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Come un vulcano: l'Egitto

Nelle foto scattate a piazza Tahrir durante la rivoluzione egiziana, i capelli bianchi di Nawal al-Sa'dawi spiccano in mezzo a un mare di veli e di teste scure. A dispetto dei suoi 80 anni e dei rischi, la più famosa femminista egiziana ha passato tutti i diciotto giorni che ci sono voluti alla folla per avere ragione di Hosni Mubarak in piazza, fra la gente.

«Aspettavo quel momento da quando avevo 10 anni, non potevo mancare: non avrei mai potuto rinunciarci» mi disse qualche mese dopo. «Tanti mi hanno ripetuto che ero troppo vecchia per stare in strada, che avevo fatto la mia parte, dovevo tornare a casa e far sentire la mia voce da lì. Ma non potevo farlo. E poi i giovani mi hanno protetta, sempre: stavo per essere travolta da un cavallo della polizia e mi hanno portata via di corsa. Quando le pallottole hanno cominciato a volare mi hanno fatto da scudo. Venivano a ringraziarmi per quello che avevo scritto e detto per anni: mi raccontavano che i miei libri avevano cambiato la loro vita. E restavano accanto a me. È stata un'esperienza incredibile.»

Nelle immagini di al-Sa'dawi circondata da giovani vestiti all'americana o da ragazze a capo coperto, uomini e donne di mezza età, laici e religiosi, c'è la chiave per capire cosa è successo in Egitto tra la fine di gennaio e la metà di febbraio del 2011: «A piazza Tahrir ho visto l'Egitto rappresentato in tutte le sue facce: egiziani di tutte le età e di tutte le provenienze, copti e musulmani, giovani e anziani, donne con il velo e donne senza, ricchi e poveri. Milioni di persone hanno avuto il loro spazio a piazza Tahrir, come membri della stessa famiglia» ha dichiarato lo scrittore egiziano oggi più famoso al mondo, 'Ala al-Aswani.1

In quelle giornate d'inverno un intero paese è esploso.

In prima fila c'erano le donne: quelle che avevano lottato per una vita, quelle che mai prima di allora si erano unite a una manifestazione e le ragazzine che negli ultimi anni avevano usato Internet come arma per chiedere libertà. Contadine e ricche borghesi. Laiche e religiose. Giovani e vecchie.

Semplicemente, egiziane.

Quando le prime immagini della rivolta del Cairo hanno cominciato ad arrivare sui circuiti televisivi internazionali, l'attenzione dei media è stata subito catturata dal mare di visi femminili che riempivano il cuore della città. Tentando di spiegare il fenomeno, i giornalisti si sono ricordati di una signora dai capelli bianchi che da anni girava il mondo per parlare delle donne del suo paese: Nawal al-Sa'dawi, appunto.

In decine, in quei giorni, l'hanno chiamata. E lei ha risposto paziente, senza però risparmiare qualche espressione di stizza. «Erano stupiti e chiedevano spiegazioni» ricorda. «A tutti ho ripetuto la stessa cosa: "Perché vi meravigliate?

Le donne in Egitto combattono da più di cento anni. Solo degli ignoranti potevano essere tanto sorpresi".»

La rabbia di Nawal al-Sa'dawi ha radici antiche, che affondano nella sua vicenda personale e, ancora di più, in quella del suo paese. La storia del potere al femminile in Egitto ha inizio ai tempi di Cleopatra, ma il nome di donna che più di ogni altro risuonava a piazza Tahrir nei giorni della rivoluzione era quello di Hoda Sha'rawi. Figlia e moglie di uomini politici fautori dell'indipendenza, poetessa, fondatrice di scuole per ragazze, lei stessa attiva nel movimento contro il colonialismo, Sha'rawi fu la prima, quasi cento anni fa, a rivendicare diritti per le donne nel mondo arabo: lo fece promuovendo la causa dell'emancipazione in patria e all'estero, lottando incessantemente per l'istruzione femminile e rivendicando alle donne un ruolo di primo piano nel futuro Egitto indipendente. Il suo nome resta legato a un giorno di maggio del 1923 quando, di ritorno da un congresso a Roma, al momento di scendere dal treno che la riportava al Cairo si fermò, fissò la folla venuta a salutarla e si sfilò il velo, lasciando scoperto il volto.

In un paese dove gli harem erano ancora una realtà ben radicata e le donne vivevano confinate in casa e sorvegliate da schiere di eunuchi, nessuna prima di lei aveva osato tanto.

La reazione fu all'inizio di sconcerto, poi di gioia: alcune alla stazione la imitarono e lanciarono in aria il loro velo, «l'ostacolo maggiore alla partecipazione delle donne nella vita pubblica»,2 come la stessa Sha'rawi lo aveva definito.

L'episodio fece scandalo e contribuì all'ingresso di Sha'rawi nei libri di storia: ma la sua lotta durava già da anni.

L'Unione femminista egiziana (efu), da lei fondata, era stata la prima organizzazione a prendere la parola in nome delle donne in Egitto. Le sue rappresentanti avevano sfidato politici e opinionisti senza guardare in faccia nessuno e, anche se spesso erano uscite sconfitte dalle loro battaglie, avevano aperto il terreno per conquiste future.

