi. Nel frattempo la mia cella era stata accuratamente frugata; materassi e guanciale erano stati scuciti; fu spostato tutto ciò che si poteva spostare o che si supponeva lo fosse stato. Ripercorsero i miei passi: verso il confessionale, in chiesa, in giardino, al pozzo, verso la panchina di pietra. Io stessa vidi una parte di quelle ricerche. Il resto, lo sospettai. Non trovarono niente. Rimasero peraltro convinte che c’era qualcosa. Continuarono a spiarmi per diversi giorni.
Andavano dove ero andata, scrutando ovunque, ma invano. Alla fine la superiora si persuase che la verità l’avrebbe saputa soltanto da me. Un giorno entrò nella mia cella e mi disse:
“Suor Susanna, avete dei difetti, ma non quello di mentire. Ditemi dunque la verità: che cosa ne avete fatto di tutta la carta che vi ho dato.”
“Signora, ve l’ho già detto.”
“Non può essere. Me ne avete chiesta molta e non siete rimasta al confessionale che pochi istanti.”
“È vero.”
“Allora, che cosa ne avete fatto?”
“Quello che vi ho detto.”
“Se è così, giurate per la santa obbedienza votata a Dio che questa è la verità e io vi crederò, nonostante le apparenze.”
“Non vi è concesso, signora, esigere un giuramento per cosa di così lieve importanza, né a me è consentito farlo. Non posso giurare.”
“Voi mi ingannate, suor Susanna, e non sapete a quali rischi vi esponete. Che cosa avete fatto della carta che vi ho dato?”
“Ve l’ho detto.”
“Dov’è?”
“Non l’ho più.”
“Che cosa ne avete fatto?”
“Ciò che si fa di quella specie di scritti che diventano inutili quando hanno servito al loro scopo.”
“Giuratemi, per la santa obbedienza, che tutta la carta è servita a scrivere la vostra confessione e che non l’avete più.”
“Vi ripeto, signora, che non posso giurare, giacché questa seconda cosa non è più importante della prima.”
“Giurate,” mi disse, “o...”
“Non giurerò.”
“Non giurerete?”
“No, signora.”
“Allora, siete colpevole?”
“E di che cosa posso essere colpevole?”
“Di tutto; non vi è niente di cui non siate capace. Avete ostentato di lodare colei che mi ha preceduta, per umiliarmi; di avere in spregio gli usi che aveva proscritto, le leggi che aveva abolito e che io ho creduto opportuno ristabilire; avete istigato alla ribellione tutta la comunità; avete infranto le regole; avete seminato discordia, avete mancato a tutti i vostri doveri costringendomi a punirvi e a punire quelle che avete sobillato, e questa è la cosa che mi costa di più. Avrei potuto infierire contro di voi ricorrendo ai sistemi più duri; vi ho risparmiata, ho creduto che avreste riconosciuto i vostri torti, che avreste ritrovato la disposizione d’animo che conviene al vostro stato, e che sareste tornata a me. Non l’avete fatto. Nel vostro animo accadono cose non lodevoli; avete dei progetti; l’interesse del convento esige che io li conosca e li conoscerò, ve lo garantisco io. Suor Susanna, ditemi la verità.”
“Ve l’ho detta.”
“Adesso me ne vado, ma farete bene a temere il mio ritorno... Mi metto a sedere, vi concedo ancora un momento per decidervi... Le vostre carte, se esistono...”
“Non le ho più.”
“Oppure il giuramento che contenevano soltanto la vostra confessione.”
“Non lo posso fare.”
Rimase un momento in silenzio, poi uscì e tornò con quattro delle sue favorite che avevano l’aria smarrita e furente. Mi gettai ai loro piedi, implorai la loro misericordia. Gridavano tutte insieme:
“Nessuna misericordia, signora! Non vi lasciate commuovere: che consegni le sue carte o che se ne vada in pace.”
Abbracciavo ora i ginocchi dell’una, ora dell’altra. Chiamandole per nome, dicevo:
“Suor Santa Agnese, suor Santa Giulia, che cosa vi ho fatto? Perché aizzate la superiora contro di me? Mi sono forse comportata così, io? Quante volte non ho interceduto per voi? Lo avete dimenticato. E voi eravate in colpa, mentre io non lo sono.”
La superiora, immobile, mi guardava e mi diceva:
“Consegna le tue carte, sciagurata, o rivela ciò che contenevano.”
“Signora,” le dicevano, “non gliele chiedete più; siete troppo buona; voi non la conoscete; è un’anima indocile che non si può domare se non ricorrendo a estremi rimedi. È lei che vi costringe. Peggio per lei.”
“Mia cara madre,” le dicevo, “non ho fatto niente che possa offendere Dio o gli uomini, ve lo giuro.”
“Non è questo il giuramento che voglio.”
“Ha scritto di sicuro contro di voi, contro di noi; un memoriale al gran vicario, all’arcivescovo, e Dio sa come avrà descritto la vita dentro il convento. È facile credere al male! Signora, dobbiamo domare questa creatura, se non volete che sia lei a disporre di noi.”
La superiora aggiunse:
“Vedete, suor Susanna...”
Mi alzai bruscamente e le dissi:
“Ho visto tutto, signora; capisco bene che mi sto perdendo, ma un momento prima o un momento dopo, non vale la pena di stare a pensarci. Fate di me quel che volete; date ascolto al loro furore, consumate pure la vostra ingiustizia.” Senza attendere, tesi loro le braccia. Le sue compagne le afferrarono. Mi strapparono il velo; mi spogliarono senza pudore. Sul petto mi trovarono un ritrattino della mia superiora.
Lo presero. Le supplicai di lasciarmelo baciare ancora una volta; me lo rifiutarono. Mi buttarono addosso una camicia, mi levarono le calze, mi coprirono con un sacco, e con la testa e i piedi nudi, mi fecero percorrere i corridoi. Gridavo, chiedevo aiuto, ma avevano fatto suonare la campana per avvertire che nessuno si facesse vedere. Invocavo il cielo, cadevo per terra, e allora mi trascinavano. Quando arrivai in fondo alle scale, avevo i piedi insanguinati e le gambe piene di lividi. Ero in uno stato tale da commuovere un cuore di sasso. Intanto avevano aperto con delle grosse chiavi un piccolo sotterraneo buio, dove mi gettarono su una stuoia imputridita dall’umidità. Vi trovai un pezzo di pane nero e una brocca d’acqua oltre a qualche vaso indispensabile e grossolano. La stuoia arrotolata a un’estremità fungeva anche da guanciale. Su un blocco di pietra c’era un teschio con un crocifisso di legno.
Il mio primo impulso fu quello di uccidermi; mi portai le mani alla gola, mi strappai gli abiti con i denti, gridai orrendamente, urlai come una belva. Battei la testa contro le pareti, mi coprii di sangue. Cercai di distruggermi finché le forze non mi mancarono. Non ci volle molto tempo. Fu lì che trascorsi tre giorni, e credevo che vi sarei rimasta per tutta la vita. Ogni mattina veniva una delle mie aguzzine, e mi diceva:
“Obbedite alla vostra superiora, e uscirete presto di qui.”
“Non ho fatto niente, non so quello che vogliono da me. Ah, suor San Clemente, vi è un Dio...”
Il terzo giorno, verso le nove di sera, fu aperta la porta: erano le stesse suore che mi avevano portata lì. Dopo aver fatto l’elogio della virtù della nostra superiora, mi annunciarono che ella mi faceva grazia e che mi avrebbero rimessa in libertà.
“È troppo tardi,” dissi, “lasciatemi, voglio morire qui.”
Frattanto mi avevano sollevata e mi trascinavano via. Mi portarono nella mia cella, dove trovai la superiora.
“Mi sono rivolta a Dio perché mi illuminasse sulla vostra sorte ed Egli mi ha toccato il cuore: vuole che io abbia pietà di voi e gli obbedisco. Mettetevi in ginocchio e chiedetegli perdono.”
Mi misi in ginocchio e dissi:
“Mio Dio, vi chiedo perdono delle colpe che ho commesso, come voi lo chiedeste per me sulla croce.”
“Che orgoglio!” esclamarono. “Si paragona a Gesù Cristo sulla croce e paragona noi ai Giudei che l’hanno crocifisso.”
“Non considerate me,” dissi loro, “ma considerate voi stesse e giudicate.”
“Non basta,” affermò la superiora,“giuratemi per la santa obbedienza, che non parlerete mai di quello che è accaduto.”
“Ciò che avete fatto è dunque molto grave, se esigete ch’io giuri di mantenere il silenzio? Nessuno, se non la vostra coscienza, ne saprà mai niente, ve lo giuro.”
