Invece di rispondere, con un gran grido feci un movimento improvviso in avanti e la stola non fu più a contatto della mia testa. Il vicario rimase turbato, i suoi compagni impallidirono; tra le monache, alcune fuggirono e le altre che erano nei loro stalli si alzarono in un gran tumulto. Fece cenno che stessero tranquille e intanto mi guardava e si aspettava di vedere qualcosa di straordinario. Lo rassicurai dicendo:
“Non è niente, signore. Una di queste suore mi ha punto con qualcosa di aguzzo.”
E alzando gli occhi e mani al cielo aggiunsi versando un fiume di lacrime:
“Mi hanno ferita nel momento in cui mi chiedevate se rinunciavo a Satana e alle sue opere, e capisco bene perché l’hanno fatto.”
Per bocca della superiora tutte protestarono vivamente che non mi avevano toccata. L’arcidiacono mi impose di nuovo la stola sulla testa; le monache stavano per riavvicinarsi, ma egli fece cenno che si scostassero e di nuovo mi chiese se rinunciavo a Satana e alle sue opere. Gli risposi fermamente:
“Rinuncio, rinuncio!”
Si fece portare un crocifisso e me lo dette da baciare; lo baciai sui piedi, sulle mani e sulla piaga del costato. Mi ordinò di adorarlo ad alta voce: io lo posai per terra e dissi in ginocchio:
“Vi adoro, mio Dio, mio salvatore, voi che siete morto sulla croce per i miei peccati e per tutti quelli del genere umano; concedetemi il merito dei vostri patimenti; fate scendere su di me una goccia del sangue che avete versato e fate ch’io sia purificata. Mio Dio, perdonatemi come io perdono a tutti i miei nemici.”
Poi mi disse:
“Fate un atto di fede”, e lo feci..
“Fate un atto d’amore”, e lo feci..
“Fate un atto di speranza”, e lo feci..
“Fate un atto di carità”, e lo feci.
Non ricordo con quali parole li avessi formulati, ma ritengo che sembrassero patetiche, giacché strappai dei singhiozzi ad alcune monache, feci versare lacrime ai due giovani ecclesiastici e l’arcidiacono stupito mi chiese da dove avessi tratto le preghiere che avevo appena recitato. Gli risposi:
“Dal fondo del cuore; sono questi i miei pensieri e i miei sentimenti. Chiamo a testimone Dio che ci ascolta ovunque ed è presente su questo altare. Sono cristiana, sono innocente; se ho commesso qualche colpa, lo sa Dio soltanto, e lui soltanto ha il diritto di chiedermene conto e di punirmi...”
A queste parole, il gran vicario lanciò alla superiora uno sguardo terribile.
Il resto di quella cerimonia in cui la maestà di Dio era stata insultata, le cose più sante profanate e il ministro della Chiesa ingannato, giunse alla fine e le monache si ritirarono. Con me rimasero la superiora e i giovani ecclesiastici. L’arcidiacono si sedette, e tirando fuori il rapporto che gli era stato presentato contro di me, lo lesse ad alta voce e mi interrogò sui capi d’accusa che conteneva.
“Perché non vi confessate?” mi chiese.
“Perché me lo impediscono.”
“Perché non vi avvicinate ai Sacramenti?”
“Perché me lo impediscono.”
“Perché non assistete né alla messa, né alle funzioni religiose?”
“Perché me lo impediscono.”
La superiora volle prendere la parola, ma con quel suo tono particolare, il gran vicario le disse:
“Tacete, signora... Perché, di notte, uscite dalla vostra cella?”
“Perché mi hanno privato dell’acqua, della brocca per l’acqua, e di tutti i vasi necessari ai bisogni naturali.”
“Perché di notte si sente rumore nel vostro corridoio e nella vostra cella?”
“Perché fanno di tutto per togliermi il riposo.”
La superiora volle parlare ancora; per la seconda volta il gran vicario le disse:
“Vi ho già detto di tacere, signora; rispondete quando vi interrogherò... Che cos’è questa storia di una monaca che vi hanno strappata dalle mani e che è stata trovata riversa per terra nel corridoio?”
“È a causa dell’orrore che le avevano ispirato nei miei riguardi.”
“È amica vostra?”
“No, signore.”
“Non siete mai entrata nella sua cella?”
“Mai.”
“Non avete mai fatto niente di indecente a lei, o ad altre?”
“Mai.”
“Perché vi hanno legata?”
“Lo ignoro.”
“Perché la vostra cella non si chiude?”
“Perché ho rotto la serratura.”
“Perché l’avete rotta?”
“Per aprire la porta e assistere alla funzione il giorno dell’Ascensione.”
“Quel giorno, allora, vi hanno vista in chiesa?”
“Sì, signore.”
La superiora intervenne:
“Non è vero, signore, tutta la comunità...”
La interruppi:
“...assicurerà che la porta del coro era chiusa; che mi hanno trovata prosternata davanti a quella porta e che voi avete ordinato di calpestarmi. Alcune lo hanno fatto; ma io le perdono e perdono voi, signora, per quell’ordine che avete dato. Non sono venuta per accusare, ma per difendermi.”
“Perché non avete né rosario, né crocifisso?”
“Perché me li hanno tolti.”
“Dov’è il vostro breviario?”
“Me l’hanno tolto.”
“Ma allora, in che modo pregate?”
“Prego con il cuore e con la mente, benché mi abbiano proibito di pregare.”
“Chi ve l’ha proibito?”
“La signora.”
La superiora si accingeva di nuovo a parlare.:
“Signora, – le disse – è vero o falso che le avete proibito di pregare? Rispondete sì o no.”
“Io credevo, e avevo motivo di credere...”
“Non si tratta di questo; le avete, sì o no, proibito di pregare?”
“Gliel’ho proibito, ma...”
Stava per proseguire.
“Ma,” riprese l’arcidiacono, “ma... Suor Susanna, perché siete a piedi nudi?”
“Perché non mi danno né calze, né scarpe.”
“Perché la vostra biancheria e i vostri abiti sono così logori e sporchi?”
“Perché da più di tre mesi mi rifiutano la biancheria e perché sono costretta a coricarmi vestita.”
“Perché vi coricate vestita?”
“Perché non ho né tende, né materasso, né coperte, né lenzuola, né camicia da notte.”
“Perché non ne avete?”
“Perché me li hanno tolti.”
“Vi danno da mangiare?”
“Lo domando.”
“Allora non ve ne danno?”
Tacqui, egli soggiunse:
“È davvero incredibile un trattamento così severo senza che abbiate commesso qualche colpa che l’abbia meritato.”
“La mia colpa sta nel non avere vocazione religiosa, e di aver fatto ricorso contro dei voti che non ho pronunciato liberamente.”
“La decisione in merito spetta alle leggi, e in qualunque modo si pronuncino, voi siete intanto tenuta ad adempiere i doveri della vita religiosa.”
“Nessuno, signore, li adempie con maggiore scrupolo.”
“Dovete essere trattata alla stessa stregua delle vostre compagne.”
“Non chiedo altro.”
“Non avete da lamentarvi di nessuno?”
“No, signore, ve l’ho detto, non sono venuta per accusare, ma per difendermi.”
“Andate.”
“Dove debbo andare, signore?”
“Nella vostra cella.”
Feci qualche passo, poi tornai e mi prosternai ai piedi della superiora e dell’arcidiacono.
“Ebbene?” mi disse l’arcidiacono, “che c’è di nuovo?”
Mostrandogli la testa tutta contusa, i piedi insanguinati, le braccia scarnite e piene di lividi, l’abito sporco e strappato, gli dissi: “Guardate!”
Mi pare di sentirvi, signor marchese, voi e la maggior parte di coloro che leggeranno queste memorie: “tanti orrori, così diversi, così ininterrotti! Un susseguirsi di atrocità così raffinate in anime religiose! È inverosimile,” direte voi e diranno gli altri. Sono d’accordo; ma tutto questo è vero, e possa il cielo, ch’io chiamo a testimone, giudicarmi con tutto il suo rigore e condannarmi al fuoco eterno, se ho permesso alle calunnie di oscurare una di queste righe con la sua ombra più leggera. Benché a lungo abbia provato come l’avversione di una superiora rappresentasse uno stimolo potente alla perversità naturale, soprattutto allorché questa può farsi un merito, lodarsi e vantarsi dei propri misfatti, il risentimento non mi impedirà di essere giusta. Più ci penso, e più mi convinco che ciò che mi accade non era ancora accaduto a nessuno e forse mai più accadrà. Alla Provvidenza, le cui vie ci sono ignote, piacque una volta (e piacesse a Dio che fosse la prima e l’ultima) accumulare su una sola sventurata tutte quante le crudeltà che per i suoi imperscrutabili disegni sono suddivise tra la moltitudine infinita delle sventurate che l’avevano preceduta in un chiostro e che sarebbero venute dopo di lei.
Ho sofferto, ho sofferto molto; ma mi sembra, e mi è sempre sembrato, che il destino di quelle che mi perseguitano fosse da compiangersi molto più del mio. Preferirei, avrei preferito morire piuttosto che cambiarmi con loro. Spero che per la vostra bontà le mie sofferenze finiscano. Il ricordo, la vergogna, e i rimorsi del male commesso non le abbandoneranno fino all’ora suprema. Già si accusano fra di loro, siatene certo; si accuseranno per tutta la vita, e il terrore scenderà con loro nella tomba. Nonostante questo, signor marchese, la mia situazione presente è deplorevole, la vita è un gran peso; sono una donna e il mio spirito è debole come in tutte quelle del mio sesso; Dio può abbandonarmi e non mi sento più né la forza, né il coraggio di sopportare ancora quello che ho sopportato. Signor marchese, state attento, un momento fatale potrebbe tornare; quand’anche foste straziato dai rimorsi, quand’anche consumaste i vostri occhi a piangere sul mio destino, non per questo risalirei dall’abisso in cui fossi caduta.
Quell’abisso si chiuderebbe per sempre su una disperata.
“Andate,” mi disse l’arcidiacono.
Uno dei due ecclesiastici mi tese la mano per farmi rialzare, e l’arcidiacono aggiunse:
“Ho interrogato voi; ora interrogherò la vostra superiora, e non uscirò di qui prima che l’ordine sia stato ristabilito.”
Mi ritirai. Il convento era in allarme; tutte le monache erano sulla soglia delle loro celle e si parlavano da un capo all’altro del corridoio. Non appena io apparvi, si ritirarono e ci fu un lungo sbatacchiare di porte che si chiudevano con violenza le une dopo le altre. Rientrai nella mia cella; mi misi in ginocchio contro il muro, e pregai Dio di tener conto della moderazione con la quale avevo parlato all’arcidiacono e di fargli riconoscere la mia innocenza e la verità.
Stavo pregando allorché l’arcidiacono, i suoi due accompagnatori e la superiora comparvero nella mia cella. Vi ho già detto che nella mia cella ero senza tende, senza sedia, senza inginocchiatoio, senza materasso, senza coperte, senza lenzuola, senza vaso di sorta, senza porta che chiudesse, e con i vetri quasi tutti rotti alla finestra. Mi alzai, e l’arcidiacono fermandosi di botto e volgendo gli occhi pieni di indignazione verso la superiora, le disse:
“Allora, signora?”
“Lo ignoravo,” la sua risposta.
“Lo ignoravate? Voi mentite! Avete forse trascorso un solo giorno senza venire qui, e non ne venivate quando siete scesa?... Suor Susanna, parlate: la superiora non è entrata qui oggi?”
Non risposi. Non insisté; ma i due giovani ecclesiastici, lasciando cadere le braccia, con la testa bassa e gli occhi rivolti a terra, non potevano nascondere la loro pena e il loro stupore. Uscirono tutti, e io sentii l’arcidiacono che diceva alla superiora nel corridoio:
“Siete indegna della vostra carica; meritereste di essere deposta. Esporrò le mie accuse a monsignore. Intanto, si ripari a questo disordine prima ch’io me ne vada.”
E mentre continuava a camminare e a scuotere la testa, andava dicendo:
“È orribile. Delle cristiane! Delle monache! Delle creature umane! orribile.”
Da quel momento non sentii più parlare di niente, ma ebbi biancheria, tende, lenzuola, coperte, vasi, il mio breviario, i libri di pietà, il rosario, il crocifisso, i vetri alle finestre, in una parola tutto ciò che mi restituiva allo stato comune delle monache; mi fu ridata anche la possibilità di andare in parlatorio, ma soltanto per parlare della mia causa.
La mia causa andava male. Il signor Manouri pubblicò un primo memoriale che fece poca impressione. C’erano troppa intelligenza, scarso sentimento, pochissime ragioni. Non è il caso di farne una colpa al mio abile avvocato. Io non volevo assolutamente che ledesse la reputazione dei miei genitori; volevo che risparmiasse lo stato religioso e soprattutto il convento in cui mi trovavo; non volevo che dipingesse con tinte troppo odiose i miei cognati e le mie sorelle. In mio favore c’era soltanto una prima protesta, a onor del vero solenne, ma fatta in un altro convento e mai rinnovata da allora. Quando si impongono dei limiti così ristretti alla propria difesa e si ha a che fare con un avversario che invece scatena liberamente i propri attacchi, che calpesta il giusto e l’ingiusto, che afferma e nega con la stessa impudenza e che non arrossisce né delle accuse, ne dei sospetti, né della maldicenza, né della calunnia, è difficile vincere un processo, specialmente davanti a dei tribunali dove la noia e l’abitudine delle cause trattate non permettono quasi che si esaminino con un certo scrupolo quelle più importanti, e dove le contestazioni come la mia vengono sempre considerate con occhio critico dall’uomo politico. Questi teme infatti che sulla scia del successo di una monaca che ricorra contro i propri voti, un’infinità di altre monache tentino lo stesso passo.
Segretamente si avverte che se si tollerasse che le porte di quelle prigioni venissero abbattute a favore di una sventurata, vi accorrerebbe una folla intera e cercherebbe di forzarle. Fanno di tutto per scoraggiarci e farci rassegnare al nostro destino inducendoci a disperare di poterlo mai cambiare. Eppure a me sembra che in uno Stato ben organizzato dovrebbe essere il contrario: entrare in religione difficilmente, uscirne facilmente. E perché non aggiungere questo caso a tanti altri in cui il benché minimo vizio di forma rende nulla una procedura peraltro ineccepibile? I conventi sono così essenziali alla costituzione di uno Stato? I monaci e le monache li ha forse istituiti Gesù Cristo? La Chiesa non può proprio farne a meno? Che bisogno ha lo sposo di tante vergini folli, e la specie umana di tante vittime? Non si sentirà mai la necessità di ridurre l’ampiezza di queste voragini in cui si perdono le generazioni future? Tutto quel pregare per abitudine, vale un obolo che la pietà offre a un povero? Dio, che ha creato l’uomo socievole, approva forse che l’uomo si rinchiuda? Dio, che l’ha creato così incostante, così fragile, può forse autorizzare l’audacia dei voti? Quei voti che contraddicono la tendenza generale della natura, potranno mai essere osservati se non da poche creature, mal costituite, in cui i germi delle passioni sono appassiti e che si potrebbero a buon diritto collocare tra i mostri se i nostri lumi ci permettessero di conoscere la struttura interna dell’uomo con la stessa facilità con cui ne conosciamo la sua forma esterna? Tutte quelle lugubri cerimonie con le quali si celebrano la vestizione e la professione quando si consacra un uomo o una donna alla vita monastica e all’infelicità, sospendono forse le funzioni animali? O invece queste si risvegliano nel silenzio, nella costrizione e nell’ozio con una violenza che ignora la gente libera, presa com’è da tante distrazioni? Dov’è che si trovano menti ossessionate da spettri impuri che le perseguitano e le sconvolgono? Dov’è che si trova quella noia profonda, quel pallore, quella magrezza, tutti sintomi della natura che langue e si consuma? Dove sono le notti turbate da gemiti, i giorni bagnati di lacrime versate senza ragione e precedute da una malinconia che non si sa a che cosa attribuire? Dov’è che la natura, rivoltandosi contro una costrizione per la quale non è creata, infrange gli ostacoli che le vengono frapposti, diventa furiosa, trascina l’economia animale in un disordine senza rimedio?
Dov’è che il dolore e il malumore hanno annullato tutte le qualità sociali? Dov’è che non si trova né padre, né madre, né fratello, né sorella, né parente, né amico? Dov’è che l’uomo, considerandosi soltanto come un essere caduco, tratta i legami più dolci di questo mondo con distacco, come un viaggiatore tratta gli oggetti in cui si imbatte?
Dove hanno dimora il turbamento, il disgusto, i deliqui? Dov’è la sede del servilismo e del dispotismo? Dove sono gli odi che non si spengono? Dove sono le passioni covate nel silenzio? Dove hanno dimora la crudeltà e la curiosità? Non conosciamo la storia di questi asili – continuava il signor Manouri nella sua arringa – non la conosciamo. E in un altro punto aggiungeva: “Fare voto di povertà, significa impegnarsi con giuramento ad essere pigro e ladro; fare voto di castità, significa promettere a Dio l’infrazione costante della più saggia e della più importante delle sue leggi; far voto d’obbedienza vuol dire rinunciare alla prerogativa inalienabile dell’uomo, la libertà. Se si osservano questi voti, si è criminali; se non si osservano, si è spergiuri. La vita claustrale è una vita da fanatici o da ipocriti.”
Una fanciulla chiese ai genitori il permesso di entrare nel nostro convento. Suo padre le disse che acconsentiva, ma che le dava tre anni per riflettere. L’imposizione parve dura alla giovane tutta piena di fervore; nondimeno dovette sottomettersi. Poiché la sua vocazione era sempre salda, ella tornò dal padre per dirgli che tre anni erano ormai trascorsi.
“Bene, figlia mia,” rispose il padre, “vi ho accordato tre anni per mettervi alla prova, spero che vorrete accordarmene altrettanti per prendere la mia decisione.”
Questa nuova imposizione parve molto più dura alla fanciulla che vi sparse sopra qualche lacrima, ma il padre era un uomo risoluto e tenne duro. Dopo quasi sei anni, ella entrò in convento, fece professione. Era una buona monaca, semplice, pia, precisa in tutti i suoi doveri, ma volle il caso che i direttori abusassero della sua franchezza per informarsi, in confessione, su ciò che accadeva nel convento. Le nostre superiore lo sospettarono; la rinchiusero, le proibirono qualunque esercizio religioso; diventò pazza. Come potrebbe resistere la testa alla persecuzione di cinquanta persone che dalla mattina alla sera non fanno altro che tormentarvi? Precedentemente, avevano teso alla madre un tranello che mette bene in luce l’avarizia del chiostro. Ispirarono alla madre della reclusa il desiderio di recarsi al convento e di visitare la cella della figlia. Si rivolse ai vicari che le accordarono il permesso richiesto. Entrò, corse alla cella della sua figliola, ma quale fu il suo stupore nel vedere soltanto quattro pareti nude. Avevano portato via tutto, certe che quella madre tenera e sensibile non avrebbe lasciato la figliola in tale stato. Infatti fece mettere altri mobili nella cella, la rifornì di indumenti e di biancheria, affermando chiaramente alle monache che quella curiosità le costava troppo cara per potersela permettere una seconda volta, e che tre o quattro visite all’anno come quella avrebbero rovinato gli altri suoi figli. L’ambizione e il lusso sacrificano nei conventi una parte delle famiglie per avvantaggiare l’altra che ne rimane fuori. Sono la sentina in cui vengono gettati i rifiuti della società. Quante madri come la mia espiano una colpa segreta con un’altra colpa.
Il signor Manouri rese pubblico un secondo memoriale che ottenne un po’ più d’effetto. Vi furono calorosi interventi a mio favore. Ancora una volta proposi alle mie sorelle di lasciar loro il possesso intero e indisturbato dell’eredità dei miei genitori. Vi fu un momento in cui il mio processo prese una piega assai favorevole e in cui io sperai nella libertà; il mio disinganno fu perciò più grande. All’udienza la mia causa fu perorata e perduta. L’intera comunità ne era al corrente quando ancora io non ne sapevo niente. Era tutto un agitarsi frenetico, un gioire, piccoli abboccamenti segreti, un andare e venire dalla superiora, un incrociarsi di visite tra le monache. Io ero tutta un tremito; non potevo restare nella mia cella e non potevo uscirne; non c’era un’amica tra le cui braccia potessi rifugiarmi. Com’è crudele la mattina in cui si pronuncia la sentenza di un grande processo! Volevo pregare, ma non ci riuscivo; mi inginocchiavo, mi raccoglievo, cominciavo una preghiera, ma la mia mente finiva sempre, mio malgrado, per essere trascinata tra i miei giudici: li vedevo, sentivo gli avvocati, mi rivolgevo a loro, interrompevo il mio, trovavo che la mia causa non era difesa a dovere. Non conoscevo nessuno dei magistrati, eppure me li figuravo in mille modi, ora favorevoli, ora loschi, ora indifferenti.
Ero indicibilmente agitata, con le idee confuse. Al rumore succedette un profondo silenzio; le monache non si parlavano più; mi parve che nel coro le loro voci fossero più squillanti del solito: o per lo meno le voci di quelle che cantavano, poiché ve n’erano che non cantavano affatto. Terminata la funzione, si ritirarono in silenzio. Pensai che l’attesa le rendesse inquiete come me. Nel pomeriggio però, rumore e movimento ripresero dappertutto improvvisamente: sentii porte che si aprivano e si chiudevano, monache che andavano e venivano, il mormorio di persone che si parlavano a voce bassa. Avvicinai l’orecchio alla serratura, ma mi parve che tacessero mentre passavano e che camminassero in punta di piedi. Intuii di aver perso il processo; il dubbio non mi sfiorò neppure per un istante. Cominciai a girare per la cella senza dir parola; soffocavo, non riuscivo nemmeno a lamentarmi. Incrociavo le braccia sulla testa, appoggiavo la fronte ora contro un muro, ora contro l’altro; volevo riposarmi sul letto, ma il cuore mi batteva tanto forte da impedirmelo: sono certa che sentivo battere il mio cuore e in tal maniera di sollevare l’abito. Ero in questo stato allorché vennero a dirmi che chiedevano di me. Scesi, ma non osavo andare avanti. La suora che mi aveva avvertita era così allegra che ne dedussi che la notizia da comunicarmi doveva essere ben triste; e tuttavia andai. Giunta davanti alla porta del parlatorio mi fermai di botto e mi rifugiai in un angolo fra due pareti; non riuscivo a reggermi in piedi. Ciò nonostante entrai. Non c’era nessuno; aspettai; avevano fatto in modo che colui che mi aveva fatto chiamare, comparisse prima di me. Naturalmente pensavano che fosse un emissario del mio avvocato e volevano sapere quel che sarebbe accaduto fra noi due.
Perciò si erano tutte riunite per ascoltare. Quando comparve, io ero seduta con la testa piegata sul braccio e appoggiata contro le sbarre della grata.
“Vengo da parte del signor Manouri,” mi disse.
“È per informarmi che ho perduto il processo,” replicai.
“Non lo so, signora, ma egli mi ha consegnato questa lettera. Aveva l’aria molto addolorata quando me l’ha consegnata e sono venuto di corsa, come mi ha raccomandato.”
“Datemi...”
Mi tese la lettera ed io la presi senza muovermi e senza guardarlo; la posai sulle ginocchia e non cambiai posizione. L’uomo mi chiese: “Non c’è nessuna risposta?”
“No,” gli dissi. “Andate pure.”
Se ne andò, mentre io rimasi immobile senza potermi muovere, né decidermi a uscire.
In convento non è consentito scrivere, né ricevere lettere senza il permesso della superiora. A lei vengono consegnate sia quelle che si ricevono che quelle che si scrivono. Dovevo perciò portarle la mia.
Mi incamminai per farlo, ma credetti che non sarei mai arrivata. Un prigioniero che esca dalla cella per andare ad ascoltare la propria condanna non cammina più lentamente, né con maggior prostrazione. Eccomi davanti alla porta. Le monache mi scrutavano da lontano; non volevano perdere niente dello spettacolo del mio dolore e della mia umiliazione. Bussai, mi fu aperto. La superiora era con qualche altra monaca: me ne accorsi dall’orlo delle sottane giacché non osai alzare gli occhi. Le presentai la lettera con mano tremante; la prese, la lesse e me la restituì. Me ne tornai nella mia cella; mi buttai sul letto con la lettera accanto, e lì rimasi senza leggerla, senza alzarmi per andare a pranzo, senza fare nessun movimento fino all’uffizio del pomeriggio. Alle tre e mezzo la campana mi avvertì che era ora di scendere. Alcune monache erano già arrivate; la superiora che era all’ingresso del coro, mi fermò e mi chiese di mettermi in ginocchio lì fuori; le altre monache entrarono e la porta fu chiusa. Dopo la funzione, uscirono tutte quante; le lasciai passare e mi alzai per seguirle, ultima. Fin da quel momento cominciai a condannarmi da sola a tutto quello che avrebbero voluto: mi avevano proibito l’ingresso in chiesa, mi proibii spontaneamente il refettorio e la ricreazione. Presi in esame la mia condizione sotto tutti gli aspetti senza vedere altra via d’uscita se non nella necessità che avevano dei miei doni musicali e nella mia sottomissione. Mi sarei contentata di quella specie d’oblio in cui mi lasciarono per diversi giorni.