Hoda Sha'rawi morì nel 1947.3 Alla sua scomparsa le egiziane erano diventate il motore del movimento femminista arabo e una ragazzina dalla pelle scura di Kafr Tahla, un piccolo villaggio sul Nilo a nord del Cairo, aveva già raccolto la sua fiaccola: Nawal al-Sa'dawi, appunto.

Per anni al-Sa'dawi è stata il simbolo dell'Egitto contro: medico e scrittrice, è diventata famosa per le battaglie contro le mutilazioni genitali e i dettami della religione e per gli scritti su temi tabù come prostituzione e sessualità femminile.

La sua è una lotta che dura da decenni, iniziata con l'esperienza di dottore nelle campagne e maturata nel confronto con una politica e una società sorde alle sue parole: nei circoli della Cairo bene così come all'estero, al-Sa'dawi ha sbattuto la drammatica condizione delle egiziane sotto il naso dei potenti senza curarsi troppo delle conseguenze.

Le sue azioni ne hanno fatto un'icona ma al tempo stesso un bersaglio: rimossa dal posto di medico a Kafr Tahla per aver difeso una ragazzina vittima di abusi, cacciata dall'ufficio di direttore generale per l'educazione al ministero della Salute dopo aver pubblicato un libro contro le mutilazioni genitali, arrestata per aver criticato il presidente Anwar alSadat,4 costretta all'esilio dai fondamentalisti, è autrice di alcuni dei testi più forti contro l'oppressione femminile e i pericoli del fondamentalismo religioso. Se si cercasse una frase sola per definirla, senza timore di sbagliare si potrebbe dire che Nawal al-Sa'dawi è la voce delle donne che non hanno voce nel mondo arabo.

La vocazione di spirito ribelle ce l'ha dalla nascita: «Spingi Nawal nel fuoco e ne uscirà indenne» diceva di lei la madre5 quando aveva meno di 10 anni. Allora non poteva sapere quanto quelle parole fossero profetiche: «Aveva ragione,» ricorda oggi la scrittrice «nella mia vita ho sofferto moltissimo, eppure sono sempre riuscita a reagire. Sono stata arrestata, umiliata, minacciata, messa al bando dagli editori, ho divorziato tre volte. Ma ho avuto anche momenti di grande felicità: ho due figli fantastici e ho scritto più di quaranta libri tradotti in tutto il mondo. Il risultato è che oggi non ho paura neanche dell'inferno».

Non sono parole da prendere alla leggera le sue, perché quando parla di inferno al-Sa'dawi sa di cosa si tratta: negli anni né ha sperimentate diverse forme, dal carcere all'esilio, passando per la violenza coniugale. Eppure nulla in lei ha lasciato una traccia profonda come il suo primo incontro con il dolore: aveva 6 anni quando, come la maggior parte delle bambine egiziane,6 venne sottoposta alla mutilazione genitale, una pratica che secondo chi la difende dovrebbe purificare il corpo femminile mediante l'asportazione del clitoride. Un atto che - se non porta alla morte lascia tracce indelebili sul fisico e sulla mente di chi lo subisce.

«Venni accerchiata da quattro donne» racconta nella sua autobiografia «mi presero mani e piedi, come se dovessero crocifiggermi. [...] Non dimenticherò mai quel giorno del 1937. Sono passati cinquantasei anni ma lo ricordo ancora, come se fosse ieri. Giacevo in una pozza di sangue.

Quando l'emorragia si fermò, la daya [levatrice] sbirciò fra le mie gambe e disse: "È tutto a posto. La ferita è guarita, sia ringraziato Dio". Ma restava il dolore, acuto come un ascesso. Non riuscivo a immaginare cosa mi avrebbe riservato il destino. Solo Allah era in grado di vedere nel futuro, un futuro che si annunciava pieno di pericoli.»7

La mutilazione fu l'ultima volta in cui famiglia e tradizione ebbero ragione della giovane Nawal. Subito dopo la ragazzina sviluppò quell'attitudine da combattente che non l'avrebbe mai più abbandonata: già a 10 anni, quando cominciarono a presentarsi i pretendenti a chiederla in sposa, aveva imparato a fingersi selvaggia e maldestra. Schivate quelle nozze che per lei avrebbero significato, come per amiche e cugine, la fine di ogni sogno, riuscì a convincere il padre a farla studiare. «Accettò perché mio fratello maggiore a scuola era una delusione: e almeno uno di noi due doveva andare bene. Quante volte lo sentii dire a mia madre che avrei dovuto nascere maschio, non femmina: faceva male sentirlo parlare così, ma mi spingeva a impegnarmi ancora di più.» Mi raccontò questo episodio più di cinquantanni dopo, durante il nostro primo incontro, e ancora gli occhi le brillavano al ricordo della vittoria nel braccio di ferro con la famiglia.8