“Lo giurate?”
“Sì, ve lo giuro.”
Dopo di che mi spogliarono delle vesti che mi avevano dato e mi lasciarono rivestire con le mie.
L’umidità mi era penetrata nelle ossa; ero in condizioni critiche. Avevo il corpo coperto di lividi; da diversi giorni non avevo preso che qualche goccia d’acqua e un po’ di pane. Credetti che quella persecuzione sarebbe stata l’ultima che avrei dovuto sopportare. Tale è l’effetto momentaneo di quelle scosse violente le quali mostrano quale sia la forza della natura nelle persone ancor giovani: mi ristabilii in pochissimo tempo e quando ricomparvi trovai tutta la comunità convinta che fossi stata malata.
Ripresi gli esercizi del convento e il mio posto in chiesa.
Non avevo dimenticato le mie carte, né la giovane monaca alla quale le avevo affidate. Ero sicura che aveva ben custodito il mio deposito, ma che non lo aveva tenuto senza una certa inquietudine. Alcuni giorni dopo che fui uscita di prigione, nel coro, proprio nel momento in cui glielo avevo dato, e cioè allorché ci mettiamo in ginocchio e piegate le une verso le altre scompariamo negli stalli, mi sentii tirare piano piano per l’abito. Tesi la mano e mi fu consegnato un biglietto che conteneva queste poche parole:
“Come sono stata in pensiero per voi! E di queste carte crudeli che cosa ne devo fare?”
Dopo averlo letto lo appallottolai fra le mani e lo inghiottii. Tutto questo accadeva all’inizio della Quaresima. Si avvicinava il tempo in cui la curiosità di ascoltarci richiama a Longchamp la buona e la cattiva società di Parigi. Avevo una voce molto bella che non si era sciupata. È proprio nei conventi che si bada ai minimi interessi: ebbero per me qualche riguardo, godetti di un po’ più di libertà; le monache che istruivo nel canto poterono avvicinarmi senza doverne subire le conseguenze.
Quella a cui avevo affidato il mio memoriale era fra queste; nelle ore di ricreazione che trascorrevamo in giardino, la prendevo in disparte, la facevo cantare, e mentre cantava le dicevo:
“Voi conoscete molta gente, io non conosco nessuno. Non vorrei che vi comprometteste; preferirei morire piuttosto che esporvi al sospetto di avermi aiutata.
Voi sareste perduta, amica mia, lo so, e questo non mi salverebbe. E anche se la vostra perdita rappresentasse la mia salvezza, io non la vorrei a questo prezzo.”
“Lasciamo stare,” mi disse, “che cosa avete fatto del mio biglietto?”
“State tranquilla, l’ho inghiottito.”
“State tranquilla anche voi, mi occuperò del vostro caso.”
Notate bene, signore, che mentre lei mi parlava, io cantavo, che lei cantava mentre io rispondevo e che la nostra conversazione era inframmezzata da pezzi di canto.
Quella giovane, signore, è ancora nel convento e la sua sorte è fra le vostre mani.
Se si venisse a scoprire quanto ha fatto per me, non le sarebbe risparmiato nessun tormento. Non vorrei averle aperto la porta di una segreta. Preferirei essere io a tornarvi.
Perciò, signore, bruciate queste lettere. Se si eccettua l’interesse che vorrete dimostrare per la mia sorte, esse non contengono niente che valga la pena di esser conservato. Ecco quello che vi dicevo allora, ma ahimè! la mia giovane amica non è più di questo mondo, e io sono sola.
Ella non tardò a mantenere la parola e a tenermi informata secondo il nostro solito sistema. Giunse la settimana santa: vi fu una notevole affluenza di pubblico alle “tenebre” 21. Cantai abbastanza bene da suscitare il fragore di quegli applausi scandalosi tributati ai vostri attori nei teatri e che non dovrebbero mai essere sentiti nei templi del Signore, soprattutto durante i giorni solenni e tristi in cui si celebra la memoria di suo figlio inchiodato sulla croce per l’espiazione delle colpe del genere umano. Le mie giovani allieve erano ben preparate; alcune avevano una bella voce; quasi tutte erano dotate di espressione e buon gusto e mi parve che il pubblico le avesse ascoltate con piacere e che la comunità fosse soddisfatta del successo dovuto ai miei sforzi.
Voi sapete, signore, che il giovedì si trasporta il Santissimo
dal suo tabernacolo ad un sepolcro particolare dove esso rimane
fino al venerdì mattina. Durante quest’intervallo di tempo si
susseguono le adorazioni delle monache che si recano al sepolcro
l’una dopo l’altra, oppure a due a due. Su una tabella viene
indicata a ciascuna la propria ora di adorazione. Come fui felice
di leggervi: Suor Santa Susanna e suor Sant’Orsola, dalle 2 alle
3 del mattino.
Mi recai dunque al sepolcro all’ora stabilita;
la mia compagna vi si trovava di già. Ci mettemmo l’una accanto
all’altra sui gradini dell’altare; ci prosternammo insieme,
adorammo Dio per una mezz’ora. A questo punto, la mia giovane amica
mi tese la mano e strinse la mia dicendo: “Forse non avremo mai l’occasione di stare insieme
tanto a lungo e tanto liberamente; Dio sa in quali costrizioni
viviamo e ci perdonerà se gli prendiamo un po’ del tempo che
dovremmo dedicare a Lui. Non ho letto il vostro memoriale, ma non è
difficile immaginare ciò che contiene.
Presto avrò la risposta, ma qualora vi autorizzi a procedere allo scioglimento dei vostri voti, non pensate che dovrete necessariamente conferire con uomini di legge?”
“È vero.”
“E che avrete bisogno di libertà?”
“È vero.”
“E che se intendete far bene, approfitterete della condizione attuale per procurarvela?”
“Ci ho pensato.”
“Allora lo farete?”
“Vedrò.”
“Ancora una cosa: se la vostra iniziativa prende l’avvio, rimarrete qui abbandonata a tutto il furore della comunità. Avete previsto le persecuzioni che vi attendono?”
“Non saranno peggiori di quelle che ho già subito.”
“Non ne sono sicura.”
“Perdonatemi. In primo luogo non oseranno privarmi della mia libertà.”
“E perché?”
“Perché allora sarò sotto la protezione della legge; dovranno far sì che mi vedano; sarò, per così dire, tra il mondo e il chiostro; avrò la possibilità di parlare, quella di fare le mie rimostranze; vi chiamerò tutte a testimoni. Non oseranno farmi dei torti dei quali potrei lamentarmi; staranno attenti a non rendere il caso ancor peggiore.
Io non chiederei di meglio che di essere trattata male, ma non lo faranno. State tranquilla che assumeranno un contegno del tutto opposto a quello adottato finora. Mi rivolgeranno esortazioni; mi spiegheranno il torto che farò a me stessa e al convento e potete star certa che passeranno alle minacce soltanto quando avranno visto che dolcezza e seduzione non serviranno a niente, e avranno escluso di far ricorso alla forza.”
“È davvero incredibile che nutriate tanta avversione per uno stato di cui adempite gli obblighi con una tale facilità e un tale scrupolo.”
“Ma io la sento questa avversione; è nata con me, e non mi lascerà. Finirei con l’essere una cattiva monaca; e devo prevenire quel momento.”
“E se per disgrazia non ce la farete?”
“Se non ce la farò, chiederò di cambiare convento, oppure morirò in questo.”
“Si soffre a lungo prima di morire. Ah, amica mia, il vostro passo mi fa fremere: tremo nel timore che i vostri voti non siano sciolti, ma tremo anche al pensiero che lo siano. In tal caso, che ne sarà di voi? Che farete nel mondo? Siete bella, ricca di spirito e di qualità, ma dicono che tutto questo non serve a niente con la virtù. Ed io so che voi sarete sempre virtuosa.”
“Voi rendete giustizia a me, ma non alla virtù. Io faccio assegnamento soltanto su di essa: più è rara fra gli uomini, tanto più deve essere tenuta in considerazione.”
“La si loda, ma non si fa niente per essa.”
“Ma è la virtù che mi incoraggia e mi sostiene nel mio progetto. Potranno farmi qualunque obiezione, ma dovranno rispettare i miei costumi. Almeno non si dirà, come si dice di quasi tutte le altre, che io sia stata indotta ad abbandonare il mio stato dietro la spinta di una passione sfrenata. Non vedo nessuno, non conosco nessuno. Chiedo di essere libera, perché il sacrificio della mia libertà non è stato volontario. Avete letto il mio memoriale?”