Vennero per me diverse persone a trovarmi, ma l’unica visita che mi fu dato di ricevere fu quella del signor Manouri. Entrando in parlatorio lo trovai esattamente come ero io quando avevo ricevuto il suo inviato, con la testa posata sulle braccia e le braccia appoggiate alla grata. Lo riconobbi, non gli dissi niente. Non osava guardarmi, né parlarmi.
“Signora,” mi disse senza muoversi, “vi ho scritto; avete ricevuto la mia lettera?”
“L’ho ricevuta, ma non l’ho letta.”
“Allora non sapete...”
“No, signore, non ignoro niente. Ho indovinato qual è il mio destino e sono rassegnata.”
“Come vi trattano?”
“Per il momento non si occupano ancora di me, ma il passato m’insegna ciò che l’avvenire mi prepara. Non ho che una consolazione, ed è che privata della speranza che mi sosteneva, è impossibile che soffra quanto ho già sofferto. Morirò. La colpa che ho commesso è di quelle che non si perdonano in convento. Non chiedo a Dio di intenerire il cuore di coloro alla cui discrezione gli è piaciuto abbandonarmi, bensì di concedermi la forza di soffrire, di salvarmi dalla disperazione e di chiamarmi a lui quanto prima.”
“Signora,” mi disse piangendo, “se foste stata mia sorella non avrei potuto far di meglio...”
Quest’uomo è di cuore sensibile.
“Signora,” soggiunse, “se posso esservi utile a qualcosa, disponete pure di me.
Andrò a trovare il primo presidente che ha stima di me; andrò a trovare i grandi vicari e l’arcivescovo.”
“Non andate a trovare nessuno, signore, tutto è finito.”
“E se fosse possibile farvi cambiare convento?”
“Ci sono troppi ostacoli.”
“E quali sono questi ostacoli?”
“Un permesso difficile da ottenere, un’altra dote da costituire, se non si può ritirare quella consegnata al convento dove mi trovo. E poi, che cosa troverò in un altro convento? Il mio cuore inflessibile, superiore senza pietà, monache che non saranno migliori di queste, gli stessi doveri, le stesse pene. Tanto vale che finisca qui i miei giorni; saranno più brevi.”
“Ma, signora, molta gente onesta si è interessata al vostro caso e in genere si tratta di persone facoltose. Non cercheranno di trattenervi qui, se ve ne andate senza portar via niente.”
“Questo lo credo anch’io.”
“Una monaca che se ne va o che muore, accresce il benessere di quelle che restano.”
“Ma quella gente onesta, quelle persone facoltose non pensano più a me, e vedrete la loro freddezza quando si tratterà di farmi una dote a loro spese. Perché volete che sia più facile per la gente di mondo far uscire dal chiostro una monaca senza vocazione che per le persone pie farvene entrare una che abbia una vera vocazione? È forse più facile dare a quest’ultima una dote? Mio caro signore, tutti si sono tirati indietro; dal giorno che ho perso il processo, non vedo più nessuno.”
“Affidatemi, signora, questo incarico; vedrete che sarò più fortunato.”
“Non chiedo nulla, non spero nulla e a nulla mi oppongo; in me si e spezzata anche l’ultima molla. Se solo potessi sperare che Dio opererà in me un cambiamento e che le qualità necessarie allo stato monastico prenderanno il posto nella mia anima della speranza ormai perduta di abbandonarlo... Ma è impossibile; questo abito mi si è incollato alla pelle, alle ossa, e non me ne viene che un maggior disagio. Ah, che destino! Essere per sempre monaca, e sentire che non sarò mai altro che una cattiva monaca! passare tutta la vita a battere la testa contro le sbarre della prigione!”
A questo punto mi misi a gridare; cercavo, ma non potevo, di soffocare le mie grida. Il signor Manouri, sorpreso da quello sfogo, mi chiese:“Potrei farvi una domanda, signora?”
“Fate pure, signore.”
“Un dolore così cocente ha forse qualche segreto motivo?”
“No, signore. Odio la vita solitaria, sento bene che la odio, sento che la odierò sempre. Non potrei mai assoggettarmi a tutte le meschinità di cui è intessuta la giornata di una reclusa; è una trama di puerilità che disprezzo. Se avessi potuto, mi ci sarei abituata. Cento volte ho cercato di impormelo, di piegarmi ai suoi obblighi; non mi riesce. Ho invidiato, ho chiesto a Dio quella felice imbecillità delle mie compagne; non l’ho ottenuta, e non me la concederà. Faccio tutto male, dico tutto di traverso; la mancanza di vocazione traspare da tutti i miei atti, è chiaro. Ad ogni istante insulto la vita monastica. Chiamano orgoglio la mia inettitudine; si ingegnano a umiliarmi. Colpe e punizioni si moltiplicano senza fine e le giornate trascorrono a misurare con gli occhi l’altezza dei muri.”
“Non posso abbatterli, signora, ma posso fare qualcos’altro.”
“Non tentate di far niente, signore.”
“Voi dovete cambiare convento, e io me ne occuperò. Verrò di nuovo a trovarvi: spero che non vi nascondano. Avrete presto mie notizie. State tranquilla che se siete d’accordo, riuscirò a farvi uscire di qui. Se dovessero maltrattarvi, fatemelo sapere.”
Era tardi quando il signor Manouri se ne andò. Tornai nella mia cella e poco dopo suonò l’uffizio della sera. Giunsi fra le prime. Lasciai passare le monache e mi tenni per detto che dovevo restare fuori della porta. Infatti la superiora me la chiuse in faccia. La sera, a cena, mi fece cenno, mentre entravo, di sedermi per terra in mezzo al refettorio. Le obbedii e non mi servirono altro che pane e acqua. Ne mangiai un po annaffiandolo di lacrime. L’indomani fu tenuto consiglio. Tutta quanta la comunità fu chiamata a giudicarmi. Fui condannata a rimanere senza ricreazione, a seguire per un mese l’uffizio dalla porta del coro, a mangiare pane seduta per terra in mezzo al refettorio, a fare onorevole ammenda per tre giorni di seguito, a rinnovare la vestizione e i voti, a portare il cilicio, a digiunare un giorno su due, a flagellarmi dopo l’uffizio della sera, ogni venerdì. Mentre veniva pronunciata la sentenza, io stavo in ginocchio, con il velo sugli occhi.
Fin dal giorno dopo, la superiora venne nella mia cella con una monaca che portava un cilicio sul braccio e quell’abito di stoffa grossolana con cui mi avevano fatta vestire quando ero stata condotta nella segreta. Capii che cosa volesse dire: mi spogliai, o meglio mi strapparono il velo e tutto quello che indossavo. Poi indossai quell’abito.
Avevo la testa nuda, i piedi nudi, i miei lunghi capelli mi ricadevano sulle spalle, e tutto il mio abbigliamento si riduceva a quel cilicio che mi avevano dato, a una camicia ruvida e a quell’abito che dal collo mi scendeva fino ai piedi. Fu così che rimasi vestita per tutta la giornata e che comparvi a tutti gli esercizi.
La sera, allorché mi fui ritirata nella cella sentii che venivano verso di me salmodiando le litanie; era tutto il convento disposto su due file. Entrarono, ed io mi presentai. Mi misero una corda intorno al collo, in una mano mi misero una fiaccola accesa e nell’altra una disciplina. Una monaca afferrò un capo della corda, mi tirò tra le due file e la processione si incamminò verso un piccolo oratorio interno consacrato a Santa Maria. Erano arrivate cantando a bassa voce; se ne andarono in silenzio. Arrivata che fui all’oratorio rischiarato da due luci, mi ingiunsero di chiedere perdono a Dio e alla comunità per lo scandalo provocato. La monaca che mi teneva per la corda mi andava dicendo a bassa voce quel che dovevo ripetere, ed io lo ripetevo parola per parola. Dopo di che mi tolsero la corda, mi spogliarono fino alla vita, mi raccolsero i capelli che erano sparsi sulle spalle, li fecero andare da una sola parte del collo, mi misero nella mano destra la disciplina che prima era nella mano sinistra, e intonarono il Miserere. Capii che cosa si aspettavano da me, e lo eseguii. Terminato il Miserere, la superiora mi rivolse una breve esortazione. Furono spente le luci, le monache si ritirarono ed io mi rivestii.
Dopo che fui rientrata nella mia cella, avvertii dei violenti dolori ai piedi; guardai e vidi che erano tutti coperti di sangue a causa dei tagli prodotti da cocci di vetro che per cattiveria avevano disseminato sul mio cammino.
Nei due giorni seguenti feci onorevole ammenda nello stesso modo. L’ultimo giorno, aggiunsero un salmo al Miserere.
Il quarto giorno mi restituirono l’abito religioso all’incirca con la stessa cerimonia con la quale lo si indossa nelle solennità pubbliche.
Il quinto giorno rinnovai i voti. Per un mese eseguii il resto della penitenza che mi avevano imposto, dopo di che rientrai più o meno nell’ordine solito della comunità, ripresi il mio posto nel coro e nel refettorio, ripresi a eseguire i compiti che mi spettavano nel convento. Ma quale fu la mia sorpresa allorché posai gli occhi sulla giovane amica che si interessava alla mia sorte. Mi parve cambiata quasi quanto me; era di una magrezza spaventosa; il suo volto era soffuso del pallore della morte, aveva le labbra bianche e gli occhi semi spenti. Le dissi a bassa voce:
“Suor Orsola, che cosa avete?”
Mi rispose:
“Che cos’ho? Vi voglio bene, e voi me lo chiedete! Era ora che finisse il vostro supplizio o io ne sarei morta.”
Se negli ultimi due giorni della mia onorevole ammenda non mi ero ferita i piedi, era perché lei aveva avuto il pensiero di spazzare furtivamente i corridoi ammucchiando sui lati i cocci di vetro. I giorni in cui ero condannata a digiunare a pane e acqua, lei si privava di una parte della sua razione di cibo che avvolgeva in un panno bianco e buttava nella mia cella. Avevano estratto a sorte il nome delle monache che avrebbero dovuto tirarmi per la corda ed era toccato a lei. Risolutamente era andata dalla superiora e le aveva affermato che avrebbe preferito morire piuttosto che assolvere quel compito infame e crudele. Per fortuna quella fanciulla apparteneva a una famiglia assai stimata e godeva di una cospicua pensione che amministrava secondo i voleri della superiora. Per qualche libbra di zucchero e di caffè trovò una monaca che la sostituì.
Non ardirei pensare che la mano di Dio si sia abbattuta su quella monaca indegna, ma ella è diventata pazza ed è stata rinchiusa. La superiora, invece vive, governa, tormenta, e sta benissimo.
Non era possibile che la mia salute resistesse a prove così lunghe e così dure. Mi ammalai. Fu in tale circostanza che suor Orsola dimostrò tutta l’amicizia che nutriva per me: debbo a lei la vita. A volte lei stessa mi diceva che non era un bene aiutarmi a mantenermi in vita, eppure non vi era servigio che non mi rendesse nei giorni in cui il turno di infermiera spettava a lei. Se gli altri giorni non ero abbandonata, era grazie al suo interessamento, alle piccole ricompense che distribuiva a quelle che vegliavano su di me a seconda che ne fossi stata più o meno soddisfatta. Aveva chiesto di vegliare su di me la notte e la superiora le aveva opposto un rifiuto col pretesto che era troppo delicata per affrontare una simile fatica. Per lei fu un vero dolore. Tutte le sue cure non impedirono che il male progredisse. Mi ridussi agli estremi e ricevetti l’Estrema Unzione. Qualche minuto prima avevo chiesto di vedere tutta la comunità riunita. Mi fu accordato. Le monache circondarono il mio letto, e la superiora stava in mezzo a loro.
Al capezzale c’era la mia giovane amica che mi teneva una mano e la ricopriva di lacrime. Supponendo che avessi qualcosa da dire, mi sollevarono e mi tennero seduta contro due guanciali. Rivolgendomi alla superiora, la pregai allora di concedermi la sua benedizione e il perdono delle colpe che avevo commesso: chiesi perdono a tutte le mie compagne per lo scandalo che avevo dato. Mi ero fatta portare accanto un’infinità di piccolezze che servivano ad abbellire la mia cella o che servivano a me personalmente, e pregai la superiora che mi permettesse di disporne; ella acconsentì ed io le detti a quelle che le erano servite da satelliti allorché mi avevano gettata nella segreta. Feci avvicinare la monaca che mi aveva tirata per la corda il giorno della mia onorevole ammenda e mentre la baciavo e le presentavo il mio rosario e il mio crocifisso le dissi:
“Cara sorella, ricordatemi nelle vostre preghiere e siate certa che non vi dimenticherò davanti a Dio...”
Ma perché Dio non mi ha presa in quel momento? Stavo andando a lui senza turbamento. È una felicità così grande, e chi può assicurarsela una seconda volta? Che ne sarà di me nel momento supremo? Bisogna pure che ci arrivi. Possa Dio rinnovare i miei tormenti e concedermene uno altrettanto sereno! Vedevo i cieli spalancati, e certamente lo erano, giacché la coscienza in quei momenti non inganna, ed essa mi prometteva una felicità eterna.
Dopo aver ricevuto i sacramenti, caddi in una specie di letargia. Le mie condizioni rimasero disperate per tutta quella notte. Di tanto in tanto venivano a tastarmi il polso; sentivo mani che mi sfioravano il volto, udivo voci diverse che dicevano come in lontananza: “Sta salendo... Il naso è freddo... Non arriverà a domani... Il rosario e il crocifisso saranno per voi...” E un’altra voce piena di corruccio protestava: “Andate via, andate via; lasciatela morire in pace; non l’avete forse tormentata abbastanza?” Fu un momento davvero dolce per me, quello in cui uscendo dalla crisi e riaprendo gli occhi, mi ritrovai tra le braccia della mia amica. Non mi aveva mai lasciata: aveva trascorso la notte ad assistermi, a ripetere le preghiere degli agonizzanti, a farmi baciare il crocifisso accostandolo alle proprie labbra dopo averlo staccato dalle mie. Nel vedermi spalancare gli occhi e trarre un profondo sospiro, credette che fosse l’ultimo. E allora si mise a gridare e a chiamarmi sua amica, a dire: “Mio Dio, abbiate pietà di lei, e di me! Mio Dio, accogliete la sua anima! Cara amica, quando sarete al cospetto di Dio, ricordatevi di suor Orsola...” La guardai sorridendo tristemente, versando una lacrima e stringendole la mano.
In quel momento arrivò il dottor Bouvard che era il medico del convento. A quel che dicono è un uomo che sa il fatto suo, ma è dispotico, orgoglioso e rude.
Allontanò sgarbatamente la mia amica; mi tastò il polso e la pelle. Lo accompagnavano la superiora e le sue favorite. A monosillabi fece qualche domanda su quanto era accaduto e commentò: “Se la caverà.” E guardando la superiora alla quale tale affermazione sembrava piacere poco:
“Sì, signora,” soggiunse, “se la caverà; la pelle ha un aspetto normale, la febbre è caduta e gli occhi cominciano a dar segno di vita.”
A ciascuna delle sue parole, la gioia illuminava il volto della mia amica, mentre su quello della superiora e delle sue compagne si andava manifestando non so qual disappunto dissimulato a fatica.
“Signore,” dissi al dottore,“non chiedo di vivere.”
“Peggio per voi,” fu la sua risposta.
Dette un ordine e se ne andò. Pare che durante la letargia avessi ripetuto diverse volte:
“Cara madre, vengo a raggiungervi, e vi dirò tutto.” Certamente mi rivolgevo alla mia superiora di prima. Non detti a nessuno il suo ritratto: volevo portarlo con me nella tomba.
Si avverò la previsione del dottor Bouvard; la febbre diminuì e scomparve del tutto con l’aiuto di abbondanti sudorazioni. Nessuno ebbe più dubbi sulla mia guarigione. In effetti guarii, ma ebbi una convalescenza assai lunga.
Era scritto che in quel convento avrei sofferto tutti i patimenti possibili e immaginabili. Nella mia malattia c’era stato come un maligno contagio. Suor Orsola non mi aveva quasi mai lasciata. Allorché cominciai a recuperare le forze, le sue cominciarono a declinare. La sua digestione divenne difficile; nel pomeriggio era presa da svenimenti che a volte duravano un quarto d’ora. Quando era in quello stato, era come morta. La vista le si velava, un sudore freddo le imperlava la fronte e le gocce le scivolavano lungo le guance. Le braccia le pendevano inerti lungo i fianchi. Solo slacciandole e allentandole un poco le vesti si riusciva a darle un po’ di sollievo.
Quando si riprendeva da quegli svenimenti, il suo primo impulso era di cercarmi accanto a sé; mi trovava sempre. A volte, quando le rimaneva un po’ di sentimento e di conoscenza, muoveva una mano intorno a sé senza aprire gli occhi. Il gesto era così significativo che le monache, dopo essersi offerte al tocco di quella mano esitante che ricadeva inerte per non averle riconosciute, mi dicevano: “Vuole voi, suor Susanna, avvicinatevi...” Allora mi buttavo ai suoi ginocchi, attiravo quella sua mano sulla mia fronte e ve la lasciavo fino a che durava il suo svenimento. Quando era passato, mi diceva:
“Allora, suor Susanna, sarò io che me ne andrò, e voi invece rimarrete; sarò io che la rivedrò per prima, le parlerò di voi ed ella non mi potrà ascoltare senza piangere.
Se vi sono lacrime amare, ve ne sono anche di molto dolci, e se lassù si ama, perché non vi si dovrebbe piangere?”
Reclinava la testa sul mio collo, versava molte lacrime, e poi soggiungeva:
“Addio, suor Susanna, addio amica mia. Chi condividerà le vostre pene quando io non ci sarò più? Chi ? Ah, amica mia, come vi compiango! Me ne vado, lo sento, me ne vado. Se foste felice, come rimpiangerei di morire!”
Il suo stato mi spaventava. Ne parlai alla superiora. Volevo che la mettessero in infermeria, che la dispensassero dagli uffizi e dalla fatica degli altri esercizi del convento, che chiamassero un medico. Mi risposero che non era niente di grave, che quegli svenimenti sarebbero passati da soli, e la cara suor Orsola non chiedeva di meglio che adempiere i propri obblighi e seguire la vita della comunità.
Un giorno, dopo il mattutino al quale era stata presente, non la si rivide. Pensai che stesse davvero male e terminato l’uffizio del mattino, corsi da lei. La trovai sdraiata sul letto tutta vestita. Mi disse:
“Siete qui, mia cara amica? Ero certa che non avreste tardato a venire e vi aspettavo. Statemi a sentire. Com’ero impaziente di vedervi! Il mio svenimento è stato tanto lungo e tanto profondo che ho creduto di morire e di non rivedervi più. Ecco, prendete: questa è la chiave del mio inginocchiatoio; aprirete lo stipetto, toglierete una piccola tavola che divide in due il cassetto in basso.
Dietro, vi troverete un pacchetto di carte; non mi sono mai potuta risolvere a separarmene, nonostante il pericolo che correvo nel conservarle e il dolore che provavo nel leggerle. Ahimè! le lacrime le hanno quasi completamente cancellate. Quando non ci sarò più, le brucerete.”
Era così debole e sfinita che non riuscì a pronunciare queste parole una di seguito all’altra. Si soffermava quasi ad ogni sillaba, e poi parlava a voce così bassa che a stento riuscivo a sentirla, benché avessi l’orecchio incollato alla sua bocca. Presi la chiave, le indicai col dito l’inginocchiatoio ed ella mi fece un cenno affermativo con la testa. Poi, presentendo che stavo per perderla, e persuasa che la sua malattia fosse una conseguenza della mia, o di tutta la pena che le avevo cagionato, o delle cure che mi aveva prodigato, mi misi a piangere e a disperarmi con tutta l’anima. Le baciai la fronte, gli occhi, il volto, le mani; le chiesi perdono. Ma lei era come distratta e non mi sentiva.
Una delle sue mani si posava sul mio viso accarezzandolo; credo che non mi vedesse più, forse pensava che fossi uscita perché mi chiamò:
“Suor Susanna?”
“Eccomi,” le risposi.
“Che ore sono?”
“Sono le undici e mezzo.”
“Le undici e mezzo! Andate a pranzo; andate, tornerete subito.”
La campanella del pranzo suonò e dovetti lasciarla. Quando fui alla porta, mi richiamò. Tornai indietro. Fece uno sforzo per porgermi le guance; la baciai, mi prese la mano e me la tenne stretta. Sembrava che non volesse, che non potesse lasciarmi:
“Eppure è necessario,” disse lasciandomi la mano. “Dio lo vuole. Addio, suor Susanna. Datemi il crocifisso.”
Glielo misi tra le mani e me ne andai.
Stavamo per alzarci da tavola. Mi rivolsi alla superiora e in presenza di tutte le monache le parlai del pericolo che correva suor Orsola, la sollecitai ad accertarsene di persona.
“In tal caso,” disse, “sarà bene andare a vederla.”
Salì, accompagnata da qualche altra monaca mentre io la seguivo. Entrarono nella cella. La poveretta era già spirata. Era stesa sul letto, tutta vestita, con la testa reclinata sul guanciale, la bocca semiaperta, gli occhi chiusi e il crocifisso tra le mani.
La superiora la guardò freddamente e disse:
“È morta. Chi avrebbe mai detto che fosse così prossima alla fine. Era una gran brava figliola. Fate suonare le campane per lei, e seppellitela.”
Rimasi sola al suo capezzale. Non saprei descrivervi il mio dolore, e tuttavia invidiai la sua sorte. Mi avvicinai a lei, la coprii di lacrime, la baciai più volte e con il lenzuolo le coprii il viso, i cui lineamenti già cominciavano ad alterarsi. Poi pensai ad eseguire ciò che lei mi aveva raccomandato di fare. Per non essere interrotta durante quell’operazione, aspettai che tutte le monache fossero all’uffizio; aprii l’inginocchiatoio, tolsi la tavoletta e trovai un rotolo di carte abbastanza voluminoso che bruciai non appena scese la sera. Era sempre stata una fanciulla malinconica: non ricordo d’averla mai vista sorridere, salvo una volta durante la malattia.
Ero dunque rimasta sola in quel convento, sola al mondo, giacché non conoscevo un solo essere che si interessasse di me. Non avevo più sentito parlare dell’avvocato Manouri. Supponevo che fosse stato scoraggiato dalle difficoltà oppure che distratto dagli svaghi o dai suoi impegni, avesse ormai dimenticato completamente l’aiuto che mi aveva promesso. Non gliene serbavo rancore: per carattere sono portata all’indulgenza; posso perdonare tutto agli uomini, salvo l’ingiustizia, l’ingratitudine e l’inumanità. Scusavo perciò l’avvocato Manouri il più possibile, e tutta quella gente di mondo che durante il processo mi aveva dimostrato tanto interesse e per la quale non esistevo più, e anche voi, signor marchese, allorché i nostri superiori ecclesiastici fecero una visita al convento.
Entrano, percorrono le celle, interrogano le monache, si fanno rendere conto dell’amministrazione temporale e spirituale del convento, e secondo lo spirito con il quale assolvono le loro funzioni, pongono riparo o accrescono il disordine. Rividi così l’onesto e rude monsignor Hébert con i suoi due giovani e compassionevoli ecclesiastici. Ebbero l’aria di ricordare in quale stato deplorevole ero comparsa dinanzi a loro. I loro occhi si inumidirono e sul loro volto osservai l’intenerimento e la gioia.
Monsignor Hébert si sedette, e mi fece sedere di fronte a lui; i suoi due coadiutori rimasero in piedi dietro la sua sedia; i loro sguardi erano fissi su di me. Monsignor Hébert mi disse:
“Allora, suor Susanna, come vi trattano adesso?”
“Mi dimenticano, signore”, gli risposi.
“Meglio così.”
“È quello che mi auguro anch’io, ma avrei una grazia importante da chiedervi: fate venire qui la madre superiora.”
“Perché?”
“Perché se mai dovessero lamentarsi di lei presso di voi, mi riterrà senz’altro responsabile.”
“Capisco. Ditemi comunque che cosa ne sapete.”
“Vi supplico di farla chiamare, signore, perché lei stessa senta le vostre domande e le mie risposte.”
“Parlate lo stesso.”
“Voi mi volete perdere, signore.”
“No, non abbiate paura; da oggi non siete più soggetta alla sua autorità; prima della fine della settimana sarete trasferita a Sant’Eutropio, poco lontano da De Moni. Avete un amico fedele.”
“Un amico fedele, signore! Non ho nessun amico.”
“È il vostro avvocato.”
“Il signor Manouri?”
“In persona.”
“Non credevo che si ricordasse ancora di me.”
“È andato dalle vostre sorelle; è andato dal monsignore arcivescovo, dal primo presidente, da tutte le persone note per la loro pietà. Vi ha costituito una dote nel convento di cui vi ho parlato; dovrete restare qui per brevissimo tempo. Perciò, se siete a conoscenza di qualche disordine, potete mettermi al corrente senza compromettervi. Ve l’ordino per la santa obbedienza.”
“Io non so niente.”