Un passo dopo l'altro la ragazzina testarda divenne una giovane promettente, tanto brava da arrivare alla laurea in medicina. Ma non dimenticò mai il passato. Il giorno in cui incassò il suo primo stipendio da medico, volle pagare un tributo alle donne della famiglia - sua madre per prima che per anni si erano sacrificate tra fornelli a petrolio puzzolenti e sporchi: «Entrai in un grande negozio chiamato Shaker, sulla Fouad al-Awal Street, accanto al cinema Rivoli» ricorda. «Avevo una sola idea in testa: una cucina a butano con un forno e quattro bruciatori di una marca nota all'epoca come Master Flame. La prima rata ammontava a 5 sterline, i restanti pagamenti sarebbero stati suddivisi in trentasei mesi, Mi infilai in casa, accompagnata da tre uomini del negozio incaricati del trasporto. Entrarono in silenzio in cucina e collocarono l'elettrodomestico sotto la finestra, accanto alla dispensa. Poi se ne andarono, sempre in punta di piedi. I raggi del sole pomeridiano penetravano fra i muri delle case e l'inferriata della finestra. Si indirizzavano sui fornelli come guidati da una forza superiore. Entrò mia madre e con gli occhi spalancati chiese: "E questa da dove arriva?". "Dal cielo" risposi. Gli occhi le brillarono della gioia dei bambini. Come me, aveva sognato da sempre il momento in cui ci saremmo disfatti della vecchia stufa.

Come me, aveva guardato in tutti i negozi le cucine a gas che bruciavano con una fiamma di un blu puro, si accendevano sfregando il cerino una sola volta e non avevano bisogno di nessun ago per rimuovere i residui di fuliggine.

Dava un'occhiata al prezzo, sospirava e passava oltre.»9

Qualche tempo dopo Nawal si sposò per la prima volta, con un compagno di università: quel matrimonio d'amore, fortemente voluto e difeso contro l'opposizione della famiglia, si rivelò un incubo. Il brillante studente che le aveva fatto perdere la testa partì volontario per il fronte, a combattere contro gli inglesi. Al ritorno, si era trasformato in un drogato che la derubava. Nel 1957, dopo aver messo al mondo la figlia Mona, chiese il divorzio: «Mi sentivo come uno schiavo liberato dalle catene, come un uccello scappato dalla gabbia» scrive.10 Qualche tempo dopo tornò a Kafr Tahla per diventare il medico del villaggio.

Gli anni di lavoro a diretto contatto con le classi più umili11 le fornirono il materiale per il libro che avrebbe segnato la sua vita: Women and Sex, pubblicato nel 1972, è un durissimo atto di accusa contro le mutilazioni genitali e la violenza contro le donne, tanto diretto e severo da costare all'autrice il posto presso il ministero della Salute.12 Messa alle strette dai superiori, al-Sa'dawi scelse di non rinnegare nulla di quello che aveva scritto: per questo fu costretta alle dimissioni. Da quel giorno, lo spirito di denuncia non ha più abbandonato i suoi scritti, saggi o romanzi che siano: i libri parlano di prostitute, violenza, soprusi e del ruolo della religione come mezzo di oppressione politica e sociale. Non stupisce, dunque, che abbiano procurato all'autrice tanti guai.

Nel 1981 al-Sa'dawi è stata arrestata su ordine di Anwar al-Sadat per aver denunciato l'iniquità degli accordi di Camp David, con cui il presidente egiziano siglava - primo capo di Stato arabo - la pace con Israele. Solo la morte di Sadat le restituì la libertà. In seguito le sue posizioni la portarono allo scontro diretto con Suzanne Mubarak, la potentissima first lady che voleva fare dei diritti femminili il suo campo di azione privato. Negli anni Novanta ad attaccarla furono i fondamentalisti: il suo nome finì in una lista di persone da eliminare perché «nemiche dell'Islam».

Così, insieme al terzo marito Sherif Hetata, fu costretta a rifugiarsi negli Stati Uniti, dove rimase per anni. Rientrata in patria alla fine del decennio, neanche allora ha trovato pace. L'ultimo scontro pubblico l'ha affrontato (e vinto) nel 2001, quando un gruppo ultra-conservatore l'ha denunciata per apostasia, chiedendo che a Hetata, medico e dissidente anche lui, fosse imposto di divorziare da lei, in quanto infedele.

Un mare di rughe le taglia la pelle scura, i capelli bianchi sono perennemente arruffati, come nelle foto di quando era bambina, ma dagli occhi sprigiona una forza che non ha nessuna intenzione di piegarsi ai limiti che l'età le imporrebbe.

La voce è forte e le parole che pronuncia taglienti, allenate da anni di contestazioni. Vive sola in una casa non lontana dal centro del Cairo. Tre anni fa ha abbandonato Hetata, l'uomo che con lei aveva sopportato le minacce, l'esilio, le umiliazioni di una vita sotto sorveglianza e al quale nei suoi libri aveva dedicato bellissime frasi d'amore: «Molti dei miei amici mi hanno domandato come potessi chiedere di nuovo il divorzio alla mia età» racconta. «È vero, quando ho deciso di rompere il matrimonio avevo 76 anni. Ma la questione non è mai stata quella. Io non accetto compromessi, non l'ho mai fatto. Ho scoperto che mio marito mi mentiva e mi tradiva: se io, che sono un simbolo di lotta contro l'oppressione maschile, avessi accettato di sopportare e restare con lui in nome dell'età cosa avrebbero fatto le altre donne? Non potevo: meglio divorziare di nuovo.»

A causa di questo modo di fare poco diplomatico e inflessibile, al-Sa'dawi è rimasta a lungo una voce inascoltata anche fra i circoli dei dissidenti: molti la consideravano eccessiva, troppo estremista per essere un interlocutore serio, troppo ruvida perché si potesse instaurare con lei un dialogo vero. Poi è arrivata piazza Tahrir e tutto è cambiato: «È stato meraviglioso: come trovare una nuova famiglia. Eravamo tutti insieme sotto le tende: ricchi e poveri, giovani e anziani, donne e uomini. Abbiamo vissuto un sogno.