“No, ho aperto il pacchetto che mi avete dato perché era senza indirizzo e ho pensato che potesse essere per me, ma sin dalle prime righe ho capito di che si trattava e non sono andata avanti. Che felice ispirazione aveste nel darmelo! Un minuto dopo, l’avrebbero trovato su di voi... Ma ormai il nostro turno sta per finire: inginocchiamoci, affinché le monache che prenderanno il nostro posto, ci trovino nella posizione dovuta.
Chiedete a Dio che vi illumini e vi guidi; unirò ai vostri sospiri i miei sospiri e la mia preghiera.”
La mia anima era un po’ sollevata. La mia compagna pregava eretta; io mi prosternai con la fronte appoggiata sull’ultimo gradino dell’altare e le braccia tese sui gradini superiori. Non credo di essermi mai rivolta a Dio con maggior consolazione e maggior fervore. Il cuore mi palpitava con violenza; in un attimo dimenticai tutto quello che mi circondava. Non so per quanto tempo rimasi in quella posizione, né per quanto ancora vi sarei rimasta, ma dovette essere uno spettacolo davvero commovente per la mia compagna e le due suore che sopraggiunsero. Quando mi rialzai, credetti di essere sola. Mi sbagliavo: erano tutte e tre in piedi dietro le mie spalle, e si scioglievano in lacrime. Non avevano osato interrompermi; aspettavano che uscissi spontaneamente dallo stato di trasporto e di rapimento in cui mi vedevano. Quando mi voltai dalla loro parte, il mio volto doveva esprimere qualcosa che incuteva rispetto, a giudicare dall’effetto che produsse su di loro e da quello che poi mi dissero, e cioè che in quel momento assomigliavo alla nostra superiora di prima quando ci consolava, e che il vedermi aveva provocato in loro lo stesso trasalimento. Se avessi avuto una qualche inclinazione per l’ipocrisia o il fanatismo, e se avessi voluto impormi nel convento, sono certa che vi sarei riuscita. La mia anima si accende facilmente, si esalta, si commuove; quella stessa buona superiora mi ha detto cento volte abbracciandomi che nessuno avrebbe amato Dio come me, che io avevo un cuore di carne, mentre le altre lo avevano di pietra. Non vi è dubbio che condividevo la sua estasi con estrema facilità; e che durante le sue preghiere ad alta voce, mi accadeva a volte di rubarle la parola, di seguire il filo delle sue idee e, come per ispirazione, di ritrovarmi a dire ciò che lei stessa avrebbe detto. Le altre l’ascoltavano in silenzio o la seguivano; io invece la interrompevo, o la anticipavo, o parlavo con lei. Molto a lungo durava in me l’impressione che avevo ricevuta; evidentemente dovevo restituirgliene una parte, giacché se nelle altre si vedeva che avevano conversato con lei, in lei si vedeva che aveva parlato con me. Ma che vuol dire quando non c’è vocazione?...
Finito il nostro turno, cedemmo il posto alle monache che venivano dopo di noi.
Prima di separarci, la mia giovane compagna ed io ci abbracciammo con grande tenerezza.
La scena del sepolcro fece rumore in convento; si aggiunga il successo ottenuto con le “tenebre” del venerdì santo: cantai, suonai, fui applaudita. Oh, teste folli delle monache! Non ebbi quasi niente da fare per riconciliarmi con tutta la comunità; furono loro a venirmi incontro, con la superiora in testa. Alcune persone del gran mondo cercarono di fare la mia conoscenza. Ciò collimava troppo bene con il mio progetto perché potessi rifiutarmi. Conobbi così il Primo Presidente, la signora di Soubise, e una quantità di gente dabbene, frati, preti, militari, magistrati, donne pie, donne di mondo e fra gli altri quella specie di giovani vanesi che voi chiamate tacchi rossi e che io mi affrettai a congedare. Non coltivai altre conoscenze se non quelle che non potevano venirmi rimproverate; il resto, lo abbandonai a quelle fra le nostre consorelle che non erano di gusti tanto difficili.
Dimenticavo di dirvi che il primo segno di bontà che mi testimoniarono, fu quello di riassegnarmi la mia cella. Ebbi il coraggio di richiedere il ritrattino della nostra superiora di prima, e loro non ebbero il coraggio di rifiutarmelo. Ha ripreso il suo posto sul mio cuore e vi resterà finché avrò vita. Tutte le mattine il mio primo impulso è quello di elevare l’anima a Dio, il secondo è quello di baciare quel ritratto; quando voglio pregare e sento la mia anima indifferente, me lo tolgo dal collo, me lo metto davanti, lo guardo e ne ricevo ispirazione. È davvero peccato che non abbiamo conosciuto i santi personaggi le cui immagini sono esposte alla nostra venerazione.
Farebbero una ben altra impressione su di noi; non ci lascerebbero così freddi ai loro piedi o in loro presenza.
Ebbi la risposta al mio memoriale. Veniva da un certo signor Manouri e non era né favorevole, né sfavorevole. Prima di pronunciarsi sul caso, mi chiedeva un gran numero di delucidazioni che non avrei potuto dargli se non di persona. Svelai perciò la mia identità e invitai il signor Manouri a venire a Longchamp. Quel genere di signori si sposta difficilmente. Tuttavia venne. Ci intrattenemmo molto a lungo: prendemmo accordi circa una corrispondenza con la quale mi avrebbe fatto pervenire con sicurezza le sue domande e io gli avrei mandato le mie risposte. Per parte mia dedicai tutto il tempo che egli consacrava al mio caso, a ben disporre gli animi, a interessare gente alla mia sorte e a procurarmi delle protezioni. Mi feci conoscere; raccontai il mio comportamento nel primo convento, le mie pene tra le mura domestiche, la mia protesta a Santa Maria, il mio soggiorno a Longchamp, la vestizione, la professione dei voti, la crudeltà con la quale ero stata trattata da quando li avevo pronunciati. Mi compiansero, mi offrirono aiuto; presi atto della buona volontà che mi veniva testimoniata per il tempo in cui avrei potuto averne bisogno senza fornire ulteriori spiegazioni. Nel convento non era ancora trapelato niente. Avevo già ottenuto da Roma il permesso di fare ricorso contro i miei voti, ben presto l’azione sarebbe stata intentata e in convento nessuno sospettava niente. Vi lascio quindi immaginare quale fu la sorpresa della mia superiora quando le fu notificata, a nome di suor Maria Susanna Simonin, una protesta contro i suoi voti, con la richiesta di lasciare l’abito monastico e di uscire dal chiostro per disporre di se stessa come meglio avesse creduto.
Avevo ben previsto che avrei trovato innumerevoli opposizioni: quella delle leggi, quelle del convento, e quella dei miei cognati e delle mie sorelle allarmati.
Avevano ereditato tutti i beni di famiglia e temevano che una volta libera mi sarei rivalsa su di loro. Scrissi alle mie sorelle, feci appello alla loro coscienza, ricordando come i voti mi fossero stati imposti; offrii loro di rinunciare con atto autenticato a tutte le mie pretese sull’eredità di mio padre e di mia madre. Non lasciai niente di intentato per convincerle che non si trattava di un passo dettato dall’interesse o dalla passione.
Non mi feci illusioni circa i loro sentimenti; l’atto da me proposto, redatto mentre ero ancora vincolata dai voti, non sarebbe stato valido, ed esse non avevano alcuna certezza che lo avrei ratificato quando fossi stata libera. E poi, che convenienza avevano ad accettare le mie proposte? Potevano lasciare una sorella senza asilo e senza fortuna?
Avrebbero potuto godere del suo patrimonio? Che cosa avrebbe detto la gente? Se venisse a chiederci un pezzo di pane, come potremmo rifiutarglielo? E se le fosse saltato in mente di sposarsi, chissà che genere di uomo avrebbe sposato? E se avesse avuto dei figli?... Dobbiamo opporci con tutte le nostre forze a questo pericoloso tentativo. Ecco ciò che dissero e ciò che fecero.
Appena la superiora ebbe ricevuto l’atto giuridico della mia domanda, accorse nella mia cella:
“Ma come, suor Susanna,” mi disse, “volete lasciarci?”
“Sì, signora.”
“E farete ricorso contro i vostri voti?”
“Sì, signora.”
“Non li avete forse pronunciati liberamente?”
“No, signora.”
“E chi vi ha costretta?”
“Tutto.”
“Il vostro signor padre?”
“Mio padre, sì.”
“La vostra signora madre?”
“Proprio lei.”
“E perché non protestare ai piedi dell’altare?”