“Come! dopo l’esito del vostro processo si sono comportate con voi con la dovuta moderazione?”
“Hanno creduto o hanno dovuto credere che avessi commesso una colpa appellandomi contro i miei voti e me ne hanno fatto chiedere perdono a Dio.”
“Sono proprio le circostanze di questo perdono che vorrei sapere.”
Così dicendo scuoteva la testa, aggrottava le sopracciglia. Mi resi conto che dipendeva soltanto da me far ricadere sulla superiora una parte dei colpi di disciplina che mi aveva fatto infliggere, ma tale non era la mia intenzione. L’arcidiacono capì che non avrebbe saputo niente da me e uscì raccomandandomi il segreto circa quanto mi aveva confidato sul trasferimento a Sant’Eutropio di De Moni.
Mentre quell’eccellente monsignore Hébert s’incamminava da solo nel corridoio, i suoi due assistenti si voltarono e mi salutarono con aria assai affettuosa e dolce. Ignoro chi siano, ma che Dio mantenga loro quel carattere tenero e misericordioso così raro nel loro stato e che tanto si addice a chi è depositario della debolezza dell’uomo e intercessore della misericordia di Dio. Credevo che monsignor Hébert fosse intento a consolare, a interrogare o ad ammonire qualche altra monaca, allorché tornò nella mia cella.
“Come avete conosciuto il signor Manouri?”
“A causa del mio processo.”
“Chi vi ha affidato a lui?”
“La signora presidentessa.”
“Lo avete dovuto incontrare spesso nel corso della vostra causa?”
“No, signore, l’ho visto poche volte.”
“In che modo lo avete tenuto al corrente?”
“Con alcune note scritte di mio pugno.”
“Avete copia di queste note?”
“No, signore.”
“Chi gliele consegnava?”
“La signora presidentessa.”
“Come avevate fatto la sua conoscenza?”
“Tramite suor Orsola che era amica mia e sua parente.”
“Avete visto il signor Manouri dopo la fine del processo?”
“Una volta.”
“È poco. Non vi ha mai scritto?”
“No, signore.”
“Voi non gli avete mai scritto?”
“No, signore.”
“Vi metterà certamente al corrente di ciò che ha fatto per voi. Vi ordino di non incontrarlo in parlatorio; se vi scrive, sia direttamente che indirettamente, vi ordino di mandarmi la lettera senza aprirla. Senza aprirla, è chiaro?”
“Sì, signore. Vi obbedirò.”
Quella diffidenza di monsignor Hébert, sia che mi riguardasse, sia che riguardasse il mio benefattore, mi ferì.
Il signor Manouri venne a
Longchamp quella sera stessa. Mantenni
la parola data all’arcidiacono e mi rifiutai di parlargli. Il
giorno dopo mi fece scrivere dal suo incaricato. Ricevetti la
lettera, e senza aprirla la mandai a monsignor Hébert. Se ben ricordo, era di martedì. Aspettavo
sempre con impazienza il risultato della promessa dell’arcidiacono
e dei passi compiuti dal signor Manouri.
Il mercoledì, il giovedì, il venerdì trascorsero senza che ci
fossero novità. Come mi parvero lunghe quelle giornate! Tremavo
all’idea che potesse essere sorta qualche difficoltà che avesse
sconvolto tutti i piani. Non ritrovavo la mia libertà, ma cambiavo
prigione, ed era già qualcosa. Un primo avvenimento felice fa
germogliare in noi la speranza di un secondo: forse è questa
l’origine del proverbio “una fortuna non giunge senza
un’altra”
Conoscevo bene le compagne che lasciavo e non mi ci voleva molto a supporre che avrei pur sempre guadagnato qualcosa vivendo con recluse diverse. Comunque fossero non avrebbero potuto essere né più cattive, né più malevole. Il sabato mattina, verso le nove, ci fu grande agitazione in convento. Ci vuol ben poca cosa per mettere le monache in subbuglio. Andavano, venivano, parlavano a bassa voce; le porte dei dormitori si aprivano e si chiudevano. Come avete potuto constatare fin qui, è questo il segnale delle rivoluzioni monastiche. Ero sola nella mia cella; aspettavo, e il cuore mi batteva. Ascoltavo alla porta, guardavo dalla finestra, mi agitavo senza sapere che cosa facessi; trasalendo di gioia andavo dicendo a me stessa:
“Vengono e prendere me; fra poco non ci sarò più...” e infatti non mi sbagliavo.
Mi si presentarono due persone sconosciute: erano una monaca e la portinaia di De Moni. In poche parole mi misero al corrente della ragione della loro visita. Presi in fretta e furia le poche cose che mi appartenevano; le gettai alla rinfusa nel grembiule della portinaia che ne fece dei pacchetti. Non chiesi nemmeno di vedere la superiora; suor Orsola non c’era più, non avevo nessuno da salutare.
Scendo; mi aprono la porta dopo aver ispezionato quello che portavo con me; salgo su una carrozza ed eccomi partita.
L’arcidiacono, i due giovani ecclesiastici, la signora presidentessa e il signor Manouri si erano riuniti dalla superiora di De Moni dove furono avvertiti che avevo lasciato il convento. Via facendo, la monaca mi parlò del nuovo convento e ad ogni frase di quell’elogio che me ne veniva fatto, la portinaia aggiungeva a mo’ di ritornello:
“È la pura verità.” La mia compagna si rallegrava di essere stata scelta per venire a prendermi e voleva diventare mia amica, perciò mi confidò alcuni segreti e mi dette qualche consiglio sul modo di comportarmi. Quei consigli naturalmente andavano bene per lei, ma non potevano servire a me. Non so se avete visto il convento di De Moni. È una costruzione quadrata, di cui una facciata guarda sulla strada maestra e l’altra sulla campagna e i giardini. Ad ogni finestra della facciata che dava sulla strada, c’erano una, due, o tre monache. Bastò quella circostanza a dirmela più lunga di tutte le chiacchiere della monaca e della sua compagna sull’ordine che regnava nel convento.
Evidentemente conoscevano la carrozza con la quale arrivavo, perché in un batter d’occhio tutte quelle teste velate scomparvero ed io giunsi alla porta della mia nuova prigione. La superiora mi venne incontro a braccia aperte, mi abbracciò, mi prese per mano e mi condusse nella sala della comunità dove alcune monache ci avevano già preceduto e dove altre accorsero.
Questa superiora si chiama Signora di ***. Non so resistere al desiderio di descriverla prima di proseguire. È piccola, tutta tonda e nondimeno vivace e svelta nei movimenti; la testa non le sta mai ferma sulle spalle; nel suo abbigliamento c’è sempre qualcosa di stonato; il viso è più bello che brutto; i suoi occhi, di cui il destro è più alto e più grande dell’altro, sono pieni di fuoco e svagati; quando cammina, manda le braccia avanti e indietro. Se vuol parlare? apre bocca prima di aver riordinato le idee e così balbetta un po’. Se è seduta? si agita sul sedile come se qualcosa la infastidisse.
Dimentica ogni decoro, si toglie il soggolo per grattarsi la pelle, incrocia le gambe. Vi interroga, voi le rispondete, e lei non ascolta. Vi parla, e perde il filo del discorso; si ferma di botto, non sa più che cosa stava dicendo, va in collera e vi dà della bestia, della stupida, dell’imbecille, se non la rimettete sulla via. A volte è familiare fino a dare del tu, a volte imperiosa e altezzosa fino all’arroganza. I suoi momenti di dignità non durano a lungo ed è, a fasi alterne, compassionevole e severa. Il suo viso scomposto rivela l’incoerenza del suo animo e l’incostanza del suo carattere; perciò nel convento ordine e disordine si susseguivano in permanenza. C’erano giorni in cui tutto veniva mischiato, educande e novizie, novizie e professe; giorni in cui le une correvano nelle celle delle altre e insieme bevevano tè, caffè, cioccolata, liquori; giorni in cui si celebrava l’uffizio con una rapidità indecente. In mezzo a tutta quella confusione, di colpo il viso della superiora cambia, la campana suona, le monache si chiudono, si ritirano, il silenzio più profondo succede al rumore, alle grida, al tumulto.
Si direbbe che all’improvviso tutto è morto. In questi casi, se una monaca vien meno al più piccolo dovere, la superiora la fa andare nella sua cella, la tratta con durezza, le ordina di spogliarsi e di darsi venti colpi di disciplina. La monaca obbedisce, si spoglia, prende la disciplina, si flagella, ma si è appena data qualche colpo che la superiora torna ad essere compassionevole, le strappa lo strumento di penitenza, si mette a piangere, dice che si sente molto infelice per la punizione che le deve infliggere, le bacia la fronte, gli occhi, la bocca, la carezza, la loda: “Ma guardate che pelle bianca e morbida! Che aria florida! e che bel collo! e che bei capelli!... Sei pazza, suor Augustina a vergognarti così! Sono donna, e sono la tua superiora! lascia cadere quella camicia! Oh, che bel seno! com’è sodo! E io dovrei sopportare che tutta questa bellezza fosse ferita dalle sferzate! che non sia mai...” La bacia ancora, l’aiuta a rialzarsi, la riveste lei stessa, le dice le cose più tenere, la dispensa dalle funzioni e la rimanda nella sua cella.
Si è sempre a disagio con donne di questo genere. Non si sa mai che cosa possa piacere o dispiacere loro, che cosa si deve evitare e che cosa si deve fare; non vi è nessuna regola: o si è servite in abbondanza, o si muore di fame; l’economia del convento ne è tutta scombussolata; le rimostranze sono accolte male o ignorate. Si è sempre o troppo lontane o troppo vicine a superiore con un carattere simile; non c’è né vera distanza, né un giusto mezzo; se ne godono i favori, o si è in disgrazia senza sapere perché.
Volete avere, in una cosa da nulla, un esempio generale della su amministrazione? Due volte all’anno correva di cella in cella e faceva buttare dalle finestre tutte le bottiglie di liquori che vi trovava, e quattro giorni dopo era lei stessa che ne rimandava alla maggior parte delle monache. Ecco com’era colei alla quale avevo fatto voto solenne di obbedienza, dato che noi portiamo sempre i nostri voti da un convento all’altro.
Entrai con lei che mi guidava tenendomi allacciata per la vita. Fu servita una merenda di frutta, marzapane e confetture.
L’austero arcidiacono cominciò il mio elogio che interruppe dicendo: “Hanno avuto torto, hanno avuto torto, lo so...” L’austero arcidiacono volle continuare e la superiora lo interruppe dicendo: “Come hanno potuto allontanarla? È la modestia e la dolcezza in persona; dicono che è piena di qualità...” L’austero arcidiacono volle riprendere dalle ultime parole; di nuovo la superiora lo interruppe dicendomi sottovoce nell’orecchio: “Vi amo alla follia, e quando questi pedantoni se ne saranno andati, farò venire le nostre consorelle e voi canterete un’arietta, vero?” Mi venne una gran voglia di ridere. L’austero monsignor Hébert fu alquanto sconcertato, i suoi due giovani assistenti sorridevano del suo imbarazzo e del mio.
Intanto monsignor Hébert, ritrovando il suo carattere e le sue solite maniere le ordinò bruscamente di sedersi e le ingiunse di tacere. La superiora si sedette, ma non si sentiva a suo agio: mentre era seduta, si agitava, si grattava la testa, si aggiustava l’abito che non ne aveva affatto bisogno, sbadigliava. E intanto l’arcidiacono discorreva con molto buon senso del convento che avevo appena lasciato, di tutte le vicissitudini in cui ero incorsa, del convento nel quale entravo, degli obblighi contratti verso le persone che mi avevano servito. A questo punto guardai il signor Manouri che abbassò gli occhi.
Allora la conversazione si fece generale; il penoso silenzio che era stato imposto alla superiora cessò. Mi avvicinai al signor Manouri e lo ringraziai per tutto quello che aveva fatto per me. Tremavo, balbettavo, non sapevo quale riconoscenza promettergli. Il mio turbamento, il mio imbarazzo, il mio intenerimento, giacché ero veramente commossa, lacrime e gioia mescolate insieme, tutto il mio modo di fare, parlarono con molta più eloquenza di quanto non avrei saputo fare io.
La sua risposta non fu meno sconnessa del mio discorsetto; era turbato quanto me. Non so quel che mi andava dicendo, ma capii che se avesse addolcito la mia sorte, sarebbe stato più che ricompensato e che si sarebbe ricordato di quello che aveva fatto con un piacere ancor più grande del mio, che gli dispiaceva molto che i suoi impegni che lo tenevano legato al Palazzo di Parigi non gli permettessero di fare visite frequenti al chiostro di De Moni, ma che sperava di ottenere dal signor arcidiacono e dalla signora superiora il permesso di informarsi sulla mia salute e sulle mie condizioni.
L’arcidiacono non sentì, ma la superiora rispose:
“Finché vorrete, signore. Suor Susanna farà tutto quello che le piacerà; cercheremo di riparare qui tutti i patimenti che ha dovuto soffrire.”
Poi, a me, sottovoce:
“Figliola mia, hai proprio sofferto tanto? Ma come possono aver avuto il coraggio di maltrattarti, quelle creature di Longchamp? Ho conosciuto la tua superiora, siamo state educande insieme a Port-Royal. Era la bestia nera delle sue compagne.
Avremo tutto il tempo di vederci, mi racconterai...”
Così dicendo mi afferrava una mano sulla quale dava dei colpetti con la sua.
Anche i giovani ecclesiastici mi fecero i loro convenevoli. Era tardi; il signor Manouri si congedò da noi; l’arcidiacono e i suoi compagni si recarono dal signor ***..., signore di De Moni, dal quale erano stati invitati, ed io rimasi sola con la superiora. Ma non fu per molto. Tutte le monache, tutte le novizie, tutte le educande accorsero alla rinfusa: in un attimo mi vidi circondata da un centinaio di persone. C’erano visi di ogni tipo e si intrecciavano frasi di ogni genere. Capii però che non erano scontente, né delle mie risposte, né della mia persona.
Dopo un certo tempo che durava quel chiacchierare importuno e dopo che fu soddisfatta la prima curiosità, l’assembramento si disperse. La superiora allontanò quelle che rimanevano e venne di persona a sistemarmi nella mia cella. Me ne fece gli onori a modo suo, mostrandomi l’inginocchiatoio e dicendomi:
“Ecco dove la mia amichetta pregherà Dio; voglio che le venga messo un cuscino su questo gradino, perché i suoi ginocchietti non si facciano male. Non c’è più acqua benedetta in questa acquasantiera; quella suor Dorotea dimentica sempre qualcosa. Provate questa poltrona, vedete un po’ se ci state comoda...”
E mentre parlava, mi fece sedere, mi fece appoggiare la testa sullo schienale, mi baciò la fronte. Poi andò alla finestra per assicurarsi che i vetri si alzassero e si abbassassero facilmente; poi andò al letto, di cui tirò e ritirò le cortine per vedere se chiudevano bene. Esaminò le coperte: “sono calde”, disse. Prese il traversino e sprimacciandolo e facendolo gonfiare, diceva: “questa cara testolina starà benissimo appoggiata qui... Queste lenzuola non sono fini, ma sono quelle della comunità... Questi materassi sono buoni.”
Dopo di che viene verso di me, mi abbraccia e mi lascia. Durante questa scena, io dicevo dentro di me: “Che creatura folle!” E mi aspettavo di dover affrontare giorni buoni e giorni cattivi.
Mi sistemai nella cella, poi assistetti all’uffizio della sera, alla cena e alla ricreazione che seguì. Alcun monache mi si avvicinarono, altre si allontanarono; le prime contavano sulla mia protezione nei confronti della superiora, le altre erano già allarmate per la predilezione che mi aveva dimostrato. Quei primi momenti trascorsero in elogi reciproci, in domande sul convento che avevo lasciato, in tentativi di conoscere il mio carattere, le mie inclinazioni, il mio gusto, la mia intelligenza. Vi sondano dappertutto: è un susseguirsi di piccoli tranelli che vi vengono tesi e dai quali si traggono le conclusioni più esatte. Per esempio, dicono una frase maldicente e poi vi guardano; cominciano una storia e aspettano che chiediate il seguito o che ve ne disinteressiate. Se usate un’espressione qualsiasi, la trovano deliziosa benché sappiano benissimo che non ha niente di speciale; di proposito vi lodano o vi biasimano. Cercano di penetrare nei vostri pensieri più segreti; vi interrogano sulle vostre letture, vi offrono libri sacri o profani, notano le vostre scelte. Vi invitano a commettere lievi infrazioni alla regola; vi fanno delle confidenze; vi buttan lì qualche frasetta sulle bizzarrie della superiora: tutto viene raccolto e ripetuto. Vi lasciano, vi riprendono; indagano sui vostri sentimenti, sui costumi, sulla pietà, sulla società, sulla religione, sulla vita monastica, su tutto questo. Da questi esperimenti reiterati deriva un epiteto che vi caratterizza e che viene unito come soprannome al nome che portate; fu così che io venni chiamata suor Susanna la riservata.
La prima sera ricevetti la visita della superiora che venne nel momento in cui mi stavo spogliando. Fu lei che mi tolse il velo e il soggolo e che mi pettinò per la notte; fu lei che mi spogliò. Mi disse cento paroline dolci, mi fece mille carezze che mi misero un po’ in imbarazzo senza che capissi perché, dato che non ci capivo nulla e neppure lei. E anche oggi che ci rifletto, che cosa avremmo potuto capirci? In ogni modo ne parlai al mio direttore spirituale il quale considerò quelle familiarità che a me sembravano e continuavano a sembrare innocenti, con molta serietà e mi proibì severamente di prestarmici ancora. La superiora mi baciò il collo, le spalle, le braccia lodò il mio bell’aspetto e la mia vita sottile, poi mi mise a letto; mi rimboccò le coperte da entrambi i lati, mi baciò gli occhi, tirò le cortine e se ne andò. Dimenticavo di dirvi che supponeva ch’io fossi stanca, e mi permise di restare a letto finché avessi voluto.
Profittai del suo permesso e credo che sia stata la sola notte buona che abbia passato in convento. E dal convento non sono quasi mai uscita. Il giorno dopo, verso le nove, sentii bussare delicatamente alla porta. Ero ancora a letto; risposi, entrarono. Era una monaca che mi disse, piuttosto di malumore, che era tardi e che la madre superiora chiedeva di me. Mi alzai, mi vestii in fretta e andai.
“Buon giorno, figliola,” mi disse; “avete passato una buona notte? Ecco qui il caffè che vi aspetta da un’ora; credo sia buono; sbrigatevi a berlo e poi parleremo...”
E mentre parlava, stendeva un tovagliolo sulla tavola, ne spiegava un altro su di me, versava il caffè, lo inzuccherava. Le altre monache facevano altrettanto, le une nelle celle delle altre. Mentre facevo colazione, la superiora mi intrattenne sulle sue compagne, me le descrisse a seconda della sua avversione o della sua simpatia, mi fece mille affermazioni di amicizia, mille domande sul convento che avevo lasciato, sui miei genitori, su tutte le cose sgradevoli che avevo dovuto subire; lodò, biasimò secondo il suo estro, non stette mai a sentire le mie risposte fino in fondo. Non la contraddissi mai; fu molto contenta di trovarmi ricca di spirito, giudiziosa e discreta. Nel frattempo venne una monaca, poi un’altra, poi una terza, poi una quarta, una quinta. Parlarono degli uccelli di una certa madre, delle piccole manie di una certa sorella, di tutte le imperfezioni ridicole delle assenti. Vi fu grande allegria. In un angolo della cella c’era una spinetta; distrattamente vi posai le dita. Arrivata di recente al convento e non conoscendo le monache sulle quali stavano scherzando, mi divertivo ben poco; e quand’anche fossi stata più al corrente, non per questo mi sarei divertita di più. Ci vuole troppo spirito per scherzare come si deve, e poi, chi non ha qualcosa di ridicolo?
Mentre ridevano, io accennavo a qualche accordo; a poco a poco l’attenzione si rivolse verso di me. La superiora venne dalla mia parte e dandomi un colpetto sulle spalle, mi disse:
“Suvvia, suor Santa Susanna, divertici un po’; prima suona, poi dopo canterai.”
Feci ciò che mi diceva; eseguii alcuni pezzi che mi venivano spontaneamente alle dita; improvvisai qualche preludio e infine cantai alcuni versetti dei salmi di Mondonville.
“Davvero molto bene,” disse la superiora, “ma in chiesa abbiamo santità a sufficienza. Siamo sole; queste monache sono amiche mie e saranno anche amiche tue; cantaci qualcosa di più allegro.”
Alcune monache dissero:
“Ma forse non conosce altro che questo; è stanca del viaggio, bisogna risparmiarla; per una volta ha già suonato abbastanza.”
“No, no,” ribatté la superiora, “si accompagna che è una meraviglia, ha la voce più bella del mondo (effettivamente la mia voce non è brutta, benché sia più intonata, dolce e flessibile che forte e ampia). Non la lascerò libera finché non ci avrà cantato qualcos’altro.”
Le parole delle monache mi avevano un po’ offesa; risposi alla superiora che le monache non si divertivano più.
“Ma io mi diverto ancora.”
Mi aspettavo quella risposta. Perciò cantai una canzone alquanto delicata e tutte applaudirono, mi abbracciarono, mi accarezzarono, me ne chiesero un’altra: moine ipocrite, dettate dalla risposta della superiora. Fra di loro non ve n’era una che non mi avrebbe rubato la voce e spezzato le dita, se avesse potuto. Quelle che forse non avevano mai ascoltato musica in vita loro, si azzardarono a pronunciare sul mio conto giudizi ridicoli non meno che spiacevoli, che però non ebbero presa sulla superiora.
“Tacete,” ella disse, “suor Susanna suona e canta come un angelo e voglio che venga qui tutti i giorni: una volta sapevo suonare un po’ il clavicembalo e voglio rimettermici con lei.”
“Ah, signora,” le dissi, “se si è saputo una volta, non si è dimenticato tutto...”
“Molto volentieri, lasciami il posto.”
Dopo qualche preludio, suonò cose pazze, bizzarre, scucite come le sue idee, ma attraverso tutti i difetti della sua esecuzione, mi resi conto che aveva la mano infinitamente più leggera della mia. Glielo dissi perché mi piace lodare, e raramente ho perso l’occasione di farlo, quando potevo farlo con sincerità. È una cosa così dolce! Le monache si eclissarono una dopo l’altra ed io rimasi pressoché sola con la superiora a parlare di musica. Io stavo in piedi; lei era seduta e mi afferrava le mani e mi diceva stringendole:
“Non soltanto suona bene, ma ha anche le più belle dita del mondo; guardate qui, suor Teresa...”
Suor Teresa abbassava gli occhi, arrossiva, e balbettava; che io avessi o non avessi delle belle dita, che la superiora avesse torto o ragione di osservarlo, che importanza poteva avere per quella monaca? La superiora mi teneva allacciata per la vita e trovava che avevo il più bel vitino dei mondo. Mi aveva attirata a sé; mi aveva fatto sedere sulle sue ginocchia e mi sollevava la testa con le mani e mi esortava a guardarla. Lodava i miei occhi, la mia bocca, le mie guance, il mio incarnato. Io non rispondevo niente, tenevo gli occhi bassi e mi lasciavo andare a tutte quelle carezze come un’idiota.
Suor Teresa era assorta, inquieta, andava a destra e a sinistra, toccava tutto senza aver bisogno di niente, non sapeva che fare della sua persona, guardava dalla finestra, credeva di aver sentito bussare alla porta. La superiora le disse:
“Suor Santa Teresa, puoi andartene se ti annoi.”
“Non mi annoio, signora.”
“Il fatto è che ho mille cose da chiedere a questa figliola.”
“Lo credo.”
“Voglio sapere tutta la sua storia. Come potrò riparare tutto il male che le hanno fatto, se lo ignoro? Voglio che me lo racconti senza omettere niente, sono sicura che ne avrò il cuore straziato e che piangerò, ma non importa. Suor Santa Susanna, quand’è che potrò sapere tutto?”
“Quando me l’ordinerete, signora.”
“Te lo chiederei fra poco, se ne avessimo il tempo. Che ore sono?”
Suor Teresa rispose:
“Sono le cinque, signora, e i vespri stanno per suonare.”
“Può sempre cominciare.”
“Ma signora, mi avevate promesso un momento di consolazione prima dei vespri. Ho dei pensieri che mi turbano; vorrei proprio aprire il cuore alla mamma. Se vado all’uffizio senza averlo fatto, non potrò pregare, sarò distratta.”
“No, no!” disse la superiora, “sei pazza con quelle tue idee. Scommetto che so già di che si tratta; ne parleremo domani.”
“Ah, cara madre!” disse suor Teresa gettandosi ai piedi della superiora e sciogliendosi in lacrime, “fate che sia fra breve.”
“Signora,” dissi alla superiora alzandomi dalle sue ginocchia dove ero rimasta seduta, “concedete alla mia consorella ciò che ella vi chiede; non la fate ancora soffrire così; avrò sempre il tempo di soddisfare l’interesse che volete testimoniarmi, e quando avrete ascoltato la mia sorella Teresa, non soffrirà più.”