Aspettavo quel momento da sempre, eppure quando è arrivato è stata una sorpresa enorme, non avrei mai creduto di vederlo con i miei occhi. Gli egiziani che si riprendevano la loro dignità, il loro paese. Esserci mi ha ripagato di anni di lotta. All'annuncio delle dimissioni di Mubarak c'è stata un'ondata di emozione che non dimenticherò mai».

Dopo gli anni dell'esilio e quelli dell'isolamento, al-Sa'dawi è ora al centro del dibattito politico: molte delle battaglie che si combattono nella fase post-rivoluzionaria sono le stesse che lei ha affrontato per anni, molti dei temi sul tappeto oggi sono quelli su cui ha scritto centinaia di pagine.

A dispetto dell'età, a 81 anni per la madrina del femminismo egiziano si apre una fase nuova: e lei, neanche a dirlo, ne è felicissima. «Non ho mai smesso di lottare; ma ora lo faccio con più forza» puntualizza. «Non voglio che la religione ci scippi quello che abbiamo ottenuto, che delle forze retrograde prendano il posto del serpente a cui abbiamo staccato la testa. Il rischio c'è e bisogna vigilare.»

La vita di Nawal al-Sa'dawi oggi più che mai sembra un romanzo. Di autobiografie ne ha già pubblicate tre, due per raccontare i primi anni e l'età matura, una dedicata al periodo trascorso in prigione: il sospetto è che dopo i fatti del 2011 ce ne vorrà una quarta.

Per ora sta lavorando a far rinascere l'Unione delle donne egiziane (organizzazione che aveva creato e che fu poi bandita per volontà di Suzanne Mubarak) ed è tornata all'amore di sempre, la scrittura: «A piazza Tahrir sono diventata una persona migliore, ho visto con i miei occhi il sogno dell'uguaglianza realizzarsi. Di questo sto scrivendo. È un romanzo ispirato a quello che è accaduto, cosa verrà dopo non lo so ancora. Ma di un fatto sono certa: la rivoluzione vivrà, anche se ci vorranno anni per farla trionfare, anche se dovremo batterci a lungo per fermare la contro-rivoluzione.

Il futuro è dei giovani che erano in piazza, di chi sta lottando ora per prendersi le cose per cui io ho lottato una vita intera».

Di donne come quelle di cui parla al-Sa'dawi in Egitto ce ne sono molte. Contrariamente a ciò che accade in altri paesi, come l'Arabia Saudita e lo Yemen, da tempo le egiziane ricoprono ruoli di primo piano nella società e nella politica: sin dall'inizio del secolo scorso, il movimento per l'indipendenza ha camminato al fianco di quello per l'affermazione dei diritti femminili. È dall'Egitto che, con le idee dell'intellettuale riformista Qasim Amin prima e di Hoda Sha'rawi poi, è partito il movimento di liberazione delle musulmane. Ed è sempre in Egitto che, dai tempi di Nasser in poi, le donne hanno ottenuto risultati che in zone vicine sono ancora oggi impensabili: le egiziane votano dal 1956 e sin dagli anni Sessanta la loro presenza nei governi è pressoché costante.13 Da tempo sono in primo piano in campi come la televisione, l'industria cinematografica e la letteratura. Nell'ultimo decennio poi la loro presenza si è fatta ancora più evidente, anche grazie a una serie di iniziative che hanno sfidato la dilagante cultura conservatrice: da Radio Motalakat (la radio delle divorziate), creata per rispondere alle domande delle mogli che vogliono separarsi, al blog fenomeno del 2008, «Che il velo sia da sposa!», di Ghada Abdel Aal, una sorta di «Sex and the City» all'egiziana in cui l'autrice parla della difficoltà di trovare marito,14 fino al successo della dottoressa Hiba Qtub e del suo programma tv sulla sessualità, il mondo femminile in Egitto è apparso sempre meno disposto a rimanere chiuso dentro limiti prefissati.

Lo conferma una lunghissima serie di «prime volte».

Solo negli ultimi cinque anni il soffitto di cristallo è stato sfondato nelle università e nella magistratura, con l'insediamento della prima preside di facoltà e delle prime trenta giudici; nelle amministrazioni locali grazie a Eva Kyrolos, avvocato, copta, eletta sindaco del suo villaggio, e in quella nazionale: nonostante la fortissima opposizione dei conservatori, Amai Afifi è stata la prima donna ammessa a ricoprire la carica di maazouna, funzionario governativo incaricato dei matrimoni.15

Le donne sono state inoltre il motore di alcuni dei fenomeni che hanno fatto da incubatori per la protesta del 2011.