“Ero così poco in me, che non ricordo nemmeno di averci assistito alla cerimonia.”
“Come potete parlare così?”
“Dico la verità.”
“Come! Non avete sentito il sacerdote quando vi chiedeva: “Suor Santa Susanna Simonin, promettete a Dio obbedienza, castità e povertà?””
“Non lo ricordo.”
“E voi credete che gli uomini vi crederanno?”
“Mi credano o non mi credano, non per questo i fatti saranno meno veri.”
“Figliola mia, se venisse dato ascolto a pretesti simili, immaginate quali abusi ne deriverebbero! Avete fatto un passo sconsiderato; vi siete lasciata trascinare da un desiderio di vendetta; provate rancore per i castighi che mi avete costretta ad infliggervi; avete creduto che sarebbero stati sufficienti per sciogliere i vostri voti. Vi siete sbagliata: non è possibile, né davanti a Dio, né davanti agli uomini. Pensate che lo spergiuro è la peggiore delle colpe. Pensate che voi l’avete già commessa nel vostro cuore, e ora state per consumarla nei fatti.”
“Non sarò spergiura. Non ho giurato niente.”
“Se vi è stato fatto qualche torto, non è già stato riparato?”
“Non sono stati quei torti a farmi decidere.”
“Che cosa è stato allora?”
“La mancanza di vocazione, la mancanza di libertà nei miei voti.”
“Se non eravate chiamata, se eravate costretta, perché non lo diceste quando era tempo?”
“E a che cosa mi sarebbe servito?”
“Perché non dimostraste la stessa fermezza che avevate dimostrato a Santa Maria?”
“La fermezza dipende forse da noi? Fui ferma la prima volta; la seconda ero come inebetita.”
“Perché non avete consultato un uomo di legge? Perché non avete protestato?
Avete avuto ventiquattro ore di tempo per constatare il vostro ripensamento.”
“Che cosa ne sapevo, io, di queste formalità? E anche se le avessi sapute, ero forse in grado di fare ricorso? E se anche fossi stata in grado di fare ricorso, l’avrei forse potuto? Ma come, signora! Voi stessa non vi siete resa conto della mia alienazione? Se vi chiamo a testimone, giurerete che ero in possesso di tutte le mie facoltà mentali?”
“Lo giurerò.”
“Ebbene, signora, sarete voi, e non io, la spergiura.”
“Figliola mia, farete uno scandalo inutile. Tornate in voi, ve ne scongiuro per il vostro interesse, per quello del convento; queste cose non accadono senza portarsi dietro uno strascico di discussioni scandalose.”
“Non sarà colpa mia.”
“La gente è cattiva: farà le peggiori supposizioni sul vostro spirito, sul vostro cuore, sui vostri costumi; crederanno...”
“Credano pure ciò che vogliono.”
“Suvvia, parlatemi a cuore aperto; se avete qualche segreta ragione d’essere scontenta, qualunque essa sia, c’è un rimedio a tutto.”
“Ero, sono, e sarò per tutta la vita, scontenta del mio stato.”
“E se fosse lo spirito maligno che è sempre attorno a noi e vuole la nostra perdita, che approfitta della troppo grande libertà che vi è stata concessa da qualche tempo, per ispirarvi tendenze funeste?”
“No, signora; voi sapete quanto mi costi un giuramento: ebbene, chiamo Dio a testimone che il mio cuore è innocente e che non ha mai nutrito nessun sentimento di cui dovessi vergognarmi.”
“È inconcepibile.”
“Eppure, signora, non vi è nulla di più concepibile. Ciascuno ha il proprio carattere, ed io ho il mio. A voi piace la vita monastica, io la odio; voi avete ricevuto da Dio la grazia del vostro stato, io non ne ho alcuna. Nel mondo, voi vi sareste perduta, e qui vi assicurate la salvezza eterna; io invece mi perderei qui, e spero di salvarmi nel mondo. Sono e sarei una cattiva monaca.”
“E perché? Nessuno adempie i propri doveri meglio di voi.”
“Ma a fatica, e controvoglia.”
“Il vostro merito è ancor più grande.”
“Nessuno può sapere meglio di me quello che merito, e sono costretta a riconoscere che sottomettendomi a tutto, io non merito niente. Sono stanca di essere ipocrita; facendo ciò che salva le altre, mi detesto e mi danno. In poche parole, signora, non conosco vere suore se non quelle che sono trattenute qui dentro dal loro amore per la vita ritirata e che vi resterebbero anche se non fossero circondate da grate e mura per trattenerle. Sono molto lontana da loro! Il mio corpo è qui, ma non il mio cuore; esso è fuori, e se dovessi scegliere tra la morte e la clausura perpetua, non esiterei a morire.
Ecco quello che penso.”
“Come! voi lascereste senza rimorsi questo velo, questi abiti che vi hanno consacrata a Cristo?”
“Sì, signora, perché li ho presi senza riflessione e senza libertà...”
In verità le risposi con molta moderazione se penso a quello che mi suggeriva il cuore. Esso mi diceva: “Oh, quando giungerà il momento in cui potrò stracciarli e buttarli lontano da me!”
Ciò nonostante, la mia risposta la scosse. La superiora impallidì, tentò ancora di parlare, ma le sue labbra tremavano; non sapeva bene nemmeno lei che cosa dirmi. Io misuravo a gran passi la cella, ed ella allora esclamò:
“Oh, mio Dio! che diranno le nostre sorelle? Oh, Gesù! volgete su di lei uno sguardo pietoso! Suor Santa Susanna?”
“Signora?”
“Ma allora, è un partito preso? Voi volete disonorarci, farci diventare la favola pubblica, perdervi!”
“Voglio uscire di qui.”
“Ma se è solamente perché questo convento non vi piace...”
“È questo convento, è il mio stato, è la religione; non voglio essere rinchiusa ne qui, né altrove.”
“Figliola mia, voi siete posseduta dal demonio; è lui che vi spinge alla ribellione, che vi fa parlare, che vi trascina. Non c’è niente di più vero: guardate in che stato siete!”
Mi detti un’occhiata e vidi che in effetti il mio abito era scomposto, il soggolo di traverso e che il velo mi era caduto sulle spalle. Mi infastidivano le parole di quella perfida superiora con il suo tono raddolcito e falso, e le dissi indispettita:
“No, signora, no, non voglio più saperne di questo abito, non voglio più saperne...”
Intanto cercavo di riaggiustarmi il velo; le mani mi tremavano, e più mi sforzavo di metterlo a posto, meno ci riuscivo; spazientita, lo afferrai con violenza, lo strappai, lo buttai per terra, e rimasi di fronte alla mia superiora con la fronte cinta da una fascia e tutta scapigliata. Nel frattempo lei, incerta se restare o uscire, andava e veniva dicendo:
“Oh, Gesù! questa qui è posseduta dal demonio, è davvero posseduta dal demonio...”
E l’ipocrita si faceva il segno della croce con il rosario. Non mi ci volle molto a tornare in me; sentii l’indecenza della mia condizione e l’imprudenza dei miei discorsi; mi ricomposi come meglio potei; raccattai il velo e me lo rimisi, poi, volgendomi verso di lei, le dissi:
“Signora, non sono né pazza, né posseduta dal demonio; mi vergogno della mia violenza e ve ne chiedo perdono. Ma giudicate voi stessa quanto poco mi si addica la vita del chiostro, e come sia giusto che io cerchi, se posso, di venirne fuori.”
E lei, senza ascoltarmi, ripeteva:
“Che dirà la gente? Che diranno le nostre sorelle?”
“Signora,” le dissi, “volete evitare uno scandalo? Ci sarà pure un mezzo. La dote non mi interessa; io non chiedo che la libertà. Non chiedo che voi mi apriate le porte, ma che facciate in modo, oggi, domani, nei giorni che verranno, che siano mal sorvegliate. Voi vi dovrete soltanto accorgere della mia evasione il più tardi possibile...”
“Sciagurata, che cosa osate propormi?”
“Un consiglio, che una buona e savia superiora dovrebbe seguire con tutte quelle monache per le quali il convento è una prigione. E il convento per me è una prigione mille volte più orrenda di quella in cui vengono rinchiusi i malfattori; non posso che uscirne o morirvi... Signora,” seguitai assumendo un tono grave e uno sguardo fermo,
“mi ascolti: se le leggi alle quali ho fatto appello deludessero le mie aspettative e se, spinta dagli impulsi di una disperazione che conosco fin troppo bene... c’è un pozzo... ci sono delle finestre in convento... ovunque vi sono dei muri... l’abito si può fare a pezzi... e si può anche far ricorso alle mani...”