Feci il gesto di avviarmi verso la porta per uscire; la superiora mi tratteneva con una mano; suor Teresa, in ginocchio, si era impadronita dell’altra, la baciava e piangeva: la superiora le diceva:
“In verità, suor Teresa, sei molto importuna con le tue inquietudini; te l’ho già detto, è una cosa che non mi piace, che m’infastidisce; non voglio essere infastidita.”
“Lo so, ma non sono padrona dei miei sentimenti; vorrei e non ci riesco...”
Nel frattempo mi ero ritirata e avevo lasciato la giovane suora con la superiora.
In chiesa non potei fare a meno di guardarla: c’erano ancora in lei abbattimento e tristezza; i nostri occhi si incontrarono diverse volte e mi parve che le fosse difficile sostenere il mio sguardo. Quanto alla superiora, si era assopita nel suo stallo.
L’uffizio fu sbrigato con tale velocità. Da quel che potei giudicare, il coro non era il luogo del convento dove si stesse più volentieri. Le monache ne uscirono veloci e cinguettanti come uno stormo d’uccelli che prenda il volo da una gabbia e si dispersero le une nelle celle delle altre, correndo, ridendo, chiacchierando. La superiora si chiuse di nuovo nella sua cella e suor Teresa si fermò sulla soglia della sua, spiandomi come se fosse stata curiosa di sapere che cosa avrei fatto. Io rientrai nella mia cella e la porta di suor Teresa si chiuse solamente dopo un certo tempo, e si chiuse senza far rumore. Mi passò per la testa che quella fanciulla potesse essere gelosa di me e temesse ch’io le rubassi il posto che occupava nelle buone grazie e nell’intimità della superiora. La osservai per diversi giorni di seguito e quando i miei sospetti furono sufficientemente confermati dai suoi scatti di collera, dai suoi allarmi puerili, dalla sua insistenza nel pedinarmi, nell’interrompere i nostri colloqui, nel denigrare le mie qualità, nel mettere in risalto i miei difetti, e ancora più dal suo pallore, dal suo dolore, dai suoi pianti, dal suo stato di salute fisica e persino mentale, l’andai a trovare e le dissi:
“Che cosa avete, mia cara amica?”
Non rispose; la mia visita la sorprese e la imbarazzò; non sapeva che dire o che fare.
“Non siete giusta con me; ditemi la verità: voi temete ch’io profitti della simpatia che la nostra madre sente per me, che vi allontani dal suo cuore. State tranquilla, non è nel mio carattere. Se mai fossi abbastanza fortunata da poter influenzare in qualche modo il suo animo...”
“Voi avrete tutto quello che vorrete; lei vi ama; lei oggi fa per voi esattamente quello che ha fatto per me all’inizio.”
“Ebbene, in tal caso siate certa ch’io non mi servirò della fiducia che vorrà concedermi se non per rendervi più cara a lei.”
“E questo dipenderà da voi?”
“Perché non dovrebbe dipendere da me?”
Invece di rispondermi, mi buttò le braccia al collo e mi disse sospirando:
“Non è colpa vostra, lo so bene, me lo dico ad ogni istante; ma promettetemi...”
“Che cosa volete che vi prometta?”
“Che...”
“Dite, coraggio! Farò tutto quello che dipenderà da me.”
Esitò, si copri gli occhi con le mani e con voce così bassa che appena la sentii:
“Che la vediate meno che potrete.”
La richiesta mi parve così strana che non potei fare a meno di risponderle:
“Che importa a voi ch’io veda di frequente o di rado la nostra superiora? A me non dispiace affatto che voi la vediate di continuo. A voi non deve dispiacere ch’io faccia altrettanto; non vi basta la mia assicurazione ch’io non vi faccia torto presso di lei, né a voi, né a nessun’altra?”
Suor Teresa non mi rispose che con queste parole che pronunciò in maniera dolorosa staccandosi da me e buttandosi sul letto:
“Sono perduta!”
“Perduta! E perché? Bisogna proprio che mi crediate la creatura più perfida che ci sia al mondo!”
Eravamo a questo punto quando entrò la superiora. Era passata nella mia cella e non avendomi trovata, aveva girato inutilmente per tutto il convento. Non le era venuto in mente che potessi essere da suor Santa Teresa. Dopo che le venne riferito dalle monache che aveva mandato alla mia ricerca, accorse. Lo sguardo e il volto rivelavano un certo turbamento, ma tutta la sua persona era così di rado composta!
Seduta sul suo letto, suor Santa Teresa taceva; io ero in piedi. Dissi alla superiora:
“Mia cara madre, vi chiedo perdono di essere venuta qui senza il vostro permesso.”
“È vero,” mi rispose, “che sarebbe stato meglio chiedermelo.”
“Ma questa cara sorella mi ha fatto compassione; ho visto che soffriva.”
“E perché soffriva?”
“Ve lo debbo proprio dire? E dopo tutto perché non ve lo dovrei dire? È per una delicatezza che fa molto onore alla sua anima e che manifesta in maniera spiccata il suo attaccamento per voi. La bontà che mi avete testimoniato ha messo in allarme la sua tenerezza: ella teme che il vostro cuore finisca per preferirmi a lei. Questo sentimento di gelosia, così onesto d’altro canto, così naturale e così lusinghiero per voi, mia cara madre, da quel che mi è sembrato di capire era divenuto crudele per la mia sorella, ed io la rassicuravo.”
Dopo avermi ascoltato, la superiora assunse un’aria severa e imponente, e disse a suor Santa Teresa:
“Suor Teresa, io vi ho amata e vi amo ancora; non ho ragione di lamentarmi di voi e voi non avrete da lamentarvi di me, ma non posso tollerare queste pretese di esclusività. Liberatevene, se temete di spegnere quel che mi rimane d’affetto per voi, e se vi ricordate la sorte di suor Agata...”
Poi, rivolgendosi a me, soggiunse:
“Sto parlando di quella bruna alta che nel coro sta di fronte a me.” (Io ero così schiva, ero da così poco tempo in quel convento, ero così nuova, che non sapevo ancora tutti i nomi delle mie compagne.)
La superiora proseguì:
“La amavo, quando suor Teresa entrò in convento ed io cominciai a prediligerla.
Suor Agata ebbe gli stessi turbamenti, commise le stesse pazzie. Io l’avvertii, e lei non si corresse. Allora fui costretta a ricorrere a mezzi severi che sono durati troppo a lungo e che sono del tutto contrari al mio carattere; tutte vi diranno infatti ch’io sono buona e non punisco se non a malincuore.”
Poi, rivolgendosi a suor Santa Teresa, aggiunse:
“Figliola mia, non voglio essere infastidita, ve l’ho già detto; voi mi conoscete, non mi fate agire facendo violenza alla mia natura...”
Poi, appoggiandomi una mano sulla spalla, mi disse:
“Venite, suor Santa Susanna, accompagnatemi.”
Uscimmo. Suor Santa Teresa fece il gesto di seguirci, ma la superiora, volgendo negligentemente lo sguardo sopra la mia spalla, le disse con tono autoritario:
“Tornate nella vostra cella e non uscitene senza il mio permesso.”
Suor Santa Teresa ubbidì, richiuse la porta con violenza e si lasciò sfuggire alcune frasi che fecero fremere la superiora senza ch’io capissi perché, giacché non avevano alcun senso. Vidi la sua collera e le dissi:
“Cara madre, se avete qualche bontà per me, perdonate la mia sorella Teresa; ha perso la testa, non sa quello che dice; non sa quello che fa.”
“Volete ch’io la perdoni? La perdonerò; ma voi, che mi darete?”
“Ah, cara madre, sarei così fortunata, io, da avere qualcosa che vi piacesse e che vi placasse?”
La superiora abbassò gli occhi, arrossì, e sospirò; era proprio come un innamorato. Poi, abbandonandosi languidamente su di me come se si sentisse mancare, mi disse:
“Avvicinate la vostra fronte, ch’io la baci...”
Mi curvai ed ella mi baciò la fronte. A partire da quel giorno, non appena una monaca aveva commesso qualche colpa, io intercedevo, ed ero sicura di ottenere per lei la sua grazia in cambio di qualche favore innocente; si trattava sempre di un bacio sulla fronte, o sul collo, o sugli occhi, o sulle guance, o sulla bocca, o sulle mani, o sul petto, o sulle braccia, ma più spesso sulla bocca. Ella trovava che avevo un alito puro, i denti bianchi e le labbra fresche e vermiglie.
A dire il vero sarei davvero bella, se meritassi la minima parte degli elogi che mi faceva: a sentir lei la mia fronte era bianca, liscia e di una forma incantevole; i miei occhi erano brillanti; le mie guance vermiglie e dolci; le mie mani piccole e paffutelle; il mio petto era sodo come la pietra e di una forma perfetta; quanto alle mie braccia, non ve n’erano di meglio tornite e di più rotonde; nessuna delle suore, poi, aveva un collo fatto meglio del mio, né di una bellezza più squisita e più rara; e come potrei ricordare tutte le altre cose che mi diceva! C’era, nelle lodi che mi faceva, qualcosa di vero; a molte facevo la tara, ma non a tutte. Qualche volta, guardandomi dalla testa ai piedi con un’aria di compiacimento che non avevo mai visto a nessun’altra donna, mi diceva:
“È la più grande fortuna del mondo che Dio l’abbia chiamata in convento; con quel viso lì, nel mondo avrebbe fatto dannare tutti gli uomini che avesse incontrato, e si sarebbe dannata con loro. Dio fa bene tutto quello che fa.”
Intanto ci avvicinavamo alla sua cella; io mi accingevo a lasciarla, ma lei mi prese per mano e mi disse:
“È troppo tardi per cominciare la vostra storia di Santa Maria e di Longchamp, ma entrate lo stesso, mi darete una lezioncina di clavicembalo.”
La seguii. Ebbe presto fatto, vivace com’era, ad aprire il clavicembalo, a preparare uno spartito, ad avvicinare una sedia. Mi sedetti. Pensò che potessi aver freddo; prese da una sedia un cuscino che posò davanti a me, si chinò, mi prese entrambi i piedi che posò sopra il cuscino; poi si mise dietro la sedia e si appoggiò allo schienale. Dapprima accennai a qualche accordo; poi suonai qualche pezzo di Couperin, di Rameau, di Scarlatti; lei intanto aveva sollevato un lembo della bavetta che mi copriva il collo, la sua mano si era posata sulla mia spalla nuda e la punta delle dita sul mio petto. Sospirava, sembrava oppressa, respirava affannosamente; la mano che teneva sulla mia spalla, in un primo momento la premeva con forza, poi non la premeva più per niente, come se fosse stata senza forza e senza vita, e allora la sua testa ricadeva sulla mia. Quella pazza era, a onor del vero, di una sensibilità incredibile e aveva un gusto spiccato per la musica; non ho mai conosciuto nessuno su cui la musica producesse effetti tanto singolari.
Ci divertivamo così, in maniera semplice quanto dolce, allorché all’improvviso la porta si spalancò con violenza; ne ebbi paura e così pure la superiora. Era quella stravagante di suor Santa Teresa, con gli abiti in disordine e gli occhi torbidi. Ci scrutava l’una e l’altra con l’attenzione più bizzarra; le tremavano le labbra, non poteva parlare. Infine riuscì a tornare in sé e si gettò ai piedi della superiora; io unii la mia preghiera alla sua e ottenni ancora una volta il suo perdono. La superiora le assicurò nel modo più categorico che sarebbe stata l’ultima volta, almeno per colpe di quel genere, e suor Teresa ed io uscimmo insieme.
Tornando alle nostre celle le dissi:
“State attenta, cara sorella, voi indisporrete la nostra madre. Io non vi abbandonerò, ma voi finirete col togliermi ogni credito presso di lei e io sarò disperata di non poter più niente né per voi, né per nessun’altra. Ma quali idee avete in testa?”
Nessuna risposta.
“Che cosa temete da parte mia?”
Nessuna risposta.
“La nostra madre non può forse amarci in egual modo tutte e due?”
“No, no,” rispose lei con violenza, “è impossibile; presto io le ripugnerò e ne morrò di dolore. Ah, ma perché siete venuta qui! Non vi sarete felice a lungo, ne sono sicura. E io, io sarò infelice per sempre.”
“È una gran disgrazia, lo so,” le risposi, “aver perduto la benevolenza della propria superiora, ma io ne conosco una più grande, ed è d’averla meritata; non avete nulla da rimproveravi?”
“Ah, così piacesse a Dio!”
“Se in cuor vostro vi accusate di qualche colpa, dovete ripararla; e il mezzo più sicuro è di sopportare pazientemente il castigo.”
“Non saprei, non saprei proprio, e in ogni caso, spetta a lei punirmi?”
“A lei, suor Teresa, a lei! Si parla forse così di una superiora? Non è una cosa buona, questa; voi state trascendendo. Sono sicura che questa vostra colpa e più grave di tutte quelle che vi rimproverate.”
“Ah, così piacesse a Dio,” ripeté, “piacesse a Dio!”
Ci separammo, lei per andare nella sua cella a desolarsi, io per andare nella mia a riflettere sulle stranezze delle teste femminili.
Questo è dunque l’effetto della clausura. L’uomo è nato per vivere in società.
Separatelo, isolatelo, le sue idee si dissoceranno, il suo carattere cambierà radicalmente, mille affetti ridicoli gli nasceranno nel cuore, pensieri stravaganti gli germoglieranno nella mente come rovi in una terra selvatica. Mettete un uomo in una foresta, diventerà feroce; in un chiostro, dove l’idea di necessità si associa a quella di schiavitù, è ancor peggio; si esce da una foresta, non si esce più da un chiostro; si è liberi nella foresta, si è schiavi in un chiostro. Forse occorre una forza d’animo ancor più grande per resistere alla solitudine che alla miseria; la miseria avvilisce, la clausura deprava. È forse meglio vivere nell’abiezione che nella follia. Non sarei in grado di decidere; ma bisogna evitare l’una e l’altra.
Vedevo crescere di giorno in giorno la tenerezza che la superiora aveva concepito per me. Ero di continuo nella sua cella, oppure lei era nella mia; per la minima indisposizione mi ordinava l’infermeria, mi dispensava dalle funzioni religiose, mi mandava a letto presto o mi proibiva l’orazione del mattino. Nel coro, al refettorio, a ricreazione, trovava il modo di testimoniare la sua amicizia. Se nel coro ci s’imbatteva in un versetto che esprimeva un sentimento affettuoso e tenero, lo cantava dedicandolo a me, oppure mi guardava se a cantarlo era un’altra. Al refettorio, mi mandava sempre ad assaggiare i cibi squisiti che le venivano serviti. Durante la ricreazione, mi allacciava la vita e mi diceva le cose più dolci e amabili. Non riceveva regalo che non dividesse con me: cioccolata, zucchero, caffè, liquori, tabacco, biancheria, fazzoletti, qualsiasi cosa.
Aveva spogliato la sua cella di stampe, utensili, mobili e di un’infinità di cose piacevoli e comode per adornare la mia; non potevo allontanarmi un momento senza trovarla, al mio ritorno, arricchita di qualche regalo. Andavo a ringraziarla nella sua cella ed ella provava una gioia indescrivibile; mi abbracciava, mi accarezzava, mi prendeva sulle ginocchia, mi metteva al corrente delle cose più segrete del convento, e si riprometteva, se io l’avessi amata, una vita mille volte più felice di quella che avrebbe trascorso nel mondo. Dopo di che si interrompeva, mi guardava con occhi inteneriti e mi diceva:
“Mi amate, suor Susanna?”
“E come potrei non amarvi? Dovrei avere l’animo davvero ingrato.”
“Questo è vero.”
“Avete tanta bontà per me...”
“Dite, piuttosto, attrazione per voi.”
Pronunciando queste parole, abbassava gli occhi, la mano con cui mi teneva abbracciata mi stringeva più forte, quella che mi aveva posato sul ginocchio, accentuava la sua pressione, mi attirava su di sé, il mio viso si trovava sopra il suo, lei sospirava, si 78 rovesciava sullo schienale della sedia, tremava, si sarebbe detto che avesse da confidarmi qualcosa e non osasse; versava lacrime, e poi mi diceva:
“Ah, suor Susanna, voi non mi amate!”
“Io non vi amo, cara madre?”
“No.”
“Ditemi allora che cosa devo fare per provarvelo.”
“Dovreste indovinare da sola.”
“Cerco, ma non indovino niente.”
Intanto si era tolta la bavetta e aveva posato la mia mano sul suo petto. Ella taceva, e anch’io tacevo; sembrava che assaporasse il più grande piacere. Mi esortava a baciarle la fronte, le guance, gli occhi, la bocca, ed io obbedivo: non credo che in questo ci fosse niente di male. Intanto il suo piacere aumentava e giacché io non chiedevo di meglio che accrescere la sua felicità in un modo così innocente, le baciavo ancora la fronte, le guance, gli occhi e la bocca.
La mano che aveva posato sul mio ginocchio andava su e giù per i miei abiti, dalla punta dei piedi fino alla cintola, ora premendo in un punto, ora in un altro; balbettando mi esortava con voce alterata e bassa, a raddoppiare le mie carezze. Io le raddoppiavo. Giunse infine un momento, non so se di piacere o di dolore, in cui divenne pallida come una morta; gli occhi le si chiusero, tutto il suo corpo si irrigidì con violenza, le sue labbra umide come di una schiuma leggera, prima si strinsero, poi la bocca le si dischiuse e mi parve che morisse esalando un profondo sospiro. Mi alzai bruscamente, credetti che si sentisse male, volevo uscire, chiamare aiuto. Aprì debolmente gli occhi, e mi disse con voce spenta:
“Innocente, non è niente. Che volete fare? Fermatevi...”
La guardai sgranando gli occhi stupefatti, incerta se restare o uscire. Aprì di nuovo gli occhi; non poteva più parlare per niente; mi fece cenno di avvicinarmi e di tornare a sedermi sulle sue ginocchia. Non so che cosa stesse succedendo dentro di me; temevo, tremavo, il cuore mi palpitava forte, facevo fatica a respirare, mi sentivo turbata, oppressa, agitata, avevo paura, mi sembrava che le forze mi abbandonassero e che stessi per svenire; ciò nonostante non potrei dire che provassi dolore. Mi avvicinai a lei; mi fece di nuovo cenno con la mano di sedermi sulle sue ginocchia; mi sedetti. Lei era come morta, ed io come se stessi per morire. Entrambe rimanemmo alquanto a lungo in quello strano stato; se fosse sopravvenuta qualche monaca, in verità si sarebbe assai spaventata; sembrava che ci fossimo sentite male o che ci fossimo addormentate. Nel frattempo mi parve che quella buona superiora, poiché è impossibile essere così sensibili e non essere buone, tornasse in sé; era sempre riversa sulla sedia con gli occhi sempre chiusi; ma il suo viso si era rianimato e aveva ripreso i più bei colori; mi prendeva una mano, la baciava, e io le dicevo:
“Ah, mia cara madre, mi avete fatto davvero paura...”
Sorrise dolcemente senza aprire gli occhi.
“Ma non avete sofferto?”
“No.”
“Ho creduto di sì.”
“Che innocente! Ah, che cara innocente! Come mi piace!”
Nel dire così, si sollevò, si rimise a sedere, mi prese tra le braccia e mi baciò sulle guance con molta foga, poi mi disse:
“Quanti anni avete?”
“Non ho ancora diciannove anni.”
“È inconcepibile!”
“Cara madre, non c’è niente di più vero.”
“Voglio conoscere la vostra vita; me la racconterete?”
“Sì, cara madre.”
“Tutta?”
“Tutta.”
“Ma potrebbe entrare qualcuno; andiamoci a mettere al clavicembalo; mi farete lezione.”
Andammo al clavicembalo, ma non so come accadde, le mani mi tremavano, lo spartito non mi lasciava intravedere che un ammasso confuso di note; non fui capace di suonare. Glielo dissi, e lei si mise a ridere. Prese il mio posto, ma fu anche peggio; poteva appena sollevare le braccia.
“Figliola mia,” mi disse, “vedo che tu non sei in condizioni di darmi lezioni, né io di imparare; sono un po’ stanca; bisogna che mi riposi. Addio. Domani, senza più indugiare, voglio sapere tutto quello che è accaduto in quella vostra cara piccola anima. Addio.”
Le altre volte, quando uscivo, mi accompagnava fino alla porta, mi seguiva con gli occhi lungo tutto il corridoio fino alla mia; mi buttava un bacio con la mano e rientrava nella sua cella solo quando ero rientrata nella mia. Quella volta, riuscì appena ad alzarsi; tutto quello che poté fare fu di raggiungere la poltrona che era accanto al suo letto; si sedette, reclinò la testa sul guanciale, mi buttò il bacio con le mani, mentre gli occhi le si chiudevano, e io me ne andai.
La mia cella era quasi di fronte alla cella di suor Santa Teresa. La porta era aperta. Suor Santa Teresa mi aspettava.
Mi fermò e mi disse:
“Ah, suor Santa Susanna, venite dalla cella della nostra madre?”
“Sì,” le risposi.
“Vi siete rimasta a lungo.”
“Tutto il tempo che lei ha voluto.”
“Non è quello che mi avevate promesso. Osereste dirmi che cosa ci avete fatto?”
Benché la mia coscienza non avesse nulla da rimproverarmi, vi confesserò, signor marchese, che quella domanda mi turbò. Lei se ne accorse, insisté, ed io risposi:
“Forse cara sorella, voi non mi credereste; ma forse crederete alla nostra cara madre, e io la pregherò di mettervi al corrente.”
“Mia cara suor Santa Susanna,” mi disse vivamente, “guardatevene bene. Voi non volete la mia infelicità: non me lo perdonerebbe mai. Voi non la conoscete: è capace di passare dalla più grande sensibilità alla ferocia; non so che cosa ne farebbe di me. Promettetemi di non dirle niente.”
“Ci tenete proprio?”
“Ve lo chiedo in ginocchio. Sono disperata; vedo bene che dovrò decidermi, e mi deciderò. Promettetemi di non dirle niente.”
La feci rialzare, le detti la mia parola. Ella ci fece assegnamento ed ebbe ragione.
Poi ci chiudemmo, lei nella sua cella, io nella mia.
Tornata che fui nella mia cella, mi resi conto di essere nelle nuvole. Volli pregare, e non vi riuscii; cominciai un lavoro e lo lasciai per un altro che lasciai a sua volta per un altro ancora. Le mani mi si fermavano da sole e mi sentivo come stupidita.
Mai avevo provato qualcosa di simile; i miei occhi si chiusero da soli e feci un sonnellino, benché non dorma mai durante il giorno. Quando mi fui svegliata, mi interrogai su quello che era accaduto tra me e la superiora; feci un esame di coscienza, poi, esaminandomi ancora, credetti di intravedere... ma erano idee così vaghe, così folli, così balorde, che le respinsi lontano da me. Il risultato delle mie riflessioni fu che forse si trattava di una malattia della quale ella soffriva; poi mi venne anche un’altra idea: che forse quella malattia fosse contagiosa, che suor Teresa l’avesse contratta, e che l’avrei contratta anch’io.
L’indomani, dopo l’uffizio del mattino, la nostra superiora mi disse: “Suor Santa Susanna, oggi spero proprio di sapere tutto quello che vi è successo; venite da me.”
Andai. Mi fece sedere nella sua poltrona accanto al letto ed ella si mise su una sedia un po’ più bassa. In tal modo la dominavo, un po’ perché sono più alta e un po’ perché ero seduta in posizione più elevata. Con un gomito stava appoggiata al letto, ed era così vicina a me che le mie ginocchia s’intrecciavano con le sue. Dopo un breve momento di silenzio, le dissi:
“Benché sia molto giovane, ho sofferto non poco. Saranno presto vent’anni che sono al mondo, e vent’anni che soffro. Non so se riuscirò a dirvi tutto, e se voi avrete il coraggio di stare a sentire. Sofferenze in casa dei miei genitori, sofferenze nel convento di Santa Maria, sofferenze nel convento di Longchamp, sofferenze dappertutto. Cara madre, da che parte volete che cominci?”
“Dalle prime.”
“Cara madre,” le dissi, “sarà molto lungo e molto triste, e non vorrei addolorarvi per troppo tempo.”
“Non temere, mi piace piangere: per un’anima tenera, versare lacrime è una condizione deliziosa. Anche a te deve piacer piangere; tu asciugherai le mie lacrime, io asciugherò le tue, e forse saremo felici in mezzo al racconto dei tuoi patimenti; chi lo sa fin dove può condurci l’intenerimento...”
Nel pronunciare queste ultime parole, mi guardò dal basso in alto con occhi già umidi, mi prese le mani, mi si avvicinò ancor di più in modo che lei mi toccava, ed io la toccavo.
“Racconta, figliola mia,” mi disse, “io sto aspettando e mi sento nella disposizione d’animo più propizia ad intenerirmi; non credo di aver mai avuto in vita mia un giorno più disposto alla comprensione e all’affetto...”
Cominciai dunque a raccontare la mia storia all’incirca come l’ho scritta a voi.