Ghada Shahbender, la creatrice di «Shayfeen.com» (letteralmente «Vi stiamo osservando») - un sistema di monitoraggio elettorale basato su segnalazioni dei cittadini - è stata fra i primi a rivelare i brogli dietro alle cosiddette «elezioni libere» dell'era Mubarak. Ragazze e professioniste sono state l'anima di «Kifaya» (Abbastanza), il movimento della società civile che sin dal 2005 era in strada per protestare contro il governo. All'interno dei Fratelli musulmani la componente femminile si è ritagliata un ruolo sempre più attivo, contribuendo alle attività sociali e aprendo il gruppo alle nuove tecnologie. Nelle università, manipoli di studentesse - appartenenti prevalentemente a partiti islamici si sono opposte con forza a ogni tentativo di limitare i loro spazi, arrivando a inscenare manifestazioni in difesa del diritto di indossare il velo integrale. E, nel 2006, in prima fila nel grande sciopero che ha paralizzato il centro tessile di El-Mahalla El-Kubra e innescato un'ondata di proteste simili in tutto il paese c'erano le operaie.

Ai fenomeni sociali si sono affiancate le riforme legislative: nel 2004 è stata cancellata la legge che vietava alle egiziane che sposano stranieri di passare la nazionalità ai figli: l'anno dopo, i tempi di custodia dei bambini da parte delle madri divorziate sono stati allungati. Nel 2007 sono state introdotte le quote rosa in Parlamento. Il 2008 è stato l'anno delle norme in difesa dell'infanzia: l'età minima per il matrimonio è stata portata a 18 anni e le mutilazioni genitali sono state proibite per legge. Infine, l'istruzione: il gap fra i sessi si è ridotto sensibilmente, arrivando alle 95 bambine per 100 maschi iscritti alle scuole elementari del 2007 contro le 66 del 1975.16

Per anni dietro a ognuno di questi provvedimenti si è intravista l'ombra di Suzanne Mubarak. A lungo la ex first lady ha fatto di tutto per legare il suo nome alle riforme a favore delle donne nella speranza, neanche troppo nascosta, di vincere il Nobel per la Pace. Suzanne, come tutti la chiamano, non è mai stata amata dalle attiviste, che le hanno sempre rinfacciato un interesse solo formale per la loro causa: eppure paradossalmente, la sua uscita di scena oggi rischia di danneggiarle.

I partiti di stampo conservatore, che dopo la caduta del regime hanno acquistato un ruolo di primo piano, promettono di rivedere tutte quelle norme che, a loro giudizio, sarebbero figlie della volontà dei Mubarak di «occidentalizzare» l'Egitto: prime nella lista le cosiddette «leggi di Suzanne», quelle sulle donne appunto. Una prospettiva che spaventa, e non poco, molte egiziane: «Ci sono voluti vent'anni di lavoro per ottenere le riforme: le abbiamo strappate noi, non Suzanne» dice Nahed Shetata, dell'Egyptian Center for Women Rights, la principale ONG femminile del paese.

«Lei ha cercato di prendersene il merito, ma i cambiamenti sono stati il frutto del lavoro di centinaia di persone e non permetteremo che vengano annullati.»

Dai loro uffici nel quartiere Maadi, poco lontano dal centro del Cairo e dal letto del Nilo, Shetata e le sue colleghe sono state per anni uno dei pilastri del movimento femminile: subito dopo la caduta del regime si sono mobilitate affinché le egiziane potessero dire la loro nel primo voto libero in più di trent'armi. I loro incontri di formazione per candidate ed elettrici hanno attratto centinaia di partecipanti appartenenti a tutti gli schieramenti dell'arco politico, Fratelli musulmani e partiti salafiti compresi.

Particolare enfasi è stata data al problema della violenza contro le donne e al come affrontarla nel nuovo corso: dal Cairo ad Alessandria, passando attraverso le campagne e i villaggi conservatori al confine con il Sudan, il fenomeno in Egitto ha infatti le dimensioni della piaga. Nel 2008 un sondaggio rivelava che il 46,1 per cento delle egiziane e il 52,3 per cento delle straniere che vivevano nel paese erano soggette a molestie quotidiane, dai commenti sessuali a vere e proprie aggressioni.17

Un problema accentuato dal dilagare dell'ideologia wahabita, importata dai tanti uomini emigrati nei ricchi paesi del Golfo per lavorare, ma anche dalla crescente repressione messa in atto dalle autorità: dal 2005 in avanti le donne sono state oggetto di attacchi mirati ogni volta che si sono unite a proteste antigovernative. L'episodio del 6 aprile 2010 riportato da 'Ala al-Aswani nel suo ultimo libro, La rivoluzione egiziana, con un generale che sistematicamente ordinava ai suoi uomini di prendere di mira le ragazze durante una manifestazione, è significativo.18 Così come le aggressioni, avvenute sotto gli occhi delle forze di sicurezza, alle giornaliste che nel 2005 raccontavano le proteste dell'opposizione alla vigilia delle elezioni presidenziali.

Questo atteggiamento purtroppo non è scomparso con la fine di Mubarak: uno dei primi segnali della rottura fra i generali e la gente subito dopo le dimissioni del presidente sono stati i test di verginità imposti alle ragazze arrestate a piazza Tahrir. Le giovani coinvolte ne sono uscite umiliate e spaventate, ma nonostante tutto molte di loro sono tornate in strada qualche mese dopo, per la seconda fase della rivoluzione: ancora una volta la presenza femminile tra i manifestanti, scrive sempre al-Aswani, è stata «stupefacente».