“Basta, sciagurata! mi fate fremere d’orrore... Come! Voi potreste...”
“Potrei, in mancanza di tutto quello che mette bruscamente fine ai mali della vita, potrei rifiutare il cibo; si è padroni di mangiare e di bere, si è padroni anche di non farlo... Se mai accadesse, dopo tutto quello che vi ho detto, che io trovassi il coraggio... – e voi sapete bene che il coraggio non mi manca, e che talvolta ce ne vuole di più per vivere che per morire –, immaginatevi al cospetto di Dio e del suo giudizio, e ditemi chi, tra la superiora e la monaca, gli sembrerebbe più colpevole... Io, signora, non chiedo e non chiederò mai niente al convento; risparmiatemi una colpa, risparmiatevi dei lunghi rimorsi: mettiamoci d’accordo...
“Ma vi rendete conto, suor Susanna? Io dovrei mancare al primo dei miei doveri, dovrei collaborare a una colpa, rendermi complice di un sacrilegio!”
“Il vero sacrilegio, signora, sono io che lo commetto tutti i giorni profanando con il disprezzo gli abiti sacri che indosso. Toglietemeli, non ne sono degna; fate cercare in paese gli stracci della contadina più povera, e fate in modo che la porta della clausura mi venga socchiusa...”
“E dove andrete per stare meglio?”
“Non so dove andrò, ma si sta male soltanto laddove Dio non ci vuole, e Dio, qui, non mi vuole.”
“Non possedete niente.”
“È vero, ma l’indigenza non è la cosa che mi fa più paura.”
“Abbiate almeno paura dei disordini ai quali essa trascina.”
“Il passato, signora, si fa garante dell’avvenire; se avessi voluto dare ascolto al peccato, ora sarei libera. Ma se mi sarà dato di uscire da questo convento, ciò avverrà con il vostro consenso, o per l’autorità delle leggi. Avete la scelta.”
Era stata una lunga discussione. Nel ricordarla, arrossisco delle cose indiscrete e ridicole che avevo fatto e detto, ma ormai era troppo tardi. La superiora stava ancora esclamando “che dirà la gente! che diranno le nostre sorelle!”, allorché la campana che ci chiamava all’uffizio ci avvertì che era giunto il momento di separarci.
Nel lasciarmi, la superiora mi disse:
“Suor Santa Susanna, adesso state per andare in chiesa: chiedete a Dio che vi tocchi il cuore e che vi renda la consapevolezza del vostro stato. Interrogate la vostra coscienza e ascoltate ciò che essa vi dirà: è impossibile che non vi faccia dei rimproveri.
Vi dispenso dal canto.”
Scendemmo a poca distanza l’una dall’altra. Quando l’uffizio ebbe termine, mentre tutte le suore stavano per separarsi, la superiora dette un colpetto sul suo breviario che le fece fermare.
“Sorelle,” disse, “vi invito a prosternarvi ai piedi dell’altare e ad implorare la misericordia di Dio su una monaca che egli ha abbandonato, che ha perduto l’amore e lo spirito della religione, e che sta per compiere un’azione sacrilega agli occhi di Dio e scandalosa agli occhi degli uomini.”
Non saprei descrivervi la sorpresa generale; in un batter d’occhio ciascuna di loro, senza muoversi, scrutò il viso delle sue compagne cercando di individuare la colpevole dal suo imbarazzo. Si prosternarono tutte quante e pregarono in silenzio.
Dopo un lasso di tempo abbastanza lungo, la priora intonò a bassa voce il Veni Creator e le monache ripresero a bassa voce il Veni Creator. Poi, dopo un altro momento di silenzio, la superiora batté sul leggio e tutte quante uscimmo.
Vi lascio immaginare il mormorio che si levò dalla piccola comunità “Chi è? chi non è? che cosa ha fatto? Che cosa vuol fare?...” Gli interrogativi non durarono a lungo.
La mia domanda cominciava a fare scalpore in società; ricevevo continuamente visite: chi veniva a rimproverarmi, chi a darmi consigli, chi mi approvava, chi mi biasimava.
Avevo un solo modo per giustificarmi agli occhi di tutti, ed era di metterli al corrente della condotta dei miei genitori. Non vi sarà difficile immaginare con quale riserbo lo dovessi fare. Solo a poche persone, che mi restarono sinceramente affezionate, e al signor Manouri, che si era incaricato di patrocinare la mia causa, potevo confidarmi a cuore aperto.
Quando ero spaventata dai tormenti che mi venivano minacciati, quella segreta, dove già una volta ero stata trascinata, tornava a presentarsi alla mia immaginazione in tutto il suo orrore: conoscevo bene il furore delle monache. Comunicai i miei timori al signor Manouri ed egli mi disse:
“È impossibile evitarvi ogni genere di afflizioni: ne dovrete sopportare, e sicuramente vi siete preparata. Dovete armarvi di pazienza e farvi coraggio con la speranza che finiranno. Quanto alla segreta, vi prometto che non ci tornerete mai più; ci penserò io...”
Pochi giorni dopo, infatti, presentò alla superiora l’ordine di farmi comparire ogni qualvolta fosse stato richiesto. Il giorno seguente, dopo l’uffizio, fui ancora raccomandata alle preghiere pubbliche della comunità: le monache pregarono in silenzio, e a voce bassa fu intonato lo stesso inno del giorno prima. Stessa cerimonia il terzo giorno con la differenza che mi fu ordinato di rimanere in piedi in mezzo al coro, e che furono recitate le preghiere per gli agonizzanti, le litanie dei santi, cui rispondeva ogni volta la formula ora pro ea. Il quarto giorno fu la volta di una messa in scena che caratterizzava alla perfezione l’indole bizzarra della superiora. Alla fine dell’uffizio, mi fecero sdraiare in una bara in mezzo al coro: misero dei candelieri e un’acquasantiera ai lati della bara; mi coprirono con un sudario e recitarono l’uffizio dei morti. Dopo di che ogni monaca, nell’andarsene, mi asperse di acqua benedetta, dicendo “Requiescant in pace”. Bisogna capire la lingua dei conventi per cogliere la minaccia racchiusa in queste ultime parole. Due monache sollevarono il sudario e mi lasciarono lì, con la pelle tutta bagnata dall’acqua con la quale mi avevano malignamente innaffiata. Gli abiti mi si asciugarono addosso; non avevo di che cambiarmi.
Questa mortificazione fu seguita da un’altra. La comunità si riunì; fui guardata come una reproba; il passo che avevo compiuto fu tacciato di apostasia; a tutte le suore fu proibito di parlarmi, di soccorrermi, di avvicinarmi, e persino di toccare le cose che 45fossero servite a me. Questi ordini vennero rigorosamente eseguiti. I nostri corridoi sono stretti e in alcuni punti due persone si incrociano a malapena: se mentre camminavo per i corridoi una monaca fosse venuta nella mia direzione, tornava sui suoi passi oppure si schiacciava contro la parete, tenendosi il velo e l’abito per paura che mi sfiorassero. Se dovevano ricevere qualcosa da me, io la posavo per terra e loro la prendevano con una pezzuola; se avevano qualcosa da darmi, me la buttavano. Se per disgrazia mi avevano toccato, si credevano insozzate e andavano a confessarsi e a farsi assolvere dalla superiora. È stato detto che l’adulazione è vile e bassa, ma è anche assai crudele e ingegnosa allorché si tratta di piacere grazie alle mortificazioni che inventa.
Quante volte mi sono ricordata le parole della mia celeste superiora De Moni:
“Tra tutte queste creature che vedete intorno a me, così docili, così innocenti, così dolci, sappiate, figliola mia, che non ve n’è quasi una sola, no, quasi una sola, di cui non possa fare una bestia feroce; strana metamorfosi che è tanto più facile subire quanto più si è entrate giovani in una cella e perciò meno si conosce la vita di società.
Questo discorso vi stupisce. Dio vi guardi dallo sperimentarne la verità, suor Susanna, la buona monaca è quella che porta nel chiostro qualche grave colpa da espiare.”
Mi fu tolto ogni incarico. In chiesa, gli stalli a sinistra e a destra del mio venivano lasciati vuoti. Nel refettorio, ero sola a una tavola e nessuno mi serviva; ero costretta ad andare in cucina per chiedere la mia porzione. La prima volta la suora cuciniera mi gridò:
“Non entrate, state lontana...” Le obbedii.
“Che cosa volete?”
“Da mangiare.”
“Da mangiare? Non siete degna di vivere.”
Qualche volta me ne andavo e passavo la giornata senza mangiare niente.