Non sono in grado di dirvi l’effetto che produsse su di lei, i sospiri che emise, le lacrime che versò, le manifestazioni di sdegno contro i miei crudeli genitori, contro le orribili monache di Santa Maria, contro quelle di Longchamp; mi dorrebbe assai se fossero state colpite dalla minima parte del male che augurava loro: io non vorrei aver strappato nemmeno un capello dalla testa del mio più crudele nemico. Ogni tanto m’interrompeva, si alzava, andava su e giù per la cella, poi si sedeva di nuovo al suo posto; altre volte alzava gli occhi e le mani al cielo, e poi si nascondeva con la testa fra le mie ginocchia. Quando le parlavo della mia scena nella segreta, di quella del mio esorcismo, della mia onorevole ammenda, si mise quasi a gridare. Quando giunsi alla fine del mio racconto, tacqui, ed ella rimase per un certo tempo con il corpo piegato sul letto, il viso nascosto nella coperta e le braccia tese sopra la testa; e io intanto le dicevo:
“Cara madre, vi chiedo perdono per tutto il dolore che vi ho dato; vi avevo avvertito, siete stata voi a volerlo...”
E lei non mi rispondeva che con queste parole:
“Che perfida creatura! Che orribile creatura! Solo nei conventi l’umanità può arrivare a questi estremi. Quando l’odio si aggiunge al malumore abituale, non si sa più dove andranno a finire le cose. Per fortuna io sono dolce, io amo tutte le mie monache; tutte, chi più e chi meno, hanno preso qualcosa del mio carattere, e si amano tutte fra loro. Ma come ha potuto resistere una salute così delicata a tanti patimenti? Come hanno fatto tutte queste esili membra a non spezzarsi? Come ha potuto non lasciarsi distruggere questo fragile organismo? E come mai lo splendore di questi occhi non si è spento tra le lacrime? Ah, quale crudeltà! Stringere queste braccia con delle corde!...”
E mi prendeva le braccia e le baciava.
“Annegare nelle lacrime questi occhi!...” E li baciava.
“Strappare gemiti e lamenti da questa bocca!...” E la baciava.
“Condannare questo visino delizioso e sereno a velarsi continuamente delle nuvole della tristezza!...” E lo baciava.
“Fare appassire le rose di queste guance!...” E le carezzava con la mano, e le baciava.
“Disabbellire questa testa, strapparle i capelli, gravare di affanni questa fronte!...” E mi baciava la testa, la fronte, i capelli.
“Osare cingere di una corda questo collo, ferire queste spalle con delle punte aguzze...” E scostava la bavetta e il velo, sbottonava il mio abito in alto. I capelli mi ricadevano sparsi sul collo, sulle spalle coperte e sul petto seminudo. Dal tremito che la coglieva, dai suoi discorsi confusi, dallo smarrimento dei suoi occhi e delle sue mani, dal ginocchio che premeva tra i miei, dall’ardore con il quale mi stringeva e dalla violenza con la quale le sue braccia mi allacciavano, mi accorsi allora che il suo male non avrebbe tardato a riprenderla. Non so quel che stesse accadendo in me, ma mi sentivo colta da uno spavento, da un tremito, da un senso di mancamento che confermavano il mio sospetto che quel suo male fosse contagioso.
Le dissi:
“Cara madre, guardate in che disordine mi avete messa; se qualcuno venisse!”
“Rimani, rimani,” mi disse con voce affannosa, “non verrà nessuno...”
Io però facevo degli sforzi per alzarmi e strapparmi a lei, e intanto le dicevo:
“Cara madre, state attenta, ecco il vostro male che vi riprende. Permettete che me ne vada...”
Volevo andarmene; lo volevo, questo è certo, ma non potevo; avevo perduto ogni forza, le ginocchia mi si piegavano. Lei era seduta, io in piedi. Lei mi attirava a sé, io avevo paura di caderle addosso e di farle male. Mi sedetti sull’orlo del letto, e le dissi:
“Cara madre, non so che cos’ho, mi sento male.”
“Anch’io,” mi disse, “ma riposati un momento, ora passa, non è niente.”
Infatti la superiora ritrovò la calma: ed io pure. Eravamo tutte e due abbattute. Io tenevo la testa reclina sul guanciale, lei stava con la testa posata su un mio ginocchio, la fronte su una mia mano. Restammo per un certo tempo in quella posizione. Non so che cosa pensasse lei; quanto a me, non pensavo a niente; non potevo, ero in preda a una debolezza che mi prendeva tutta quanta. Stavamo in silenzio. La superiora lo interruppe per prima; mi disse:
“Susanna, mi è parso, da quel che mi avete detto della vostra superiora, che vi fosse molto cara.”
“Molto.”
“Lei non vi amava più di me, ma era più amata da voi Non rispondete?”
“Ero infelice, e lei addolciva le mie pene.”
“Ma da che cosa nasce questa vostra ripugnanza per la vita religiosa? Voi non mi avete detto tutto, Susanna.”
“Perdonatemi, signora.”
“Come! Non è possibile, incantevole come siete, giacché lo siete, figliola mia, lo siete molto, non immaginate nemmeno quanto lo siete, non e possibile che nessuno ve l’abbia detto.”
“Me l’hanno detto.”
“E colui che ve lo diceva, non vi dispiaceva?”
“No.”
“Vi siete sentita attratta da lui?”
“Per niente.”
“Come! Il vostro cuore non ha mai sentito niente?”
“Niente.”
“Come! Non è stata una passione segreta, o non approvata dai vostri genitori, a far nascere in voi quest’avversione per il convento? Confidatevi pure con me; sono indulgente io!”
“Cara madre, non ho niente da confidarvi a questo proposito.”
“Ancora una volta, da dove nasce allora la vostra ripugnanza per la vita religiosa?”
“Dalla vita religiosa stessa. Odio i doveri, le occupazioni, il ritiro, le costrizioni che impone; mi sembra di essere chiamata a qualcosa di diverso.”
“Ma che cos’è che vi da quest’impressione?”
“La noia che mi opprime. Io mi annoio.”
“Anche qui?”
“Sì, cara madre, anche qui, nonostante tutta la bontà che mi dimostrate.”
“Ma voi provate dentro di voi qualche impulso, qualche desiderio?”
“Nessuno.”
“Vi credo: la vostra indole sembra tranquilla.”
“Abbastanza.”
“Fredda, persino.”
“Non lo so.”
“Voi non conoscete il mondo?”
“Lo conosco poco.”
“Quale attrazione, allora, può avere per voi?”
“Non mi è molto chiaro; eppure bisogna che ne abbia.”
“Rimpiangete forse la libertà?”
“È così. E forse molte altre cose.”
“Quali sono, queste altre cose? Amica mia, parlatemi a cuore aperto; vorreste essere sposata?”
“Sarebbe sempre preferibile a quello che sono adesso, questo è certo.”
“Perché una simile preferenza?”
“Lo ignoro.”
“Lo ignorate? Ma ditemi, che impressione fa su di voi la presenza di un uomo?”
“Nessuna. Se è intelligente e parla bene, sto a sentirlo con piacere; se ha un bell’aspetto, lo noto.”
“E il vostro cuore non è turbato?”
“Finora non ha provato nessuna emozione.”
“Come! Quando hanno fissato i loro occhi accesi nei vostri, non avete sentito...”
“Talvolta un certo imbarazzo che mi faceva abbassare i miei.”
“Senza nessun turbamento?”
“Nessuno.”
“E i vostri sensi non vi dicevano niente?”
“Non so che cosa sia il linguaggio dei sensi.”
“Eppure, hanno un linguaggio.”
“Può darsi.”
“E voi non lo conoscete?”
“Affatto.”
“Come! voi... È un linguaggio molto dolce, vi piacerebbe conoscerlo?”
“No, cara madre, a che cosa mi gioverebbe?”
“A dissipare la vostra noia.”
“Ad accrescerla, forse. E poi, che significato ha questo linguaggio dei sensi, se non ha un oggetto?”
“Quando si parla, ci si rivolge sempre a qualcuno. Sicuramente meglio che intrattenersi da soli, benché anche questo non sia del tutto privo di piacere.”
“Non capisco niente di quello che dite.”
“Se tu volessi, cara figliola, potrei essere più chiara.”
“No, cara madre, no. Io non so niente e preferisco non sapere niente piuttosto che conoscere cose che forse mi renderebbero più degna che essere compianta di quanto già non lo sia. Non ho nessun desiderio, e non voglio averne, se non posso soddisfarli.”
“Perché non potresti?”
“Come potrei?”
“Come me.”
“Come voi! Ma non c’è nessuno in questo convento...”
“Ci sono io, cara amica, ci siete voi...”
“E con questo? che cosa sono io per voi? che cosa siete per me?”
“Oh, com’è innocente!”
“Oh, sì, è vero, cara madre, sono molto innocente, e preferirei morire piuttosto che non esserlo più.”
Ignoro che cosa potessero avere di sgradevole per lei queste ultime parole, ma all’improvviso le fecero cambiare espressione; si fece seria, imbarazzata; la mano che aveva posato sul mio ginocchio, dapprima smise di premere, poi si ritirò. Teneva gli occhi bassi. Le dissi:
“Mia cara madre, che cosa è accaduto? Mi è forse sfuggita qualche parola che potrebbe avervi offesa? Perdonatemi. Approfitto della libertà che mi avete concessa, non rifletto su quello che ho da dirvi, e inoltre, anche se riflettessi, non parlerei diversamente. Forse parlerei anche peggio. Le cose di cui stiamo parlando, mi sono così estranee... Perdonatemi!”
Nel così dire le gettai le braccia intorno al collo e le posai la testa sulla spalla.
Lei fece altrettanto e mi strinse a sé con molto calore. Rimanemmo così per qualche istante; poi, ritrovando la sua tenerezza e la sua serenità, mi disse:
“Susanna, dormite bene?”
“Benissimo,” le risposi, “soprattutto da un po’ di tempo a questa parte.”
“E vi addormentate subito?”
“Di solito, sì.”
“Ma quando non vi addormentate subito, a che cosa pensate?”
“Alla mia vita passata, a quella che mi resta ancora, oppure prego Dio, o piango, che altro ancora?”
“E la mattina, quando vi svegliate presto?”
“Mi alzo.”
“Subito?”
“Subito.”
“Non vi piace stare a fantasticare?”
“No.”
“A riposarvi tra i guanciali?”
“No.”
“A godere del tepore del letto?”
“No.”
“Mai...”
A questo punto tacque, e fece bene; quel che aveva da chiedermi non era una cosa molto bella, e forse io faccio anche più male a dirla, ma ho deciso di non nascondere niente.
“Non avete mai avuto la tentazione di guardare con compiacimento come siete bella?”
“No, cara madre. Non so se io sia proprio bella come dite voi, e quand’anche lo fossi, si è belle per gli altri, non per se stesse.”
“Non avete mai pensato ad accarezzare questo petto, queste cosce, questo ventre, queste carni così sode, così dolci, così bianche?”
“Quanto a questo, oh, no di certo! Sarebbe peccato. E se mi fosse capitata una cosa simile, non so come avrei fatto a dirlo in confessione...”
Non so che cos’altro ci stavamo dicendo, quando vennero ad avvertirla che qualcuno la stava aspettando in parlatorio. Mi parve che quella visita non le fosse gradita e che avrebbe preferito continuare a parlare con me, benché non fosse proprio il caso di rimpiangere quello che ci stavamo dicendo. In ogni modo ci separammo.
La comunità non era mai stata felice come dal giorno in cui io ero entrata a farne parte. La superiora sembrava che non avesse più i suoi sbalzi d’umore; si diceva ch’io l’avessi equilibrata. Grazie a me ella concesse anche diversi giorni di ricreazione, e quelle che sono chiamate delle feste; in quei giorni si è servite un po’ meglio del solito, le funzioni sono più brevi e tutti gli intervalli tra le funzioni sono dedicati allo svago.
Ma quel tempo felice doveva passare, per le altre, e per me.
La scena che vi ho descritto fu seguita da innumerevoli altre dello stesso genere sulle quali sorvolo. Ecco quale fu il seguito di quella di cui vi ho parlato.
La superiora cominciava a dar segni di irrequietudine; perdeva la sua bella allegria, la salute, il riposo. La notte seguente, mentre tutte dormivano e il convento era immerso nel silenzio, ella si alzò. Dopo aver girovagato per qualche tempo nei corridoi, venne alla mia cella. Io ho il sonno leggero ed ebbi l’impressione di riconoscerla. Si fermò; appoggiò probabilmente la fronte contro la porta e fece abbastanza rumore da svegliarmi caso mai avessi dormito. Rimasi silenziosa. Mi sembrò di sentire una voce che si lamentava, qualcuno che sospirava; mi colse dapprima un leggero brivido, poi mi decisi a dire Ave. Invece di rispondermi, si allontanò a passi leggeri. Tornò poco tempo dopo; i gemiti e i sospiri ricominciarono. Dissi ancora Ave, e si allontanò. Mi tranquillizzai, mi addormentai. Mentre dormivo, entrò e si sedette accanto al mio letto.
Le tende erano socchiuse; ella teneva in mano una candela il cui bagliore mi rischiarava il viso, e colei che la portava mi guardava dormire: per lo meno fu quello che arguii dal suo atteggiamento quando aprii gli occhi. Era la superiora.
Mi sollevai di scatto; ella vide il mio spavento e mi disse:
“Non abbiate paura, Susanna, sono io...”
Posai di nuovo la testa sul guanciale e le chiesi:
“Cara madre, che cosa fate qui a quest’ora? Che cosa vi ha fatto venire qui?
Perché non dormite?”
“Non riesco a dormire,” mi rispose, “e ci vorrà molto prima che dorma. Sogni tormentosi non mi danno requie. Appena ho gli occhi chiusi tutto il male che avete patito si presenta alla mia immaginazione; vi vedo preda di quelle donne disumane, vi vedo con i capelli sparsi sul viso; vi vedo con i piedi insanguinati, la torcia in mano, la corda intorno al collo; credo che stiano per uccidervi; rabbrividisco, tremo, un sudore gelido mi si diffonde per tutto il corpo; voglio accorrere in vostro aiuto; grido, mi sveglio, e inutilmente aspetto che torni il sonno. Ecco quello che mi è accaduto stanotte.
Ho avuto paura che il cielo mi annunciasse che era accaduta una disgrazia alla mia amica; mi sono alzata, mi sono avvicinata alla vostra porta, ho teso l’orecchio, mi è sembrato che dormiste. Poi avete parlato, e allora me ne sono andata. Sono poi ritornata, voi avete parlato di nuovo, e ancora una volta me ne sono andata. Sono tornata una terza volta, e quando ho creduto che dormiste, sono entrata. È già un po’ di tempo che sono accanto a voi e che temo di svegliarvi. Dapprima sono stata incerta se scostare le vostre tende; volevo andarmene per timore di turbare il vostro riposo, ma non ho potuto resistere al desiderio di vedere se la mia cara Susanna stava bene. Vi ho guardata; come siete bella, anche quando dormite!”
“Mia cara madre, come siete buona!”
“Ho preso freddo, ma ora so che non ho nulla da temere per la mia figliola, e credo che dormirò. Datemi la vostra mano.”
Le detti la mano.
“Com’è tranquillo il polso! com’è regolare! Non vi è niente che possa eccitarlo.”
“Ho un sonno abbastanza tranquillo.”
“Come siete fortunata!”
“Cara madre, continuerete a prendere freddo,”
“Avete ragione; addio mia bella amica, addio; ora me ne vado.”
Ma non se ne andava e continuava a guardarmi: dagli occhi le sgorgavano due lacrime.
“Che cosa avete, cara madre?” le dissi. “Voi piangete; come mi dispiace avervi raccontato le mie sofferenze!...”
All’improvviso chiuse la porta, spense la candela, e si precipitò su di me, mi teneva stretta, con il viso incollato al mio. Le sue lacrime mi bagnavano le guance, sospirava, e mi diceva con voce spezzata e lamentosa:
“Cara amica, abbiate pietà di me.”
“Che cosa avete, cara madre?” le dissi. “Vi sentite male? Che cosa debbo fare?”
“Tremo,” mi disse, “mi sento rabbrividire; un freddo mortale mi corre per le ossa.”
“Volete che mi alzi e che vi ceda il mio posto?”
“No,” mi disse, “non è necessario che vi alziate; scostate solo un poco la coperta, perché mi possa avvicinare a voi, per riscaldarmi, e guarire.”
“Cara madre,” le dissi, “sapete che è proibito. Che cosa si direbbe, se si venisse a saperlo? Ho visto punire delle monache per cose molto meno gravi. Una volta, nel convento di Santa Maria, una monaca andò di notte nella cella di un’altra che era sua buona amica; non so dirvi tutto il male che ne pensarono. Il direttore spirituale mi ha chiesto più volte se nessuna mi aveva mai proposto di venire a dormire accanto a me e mi ha severamente raccomandato di rifiutare. Gli ho anche detto delle vostre carezze; io le trovo molto innocenti, ma lui è di parere diverso. Non so come ho potuto dimenticare i suoi consigli; eppure mi ero ripromessa di parlarvene.”
“Cara amica,” mi disse, “tutto dorme intorno a noi, nessuno ne saprà niente.
Sono io che premio e che punisco; il direttore spirituale può dire quello che vuole, io non vedo nessun male nell’accogliere accanto a sé un’amica presa dall’ansia, che si è svegliata e durante la notte, nonostante i rigori della stagione, è venuta ad assicurarsi che la sua diletta non correva alcun rischio. Susanna, in casa dei vostri genitori, non avete mai condiviso lo stesso letto con una delle vostre sorelle?”
“No, mai.”
“Ma se se ne fosse presentata l’occasione, non l’avreste fatto senza scrupolo? Se la vostra sorella, inquieta e intirizzita dal freddo, fosse venuta a chiedervi un po’ di posto accanto a voi, l’avreste rifiutata?”
“Credo di no.”
“Io non sono forse la vostra cara madre?”
“Sì, lo siete, ma è proibito.”
“Cara amica, sono io che lo proibisco alle altre, ma che lo permetto e lo chiedo a voi. Lasciate ch’io mi riscaldi un momento, poi me ne andrò. Datemi la vostra mano...”
Gliela detti.
“Ecco,” mi disse,“toccate, guardate: tremo, rabbrividisco, sono un pezzo di marmo.”
Era vero.
“Oh, mia cara madre,” le dissi, “vi ammalerete. Ma aspettate! io mi spingo verso il bordo del letto, e voi potrete mettervi nel posto più caldo.”
Mi spostai da un lato, alzai la coperta, e lei si mise al mio posto. Oh, come stava male! Le sue membra erano tutte un tremito, voleva parlarmi, voleva avvicinarsi a me; non riusciva ad articolare parola, non riusciva a muoversi. Mi diceva sottovoce:
“Susanna, amica mia, avvicinatevi un poco...”
Allungò le braccia; io le voltavo la schiena; mi strinse dolcemente, mi trasse a sé; passò il braccio destro intorno al mio corpo, l’altro sopra, e mi disse:
“Sono un pezzo di ghiaccio; ho tanto freddo che ho paura a toccarvi, paura di farvi male.”
“Non abbiate timore, cara madre.”
Subito mi posò una mano sul petto e l’altra intorno alla vita; i suoi piedi stavano sotto i miei e io li premevo per riscaldarli. La cara madre mi diceva: “Ah, cara amica, sentite come i miei piedi si sono riscaldati subito perché non vi è niente che li separi dai vostri.”
“In tal caso,” le dissi, “che cosa impedisce che vi scaldiate dappertutto nello stesso modo?”
“Niente, se volete.”
Mi ero girata; lei aveva aperto la camicia ed io stavo per aprire la mia allorché all’improvviso furono bussati due colpi violenti alla porta. Spaventata, mi butto immediatamente fuori dal letto da una parte, mentre la superiora fa altrettanto dall’altra parte; tendiamo l’orecchio e sentiamo qualcuno che torna, in punta di piedi, nella cella vicina.
“Ah,” esclamai, “è suor Santa Teresa; vi avrà vista passare nel corridoio ed entrare da me; ci avrà ascoltato; avrà sorpreso la nostra conversazione; che cosa dirà?...”
Ero più morta che viva.
“Sì, è lei,” confermò la superiora con tono irritato, “è lei, non vi è dubbio, ma spero che si ricorderà per un pezzo della sua temerarietà.”
“Ah, cara madre,” le dissi, “non le fate del male!”
“Susanna,” mi rispose, “addio, buona notte. Tornate a letto, dormite bene. Vi dispenso dall’orazione. Vado da quella sventata. Datemi la mano...”
Gliela tesi da una parte all’altra del letto e lei rimboccò la manica che mi copriva il braccio; lo baciò sospirando per tutta la lunghezza, dalla punta delle dita fino alla spalla, poi uscì assicurando che la temeraria che aveva osato disturbarla se ne sarebbe ricordata. Subito mi spinsi dall’altra parte del letto verso la porta, e tesi l’orecchio. La superiora entrò da suor Teresa. Mi prese la tentazione di alzarmi e di andare a mettermi tra suor Teresa e la superiora caso mai la scena si fosse fatta violenta. Ma ero così turbata e così a disagio che preferii restare a letto, dove non riuscii a prendere sonno.
Pensai che sarei diventata la favola del convento, che quella avventura, che di per sé era del tutto innocente, sarebbe stata riferita nella luce più sfavorevole; che qui sarebbe stato peggio che a Longchamp, dove fui accusata di una cosa che ignoro; che la nostra colpa sarebbe giunta alle orecchie dei superiori, che la nostra madre sarebbe stata deposta e che entrambe saremmo state severamente punite. Intanto stavo con l’orecchio teso e aspettavo con impazienza che la nostra madre uscisse dalla cella di suor Teresa.
Fu, a quanto pare, una faccenda difficile da sistemarsi, perché vi trascorse quasi tutta la notte. Come la compiangevo! Era in camicia, tutta nuda, furente di collera, e intirizzita dal freddo.
La mattina, avevo voglia di approfittare del permesso che mi aveva accordato la superiora e di rimanere a letto, ma ebbi come l’idea che sarebbe stato meglio non farne niente. Mi vestii in fretta e mi trovai per prima nel coro dove non si videro né la superiora, né suor Santa Teresa, la qual cosa mi fece molto piacere. In primo luogo perché mi sarebbe stato difficile affrontare senza imbarazzo la presenza di suor Teresa; in secondo luogo, se le era stato permesso di non presentarsi all’uffizio, c’era da presumere che avesse ottenuto il perdono a condizioni che dovevano tranquillizzarmi.
Avevo indovinato: era appena terminato l’uffizio che la superiora mi mandò a chiamare. Mi recai da lei. Era ancora a letto e aveva un’aria abbattuta. Mi disse:
“Ho sofferto; non ho dormito; suor Santa Teresa è pazza; se si comporta ancora così, la farò rinchiudere.”
“Ah, cara madre,” le dissi, “non la fate rinchiudere mai.”
“Dipenderà dal modo in cui si comporta. Mi ha promesso di migliorare, e ci conto. Ma voi, cara Susanna, come state?”
“Bene, cara madre.”
“Avete almeno riposato un po’?”
“Pochissimo.”
“Mi hanno detto che siete andata nel coro; perché non siete rimasta a letto?”
“Non ci sono stata bene; e poi ho pensato che fosse meglio...”
“No, non ci sarebbe stato inconveniente di sorta... Ora, però, ho bisogno di dormire un po’; vi consiglio di fare altrettanto a meno che non preferiate accettare un posto accanto a me.”
“Vi sono infinitamente obbligata, cara madre, ma sono abituata a dormire da sola e non potrei dormire con un’altra.”
“Allora andate. Io non scenderò a pranzo in refettorio; mi farò servire qui. Forse non mi alzerò per il resto della giornata. Voi verrete con alcune altre sorelle che ho fatto avvertire.”
“Ci sarà anche suor Santa Teresa?” le chiesi.
“No,” mi rispose.
“Non mi dispiace.”
“E perché?”
“Non lo so, forse ho paura di incontrarla.”
“Stai tranquilla, figliola mia; ti garantisco che ella ha più paura di te di quanta tu non debba averne di lei.”
La lasciai, andai a riposarmi. Nel pomeriggio, mi recai dalla superiora dalla quale trovai un gruppo alquanto numeroso delle monache più giovani e più carine del convento; le altre avevano fatto la loro visita e se ne erano andate. Voi che vi intendete di pittura, vi assicuro, signor marchese, che era davvero un quadro delizioso.
Immaginatevi un laboratorio di dieci o dodici persone, di cui la più giovane poteva avere quindici anni e la più vecchia non arrivava a ventitré; una superiora di circa quarant’anni, bianca, fresca, rotonda, semi sollevata sul letto, con un doppio mento portato in giro con buona grazia, braccia tonde come se fossero state tornite, dita affusolate e punteggiate di fossette, due occhi neri, grandi, vivaci e teneri, quasi mai del tutto aperti, occhi socchiusi come se colei che li possedeva facesse fatica ad aprirli, labbra vermiglie come rose, denti bianchi come latte, le più belle guance che si possano immaginare, la bella testa sprofondata in un morbido guanciale, le braccia allungate mollemente lungo i fianchi con i gomiti appoggiati su due piccoli cuscini. Io ero seduta sull’orlo del letto e non facevo niente, un’altra stava in una poltrona con un piccolo telaio da ricamo sulle ginocchia; altre, verso le finestre, facevano del merletto; ve n’erano sedute per terra su dei cuscini tolti dalle seggiole, che cucivano, ricamavano, tessevano o filavano all’arcolaio. Alcune erano bionde, altre brune; nessuna assomigliava all’altra benché tutte fossero belle. I loro caratteri erano vari come le loro fisionomie; ve n’erano di serene, di gaie, di malinconiche o tristi. Tutte lavoravano, salvo io, come già vi ho detto. Non era difficile riconoscere le amiche dalle indifferenti e dalle nemiche; le amiche si erano messe o l’una accanto all’altra, o di fronte, e pur intente al lavoro, chiacchieravano, si consigliavano, si guardavano furtivamente, si toccavano le dita col pretesto di scambiarsi uno spillo, un ago, delle forbici. La superiora le seguiva con lo sguardo; all’una rimproverava l’eccessiva applicazione, all’altra la pigrizia; a questa l’indifferenza, a quella la tristezza. Si faceva portare il lavoro, lodava o biasimava; a una monaca rimetteva a posto l’acconciatura:
“Questo velo scende troppo in avanti... Questa benda copre troppo il viso, non si vedono abbastanza le guance... Guarda come stanno male queste pieghe...”