Quando una ragazza velata è stata malmenata e quasi spogliata alla luce del sole dai poliziotti antisommossa,19 in migliaia sono scese in strada per rivendicare dignità e chiedere giustizia: il suo reggiseno blu esposto agli occhi di tutti ha fatto scattare una rabbia profonda fra le progressiste così come fra le conservatrici. Tenendosi per mano e gridando slogan in nome del rispetto, ancora una volta le egiziane hanno mostrato di non voler sottostare ai dogmi sociali e di avere il diritto, come i loro compatrioti maschi, di esigere un paese più giusto.

Per capire quanto coraggiosa sia stata questa scelta bisogna prendere un sondaggio realizzato nella primavera del 2011, quindi dopo la prima fase della rivolta anti-Mubarak, dalla rivista femminile «Nasf Addounia» («La metà del mondo»). Interrogati sul ruolo delle donne nella società, la maggior parte degli intervistati continuava a negare loro una partecipazione paritaria: il 71 per cento non avrebbe voluto vederle in polizia, neanche per occuparsi di altre donne. L'87 per cento considerava le riforme legislative degli ultimi anni come frutto della volontà di Suzanne Mubarak, non delle battaglie della società civile, l'88 per cento rispondeva «no» alla domanda se fosse possibile per l'Egitto avere una donna presidente. Eppure, anche in tanta chiusura, c'era uno spiraglio. Al quesito se ci fosse in definitiva una donna degna di sedere sulla poltrona più alta della Repubblica, gli intervistati hanno risposto di sì. Indicando compatti un nome: quello di Gameela Ismail.

Sulla carta Gameela Ismail è perfetta per raccogliere la fiaccola di Sha'rawi e al-Sa'dawi: giornalista, attivista per i diritti umani, liberale, a lungo è stata uno dei volti più noti dell'opposizione. Per questo ha pagato un prezzo altissimo: è stata seguita, minacciata, aggredita e, infine, licenziata.

Quando suo marito - Ayman Nour, primo politico a sfidare apertamente Mubarak - è stato arrestato, è toccato a lei occuparsi del partito che avevano fondato insieme e al tempo stesso prendersi cura della famiglia. In Egitto la sua popolarità è enorme, sia fra la borghesia da cui proviene che fra le classi più povere con le quali ha a lungo lavorato.

L'erede ideale dunque? Non proprio, visto che di fiaccole del passato questa quarantenne, bella e determinata, non vuole neanche sentire parlare. «Se discutiamo di donne» dice «dobbiamo ammettere che noi egiziane abbiamo fallito, perché non siamo state in grado di conquistare i nostri diritti appieno. Ma come cittadine abbiamo vinto: abbiamo liberato il paese insieme agli uomini, chiedendo le stesse cose che chiedevano loro. Non è della questione femminile, oggi, che dobbiamo preoccuparci: siamo andate oltre.»

I capelli castani sulle spalle, lo sguardo sereno di chi si sente nel giusto, Gameela Ismail è universalmente riconosciuta come il volto pulito dell'Egitto, quello che non è mai sceso a compromessi. Quarantacinque anni, da quasi venti vive sotto i riflettori: dapprima per il suo lavoro in televisione, poi come moglie del carismatico politico che per primo ha incarnato la speranza del cambiamento, Ayman Nour appunto.

La storia di Gameela e Ayman sembra scritta da uno sceneggiatore della prolifica industria cinematografica egiziana: alla collaboratrice fresca di laurea in Comunicazione, la rivista americana «Newsweek» chiede di intervistare il politico ragazzino che ha appena lanciato una campagna contro la tortura nelle carceri. Durante l'incontro fra i due scocca la più classica delle scintille: due anni dopo si sposano. Da allora e per lungo tempo formano una delle coppie più glamour del paese: lui siede in Parlamento e si occupa di diritti civili, lei lavora in tv e in strada, fra la gente, riportando al marito e sugli schermi le richieste e i bisogni degli egiziani.

La loro casa a Zamalek, il quartiere più trendy del Cairo, e la sede del partito politico che insieme fondano (al Ghad, letteralmente «il domani») sono tra i luoghi di incontro preferiti dell'intellighenzia egiziana. Con il tempo lui diventa sempre più importante; lei mette al mondo due figli e, nel 2001, viene nominata personalità televisiva dell'anno.

La favola finisce nel 2005: quando Mubarak è costretto dalle pressioni americane a fare qualche apertura democratica, Nour prende la palla al balzo e comincia a costruire una piattaforma politica alternativa a quella del presidente.

La sua fama in patria e all'estero cresce; ma non fa neanche in tempo ad annunciare la candidatura per le presidenziali, che Mubarak ha promesso libere e trasparenti, che viene arrestato con l'accusa - mai provata - di aver falsificato le firme necessarie alla nascita del suo partito. In carcere resterà, a parte qualche breve parentesi, fino al 2009.

Ismail si ritrova da sola a dover pensare al partito, al lavoro e ai due figli: viene licenziata e intorno a lei si fa il vuoto. La sua situazione economica si complica. Prova a fare colloqui per un nuovo impiego ma viene costantemente scartata. Un giorno qualcuno le dice: «Sei diventata un caso speciale», poi punta il dito in alto e con le mani mima lunghi capelli. Il messaggio è chiaro: Suzanne Mubarak ha dato ordini sul suo caso. «Non credo volesse prendere di mira me personalmente» dice oggi Ismail «ma è una madre molto protettiva: ce l'aveva con chiunque mettesse in discussione il diritto di suo figlio di succedere al padre alla guida del paese. E fra quelli c'ero anche io.»