Qualche volta insistevo e allora mi mettevano sulla soglia certe vivande che ci si sarebbe vergognati a presentare a delle bestie; io le raccattavo piangendo e me ne andavo. Se mi capitava di arrivare per ultima alla porta del coro, lo trovavo chiuso.
Allora mi inginocchiavo e aspettavo la fine dell’uffizio. Se trovavo chiusa la porta del giardino, me ne tornavo nella mia cella. Intanto, mentre le mie forze andavano declinando per il cibo scarso, la cattiva qualità di quello che prendevo e ancor più per il dolore che provavo nel dover sopportare così innumerevoli e reiterate manifestazioni di inumanità, sentii che se avessi persistito nella sofferenza senza protestare, non avrei mai visto la fine del mio processo. Mi decisi perciò a parlare alla superiora; ero mezza morta di paura e ciò nonostante andai a bussare pian piano alla sua porta. Aprì, e nel vedermi arretrò di diversi passi, gridandomi:
“Allontanatevi, apostata!”
Indietreggiai.
“Ancora...”
Indietreggiai ancora.
“Che cosa volete?”
“Giacché né Dio, né gli uomini mi hanno condannata a morire, voglio, signora, che ordiniate di lasciarmi vivere.”
“Vivere,” mi disse, ripetendomi le parole della suora cuciniera, “ne siete forse degna?”
“Dio soltanto può saperlo, ma vi avverto che se mi rifiutano ancora il cibo, sarò costretta a fare le mie rimostranze a coloro che mi hanno presa sotto la loro protezione.
Sono qui soltanto di passaggio, in attesa che vengano decisi la mia sorte e il mio stato.”
“Andatevene,” mi disse, “non sporcatemi con i vostri sguardi; provvederò.”
Me ne andai, ed ella sbatté con violenza la porta. È probabile che abbia dato degli ordini, ma non per questo fui trattata meglio. Le monache si facevano un vanto di disobbedire; mi gettavano le vivande più grossolane e per di più le insozzavano di cenere e di ogni sorta di immondizie.
Questa fu la mia esistenza finché durò il processo. Il parlatorio non mi fu del tutto vietato; non potevano togliermi la libertà di conferire con i miei giudici o con il mio avvocato. Questi fu addirittura costretto alle minacce per poter incontrarmi. Una monaca mi accompagnava e protestava se parlavo a voce bassa; si impazientiva se restavo troppo a lungo; mi interrompeva, mi smentiva, mi contraddiceva, ripeteva i miei discorsi alla superiora, li travisava istillando veleno, attribuendomi propositi che non avevo mai espresso. Che altro? Giunsero al punto di derubarmi, di spogliarmi, togliermi sedie, coperte e materassi. Non mi davano più biancheria; gli abiti mi cadevano a brandelli, non avevo quasi più calze, né scarpe. A stento riuscivo ad ottenere dell’acqua; più di una volta sono stata costretta ad attingerla io stessa dal pozzo, da quel pozzo di cui vi ho parlato; mi ruppero i vasi e così fui ridotta a bere l’acqua che avevo tirato su senza poterla portar via. Se passavo sotto le finestre, ero costretta a scappar via per non correre il rischio di buscarmi addosso le immondizie buttate dalle celle. Alcune monache mi hanno sputato sul viso. Ero diventata di una sporcizia ripugnante. Temendo che me ne lamentassi con i nostri direttori spirituali mi proibirono di confessarmi.
Un giorno di festa solenne – era, credo, il giorno dell’Ascensione – mi bloccarono la serratura e non potei andare a messa. Forse sarei mancata a tutte le altre funzioni senza la visita del signor Manouri al quale in un primo momento fu detto che nessuno sapeva che cosa ne fosse stato di me, che non mi si vedeva più, e che non osservavo più nessuna pratica religiosa. Dopo innumerevoli sforzi, riuscii tuttavia a far saltare la serratura e mi recai alla porta del coro che trovai chiusa come accadeva ogni volta che non arrivavo tra le prime. Ero sdraiata per terra, con la testa e la schiena appoggiate contro un muro e le braccia incrociate sul petto, quando terminò la funzione e le suore si apprestarono ad uscire. La prima si fermò di botto mentre le altre arrivavano dietro di lei. La superiora immaginò subito di che cosa si trattasse e disse:
“Camminatele sopra: è soltanto un cadavere.”
Alcune obbedirono e mi calpestarono; altre furono meno disumane, ma nessuna osò tendermi la mano per rialzarmi. Mentre ne ero assente, mi tolsero dalla cella l’inginocchiatoio, il ritratto della nostra fondatrice, le altre immagini pie, il crocifisso; non mi rimase che quello appeso al rosario e che non mi fu lasciato a lungo. Vivevo dunque tra quattro muri nudi, in una camera senza porta, senza sedie, in piedi o su un pagliericcio, senza nessun vaso, nemmeno quelli più necessari, costretta a uscire di notte per soddisfare i bisogni naturali, accusata la mattina di disturbare il riposo del convento, di girovagare, di stare impazzendo. Poiché la mia cella non si poteva più chiudere, entrarono di notte facendo un gran baccano. Gridando smuovevano il letto, rompevano le finestre, mi terrorizzavano in mille modi. Il rumore saliva al piano di sopra, scendeva al piano di sotto e quelle che non prendevano parte alla gazzarra dicevano che in camera mia accadevano cose strane; che avevano sentito voci lugubri, grida, sbattere di catene e che io parlavo continuamente con fantasmi e spiriti maligni; che dovevo aver fatto un patto con il demonio e che quanto prima si sarebbe dovuto evitare il mio corridoio.
In una comunità vi sono anime semplici. Sono addirittura la maggioranza.
Queste credevano a ciò che si diceva loro, non osavano passare davanti alla mia porta e nella loro immaginazione distorta mi vedevano con una faccia ripugnante, si facevano il segno della croce quando mi incontravano e fuggivano gridando:
“Vattene, Satana! Mio Dio, aiutatemi!...”
Una volta accadde che una delle più giovani fosse in fondo al corridoio, che io andassi verso di lei, e che non ci fosse più modo di evitarmi. Fu colta da un terrore indicibile; dapprima volse il viso contro il muro, mormorando con voce tremante:
“Dio mio! Dio mio! Gesù! Maria!”
Intanto io seguitavo ad andare avanti: sentendomi vicina, si copre il viso con le mani per paura di vedermi, si butta tutta dalla mia parte, si precipita con violenza tra le mie braccia, ed esclama:
“Aiuto! Aiuto! Misericordia! Sono perduta! Suor Santa Susanna non mi fate del male; suor Santa Susanna, abbiate pietà di me...”
Così dicendo, eccola che cade mezza morta per terra. Alle sue grida accorrono, la portano via.
Non vi so dire come fu travisato quest’episodio. Se ne fece una storia delle più criminose: si disse che il demone dell’impurità si era impadronito di me. Mi furono attribuiti intenti, azioni che non oso nominare, oltre che desideri anormali ai quali fu attribuito l’evidente disordine in cui era stata trovata la giovane monaca.
A onor del vero, io non sono un uomo e ignoro che cosa si possa immaginare di una donna e di un’altra donna insieme, e ancor meno di una donna sola. Tuttavia, dato che il mio letto era senza cortine e per di più si poteva entrare in camera mia a qualunque ora, che posso dirvi, signore? Con tutto il loro ritegno esteriore, con la modestia dei loro sguardi, la castità della loro espressione, bisogna proprio che quelle donne abbiano il cuore davvero corrotto. Se non altro esse sanno che si possono commettere da sole azioni disoneste, mentre io non lo so; perciò non ho mai capito bene di che cosa mi accusassero, ed esse si esprimevano in termini così oscuri che non ho mai saputo che cosa ci fosse da rispondere.
Se dovessi riferire nei particolari quelle persecuzioni, non la farei più finita. Ah, signore! se avete dei figli, la mia sorte vi insegni che cosa preparereste loro se lasciaste che entrassero in religione senza manifestare i segni della vocazione più salda e più sicura. Come si è ingiusti nel mondo! Si permette a un figlio di disporre della propria libertà in un’età in cui non gli è consentito disporre di uno scudo. Uccidete vostra figlia piuttosto che imprigionarla in un chiostro contro la sua volontà. Quante volte ho desiderato che mia madre mi avesse soffocata alla nascita. Sarebbe stata meno crudele.