A ciascuna distribuiva leggeri rimproveri e lievi carezze. Mentre ciascuna era occupata in tal modo, sentii battere piano alla porta. Mi mossi per aprire. La superiora mi disse:
“Suor Santa Susanna, tornerete qui?”
“Sì, cara madre.”
“Non mancate, perché ho qualcosa di importante da comunicarvi.”
“Torno subito.”
Era quella povera suor Santa Teresa. Per qualche istante rimanemmo entrambe senza parlare; poi le chiesi: “Cara sorella, cercate di me?”
“Sì.”
“Che cosa posso fare per voi?”
“Ascoltatemi. Sono incorsa nella disgrazia della nostra cara madre; credevo che mi avesse perdonata e avevo qualche buona ragione per crederlo; invece voi siete tutte riunite da lei, mentre io non ci sono, ed ho l’ordine di rimanere nella mia cella.”
“Vorreste entrare?”
“Sì.”
“Desiderate ch’io ne solleciti il permesso?”
“Sì.”
“Aspettate, cara amica, ci vado subito.”
“Davvero le parlerete in mio favore?”
“Certamente. Perché non ve lo dovrei promettere? E perché non dovrei farlo dopo avervelo promesso?”
“Ah,” esclamò guardandomi teneramente, “le perdono, le perdono la simpatia che ha per voi. Voi possedete tutte le seduzioni, l’anima più bella e il corpo più bello.”
Ero felicissima di poterle fare quel piccolo favore. Rientrai nella stanza. In mia assenza un’altra aveva preso il mio posto sull’orlo del letto della superiora e stava china su di lei con il gomito appoggiato fra le sue cosce, facendole vedere il lavoro che stava eseguendo. Con gli occhi semichiusi la superiora diceva di sì o di no quasi senza guardarla, mentre io ero in piedi accanto a lei senza che se ne accorgesse. Tuttavia non le ci volle molto a riprendersi dal suo leggero svagamento. La giovane mi restituì il mio posto. Mi sedetti di nuovo; poi, chinandomi dolcemente verso la superiora che si era un po’ sollevata sui guanciali, rimasi in silenzio, guardandola però come se avessi da domandarle una grazia.
“Allora,” mi chiese, “che cosa c’è? Parlate! Che cosa volete? È forse in mio potere rifiutarvi qualcosa?”
“Suor Santa Teresa...”
“Capisco; sono molto scontenta di lei, ma suor Susanna intercede in suo favore, e io le concedo il perdono; andate a dirle che può entrare.”
Accorsi fuori. La poveretta aspettava alla porta; le dissi di venire avanti; tremando ubbidì con gli occhi bassi. Teneva in mano un lungo pezzo di mussola appuntato a un modello che le sfuggì di mano ai primi passi: lo raccattai e prendendola per un braccio la condussi dalla superiora. Si buttò in ginocchio, le afferrò una mano che baciò sospirando e piangendo. Poi prese una mano anche a me, la congiunse a quella della superiora e le baciò entrambe. La superiora le fece cenno di alzarsi e di scegliersi un posto. Ubbidì. Fu servita una merenda. La superiora si alzò; non si sedette con noi, ma si aggirava intorno alla tavola, e ora posava la mano sulla testa di una monaca, rovesciandogliela delicatamente all’indietro e baciandola sulla fronte; ora scopriva il collo di un’altra e vi posava sopra la mano; passava poi a una terza, e lasciava scorrere su di lei la sua mano carezzevole oppure gliela posava sulla bocca; spilluzzicava le cose che erano state servite e le distribuiva a questa o a quella. Dopo che ebbe girato per un po’, si fermò di fronte a me guardandomi con occhi molto affettuosi e molto teneri mentre le altre abbassavano i loro, come se avessero temuto di obbligarla a reprimersi o a distrarsi, specialmente suor Santa Teresa. Terminata la merenda, mi misi al clavicembalo ed accompagnai due monache che cantarono senza alcun metodo, ma con gusto e con una bella voce intonata; cantai anch’io accompagnandomi. La superiora era seduta ai piedi del clavicembalo e sembrava assaporare un grandissimo piacere nel sentirmi e nel vedermi; le altre ascoltavano in piedi senza far niente, oppure si erano rimesse al lavoro. Fu un pomeriggio assai piacevole, dopo di che tutte si ritirarono.
Stavo uscendo con le altre, quando la superiora mi fermò: “Che ore sono?” mi chiese.
“Fra poco saranno le sei.”
“Alcune discrete stanno per giungere. Ho riflettuto su quello che mi avete detto a proposito della vostra uscita da Longchamp; ho comunicato loro le mie idee che sono state approvate, e adesso abbiamo una proposta da farvi. È impossibile che non vada in porto, e se va bene, significherà una piccola fortuna per il convento e qualche vantaggio per voi.”
Alle sei, entrarono le discrete. Nei conventi la discrezione è sempre alquanto vecchia, persino decrepita. Mi alzai, loro si sedettero e la superiora mi disse: “Suor Santa Susanna, non mi avete detto che dovevate alla bontà del signor Manouri la dote che avete portata in convento?”
“Sì, cara madre.”
“Perciò non mi sono sbagliata: le suore di Longchamp sono rimaste in possesso della dote che avete portato entrando da loro?”
“Sì, cara madre.”
“E non vi hanno restituito niente?”
“No, cara madre.”
“Non vi hanno costituito una pensione?”
“No, cara madre.”
“Non è giusto. Questo è quanto ho comunicato alle nostre discrete ed esse pensano, come me, che siete in diritto di far ricorso affinché tale dote vi sia restituita a vantaggio del nostro convento, oppure che ne godiate la rendita. Quel che avete ricevuto grazie all’interessamento del signor Manouri per voi, non ha niente a che vedere con quello che vi debbono le suore di Longchamp; egli non vi ha fornito la vostra dote per saldare un debito con loro.”
“Non credo; ma per assicurarsene, la cosa migliore è di scrivere all’avvocato.”
“Non vi è alcun dubbio; ma nel caso in cui la sua risposta fosse quella che ci auguriamo, ecco quali sono le nostre proposte. Intenteremo un processo a vostro nome contro il convento di Longchamp; il nostro ne sosterrà le spese che non saranno eccessive giacché vi sono tutti i motivi per credere che il signor Manouri non rifiuterà di incaricarsi di questo affare. Se vinciamo, il convento dividerà a metà con voi il capitale, o la rendita. Che cosa ne pensate, cara sorella? Ma voi non rispondete. A che cosa state pensando?”
“Sto pensando che quelle suore di Longchamp sono state molto crudeli con me, ma che sarebbe per me una grandissima afflizione se immaginassero che intendo vendicarmi.”
“Non si tratta di vendicarvi; si tratta di chiedere che vi venga reso ciò che vi spetta.”
“Dare ancora una volta spettacolo di me!...”
“Questo è l’inconveniente minore; voi non sarete quasi mai nominata. E poi la nostra comunità è povera, mentre quella di Longchamp è ricca. Voi sarete la nostra benefattrice, almeno fintanto che vivrete. Sebbene non abbiamo bisogno di questo motivo per interessarci a voi; noi tutte vi vogliamo bene...”
E tutte le discrete in coro:
“Chi non le vorrebbe bene? È perfetta.”
“Io potrei scomparire da un momento all’altro; potrebbe darsi che un’altra superiora non provasse per voi gli stessi sentimenti che provo io. Oh, no! non li proverebbe di certo. Potreste avere qualche piccola malattia, qualche piccola necessità...
In tal caso è molto confortante possedere un po’ di denaro di cui si possa disporre per soddisfare se stessi o per obbligare gli altri.”
“Care madri,” dissi loro, “le vostre considerazioni non devono essere trascurate, giacché avete la bontà di farle; ve ne sono altre che mi stanno più a cuore, ma non vi è ripugnanza ch’io non sia disposta a vincere per voi. La sola grazia che ho da chiedervi, cara madre, è di non avviare nessuna pratica senza prima averne parlato in mia presenza con il signor Manouri.”
“Non vi è niente di più opportuno. Volete scrivergli voi stessa?”
“Come volete voi, cara madre.”
“Scrivetegli; e per non stare a ripensarci due volte, poiché questo genere di affari non mi piace per niente e mi annoia da morire, scrivetegli subito.”
Mi dettero penna, carta e inchiostro e senza por tempo in mezzo pregai il signor Manouri di degnarsi di venire ad Arpajon non appena le sue occupazioni glielo avessero consentito, dato che avevo ancora bisogno del suo aiuto e del suo consiglio per un affare di una certa importanza ecc. ecc.
Il consiglio riunito lesse quella lettera, la approvò e quindi fu spedita.
Il signor Manouri venne qualche giorno dopo. La superiora gli spiegò di che cosa si trattasse ed egli non esitò un attimo a condividerne il parere; i miei scrupoli furono definiti ridicolaggini; fu deciso che le monache di Longchamp sarebbero state citate subito l’indomani, come infatti avvenne. Ed ecco che, mio malgrado, il mio nome ricomparve nei memoriali, negli allegati, nelle udienze, con dovizia di particolari, supposizioni, menzogne, e di tutte le infamie suscettibili di rendere una persona invisa ai giudici e odiosa agli occhi del pubblico.
Ma ditemi, signor marchese, è proprio permesso agli avvocati calunniare come aggrada loro? Non vi è modo di invocare giustizia contro di loro? Se avessi potuto prevedere tutte le amarezze che quella causa avrebbe comportato, vi assicuro che non avrei mai permesso che venisse intrapresa. Si giunse al punto di spedire a diverse monache del nostro convento gli atti pubblicati contro di me. Ad ogni istante, esse venivano a chiedermi i particolari di avvenimenti orribili in cui non c’era parvenza di verità. Più mi dimostravo ignara, più mi credevano colpevole. Dal momento che non spiegavo niente, non confessavo niente, negavo tutto, credevano che tutto fosse vero: sorridevano, mi dicevano parole sibilline, ma assai offensive; davanti alla mia innocenza, facevano spallucciate. Piangevo, ero desolata.
Un dolore non arriva mai da solo. Giunse il tempo della confessione. Mi ero già accusata delle prime carezze ricevute dalla superiora e il direttore spirituale mi aveva esplicitamente proibito di prestarmici ancora. Ma come si fa a rifiutarsi a cose che procurano tanto piacere a un’altra persona da cui si dipende totalmente, e nelle quali non si vede alcun male?
Poiché questo direttore spirituale avrebbe avuto un gran ruolo nel seguito delle mie memorie, credo che sia il momento opportuno per farvelo conoscere.
È un francescano e si chiama padre Lemoine; non ha più di quarantacinque anni.
La sua fisionomia è tra le più gradevoli che si possano vedere: dolce, serena, aperta, sorridente, piacevole quando non sta lì a riflettere. Ma quando riflette, corruga la fronte, aggrotta le sopracciglia, abbassa gli occhi e il suo comportamento si fa austero. Non conosco due uomini più diversi del padre Lemoine all’altare e del padre Lemoine in parlatorio, solo o in compagnia. Del resto tutti coloro che sono in religione si comportano nello stesso modo e anch’io mi sono sorpresa diverse volte in procinto di recarmi alla grata, fermarmi di botto, aggiustarmi il velo, atteggiare il viso, gli occhi, la bocca, le mani, le braccia, il portamento, assumere per la circostanza un contegno e una modestia che duravano più o meno a seconda delle persone con cui dovevo parlare.
Il padre Lemoine è alto, ben fatto, allegro, assai gradevole quando dimentica di controllarsi; parla meravigliosamente bene; nel suo convento ha fama di gran teologo, e nel mondo quella di gran predicatore; la sua conversazione incanta; è un uomo assai dotto in materie che nulla hanno a che vedere con il suo stato: ha una voce delle più belle, conosce la musica, la storia e le lingue; è dottore della Sorbona. Benché giovane ha già rivestito le cariche principali del suo ordine; non è un uomo intrigante, né ambizioso. È amato dai suoi confratelli. Aveva sollecitato la carica di superiore del convento di Etampes come un posto tranquillo dove avrebbe potuto dedicarsi senza esserne distratto a qualche studio che aveva cominciato. Gli era stata accordata. È cosa di grande importanza per un convento di monache la scelta di un confessore: è bene essere dirette da un uomo importante e di qualità. Si fece di tutto per avere il padre Lemoine, e lo si ebbe, per un caso davvero straordinario.
Gli mandavano la carrozza del convento la vigilia delle feste solenni, egli veniva. Bisognava vedere che subbuglio provocava in tutta la comunità l’attesa del suo arrivo; come si era allegre; come ci si chiudeva in cella, come ciascuna si preparava alla confessione e a tenerlo impegnato il più a lungo possibile.
Era la vigilia della Pentecoste. Aspettavamo il padre Lemoine. Io ero agitata. La superiora se ne accorse e me ne parlò. Non le nascosi la ragione della mia preoccupazione. Mi parve più allarmata di me, benché facesse di tutto per tenermelo celato; definì il padre Lemoine un uomo ridicolo, si fece gioco dei miei scrupoli, mi chiese se il padre Lemoine ne sapesse più della nostra coscienza sull’innocenza dei suoi e dei miei sentimenti, e se la mia coscienza mi rimproverava qualcosa. Le risposi di no.
“Ebbene,” mi disse, “io sono la vostra superiora, voi mi dovete obbedienza e quindi vi ordino di non parlargli di queste sciocchezze. Inutile che andiate a confessarvi, se non avete che delle inezie da raccontargli.”
Intanto era arrivato il padre Lemoine e io mi stavo preparando alla confessione mentre le più frettolose si erano già impadronite di lui. Si avvicinava il mio turno, allorché la superiora venne verso di me, mi trasse in disparte, e mi disse: “Suor Santa Susanna, ho pensato a quello che mi avete detto. Tornatevene nella vostra cella, non voglio che oggi andiate a confessarvi.”
“E perché,” le risposi, “cara madre? Domani è festa solenne, e giorno di comunione generale; che cosa penserebbero se io fossi la sola che non si avvicina alla sacra mensa?”
“Poco importa. Dicano pure tutto quello che vogliono, ma voi non andrete a confessarvi.”
“Cara madre,” la pregai, “se è vero che mi amate, di grazia non mi infliggete questa mortificazione.”
“No, no, è impossibile; con quell’uomo mi combinereste qualche guaio, ed io non ne voglio.”
“No, cara madre, non vi procuerò nessun guaio!”
“Allora, promettetemi... Ma è inutile; domattina verrete in camera mia, vi confesserete a me; non avete commesso nessuna colpa per cui non possa riconciliarvi con Dio e assolvervi. Così potrete comunicarvi insieme alle altre. Andate.”
Mi ritirai, e me ne stavo nella mia cella, triste, inquieta, nervosa, non sapendo quale partito prendere, se andare dal padre Lemoine nonostante il divieto della mia superiora, se limitarmi alla sua assoluzione il giorno dopo, se partecipare alla comunione con il resto del convento, o tenermi lontana dai sacramenti senza curarmi delle chiacchiere. In quel mentre la superiora entrò. Si era confessata, e il padre Lemoine le aveva chiesto perché non mi avesse visto, e se fossi malata. Ignoro cosa le avesse risposto, ma la conclusione fu che mi aspettava al confessionale.
“Andate,” mi disse, “giacché è necessario, ma promettetemi che tacerete.”
Io esitavo. Ella insisteva.
“Piccola sciocca,” mi diceva, “che male volete che ci sia a tacere ciò che non è male fare?”
“E che male c’è a dirlo?” replicai.
“Nessuno, ma vi può essere qualche inconveniente. Chi sa quale importanza quell’uomo vi può attribuire. Promettetemi perciò...”
Esitai ancora, ma alla fine mi impegnai a non dire niente se non mi avesse fatto domande, e andai.
Mi confessai, non feci parola di quell’argomento, ma il direttore mi interrogò, ed io non dissimulai nulla.
Mi fece mille domande strane di cui continuo a non capire niente oggi che le ricordo, ma sulla superiora si espresse in termini che mi fecero fremere. La definì indegna, libertina, cattiva monaca, donna perniciosa, anima corrotta, e mi ingiunse, sotto pena di peccato mortale, di non trovarmi mai da sola con lei e di non tollerare nessuna delle sue carezze.
“Ma padre,” gli dissi, “è la mia superiora, ella può entrare nella mia cella, chiamarmi da lei quando le piace.”
“Lo so, lo so, e ne sono desolato, cara figliola,” mi disse, “sia lodato Iddio che vi ha preservata fino ad oggi! Non ardisco spiegarmi con voi più chiaramente. Nel timore di diventare a mia volta complice della vostra indegna superiora, e di avvizzire con l’alito avvelenato, che mio malgrado mi uscirebbe dalle labbra, un fiore delicato che si può conservare fresco e senza macchia fino alla vostra età solo per una protezione speciale della divina provvidenza, vi ordino di fuggire la vostra superiora, di respingerne le carezze, di non entrare mai da sola nella sua cella, di chiudere a chiave la vostra porta, specialmente di notte, di lasciare il letto se entra nella vostra cella vostro malgrado, di andare nel corridoio, di chiamare gente se occorre, di scendere nuda fino ai piedi dell’altare, di riempire il convento delle vostre grida, e di fare tutto quello che l’amore di Dio, il timore del peccato, la santità del vostro stato e l’interesse della vostra salvezza vi ispirerebbero, se Satana in persona si presentasse a voi e vi perseguitasse. Sì, figliola mia, Satana! È sotto questo aspetto che sono costretto a mostrarvi la vostra superiora; ella è sprofondata nell’abisso del peccato e cerca di trascinarci anche voi; voi vi sareste già con lei, se la vostra stessa innocenza non l’avesse riempita di terrore e non l’avesse fermata.”
Alzando gli occhi al cielo, esclamò:
“Mio Dio! continuate a proteggere questa figliola... Dite con me Satana vade retro, apage Satana. Se quella sciagurata vi interroga, ditele tutto, ripetetele il mio discorso; ditele che sarebbe meglio che non fosse mai nata, o che precipitasse da sola all’inferno per morte violenta.”
“Ma padre mio,” gli risposi, “l’avete sentita voi stesso poco fa.”
Non replicò, ma emettendo un profondo sospiro, appoggiò le braccia contro una parete del confessionale, e vi posò sopra la testa come un uomo penetrato di dolore.
Rimase per un certo tempo in quella posizione. Io non sapevo che cosa pensare; mi tremavano le ginocchia, ero turbata e sconvolta in maniera incredibile. Ero quale un viandante che camminasse nelle tenebre, tra precipizi invisibili, colpito da ogni lato da voci urlanti: “È finita per te!” Guardandomi poi con un’aria tranquilla, ma intenerita, mi disse:
“Godete buona salute?”
“Sì, padre.”
“Non sarebbe troppo duro per voi passare una notte senza dormire?”
“No, padre.”
“In tal caso,” mi disse, “stanotte non andrete a letto; subito dopo cena andrete in chiesa, vi prosternerete ai piedi dell’altare e vi passerete la notte in preghiera. Voi non sapete che pericolo avete corso; ringrazierete Dio di avervi preservata, e domani vi accosterete alla sacra mensa con tutte le altre monache. Per penitenza, vi terrete lontana dalla vostra superiora, e respingerete le sue carezze avvelenate. Andate. Per parte mia unirò le mie preghiere alle vostre. Quante preoccupazioni mi cagionerete! Mi rendo conto di tutte le conseguenze del consiglio che vi do, ma sono costretto a darvelo: lo debbo a voi, come lo debbo a me stesso. Dio è colui che comanda, e noi non abbiamo che una legge.”
Non mi ricordo di quello che mi disse, signore, che in maniera molto approssimativa. Oggi che metto a confronto il suo discorso così come ve l’ho riferito, con l’impressione terribile che produsse su di me, trovo che non vi è nessun rapporto.
Ciò deriva dal fatto che il mio racconto è frammentario, sconnesso, che vi mancano molte cose che non ricordo più perché non vi collegavo nessuna idea distinta e non vedevo, come tuttora non vedo, quale importanza avessero certe cose contro le quali recriminava con la massima violenza. Per esempio, che cosa trovava di così strano nella scena del clavicembalo? Non esistono forse persone su cui la musica produce un’impressione vivissima? Anche a me hanno detto che certe arie, certe modulazioni, mutavano completamente la mia fisionomia; in quei momenti io ero del tutto fuori di me, non sapevo che cosa mi stesse succedendo. Non per questo credo che fossi meno innocente. Perché non poteva accadere la stessa cosa alla mia superiora, che nonostante tutte le sue follie e i suoi sbalzi di umore, era una delle donne più sensibili che ci fossero al mondo? Non poteva sentire una storia un po’ commovente senza sciogliersi in lacrime. Quando le raccontai la mia storia, la misi in uno stato pietoso. Perché le faceva una colpa anche della sua commiserazione? E la scena della notte, della quale aspettava la fine con un terrore mortale?... Di sicuro quell’uomo è troppo severo.
In ogni caso misi in atto punto per punto quello che mi aveva ordinato, e di cui aveva certamente previsto le conseguenze immediate. Appena uscita dal confessionale, andai a prosternarmi ai piedi dell’altare. La mia mente era sconvolta dal terrore; rimasi là fino al momento della cena. La superiora, preoccupandosi per ciò che poteva essermi successo, mi aveva fatta chiamare; le era stato risposto che ero in preghiera. Più volte si era presentata alla porta del coro, ma io avevo finto di non scorgerla. L’ora della cena suonò, e mi recai in refettorio. Cenai in fretta, e una volta terminata la cena, tornai subito in chiesa. Non comparvi alla ricreazione della sera; all’ora di ritirarsi e di andare a coricarsi, non risalii. La superiora non ignorava che cosa stessi facendo. La notte era assai inoltrata e tutto il convento era silenzioso, allorché scese da me. Il ritratto con il quale il direttore spirituale me l’aveva dipinta, mi si ripresentò all’immaginazione; il tremito mi colse, non osai guardarla. Pensai che l’avrei vista con un viso orrendo, tutto avvolto nelle fiamme, e dicevo dentro di me: Satana vade retro, apage Satana. Mio Dio, salvatemi, allontanate da me questo demonio!
La superiora si inginocchiò, e dopo aver pregato per un certo tempo, mi disse:
“Cosa fate qui, suor Santa Susanna?”
“Lo vedete, signora.”
“Sapete che ore sono?”
“Sì, signora.”
“Perché non siete rientrata nella vostra cella quando è suonata l’ora?”
“Perché mi preparavo a celebrare domani la grande festa.”
“Avevate dunque l’intenzione di passare qui la notte?”
“Sì, signora.”
“Chi ve ne ha dato il permesso?”
“Me l’ha ordinato il direttore spirituale.”
“Il direttore spirituale non può ordinare niente contro la regola del convento, e io vi ordino di andare a coricarvi.”
“Questa è la penitenza che mi ha imposto.”
“La sostituirete con altre opere.”
“La scelta non spetta a me.”
“Suvvia, figliola mia,” mi disse, “venite. Il fresco della chiesa durante la notte vi nuocerà; pregherete nella vostra cella.”
Dopo di che volle prendermi per la mano, ma io mi allontanai bruscamente.
“Voi mi fuggite!” mi disse.
“Sì, signora, vi fuggo.”
Rassicurata dalla santità del luogo, dalla presenza del divino, dall’innocenza del mio cuore, osai alzare gli occhi su di lei; ma non appena l’ebbi guardata, emisi un gran grido e cominciai a correre per il coro come una forsennata, gridando: “Vattene, Satana!...”
La superiora non mi inseguiva. Rimaneva al suo posto tendendo le braccia verso di me, mi diceva con la voce più commovente e soave:
“Che cosa avete? Che cosa vi suscita tanto spavento? Fermatevi. Non sono Satana. Sono la vostra superiora e la vostra amica.”
Mi fermai, voltai di nuovo la testa verso di lei e vidi che ero stata spaventata da un’apparenza bizzarra creata dalla mia immaginazione. Questo accadeva perché rispetto alla lampada della chiesa, lei si trovava in una posizione tale che soltanto il viso e l’estremità delle mani venivano ad essere illuminate, mentre il resto rimaneva in ombra, cosa che le conferiva un aspetto singolare. Riavutami un poco, mi buttai a sedere in uno stallo. Ella si avvicinò e stava per sedersi nello stallo vicino, allorché io mi alzai e andai a mettermi nello stallo sottostante. Andammo così entrambe di stallo in stallo finché arrivammo all’ultimo. A questo punto mi fermai e la scongiurai di lasciare almeno uno spazio vuoto fra me e lei.