Per anni la signora Nour e i suoi figli vivono come paria, tenuti ai limiti della società cairota: «Non avevamo più nessun legame, nessun contatto: come se fossimo venuti al mondo il giorno dell'arresto di Ayman» ricorda oggi. Nonostante tutto non molla: continua a fare pressioni per la liberazione del marito, parla con i media, organizza proteste di fronte al carcere e alle aule giudiziarie. Down to Mubarak diventa il suo grido di battaglia. Nessuno prima di lei in Egitto aveva osato chiedere apertamente le dimissioni del presidente, anzi una frase come quella poteva costare l'arresto immediato. Ismail lo sapeva, eppure per anni ha continuato a urlarla: decine di egiziani nei giorni di piazza Tahrir le si sono avvicinati per ringraziarla di averlo fatto.

Protesta dopo protesta, Ismail diventa una spina nel fianco per il regime: tanto fastidiosa che gli uomini di Mubarak decidono di ingaggiare con lei una partita mortale. Nel 2008 scoppia un rogo nel quartier generale di al Ghad. Lei e altri attivisti sono lì dentro: ne escono vivi per miracolo. Quando va alla polizia per denunciare quello che è accaduto e puntare il dito contro le milizie pro-regime, le cade una nuova tegola in testa. Il cellulare squilla e una voce le annuncia che la principale sospettata del rogo è proprio lei: se non avesse ritirato la denuncia sarebbe finita in prigione, come il marito.

Il giorno dopo, i giornali filo-governativi titolano: «Gameela Ismail distrugge un antico edificio della Vecchia Cairo».

Nonostante la sua lotta per un Egitto democratico sia durata anni, come molti nella sua generazione Gameela Ismail non sperava davvero di assistere a una cosa simile a quella accaduta a inizio 2011. Quando la incontrai, nell'autunno di quell'anno, erano passati più di otto mesi dalla fine del vecchio regime e lei era candidata alle prime elezioni parlamentari del post-Mubarak. Non era la prima volta che si presentava; ma, a differenza delle campagne precedenti, aveva una reale possibilità di vincere perché il voto non sarebbe stato truccato.

Di fronte a quanto era accaduto nei mesi passati appariva ancora incredula: «Non me lo aspettavo. Mai lo avrei creduto. Il massimo che pensavamo potesse succedere era che Mubarak morisse e che dovessimo fermare l'ascesa di suo figlio. Ma di più non avremmo mai osato sperare. Per questo tutto ciò che accade in questa fase per me è comunque una cosa bellissima, il massimo: spero di vincere, ma anche se non avvenisse non importa. Sono ottimista, vedo una luce brillare in un orizzonte che prima era solo scuro.

È come stare su una scala: potrai fare un passo indietro qualche volta, ma sei destinato a salire. E la scala noi, fino a qualche mese fa, non potevamo neanche immaginarcela.

Quanto ci vorrà per passare dal primo al secondo gradino, se ne scenderemo due e poi ne saliremo uno, se qualcuno ci spingerà più giù non lo possiamo dire. Ma certo saliremo».

Ismail correva con l'ambizione dichiarata di diventare presidente della Camera: i suoi manifesti erano sparsi in tutto il Cairo, ben oltre i confini del distretto elettorale. «Abbiamo fatto la rivoluzione, ora meritiamo felicità e giustizia» era il suo slogan. Intorno a lei un piccolo gruppo di assistenti, giovani per lo più, si faceva in quattro per gestirle l'agenda, organizzare incontri con gli elettori e rispondere alle richieste della stampa internazionale, che l'aveva eletta sua beniamina. Per incontrarla non c'era che un modo: seguirla da un impegno all'altro, dalle conferenze nei club di Zamalek ai giri a piedi nelle strade più povere del distretto.

Fra le varie tappe l'auto della candidata si trasformava in un quartier generale: lei dettava comunicati, chiamava al telefono i figli, si rifaceva il trucco e nel frattempo mangiava barrette energetiche per compensare i pasti saltati.

Il maquillage perfetto, frutto degli anni in tv, non riusciva però a nascondere che «la bella» - questo significa Gameela in arabo - era stanca. Da gennaio, mi confessò, non si era mai fermata; e non intendeva farlo ora che per la prima volta poteva competere davvero alle elezioni. Quando le domandai se valeva la pena combattere tanti anni per avere questa possibilità, mi fissò quasi incredula. «Sì, certo. Senza dubbio alcuno. Oggi tutto mi sembra grandioso perché le nostre anime sono vive di nuovo. Ora siamo vivi, prima non lo eravamo. Vivere senza orgoglio, senza sentimenti, senza rispetto. Vivere sotto minaccia, sorvegliati, isolati.

Tutto questo non è vivere, non significa nulla.»

Parlava per esperienza diretta: per anni aveva ricevuto telefonate di minaccia nel cuore della notte o chiamate di donne che giuravano di avere una relazione con suo marito. Era stata intercettata e seguita: nel 2001 un gruppo di ex detenute pagate dal regime l'aveva circondata nel giorno delle elezioni con la scusa di volerla festeggiare e l'aveva aggredita, picchiata, molestata sessualmente. Subito dopo era scomparsa dalla scena pubblica per mesi: ancora oggi un solo accenno a quel momento la fa sussultare, così come trovarsi di fronte al registratore di qualcuno che non conosce. «È una vecchia abitudine. Quando vedo uno sconosciuto che registra quello che dico mi spavento: penso sempre che mi stia spiando.»