Ci credereste che mi tolsero il breviario e che mi proibirono di pregare Dio? Come ben potete immaginare, non obbedii: era, ahimé, la mia unica consolazione. Levavo le mani al cielo, gridavo, e osavo sperare che le mie grida fossero udite dal solo essere che vedeva tutta la mia miseria. Ascoltavano alla mia porta, e un giorno che mi rivolgevo a lui con il cuore pieno d’ambascia e invocavo il suo aiuto, mi dissero:
“Chiamate Dio invano, non c’è più Dio per voi. Morite disperata, e siate dannata..”
Altre aggiunsero:
“Così sia per l’apostata! Così sia per lei!”
Ma ecco un episodio che vi sembrerà ben più strano di tutti gli altri. Non so se si tratti di cattiveria o illusione; comunque sia, benché non facessi niente che rivelasse una mente malata, e a maggior ragione uno spirito ossessionato dalle forze infernali, discussero fra loro se non fosse il caso di farmi esorcizzare, e all’unanimità fu concluso che avevo rinunciato al battesimo e alla cresima, che i demoni mi possedevano e mi tenevano lontana dagli uffizi divini. Un’altra soggiunse che durante certe preghiere io digrignavo i denti, che in chiesa ero percorsa da un fremito e che all’elevazione del Santissimo mi torcevo le braccia. Un’altra ancora asserì ch’io calpestavo il crocifisso, che non portavo più il rosario (che mi avevano rubato), e proferivo bestemmie che non oso ripetervi. Tutte quante affermarono che in me accadevano cose non naturali e che si doveva avvertire il gran vicario. Così fu fatto.
Il gran vicario era un certo monsignor Hébert, uomo anziano e di grande esperienza, brusco di modi, ma giusto e illuminato. Gli fu descritto nei minimi particolari il disordine del convento. Era sicuramente un grande disordine e se io ne ero la causa, era una causa davvero innocente. Come di certo voi immaginerete, nel rapporto che gli fu consegnato, non vennero tralasciati i miei vagabondaggi notturni, le mie assenze dal coro, lo strepito nella mia cella, ciò che l’una aveva visto, ciò che l’altra aveva sentito, la mia avversione per le cose sante, le bestemmie, gli atti osceni che mi venivano imputati. Dell’avventura della giovane monaca, ne fecero poi quello che vollero. Si trattava di accuse così gravi e così numerose, che con tutto il suo buon senso, monsignor Hébert non poté fare a meno di prestarvi fede almeno in parte e non credere che vi fosse una larga parte di verità. La cosa gli pareva abbastanza importante per occuparsene di persona; fece annunciare la propria visita e infatti giunse scortato da due giovani ecclesiastici addetti alla sua persona e che lo aiutavano nelle sue difficili mansioni.
Qualche giorno prima, di notte, sentii che qualcuno entrava furtivamente nella mia cella. Non dissi niente e attesi che mi venisse rivolta la parola. Una voce bassa e tremante mi chiamava:
“Suor Santa Susanna, dormite?”
“No, non dormo. Chi è?”
“Sono io.”
“Chi voi?”
“La vostra amica che muore di paura e rischia di perdersi per darvi un consiglio forse inutile. Statemi a sentire: domani, o dopo, ci sarà la visita del gran vicario; sarete accusata: preparatevi a difendervi. Addio: fatevi coraggio e il Signore sia con voi.”
Ciò detto, si allontanò leggera come un’ombra.
Come vedete, vi sono dunque anche nei conventi anime compassionevoli che non si lasciano indurire.
Intanto il mio processo seguiva il suo corso suscitando un interesse appassionato. Una folla di persone, di ogni stato, sesso e condizione, che nemmeno conoscevo, s’interessò alla mia sorte e intercedette in mio favore. Voi foste fra questi, e forse la storia dei mio processo vi è più nota che a me, giacché verso la fine non potevo più conferire con il signor Manouri. Gli venne detto che ero malata. Sospettò che lo stessero ingannando ed ebbe paura che mi avessero gettato in una segreta. Si rivolse all’arcivescovado, dove non si degnarono di dargli ascolto. Si era insinuato che fossi pazza, o forse qualcosa di peggio. Si rivolse ai giudici; insisté sull’esecuzione dell’ordine già intimato alla superiora di farmi comparire, viva o morta, quando le fosse stato intimato. I giudici secolari interpellarono i giudici ecclesiastici; questi ultimi previdero le conseguenze che l’incidente avrebbe potuto avere, se non fossero stati presi subito dei provvedimenti e fu questo che, verosimilmente, accelerò la visita del gran vicario. Quei signori infatti, stufi delle eterne beghe di convento, di solito non si affrettano ad immischiarsene: sanno per esperienza che la loro autorità viene sempre elusa e compromessa.
Approfittai del consiglio della mia amica per invocare l’aiuto di Dio, rassicurare la mia anima e preparare la mia difesa. Non chiesi al cielo altro che la fortuna di essere interrogata ed ascoltata senza parzialità; la ottenni, ma ora sentirete a quale prezzo.
Se era nel mio interesse comparire davanti al mio giudice innocente e savia, era altrettanto importante per la mia superiora che mi vedessero cattiva, posseduta dal demonio, colpevole e pazza. Perciò, mentre io raddoppiavo in fervore e in preghiere, le mie consorelle raddoppiarono in malvagità; mi dettero da mangiare quanto bastava per non morire di fame; mi subissarono di mortificazioni; moltiplicarono intorno a me i motivi di terrore; mi privarono di ogni riposo notturno; misero in opera tutto quel che può minare la salute e turbare la mente; usarono nella crudeltà una raffinatezza di cui non avete idea. Giudicate voi stessi da questo episodio. Un giorno che uscivo dalla mia cella per andare in chiesa o da qualche altra parte, vidi delle molle per terra in mezzo al corridoio; mi chinai per raccattarle e metterle in modo che colei che le aveva smarrite potesse ritrovarle facilmente. La luce mi impedì di vedere che erano arroventate; le presi in mano, e questo bastò perché nel lasciarle ricadere mi portassero via tutta la pelle dal palmo della mano nuda. Di notte, nei posti dove dovevo passare, mettevano degli ostacoli per terra o all’altezza della testa; mi sono ferita cento volte. Non so come ho fatto a non uccidermi. Non avevo niente per farmi luce ed ero costretta a procedere tremante con le mani protese. Sotto i piedi mi seminavano bicchieri rotti.
Ero ben decisa a raccontare tutto e riuscii a mantenere più o meno la parola.
Trovavo chiusa la porta delle latrine ed ero costretta a scendere diversi piani e a correre in fondo al giardino quando la porta era aperta; quando non lo era... Ah, signore, come sono cattive le donne recluse quando sono sicure di assecondare l’odio della loro superiora e credono di servire Dio gettandovi nella disperazione! Era tempo che arrivasse l’arcidiacono; era tempo che finisse il mio processo.
Ecco il momento più terribile della mia vita. Dovete pensare, signore, che io ignoravo assolutamente sotto quali tinte ero stata dipinta agli occhi di questo ecclesiastico, e che egli arrivava con la curiosità di vedere una fanciulla posseduta dal demonio o che fingeva di esserlo. Credettero che soltanto un forte spavento potesse mostrarmi in quello stato, ed ecco in che modo si comportarono per procurarmelo.
Il giorno della sua visita; di primo mattino, la superiora entrò nella mia cella; la accompagnavano tre monache, di cui una portava un’acquasantiera, un’altra un crocifisso, e la terza delle corde. Con voce forte e minacciosa, la superiora mi disse:
“Alzatevi... mettetevi in ginocchio e raccomandate l’anima a Dio.”
“Signora,” le chiesi, “prima di obbedirvi, potrei chiedervi che cosa ne sarà di me, che cosa avete deciso e che cosa devo chiedere a Dio?”
Un sudore freddo mi inondò tutta; tremavo, sentivo che le ginocchia mi si piegavano; guardavo con terrore le tre monache fatali. Erano in piedi l’una accanto all’altra, con il volto cupo, le labbra strette e gli occhi chiusi. Dalla mia bocca erano uscite parole rotte dallo spavento; a giudicare dal silenzio, credetti che non mi avessero sentita; perciò, con voce debole e che si andava spegnendo, dissi:
“Quale grazia devo chiedere a Dio?”
Mi risposero:
“Chiedetegli perdono per i peccati di tutta la vostra vita; parlategli come se foste sul punto di comparire dinanzi a lui.”