“Va bene!” mi disse.
Ci sedemmo entrambe, lasciando fra noi uno stallo vuoto. Allora la superiora prese la parola e mi disse:
“Potrei sapere, Susanna, per quale ragione la mia presenza vi suscita tanto spavento?”
“Cara madre,” le dissi, “perdonatemi. Non sono io, è il padre Lemoine. Mi ha dipinto la tenerezza che avete per me, le carezze che mi fate e nelle quali vi confesso che io non vedo alcun male, sotto le tinte più spaventose. Mi ha ordinato di fuggirvi, di non entrare più da sola nella vostra cella, di uscire dalla mia quando entrate voi. Vi ha presentata ai miei occhi come il demonio, e Dio sa cos’altro non ha detto su di voi...”
“Gli avete dunque parlato?”
“No, cara madre, ma non ho potuto fare a meno di rispondergli.”
“Allora, sono davvero orribile ai vostri occhi?”
“No, cara madre, non posso impedirmi di amarvi, di sentire tutto il valore delle vostre premure, di pregarvi di usarmele ancora, ma io obbedirò al mio direttore spirituale.”
“Così, non verrete più a trovarmi?”
“No, cara madre.”
“Non mi riceverete più nella vostra cella?”
“No, cara madre.”
“Respingerete le mie carezze?”
“Mi costerà molto, perché sono nata per le carezze e mi piace essere carezzata; ma dovrò farlo, l’ho promesso al direttore spirituale e l’ho giurato ai piedi dell’altare. Se potessi farvi intendere il modo in cui si spiega! È un uomo pio, un uomo illuminato; che interesse può avere a mostrarmi il pericolo dove non esiste; ad allontanare il cuore di una monaca dal cuore della sua superiora? Ma può essere che riconosca in azioni del tutto innocenti da parte nostra, Un germe di corruzione segreta che ritiene completamente sviluppato in voi e che teme voi sviluppiate in me. Non vi nasconderò che ripensando alle impressioni che a volte ho provato... Per quale motivo, cara madre, uscendo dalla vostra cella e tornando nella mia, mi sentivo agitata, svagata? Perché quella specie di tedio che non avevo mai provato? Perché, io che non ho mai dormito di giorno, mi sentivo scivolare nel sonno? Credevo che soffriste di una malattia contagiosa il cui effetto cominciava ad agire su di me. Il padre Lemoine la vede assai diversamente.”
“E come la vede?”
“Vede tutte le nefandezze del peccato, la vostra perdita ormai senza speranza, la mia imminente, o che so io...”
Suvvia,” mi disse, “il vostro padre Lemoine è un visionario, non è questo il primo rabbuffo che mi riserva. Basta che una tenera amicizia mi leghi a qualcuna perché subito si affanni a montarle la testa; poco c’è mancato che rendesse pazza quella povera suor Santa Teresa. Ora comincia proprio a darmi fastidio e mi libererò di quell’uomo; inoltre abita a dieci leghe da qui e farlo venire è sempre una complicazione. Non lo si può avere quando si vuole. Ma di questo parleremo con più calma. Non volete dunque risalire?”
“No, cara madre; vi chiedo, di grazia, che mi permettiate di passare qui la notte.
Se venissi meno a questo dovere, domani non oserei accostarmi ai sacramenti con il resto della comunità. E voi, cara madre, vi comunicherete?”
“Certamente.”
“Ma allora, il padre Lemoine non vi ha detto niente?”
“No.”
“Come può essere?”
“Non ha avuto l’occasione di parlarmene. Ci si va a confessare per accusarsi dei propri peccati e io non trovo che sia un peccato amare teneramente una cara fanciulla come suor Santa Susanna. Se mai vi è peccato, è quello di concentrare su di lei sola un sentimento che dovrebbe essere suddiviso tra tutte quelle che compongono la comunità, ma questo non dipende da me; non posso impedirmi di riconoscere il merito là dove si trova e di accordargli la mia preferenza. Non chiedo perdono a Dio e non capisco come il vostro padre Lemoine veda il sigillo della mia dannazione in una parzialità così naturale e dalla quale è così difficile difendersi. Io cerco di fare la felicità di tutte, ma ve n’è una che stimo e che amo più delle altre, perché più amabile e più stimabile. Ecco qual è la mia colpa verso di voi; la trovate così grave, suor Santa Susanna?”
“No, cara madre.”
“Suvvia, cara figliola, recitiamo, voi ed io, ancora una preghierina, e poi ritiriamoci.”
La supplicai di nuovo che mi permettesse di passare la notte in chiesa; acconsentì, a condizione che non accadesse mai più, poi si ritirò.
Ripensai a ciò che mi aveva detto. Chiesi a Dio di illuminarmi. Riflettei e, tutto considerato, conclusi che per quanto due persone fossero dello stesso sesso, vi potesse essere un qualcosa di indecente nel modo in cui si testimoniavano la loro amicizia, che il padre Lemoine, uomo austero, avesse forse esagerato le cose, ma che il consiglio di evitare l’estrema familiarità della mia superiora opponendole molto riserbo, fosse un consiglio da seguirsi. Mi ripromisi di farlo.
La mattina, allorché le monache vennero nel coro, mi trovarono al mio posto. Si accostarono tutte alla sacra mensa con la superiora in testa, il che finì di persuadermi della sua innocenza, senza peraltro indurmi a rinunciare alla decisione che avevo preso.
E poi ero ben lontana dal sentire per lei l’attrazione che lei provava per me. Non potevo fare a meno di paragonarla alla mia prima superiora; che differenza! Non si ritrovava in lei né la stessa pietà, né la stessa gravità, né la stessa dignità, né lo stesso fervore, né lo stesso spirito, né la stessa inclinazione all’ordine.
Nello spazio di pochi giorni accaddero due grandi avvenimenti. Il primo, fu che vinsi il processo contro le monache di Longchamp; esse furono condannate a pagare al convento di Sant’Eutropio in cui mi trovavo una pensione proporzionata alla mia dote; il secondo, fu il cambiamento di direttore spirituale. Fu la superiora in persona che mi mise al corrente di quest’ultimo cambiamento.
Io, intanto, non andavo più da lei se non accompagnata, ed ella non veniva più da sola nella mia cella. Lei seguitava a cercarmi, ma io la evitavo; se ne accorgeva e me lo rimproverava. Non so che cosa stesse accadendo in quell’anima, ma doveva essere qualcosa di straordinario. Si alzava di notte e si aggirava per i corridoi; soprattutto nel mio; la sentivo passare e ripassare, fermarsi davanti alla mia porta, lamentarsi, sospirare.
Tremavo, mi rincantucciavo nel letto. Di giorno, se ero alla passeggiata, nella stanza da lavoro o in quella della ricreazione, passava ore intere ad osservarmi, in modo che non potessi scorgerla. Spiava ogni mio movimento: se scendevo, la trovavo in fondo alle scale; quando risalivo, la trovavo in cima. Un giorno mi fermò; si mise a guardarmi senza dire una parola; un profluvio di lacrime le scorreva dagli occhi. Poi, all’improvviso, gettandosi a terra e stringendomi un ginocchio fra le mani, mi disse:
“Sorella crudele, chiedimi la vita e te la darò, ma non mi evitare così, non posso vivere senza di te...”
Il suo stato mi fece pietà; gli occhi le si erano spenti; aveva perduto il suo bell’aspetto florido e i suoi colori; era la mia superiora, era ai miei piedi, con la testa appoggiata sul mio ginocchio che teneva abbracciato. Le tesi le mani e lei le prese con slancio. Le baciava, poi mi guardava, poi tornava a baciarle e a guardarmi. La sollevai.
Vacillava, camminava a fatica; la riaccompagnai nella sua cella. Quando la porta fu aperta, mi prese per la mano e mi tirò dolcemente per farmi entrare, ma senza parlarmi e senza guardarmi.
“No, cara madre,” le dissi, “no, me lo sono promesso; è meglio per voi e per me.
Occupo troppo posto nella vostra anima e questo posto lo dovete tutto quanto a Dio.”
“Spetta a voi rimproverarmelo?”
Cercai, mentre le parlavo, di liberare la mia mano dalla sua.
“Non volete proprio entrare?” mi chiese.
“No, cara madre, no.”
“Non volete, suor Santa Susanna? Voi non sapete che cosa può derivarne, non sapete... Mi farete morire!”
Queste ultime parole mi ispirarono un sentimento del tutto diverso da quello che era nei suoi propositi; ritirai vivamente la mano e fuggii. La superiora si voltò, mi guardò per un po’ mentre me ne andavo, poi, rientrando nella sua cella la cui porta rimase aperta, proruppe in lamenti altissimi. La sentii, mi penetrarono nell’anima. Per un momento fui incerta se continuare ad allontanarmi, ma non fu senza soffrire dello stato in cui la lasciavo: per natura sono portata alla compassione. Mi rinchiusi nella mia cella; mi sentii a disagio. Non sapevo come occuparmi; camminai per un po’ in lungo e in largo, distrutta e turbata; uscii, rientrai; alla fine andai a bussare alla porta di suor Santa Teresa che era vicina alla mia. La trovai in conversazione intima con un’altra giovane monaca sua amica. Le dissi:
“Cara sorella, mi dispiace interrompervi, ma vi prego di ascoltarmi un istante perché avrei qualcosa da dirvi.”
Mi seguì nella mia cella, e io le dissi:
“Non so che cos’abbia la nostra madre superiora, ma è desolata; se andaste a trovarla, forse la consolereste.”
Non mi rispose; lasciò l’amica nella sua cella, chiuse la porta, e corse dalla nostra superiora.
Il male di quella donna andò tuttavia peggiorando di giorno in giorno; si fece malinconica e seria; la gioia che aveva sempre regnato nel convento dal giorno del mio arrivo, scomparve di colpo; tutto rientrò nell’ordine più austero. Gli uffizi si svolsero con la debita dignità; gli estranei furono quasi del tutto esclusi dal parlatorio; fu proibito alle monache di farsi visite reciproche nelle celle; gli esercizi ripresero osservando l’orario più scrupoloso; non vi furono più riunioni dalla superiora, più merende; le colpe più leggere furono severamente punite; talora ci si rivolgeva ancora a me per intercedere presso la superiora, ma io mi rifiutavo ostinatamente di farlo. La causa di una simile rivoluzione non fu ignorata da nessuno. Le anziane non ne erano affatto dispiaciute; le giovani se ne dispiacevano e mi guardavano di traverso. Quanto a me, tranquilla circa la mia condotta, non davo peso al loro malumore e ai loro rimproveri.
La superiora, che non potevo consolare, né impedirmi di compiangere, passò successivamente dalla malinconia alla devozione, e dalla devozione al delirio. Non starò a seguirla nelle diverse fasi di questi stati d’animo, perché dovrei scendere a particolari senza fine; vi dirò soltanto che nella prima fase ora mi cercava, ora mi evitava; a volte ci trattava, me e le altre, con la sua solita dolcezza; a volte passava improvvisamente al rigore più esagerato; ci chiamava le ci rimandava via; accordava la ricreazione e un momento dopo ne revocava l’ordine; ci faceva convocare nel coro e quando tutto il convento si era messo in moto per obbedirle, un secondo tocco di campana ci rinviava tutte nelle nostre celle. È difficile immaginare come fosse perturbata la nostra vita; la giornata trascorreva a uscire e a entrare nelle celle, a prendere il breviario e a riporlo; ad abbassare il velo e a rialzarlo. La notte conosceva gli stessi ritmi spezzati del giorno.
Alcune monache si rivolsero a me, e cercarono di farmi capire che con un po’ *** più di compiacenza e di riguardi per la superiora, tutto sarebbe rientrato nell’ordine (avrebbero dovuto dire nel disordine) solito; io rispondevo tristemente:
“Vi compiango, ma ditemi chiaramente che cosa debbo fare.”
Alcune se ne andavano a testa bassa senza rispondere; altre mi davano dei consigli che mi era impossibile conciliare con quelli del nostro direttore spirituale.
Intendo dire di quello che era stato revocato, perché, quanto al suo successore, non lo avevamo ancora visto.
La superiora non usciva più di notte. Trascorreva settimane intere senza farsi vedere né all’uffizio, né in coro, né in refettorio, né alla ricreazione. Stava rinchiusa in camera sua; girava per i corridoi o scendeva in chiesa; andava a bussare alla porta delle sue monache e diceva con voce lamentosa:
“Suor tal dei tali, pregate per me; suor tal dei tali, pregate per me...”
Si sparse la voce che si disponesse a una confessione generale.
Un giorno che scesi per prima in chiesa, vidi un foglio fissato al velo della grata.
Mi avvicinai e lessi:
“Care sorelle, siete invitate a pregare per una monaca che si è sviata dai propri doveri e che vuole tornare a Dio...”
Fui tentata di strappare quel foglio, ma poi lo lasciai. Qualche giorno dopo ce n’era un altro che diceva:
“Care sorelle, siete invitate a implorare la misericordia di Dio su una monaca che ha riconosciuto il proprio traviamento. Esso è grande...”
Un altro giorno fu la volta di un invito che diceva:
“Care sorelle, siete pregate di chiedere a Dio di allontanare la disperazione da una monaca che ha perduto ogni fiducia nella misericordia divina...”
Tutti questi inviti in cui venivano descritte le crudeli vicissitudini di quell’anima in pena mi rattristavano profondamente. Una volta mi capitò di rimanere lì impalata davanti a quegli scritti. Dentro di me mi ero chiesta che cosa fossero quei traviamenti che si rimproverava, da dove venissero le angosce di quella donna, quali colpe potesse avere da rimproverarsi; ripensavo alle esclamazioni del direttore spirituale, ricordavo le sue espressioni, ne cercavo il senso che non trovavo e rimanevo come assorta. Alcune monache che mi guardavano, parlottavano fra di loro, e se non mi sono ingannata, mi guardavano come se stessi per essere minacciata dagli stessi terrori.
La povera superiora non si faceva vedere che con il velo calato sul viso; non si occupava più della direzione del convento; non parlava più a nessuno; si intratteneva spesso con il nuovo direttore spirituale che ci era stato assegnato. Era un giovane benedettino. Non so se fosse stato lui a imporle tutte le mortificazioni che lei praticava: digiunava tre giorni alla settimana; si flagellava; ascoltava l’uffizio stando negli stalli inferiori. Per andare in chiesa dovevamo passare davanti alla sua porta; qui, la trovavamo prosternata, con il viso a terra, e si rialzava solo quando non c’era più nessuno; di notte, scendeva in chiesa in camicia e a piedi nudi; se per caso suor Santa Teresa e io la incontravamo, lei si voltava e incollava il viso al muro. Un giorno che uscivo dalla mia cella, la trovai prosternata, con le braccia stese e il viso contro terra. Mi disse:
“Venite avanti, camminate, calpestatemi, non merito altro trattamento.”
Per tutti i mesi che durò quella malattia, il resto della comunità ebbe tutto il tempo di patirne e di prendermi in avversione. Non starò a tornare su tutti gli affanni di una monaca odiata nel proprio convento: ormai dovete saperne abbastanza. A poco a poco sentii rinascere il disgusto del mio stato. Quel disgusto e quelle mie pene le andai a riversar nel cuore del nuovo direttore spirituale. Si chiama don Morel: è un uomo di carattere ardente; aveva all’incirca quarant’anni. Mi sembrò che ascoltasse con attenzione e interesse. Volle conoscere le vicissitudini della mia vita; mi fece entrare nei particolari più minuziosi sulla mia famiglia, sulle mie inclinazioni, sul mio carattere, sui conventi nei quali ero stata, su quello che c’era stato tra me e la superiora. Non gli nascosi niente. Non mi sembrò che annettesse al comportamento della superiora nei miei riguardi la stessa importanza del padre Lemoine; fu molto se sull’argomento pronunciò qualche parola: considerò quella faccenda come finita. Quello che lo interessava maggiormente erano le mie disposizioni segrete nei confronti della vita religiosa. Via via che mi aprivo con lui, la sua confidenza faceva gli stessi progressi. Io mi confessavo a lui, e lui si confessava a me. Ciò che mi raccontava delle sue sofferenze coincideva perfettamente con le mie; era entrato in religione suo malgrado, sopportava il suo stato con un disgusto simile al mio.
“Che fare, cara sorella?” mi diceva, “vi è una sola risorsa: rendere la nostra condizione meno penosa possibile.” Poi dava a me gli stessi consigli che seguiva lui: consigli saggi.
“In questo modo,” soggiungeva, “non si evitano le sofferenze, ci si risolve soltanto a sopportarle. Le persone religiose non sono felici che in quanto si fanno un merito delle loro croci davanti a Dio; in tal caso se ne rallegrano, vanno in cerca delle mortificazioni: più queste sono amare e frequenti, più se ne compiacciono. Hanno scambiato la loro felicità presente con una felicità futura; si assicurano questa felicità con il sacrificio volontario di quella. Quando hanno sofferto molto, dicono:“Amplius,Domine, ancora di più, Signore”, ed è una preghiera che Dio non manca mai di esaudire.
Ma se i loro patimenti sono fatti per voi e per me, come per loro, noi non possiamo permetterci la stessa ricompensa; noi non abbiamo la sola cosa che conferirebbe ad essi un valore, la rassegnazione. E questo è triste. Ahimé, come farò ad ispirarvi la virtù che vi manca e che io non ho! Eppure, senza di essa, ci esponiamo al rischio di essere perduti nell’altra vita dopo essere stati molto infelici in questa. In mezzo alle penitenze noi ci danniamo quasi con la stessa certezza della gente che vive tra i piaceri del mondo.
Noi ci priviamo, loro godono, e dopo questa vita ci attendono gli stessi supplizi. Com’è penosa la condizione di chi è costretto alla vita religiosa, uomo o donna che sia, senza vocazione! Tuttavia è la nostra condizione, e non possiamo cambiarla. Ci hanno caricato di pesanti catene che siamo condannati a scuotere senza posa, senza nessuna speranza di spezzarle; cercheremo, cara sorella, di trascinarle. Andate. Tornerò a trovarvi.”
Tornò pochi giorni dopo. Lo vidi in parlatorio; lo osservai più da vicino.
Terminò di confidarmi la sua vita, io la mia: un’infinità di circostanze che costituivano tra me e lui altrettanti punti di contatto e di somiglianza; aveva subito le stesse persecuzioni domestiche e religiose. Non mi rendevo conto che la descrizione del suo disgusto era poco adatta a dissipare il mio; ciò nonostante un tale effetto si stava verificando in me, e credo che la descrizione dei miei disgusti non agisse su di lui in maniera diversa. Fu così che aggiungendosi alla somiglianza dei caratteri quella delle nostre vicende, più ci vedevamo, più ci piacevamo l’uno all’altro; la storia dei suoi momenti, era la storia dei miei; la storia dei suoi sentimenti, era la storia dei miei; la storia della sua anima, era la storia della mia.
Dopo che c’eravamo intrattenuti a lungo su di noi, parlavamo anche degli altri, e soprattutto della superiora. La sua qualità di direttore spirituale lo rendeva molto riservato; sennonché, dai suoi discorsi, intuii che lo stato d’animo attuale di quella donna non sarebbe durato, che ella lottava contro se stessa, ma invano, e che sarebbe accaduta una di queste due cose: o fra non molto sarebbe tornata alle sue tendenze precedenti, oppure le avrebbe dato di volta il cervello. Ero molto curiosa di saperne di più. Avrebbe ben potuto illuminarmi su tutti gli interrogativi che mi ero posta senza potervi mai rispondere, ma non osavo fargli domande; mi azzardai soltanto a chiedergli se conosceva il padre Lemoine.
“Sì,” mi disse, “lo conosco; è un uomo di merito, e ne ha molto.”
“Abbiamo cessato di vederlo fra noi da un momento all’altro.”
“È vero.”
“Non potreste dirmi come è accaduto?”
“Mi dispiacerebbe se si venisse a sapere.”
“Potete contare sulla mia discrezione.”
Risposi: “Credo che abbiano scritto contro di lui all’arcivescovado.”
“E che cosa possono mai aver detto?”
“Che abitava troppo lontano dal convento, che non lo si poteva avere quando lo si voleva, che era di morale troppo austera, che vi erano buone ragioni per sospettarlo di sentimenti innovatori, che seminava la discordia nel convento e che allontanava gli animi delle monache dalla loro superiora.”
“Da chi lo avete saputo?”
“Me l’ha detto lui stesso.”
“Allora, lo vedete?”
“Sì, lo vedo. Qualche volta mi ha parlato di voi.”
“Che cosa vi ha detto?”
“Che eravate molto da compiangere, che non riusciva a capire come aveste resistito a tutte le pene che avete sofferto, che sebbene avesse avuto l’occasione di parlare con voi soltanto una volta o due, non credeva che vi sareste mai potuta adattare alla vita religiosa, che aveva in mente...”
A questo punto si fermò di botto, ed io aggiunsi:
“Che cosa avete in mente?”
Don Morel mi rispose:
“Si tratta di una confidenza troppo particolare perché io possa continuare.”
Non insistei ulteriormente e mi limitai a soggiungere:
“È vero che è stato il padre Lemoine a ispirarmi ripugnanza per la mia superiora.”
“Ha fatto bene.”
“Perché?”
“Sorella,” mi disse assumendo un’aria grave, “attenetevi ai suoi consigli e cercate di ignorarne la ragione finché vivrete.”
“Mi sembra però che se conoscessi il pericolo, potrei stare più attenta ad evitarlo.”
“Potrebbe anche essere il contrario.”
“Dovete proprio avere una cattiva opinione di me.”
“Dei vostri costumi e della vostra innocenza, ho l’opinione che debbo averne, ma credete a me: vi sono delle cognizioni funeste che non potreste acquisire senza rimetterci. È stata proprio la vostra innocenza a incutere rispetto alla vostra superiora; se foste stata più scaltrita, vi avrebbe rispettato di meno.”
“Non vi capisco.”
“Tanto meglio.”
“Ma che cosa ci può essere di pericoloso per una donna, nelle carezze di un’altra donna?”
Nessuna risposta da parte di Don Morel.
“Non sono forse la stessa di quando entrai qua dentro?”
Nessuna risposta da parte di Don Morel.
“Non avrei continuato ad essere la stessa? Dov’è il male nell’amarsi, nel dirselo, nel testimoniarselo? È una cosa tanto dolce!”
“È vero,” ammise Don Morel alzando su di me gli occhi che aveva sempre tenuto bassi mentre io parlavo.
“E questa è dunque una cosa tanto diffusa nei conventi? Povera superiora! In che stato è ridotta!”
“È davvero penoso, e temo che peggiorerà. Non era fatta per lo stato religioso, ed ecco quello che capita prima o poi. Quando ci si oppone all’inclinazione generale della natura, questa viene traviata dalla costrizione verso affetti sregolati, tanto più violenti in quanto non hanno fondamento; è una specie di pazzia.”
“È pazza?”
“Sì, lo è, e sempre più lo diventerà.”
“E voi credete che questa sia la sorte di tutti coloro che hanno accettato uno stato al quale non erano chiamati?”
“No, non tutti. Ve ne sono che muoiono prima, ve ne sono altri il cui carattere docile alla lunga finisce per adattarsi, e altri ancora sorretti per un certo tempo da qualche vaga speranza.”
“E quali speranze ci sono per una monaca?”
“Quali? In primo luogo quella di far rescindere i voti.”
“E quando si è perduta questa speranza?”
“Rimane quella di trovare un giorno le porte aperte; o la speranza che gli uomini rinuncino alla stravaganza di far rinchiudere in sepolcri giovani creature piene di vita, e che i conventi siano aboliti; la speranza che il convento prenda fuoco, che crollino i muri della clausura, che qualcuno venga in aiuto. Tutte queste supposizioni si accavallano nella mente; passeggiando in giardino si guarda, senza pensarci, se i muri sono molto alti; se si è nella cella, si afferrano le sbarre della grata e si scuotono piano, distrattamente; se la finestra dà sulla strada, si guarda in basso; se si sente passare qualcuno, il cuore comincia a battere, si sogna sordamente un liberatore; se scoppia un tumulto e il clamore penetra fin nel convento, si spera; si conta su una malattia che ci farà avvicinare a un uomo, o che ci farà partire per una cura delle acque.”
“È vero, è vero!” esclamai, “voi mi leggete in fondo al cuore; mi sono fatta, mi farò continuamente delle illusioni.”
“E quando, riflettendovi, si arriva a perderle, giacché quei vapori salutari che salgono dal cuore alla ragione, ogni tanto si dissipano, allora si vede tutta la profondità della propria miseria; si piange, si geme, si grida, si sente l’approssimarsi della morte.