Nel sentire queste parole credetti che avessero tenuto consiglio e avessero preso la decisione di sbarazzarsi di me. Avevo sentito dire che a volte era questa la pratica che vigeva nei conventi di certi monaci: giudicavano, condannavano, suppliziavano. Non credevo che fosse mai stata esercitata una giurisdizione così disumana in nessun convento di donne, ma erano tante le cose che non avevo indovinato. Eppure vi accadevano! All’idea della morte vicina, volli gridare, ma dalla mia bocca aperta non usciva alcun suono. Tesi verso la superiora le braccia supplichevoli. Mi sentii venir meno e il mio corpo vacillava all’indietro. Caddi, ma la mia caduta non fu violenta. In quei momenti di angoscia, in cui insensibilmente le forze ci abbandonano, le membra cedono, si afflosciano, per così dire, le una sulle altre e la natura, nell’impossibilità di sostenersi, sembra che cerchi di venir meno mollemente. Persi conoscenza e sentimento; sentivo soltanto ronzare intorno a me voci confuse e lontane. Non so se fossero le monache a parlare o le mie orecchie a ronzare; io, in ogni modo, non sentivo che quel brusio ininterrotto. Ignoro per quanto tempo rimasi in quello stato, ma ne riemersi per una sensazione improvvisa di fresco che mi provocò una leggera convulsione e mi strappò un profondo sospiro. Ero intrisa d’acqua che colava a terra dai miei abiti: era l’acqua di una grande acquasantiera che mi avevano rovesciata addosso. Ero sdraiata sul fianco, stesa in quell’acqua, con la bocca semiaperta e gli occhi spenti e socchiusi.
Cercai di aprirli e di guardare, ma mi sembrò di essere avvolta in un’aria spessa attraverso la quale intravedevo soltanto un ondeggiare di vesti cui cercavo inutilmente di aggrapparmi. Facevo forza sul braccio libero. Avrei voluto alzarlo, ma lo sentivo troppo pesante. A poco a poco diminuì quella mia estrema debolezza; mi sollevai, appoggiai la schiena contro il muro. Avevo le mani nell’acqua, la testa reclinata sul petto; dalle labbra mi usciva un lamento inarticolato, spezzato e doloroso. Quelle quattro donne mi guardavano con un’aria improntata a necessità, a inflessibilità, che mi toglieva il coraggio di implorarle. La superiora disse:
“Mettetela in piedi.”
Mi presero sotto le ascelle e mi sollevarono. La superiora soggiunse:
“Dal momento che non vuole raccomandarsi a Dio, peggio per lei, sapete che cosa vi resta da fare; procedete...”
Credetti che le corde che avevano portato fossero destinate a strangolarmi. Le guardai, e i miei occhi si riempirono di lacrime. Chiesi il crocifisso da baciare; me lo rifiutarono. Chiesi le corde da baciare; me le presentarono. Mi chinai, presi lo scapolare della superiora e lo baciai.
Dissi: “Signore, abbiate pietà di me! Care sorelle, cercate di non farmi soffrire.”
Offrii il collo.
Non potrei dirvi che cosa ne fu di me, né che cosa mi fecero: sono certa che coloro che vengono condotti al supplizio, come io credevo di esserlo, sono morti prima di essere giustiziati. Mi ritrovai sul pagliericcio che mi serviva da letto, con le braccia legate dietro la schiena, seduta, e un gran crocifisso di ferro sulle mie ginocchia...
Capisco, signor marchese, tutto il male che vi faccio; ma voi avete voluto sapere se meritavo veramente la compassione che mi aspettavo da voi.
Fu in quel momento che sentii la superiorità della religione cristiana su tutte le religioni del mondo; quale profonda saggezza in quella che la cieca filosofia chiama la follia della croce. Nello stato in cui mi trovavo, a che cosa mi sarebbe servita l’immagine di un legislatore felice e ricolmo di gloria? Io vedevo l’innocente, con il fianco trafitto, la fronte incoronata di spine, la mani e i piedi forati dai chiodi, mentre spirava tra le sofferenze, e mi dicevo: “Ecco il mio Dio, e io oso lamentarmi!...” Mi aggrappai a quell’idea e sentii che la consolazione mi rinasceva nel cuore; riconobbi la vanità della vita e fui troppo felice di perderla prima di avere avuto il tempo di moltiplicare le mie colpe. Intanto però contavo i miei anni, constatavo di avere appena diciannove anni, e sospiravo. Ero troppo indebolita, troppo abbattuta, perché il mio spirito potesse levarsi al di sopra dei terrori della morte; in piena salute, credo che avrei potuto risolvermi con più coraggio.
Nel frattempo tornarono la superiora e le sue discrete 22 e mi trovarono con più presenza di spirito di quanto non si sarebbero aspettate e di quanto avrebbero voluto. Mi misero in piedi, mi velarono la faccia, poi due di loro mi presero sotto le ascelle, mentre una terza mi spingeva da dietro e la superiora mi ordinava di camminare. Andavo senza sapere dove andassi, ma credendo di andare al supplizio. E intanto mi dicevo:
“Mio Dio, abbiate pietà di me! Mio Dio, non mi abbandonate! Mio Dio, perdonatemi, se vi ho offeso!”
Entrai in chiesa. Il gran vicario aveva celebrato la messa. La comunità vi era tutta radunata. Dimenticavo di dirvi che quando fui sulla porta le tre monache che mi conducevano mi stringevano da vicino, mi spingevano con violenza, sembravano tutte indaffarate intorno a me e mi trascinavano per le braccia, mentre altre mi trattenevano da dietro per dare l’impressione che resistessi e che mi ripugnasse entrare in chiesa, cosa che non era affatto vera. Mi portarono verso i gradini dell’altare; facevo fatica a stare in piedi, e loro mi spingevano in ginocchio come se recalcitrassi e mi trattenevano come se avessi avuto l’intenzione di fuggire. Cantarono il Veni Creator, venne esposto il Santissimo, venne impartita la benedizione. Al momento della benedizione, quando ci si inchina in segno di venerazione, quelle che mi avevano afferrata per le braccia mi curvarono quasi di forza mentre le altre mi premevano le mani sulle spalle. Sentivo quei diversi movimenti, ma non mi riusciva indovinare lo scopo. Infine tutto si fece chiaro.
Dopo la benedizione, il gran vicario si tolse i paramenti, rivestì soltanto la cotta e la stola e si avvicinò ai gradini dell’altare dove io ero inginocchiata. I due ecclesiastici gli stavano a fianco e tutti e tre, guardando dalla mia parte, volgevano le spalle all’altare sul quale era esposto il Santissimo. Il gran vicario mi si avvicinò e mi disse:
“Alzatevi, suor Susanna.”
Le monache che mi trattenevano mi alzarono bruscamente, altre mi circondavano e mi tenevano per la vita come se avessero avuto paura che scappassi.
“Slegatela.”
Non gli obbedirono. Finsero di trovare poco opportuno e addirittura pericoloso lasciarmi libera, ma vi ho detto che quello era un uomo deciso, e infatti ripeté con voce ferma e dura:
“Slegatela.”
Obbedirono. Non appena ebbi le mani libere, emisi un lamento acuto e doloroso che lo fece impallidire; quelle monache ipocrite che erano vicino a me si scostarono come spaventate. Si riprese; le monache si riavvicinarono tremando; io rimasi immobile mentre egli mi diceva:
“Che cosa avete?”
Per tutta risposta gli mostrai le braccia: la corda con la quale me le avevano legate mi era penetrata profondamente nella carne che era tutta violetta per il sangue che non circolava quasi più e si era travasato. Credette che mi lamentassi per il dolore improvviso del sangue che ricominciava a circolare. Disse:
“Toglietele il velo.”
Era stato cucito in diversi punti senza che me ne accorgessi, di modo che fu necessario usare ancora violenza per una cosa che non l’avrebbe affatto richiesta; bisognava che quel prete mi vedesse ossessionata, invasata o pazza. A forza di tirare, il filo si ruppe in più punti, mentre il velo o il mio abito si strapparono da altre parti. Così mi videro.
Il mio viso è interessante; il profondo dolore l’aveva alterato, senza togliergli niente del suo carattere; la mia voce ha un timbro che tocca il cuore: si sente che la mia espressione è quella della verità. Tutte queste qualità messe insieme produssero una profonda impressione di pietà sui due giovani assistenti dell’arcidiacono. Lui, invece, era estraneo a questi sentimenti: era giusto, ma poco sensibile; apparteneva al novero di coloro che per loro sventura sono nati per praticare la virtù senza avvertirne la dolcezza; fanno il bene per un certo senso dell’ordine, così come ragionano. Prese un capo della stola e posandomela sulla testa mi disse:
“Suor Susanna, credete in Dio Padre, Figliolo e Spirito Santo?”
“Credo.”
“Credete nella nostra santa madre Chiesa?”
Risposi:“Credo.”
“Rinunciate a Satana e alle sue opere?”