Allora c’è chi corre a buttarsi ai ginocchi della superiora per cercare da lei qualche consolazione; c’è chi si prosterna nella cella o ai piedi dell’altare e chiama in aiuto il cielo; ve ne sono alcune che si stracciano gli abiti e si strappano i capelli; altre cercano un pozzo profondo, finestre molto alte, un cappio, e capita che lo trovino; altre, dopo essersi tormentate a lungo, piombano in una specie di abbrutimento e restano come inebetite; altre, la cui costituzione è debole e delicata si consumano di languore; in altre ancora l’organismo si sconvolge, l’immaginazione si perturba e finiscono col diventare furiose. Le più felici sono quelle in cui le illusioni consolanti rinascono e le cullano quasi fino alla tomba; la loro vita trascorre nell’alternativa dell’errore e della disperazione.”
“E le più infelici,” aggiunsi io emettendo apertamente un profondo sospiro
“quelle che passano successivamente attraverso tutti questi stadi... Ah, padre mio, come mi dispiace avervi ascoltato!”
“E perché?”
“Io non mi conoscevo; ora mi conosco. Le mie illusioni dureranno meno. Nei momenti...”
Stavo per continuare allorché entrò un’altra monaca, poi un’altra, e poi una terza, e poi quattro, cinque, sei, non so più quante. La conversazione si fece generale.
Alcune guardavano il direttore spirituale; altre lo ascoltavano in silenzio e con gli occhi bassi; diverse lo interrogavano tutte insieme, tutte si estasiavano sulla saggezza delle sue risposte. Intanto io mi ero ritirata in un angolo dove mi lasciai andare ad una fantasticheria profonda. Nel bel mezzo di tutte quelle conversazioni in cui ciascuna cercava di farsi valere e di attirare la preferenza del sant’uomo con il suo aspetto migliore, si sentì arrivare qualcuno a passi lenti, fermarsi a tratti, ed emettere dei sospiri.
Ascoltammo. Una monaca disse a bassa voce:
“È lei, è la nostra superiora.”
Poi ci fu silenzio e tutte quante si sedettero in cerchio. Era lei infatti. Entrò: il velo le ricadeva fino alla cintura; teneva le braccia incrociate sul petto e la testa reclina.
Fui la prima ch’ella scorse; subito dal velo trasse una mano con la quale si coprì gli occhi, e volgendosi un po’ di lato, con l’altra mano ci fece segno a tutte di uscire.
Uscimmo in silenzio, e lei rimase sola con Don Morel.
Prevedo, signor marchese, che vi farete una cattiva opinione di me, ma poiché non mi sono vergognata affatto di ciò che ho compiuto, perché dovrei arrossire nel confessarlo? E poi, come sopprimere in questo racconto un avvenimento che non ha mai cessato di avere delle conseguenze? Diciamo allora che ho una mentalità piuttosto strana; quando le cose possono suscitare la vostra stima o accrescere la vostra commiserazione, io posso scrivere bene o male, ma con una rapidità e una facilità incredibili; l’anima mia è gaia, l’espressione mi viene senza fatica, le lacrime mi scorrono con dolcezza, mi sembra che voi siate presente, che vi veda, e che voi mi ascoltiate. Se invece sono costretta a mostrarmi ai vostri occhi sotto una luce sfavorevole, penso con difficoltà, l’espressione mi sfugge, la penna non corre, perfino il carattere della mia scrittura ne risente, e se continuo, e solo in quanto segretamente spero che voi non leggerete quei passi. Eccone uno:
Allorché tutte le nostre sorelle se ne furono andate... “Ebbene, che faceste?”
Non lo indovinate? No, siete un uomo troppo onesto per questo... Ridiscesi in punta di piedi e andai a mettermi piano piano dietro la porta del parlatorio per ascoltare quello che si diceva là dentro. Molto male, direte voi... Oh, quanto a questo, feci molto male, lo dico anch’io a me stessa; e il mio turbamento, le precauzioni che presi perché non mi vedessero, il numero di volte che mi fermai, la voce della mia coscienza che ad ogni passo mi intimava di tornare indietro, non mi permettevano di avere dubbi. Ciò nonostante la curiosità fu più forte, e andai... Ma se fu male essere stata a spiare i discorsi di due persone che si credevano sole, non è neanche peggio riferirveli? Questa è ancora una di quelle cose che scrivo perché mi illudo che non le leggerete; so bene che non è vero, ma debbo convincermene.
La prima parola che udii dopo un silenzio alquanto lungo, mi fece fremere:
“Padre, sono dannata...” 23
Ripresi coraggio. Ascoltavo, e il velo che fino a quel momento mi aveva tenuto nascosto il pericolo che avevo corso, si stava lacerando, allorché mi chiamarono.
Dovevo andare, andai. Ma, ahimè! avevo ascoltato anche troppo. Che donna, signor marchese, che donna abominevole...
A questo punto le memorie di suor Susanna si interrompono.
Quelle che seguono non sono più che brevi annotazioni di ciò che
probabilmente si riprometteva diracconta re successivamente. Pare
che la superiora sia impazzita e che i frammenti che riporterò
debbano essere riferiti a quella sua sciagurata condizione.
Dopo la confessione, godemmo di qualche giorno di serenità. La gioia ricompare nella comunità e mi vengono rivolti rallegramenti che io respingo con indignazione.
La superiora non mi sfuggiva più, mi guardava, ma la mia presenza non aveva più l’aria di turbarla.
Io mi sforzavo di nasconderle l’orrore che mi ispirava da quando, per una fortunata e fatale curiosità, avevo imparato a conoscerla meglio.
Ben presto si fa silenziosa; non dice più che sì o no; passeggia da sola.
Rifiuta il cibo. Il sangue le si accende, la febbre l’assale e alla febbre succede il delirio.
Sola, nel suo letto, mi vede, mi parla, mi invita ad avvicinarsi, mi rivolge le espressioni più tenere.
Se sente camminare intorno alla sua camera, esclama:
“È lei che passa, riconosco il suo passo, lo riconosco. Chiamatela... No, no, lasciatela andare.”
La cosa strana è che non le capitava mai di sbagliarsi e di scambiarmi con un’altra.
Rideva fragorosamente e un momento dopo si scioglieva in lacrime. Le nostre suore la circondavano in silenzio e alcune piangevano con lei.
D’un tratto diceva:
“Non sono stata in chiesa, non ho pregato Dio. Voglio alzarmi da questo letto; voglio vestirmi, vestitemi.”
Se si opponevano, soggiungeva:
“Datemi almeno il mio breviario.”
Glielo davano; lei lo apriva, ne sfogliava le pagine col dito e continuava a voltarle anche quando non ve n’erano più. I suoi occhi erano smarriti.
Una notte, scese da sola in chiesa; alcune suore la seguirono. Si prosternò sui gradini dell’altare, si mise a gemere, a sospirare, a pregare ad alta voce. Uscì; tornò dentro; disse:
“Andate a cercarla; è un’anima così pura, così innocente! Se unisse le sue preghiere alle mie...”
Poi, rivolgendosi a tutta la comunità e voltandosi verso gli stalli che erano vuoti, esclamava:
“Uscite, uscite tutte! che rimanga sola con me. Non siete degne di avvicinarvi a lei; se le vostre voci si confondessero con la sua, il vostro incenso profano corromperebbe dinanzi a Dio la dolcezza del suo. Allontanatevi, allontanatevi...”
Poi mi esortava a chiedere al cielo assistenza e perdono. Vedeva Dio; le sembrava che il cielo fosse solcato di lampi, che si squarciasse, e le tuonasse sulla testa, ne scendevano angeli corrucciati, gli sguardi della Divinità la facevano tremare; correva per ogni dove, si rincantucciava negli angoli bui della chiesa, chiedeva perdono, si metteva con la faccia a terra, e si assopiva in questa posizione, dove l’aveva sorpresa la freschezza umida del luogo. Allora la trasportavano come morta nella cella.
L’indomani ella non sapeva nulla della scena terribile della notte. Diceva:
“Dove sono le nostre sorelle? Non vedo più nessuno; sono rimasta sola in questo convento; mi hanno abbandonata tutte quante, anche suor Santa Teresa. Hanno fatto bene. Dal momento che suor Santa Susanna non c’è più, posso uscire. Non l’incontrerò più. Ah, se la incontrassi! Ma lei non c’è più, vero? Non è forse vero che lei non c’è più?... Fortunato il convento che la ospita! Dirà tutto alla nuova superiora: che penserà di me?... Suor Santa Teresa è forse morta? Ho sentito suonare a morto tutta la notte.
Povera figliola! È perduta per sempre! e sono stata io, sono stata io... Un giorno le sarò messa a confronto; che cosa le dirò? Che cosa le risponderò?... Sventura a lei! Sventura a me !”
Un’altra volta diceva:
“Sono tornate le nostre sorelle? Dite loro che sono molto malata... Sollevate il mio guanciale... Slacciatemi... Sento qualcosa che mi opprime... Mi brucia la testa, toglietemi la cuffia... Mi voglio lavare... Portatemi dell’acqua. Versate, versate ancora...
Sono bianche, ma la sozzura dell’anima è rimasta... Vorrei essere morta; vorrei non essere nata... almeno non l’avrei vista.”
Una mattina fu trovata a piedi nudi, in camicia, scarmigliata, urlante, con la schiuma alla bocca, mentre correva intorno alla sua cella, con le mani sulle orecchie, gli occhi chiusi e il corpo schiacciato contro il muro.
“Allontanatevi da questa voragine! Le sentite queste grida? È l’inferno! Salgono da quest’abisso profondo delle fiamme ch’io vedo; dalle fiamme sento venire voci confuse che mi chiamano... Mio Dio, abbiate pietà di me! Presto, andate, suonate, riunite la comunità; dite che preghino per me, anch’io pregherò... Ma spunta appena il giorno, le nostre sorelle dormono. Non ho chiuso occhio per tutta la notte, vorrei dormire, e non ci riesco...”
Una delle nostre sorelle le diceva:
“Signora, c’è qualcosa che vi tormenta; confidatemela, forse ne avrete qualche sollievo.”
“Suor Agata, ascoltate, avvicinatevi... di più... ancora di più... non ci devono sentire; ora vi rivelerò tutto, tutto, ma serbatemi il segreto... L’avete vista?”
“Chi, signora?”
“Non è vero che nessuna ha la stessa dolcezza? Che andatura! Che decoro! E quanta nobiltà! Quanta modestia!... Andate da lei, ditele... No, non dite niente, non andate, non la potreste avvicinare... Gli angeli del cielo la custodiscono, vegliano su di lei; io li ho visti, li vedreste anche voi, ne sareste spaventata come me. Restate... Se andaste, che cosa le direste? Inventate qualcosa di cui non debba arrossire...”
“Ma signora, se consultaste il nostro direttore...”
“Sì, ma sì... No, no, tanto lo so quello che mi dirà; l’ho sentito mille volte... Di che cosa gli parlerei? Se potessi perdere la memoria!... Se potessi rientrare nel nulla, o rinascere! Non chiamate il direttore spirituale. Preferirei che mi venisse letta la passione di nostro Signore Gesù Cristo. Leggete... Cominciò a respirare... Basta una goccia di quel sangue per purificarmi... Guardate, sgorga ribollendo dal suo costato... Inclinate quella sacra piaga sulla mia testa... Il suo sangue scorre su di me e non vi rimane... Sono perduta!... Allontanate questo crocifisso... Riportatemelo...”
Le veniva riportato; se lo stringeva fra le braccia, lo baciava da ogni parte, e poi aggiungeva:
“Sono i suoi occhi, è la sua bocca; quando la rivedrò? Suor Agata, ditele che l’amo, descrivetele il mio stato, ditele ch’io muoio.”
Fu salassata, le fecero fare dei bagni, ma i rimedi sembrava che accrescessero il suo male. Non oso descrivervi tutte le azioni indecenti da lei compiute, ripetervi tutti i discorsi disonesti che le sfuggivano nel delirio. Ad ogni istante si portava la mano alla fronte come per scacciarne idee confuse, immagini, chissà quali immagini! Riaffondava la testa nel letto, si copriva il viso con il lenzuolo.
“È il tentatore,” diceva, “è lui. Che forma strana ha assunto! Prendete dell’acqua benedetta, gettate dell’acqua benedetta su di me... Basta, basta, non c’è più!”
Non si tardò a segregarla, ma dalla sua prigione per quanto ben sorvegliata, un giorno riuscì a fuggire. Si era stracciata le vesti, si aggirava tutta nuda per i corridoi, dalle braccia le pendevano i capi della corda spezzata. Gridava:
“Sono la vostra superiora, tutte ne avete fatto giuramento, obbeditemi! Mi avete imprigionata; sciagurate, ecco qual è la ricompensa per la mia bontà! Mi offendete perché sono troppo buona; non lo sarò più... Al fuoco!... All’assassino!... Al ladro!...
Aiuto!... A me, suor Teresa... A me, suor Susanna!”
Intanto l’avevano riafferrata e la riportavano nella sua prigione; e lei diceva:
“Avete ragione, avete ragione; ahimè! sono diventata pazza, lo sento.”
Talvolta sembrava ossessionata dallo spettacolo dei vari supplizi. Vedeva donne con la corda al collo o le mani legate dietro la schiena; ne vedeva altre con le torce in mano; si univa a quelle che facevano onorevole ammenda; si credeva condotta a morte; diceva al boia:
“Ho meritato la mia sorte, l’ho meritata... Se almeno questo supplizio fosse l’ultimo; ma un’eternità! Un’eternità di fiamme!...”
Non dico niente che non sia vero; e tutto quello che dovrei ancora dire di vero non mi torna in mente, o arrossirei se ne insozzassi queste pagine.
Dopo aver vissuto per diversi mesi in quello stato miserando, la superiora morì.
Che morte, signor marchese! Io l’ho vista la terribile immagine della disperazione e del peccato all’ora suprema. Si credeva attorniata da spiriti infernali che aspettavano la sua anima per impadronirsene; diceva con voce soffocata:
“Eccoli! Eccoli!...” e opponendo loro a destra e a sinistra un crocifisso che teneva in mano, urlava, gridava:
“Mio Dio!... Mio Dio!...”
Suor Teresa la seguì poco tempo dopo, e noi avemmo un’altra superiora anziana, lunatica e superstiziosa.
Mi accusano di aver stregato la superiora che l’ha preceduta; ella lo crede, e le mie pene si rinnovano.
Anche il nuovo direttore spirituale è perseguitato dai suoi superiori; e mi persuade a fuggire dal convento.
La mia fuga è progettata. Esco in giardino tra le undici e mezzanotte. Mi lanciano delle corde, io me le lego intorno alla persona. Le corde si spezzano, e io cado; ho le gambe tutte scorticate e una violenta contusione alle reni. Un secondo, un terzo tentativo mi consentono di issarmi sulla sommità del muro; scendo. Quale è mai la mia sorpresa! Invece di una sedia di posta dove speravo di essere accolta, trovo una sgangherata carrozza pubblica. Eccomi sulla via di Parigi con un giovane benedettino.
Non tardai ad accorgermi, dal tono indecente che prendeva e dalle libertà che si permetteva, che non osservava con me nessuna delle condizioni che avevo convenuto.
Allora rimpiansi la mia cella e sentii tutto l’orrore della mia situazione.
È a questo punto che descrivo la scena della carrozza. Che scena! Che uomo!
Grido; il vetturino viene in mio aiuto. Rissa violenta tra il vetturino e il monaco.
Arrivo a Parigi. La carrozza si ferma in una vicolo, davanti a una porta stretta che si apre su un viale buio e sporco. La padrona di casa mi viene incontro e mi sistema all’ultimo piano in cui trovo appena i mobili indispensabili. Ricevo alcune visite della donna che occupa il primo piano.
“Siete giovane, vi dovete annoiare, signorina. Scendete da me, vi troverete in buona compagnia, uomini e donne; non tutte le donne sono carine come voi, ma quasi altrettanto giovani.
“Si parla, si gioca a carte; si balla; ci divertiamo in cento modi. Se fate girare la testa di tutti i nostri cavalieri, vi giuro che le nostre signore non ne saranno gelose, né dispiaciute. Venite, signorina...”
Colei che mi parlava così era una donna di una certa età, dallo sguardo tenero, la voce dolce e la parola insinuante.
Trascorro una quindicina di giorni in quella casa, esposta a tutte le profferte del mio perfido rapitore e a tutte le scene tumultuose di una casa equivoca, pronta, ad ogni istante, a cogliere l’occasione di scappare.
Finalmente, un giorno, l’occasione si presentò. Era notte inoltrata.
Se fossi stata vicina al convento, vi sarei tornata subito. Corro senza sapere dove vado. Alcuni uomini mi fermano; sono presa dal panico, cado svenuta sulla soglia della bottega di un candeliere. Mi soccorrono. Quando riprendo i sensi, mi trovo distesa su un giaciglio, circondata da diverse persone. Mi chiedono chi sono; non so che cosa risposi.
Mi fanno riaccompagnare dalla domestica di casa; la prendo sottobraccio, camminiamo insieme.
Avevamo già percorso un bel pezzo di strada, quando quella ragazza mi chiese:
“Signorina, sapete di preciso dove stiamo andando?”
“No, figliola mia; all’ospizio, penso.”
“All’ospizio? Vi hanno forse cacciata di casa?”
“Ahimè, sì.”
“Che cosa avete mai fatto per essere cacciata a quest’ora?... Ma eccoci alla porta di Santa Caterina; vediamo un po’ se riusciamo a farci aprire; in ogni modo, non abbiate paura; non resterete per la strada, dormirete con me.”
Torno dal candeliere. Spavento della domestica nel vedere le mie gambe scorticate per la caduta fatta scappando dal convento. Trascorro la notte con lei. La sera del giorno successivo, torno a Santa Caterina. Vi rimango tre giorni, trascorsi i quali mi viene annunciato che, o debbo andare all’ospizio generale, o accettare il primo lavoro che mi capiterà.
Pericolo corso a Santa Caterina da parte di uomini e di donne; da quello che poi ho saputo è lì che vanno a rifornirsi i libertini e le ruffiane della città. La prospettiva della miseria non rese più persuasive le seduzioni alle quali fui esposta. Vendo i miei panni vecchi e ne scelgo di più adatti alla mia condizione.
Entro al servizio di una lavandaia, presso la quale mi trovo tuttora. Mi danno la biancheria, e io la stiro. La mia giornata è faticosa; sono mal nutrita, male alloggiata, ho un letto scomodo, ma in compenso sono trattata con umanità. Il marito è vetturino di piazza; la moglie è di maniere un po’ brusche, ma in fondo è una buona donna. Sarei abbastanza contenta della mia sorte, se potessi sperare di goderne tranquillamente.
Sono venuta a sapere che la polizia aveva preso il mio rapitore e l’aveva consegnato nelle mani dei suoi superiori. Pover’uomo! È da compiangersi più di me. Il suo tentativo di aggressione ha fatto scalpore, e non sapete con quale crudeltà i religiosi puniscono gli scandali; una segreta sarà la sua dimora per il resto dei suoi giorni; è la sorte che aspetta anche me se vengo ripresa, ma lui ci vivrà più a lungo di me.
Il dolore della mia caduta si fa sentire. Ho le gambe gonfie e non posso fare un passo. Lavoro seduta, perché farei fatica a stare in piedi. Ciò nonostante temo il momento della mia guarigione: che pretesto avrò allora per non uscire? E a quali pericoli mi esporrei, facendomi vedere? Ma per fortuna ho ancora tempo davanti a me.
La mia famiglia, che non può avere alcun dubbio sulla mia presenza a Parigi, fa sicuramente tutte le perquisizioni immaginabili. Avevo deciso di far venire il signor Manouri nella mia soffitta, di chiedere e seguire i suoi consigli, ma non era più di questo mondo.
Vivo in un continuo allarme. Al minimo rumore che sento in casa, per le scale, nella strada, mi prende il terrore, tremo come una foglia, i ginocchi si rifiutano di reggermi e il lavoro mi cade dalle mani.
Trascorro quasi tutte le notti senza chiudere occhio; se dormo, mi sveglio di continuo; parlo, chiamo, grido. Non riesco a immaginare come quelli che mi circondano non mi abbiano ancora scoperta.
Sembra che la mia evasione sia di dominio pubblico. Me l’aspettavo. Una delle mie compagne me ne parlava ieri aggiungendovi circostanze odiose e quel genere di riflessioni che suscitano desolazione. Per fortuna stava stendendo sulle corde la biancheria bagnata e non ha potuto rendersi conto del mio turbamento. La padrona, invece, avendo notato che piangevo, mi ha detto:
“Che cosa avete, Maria?”
“Niente,” le ho risposto.
“Ma come?” ha soggiunto, “sareste tanto sciocca da impietosirvi su una cattiva monaca scostumata, senza religione, che aveva un amorazzo con un frataccio col quale scappa dal convento? Dovreste proprio avere compassione da buttar via. Non aveva che da bere, mangiare, pregare Dio, e dormire; stava bene dov’era; perché non c’è rimasta?
Se fosse stata soltanto tre o quattro volte al fiume col tempo che fa, si sarebbe riconciliata col suo stato.”
Al che ho risposto che si conoscono bene soltanto i propri patimenti. Avrei fatto bene a starmene zitta, perché lei non avrebbe concluso: “Andiamo, andiamo... è una svergognata che Dio punirà!”
A queste parole ho chinato la testa sul tavolo, e così sono rimasta fino a che la mia padrona non mi ha detto:
“Ora vi siete messa a sognare, Maria? Mentre dormite, il lavoro non va avanti.”
Non ho mai avuto la vocazione per il chiostro, e si vede abbastanza chiaramente dal mio comportamento. Ciò non toglie che in convento mi sia abituata a certe pratiche che ripeto macchinalmente. Suona una campana? Mi faccio il segno della croce, oppure mi inginocchio. Bussano alla porta? Dico Ave. Mi chiedono qualcosa? La mia risposta finisce sempre con un sì o con un no, cara madre o sorella. Se sopraggiunge un estraneo, le braccia mi si incrociano sul petto e invece di fare la riverenza, mi inchino.
Le mie compagne si mettono a ridere e credono che mi diverta ad imitare la monaca; ma è impossibile che continuino nell’errore; le mie storditaggini mi scopriranno, e io sarò perduta.
Signore, sbrigatevi a venire in mio aiuto. Voi certamente mi direte: “Ditemi che cosa posso fare per voi.” Ecco qui: non ho grandi ambizioni. Mi ci vorrebbe un posto di cameriera o di guardarobiera, o anche di semplice domestica, purché viva ignorata in campagna, in fondo a una provincia, in casa di gente dabbene, che non ricevesse molto.
Non importa il salario; mi bastano sicurezza, riposo, pane e acqua. Potete esser certo che saranno soddisfatti del mio servizio; in casa di mio padre ho imparato a lavorare, in convento a obbedire. Sono giovane, ho un carattere mite. Quando le gambe mi saranno guarite, avrò più forza di quanta ne occorra per fare il mio lavoro. So cucire, filare, ricamare, lavare. Quando non ero ancora in convento, accomodavo da sola i miei merletti, e farò presto a rimettermici; non sono maldestra in nulla, e saprò abbassarmi a qualunque lavoro. Ho una buona voce, conosco la musica e so suonare discretamente il clavicembalo, quanto basta per divertire qualche madre che se ne dilettasse; e potrei anche dare lezioni ai suoi figli. Quantunque avrei timore di essere tradita da questi segni di un’educazione ricercata. Se dovessi imparare a pettinare, ho un certo gusto, prenderci un maestro, e non mi ci vorrebbe molto ad acquisire questa piccola arte. Signore, una condizione sopportabile, se possibile, o una condizione qualsiasi, è tutto quello che mi occorre, e non desidero niente di più. Voi potete rispondere dei miei costumi; nonostante le apparenze, sono una fanciulla dabbene; sono anche devota. Ah, signore!
tutti i miei mali sarebbero ormai finiti, e non avrei più nulla da temere dagli uomini, se Dio non mi avesse fermata. Quel pozzo profondo, là in fondo al giardino del convento, quante volte l’ho visitato! Se non mi ci sono buttata dentro, è perché mi lasciavano tutta la libertà di farlo. Ignoro quale sia il destino che mi è riservato, ma se un giorno dovessi tornare in un convento, qualunque fosse, non rispondo di niente: ci sono pozzi dappertutto. Signore, abbiate pietà di me, e non preparate a voi stesso lunghi rimorsi.
P.S. Sono esausta dalla stanchezza, circondata dal terrore. Non dormo più.
Queste memorie che scrivevo precipitosamente, le ho appena rilette a mente fresca, e mi sono accorta che senza averne avuto la minima intenzione, ad ogni riga mi sono mostrata, infelice come realmente ero, ma molto più gradevole di quanto non sia. Sarà forse perché noi riteniamo gli uomini meno sensibili alla descrizione delle nostre sofferenze che all’immagine delle nostre attrattive, e ci ripromettiamo maggior felicità nel sedurli che nel commuoverli? Li conosco troppo poco e non mi sono mai studiata abbastanza per saperlo. E se nondimeno il marchese, al quale si attribuisce il tatto più delicato, giungesse a persuadersi che non alla sua beneficenza, bensì alle sue debolezze io mi rivolgo, che cosa penserebbe di me? Questa riflessione è per me motivo di inquietudine. In verità avrebbe torto, se imputasse a me personalmente un istinto che è proprio di tutto il mio sesso. Sono una donna, forse un tantino civetta, come posso saperlo? Ma con tutta naturalezza e senza artificio alcuno.
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