Fra le sofferenze di questi anni c'è stato anche il divorzio: la moglie fedele che aveva sostenuto Nour durante la prigionia ha chiesto la separazione poco dopo il suo rilascio, nel 2009. I motivi erano un argomento tabù, di cui assolutamente non si poteva parlare. «Non rimpiango nulla del mio passato,» fu il massimo che riuscii a strapparle «sono stata felice, ho imparato molto, ho due figli meravigliosi.

E durante tanti anni di lotta ho riscoperto me stessa. Se mi guardo indietro capisco che ho sempre cercato di stare dalla parte dei più deboli: all'università ero nell'Unione degli studenti e organizzavamo manifestazioni in favore della Palestina. Non ci era permesso protestare su questioni interne e facevamo il possibile. Ma solo lavorando in strada, a contatto con la gente, ho trovato la mia vera forza: nella fiducia che riponevano in me.»

Il programma elettorale di Ismail rifletteva le sue idee: uno Stato basato sulla legge, in cui tutti sono uguali, senza distinzione di genere o di religione, il rispetto dei diritti personali, la libertà di associazione, una Costituzione fatta di regole certe, e poi accesso all'istruzione e diritto alla salute, creazione di posti di lavoro, allargamento della rete elettrica. «Sono gli stessi punti per cui mi battevo prima della rivoluzione. La gente vuole cose concrete, non sentire parlare di quello che è successo a piazza Tahrir: quello è il passato, ora guardiamo al futuro.»

Nelle strade di Kasr el-Nil, la sua circoscrizione elettorale, anche chi era analfabeta e non aveva letto i manifesti pareva conoscere il suo programma. Quando passava gli artigiani e i piccoli commercianti si alzavano per salutarla: i più conservatori, che per credo religioso non stringono la mano alle donne, si avvicinavano e portavano il palmo aperto verso il cuore in segno di rispetto. «La voteremo perché è sempre stata dalla nostra parte» mi disse uno di loro quando lei si allontanò. Anche i rappresentanti dei Fratelli musulmani, rivali alle urne, si fermavano per salutarla e farle gli auguri. Quando incrociava gruppi di donne, poi, l'abbracciavano e le ripetevano all'infinito le stesse richieste: elettricità, ospedali, lavoro. Molte la chiamavano ancora «moglie di Ayman». Lei ascoltava, sorrideva, rispondeva e passava oltre senza curarsi di spiegare.

Nonostante la sua enorme popolarità, alle elezioni del 28 novembre 2011 Gameela Ismail ha perso, sconfitta (seppur di misura) dalla macchina elettorale dei Fratelli musulmani, che ha imposto i suoi candidati a Kasr el-Nil come nel resto dell'Egitto. Da Twitter, comunque, ha mandato un messaggio di speranza alle migliaia di persone che la seguono sul social network: «L'importante non è vincere o perdere. Non è questo il punto: il punto vero è come vinci e perché perdi» ha scritto.

La sconfitta per lei non è arrivata completamente inaspettata: «Stiamo parlando di cambiare la mentalità di un paese: dieci mesi non bastano, forse ci vorranno dieci anni» mi aveva detto qualche giorno prima del voto. «Anche se i cambiamenti che sogniamo non arrivassero domani, anche se non fossi eletta e il Parlamento che uscirà dalle urne non fosse quello che vorrei, sarebbe comunque valsa la pena di soffrire. Vada come vada, io sulla scena politica ci sarò, così come ci sono stata in tutti questi anni. Non mi aspetto che i militari, i Fratelli musulmani o chiunque vinca chieda a quelli come me di partecipare: ma io non resto in attesa di un invito per sedermi intorno a un tavolo e dire la mia. Non l'ho mai fatto.»

Asma Mahfouz la pensa nella stessa maniera. Nel gennaio 2011 in pochi giorni questa impiegata ventiseienne è passata dal completo anonimato alla celebrità, acclamata dalla stampa internazionale come «la ragazza più coraggiosa d'Egitto», «la giovane donna che ha aiutato ad accendere la piazza» e trasformata in uno dei simboli della Primavera araba. Il merito è di un video che ha registrato con il telefonino e diffuso su Internet a metà gennaio, alla vigilia della rivoluzione.

Il filmato è di una semplicità disarmante: la ragazza - pallida, velo rosa chiaro in testa, maglia a righe - è sola nella sua stanza, a parlare nella videocamera: «Voglio darvi un messaggio» dice. «Io andrò a piazza Tahrir il 25 gennaio: se avete onore, se volete dignità, venite anche voi. Parlate con i vostri vicini, con la famiglia, con gli amici: e venite.

Dite a tutti che vogliamo essere liberi. Chi rimane a casa sarà colpevole.»

Non era la prima volta che un attivista nel mondo arabo usava Internet per mobilitare la piazza, ma mai prima di allora il messaggio era stato così personale, così diretto: una ragazza sfidava la paura di essere arrestata e torturata in nome della libertà e della dignità. E, fatto ancora più rivoluzionario, lanciava il guanto agli uomini di una società tradizionalista come quella egiziana: «A quelli che sostengono che le donne non dovrebbero manifestare perché potrebbero essere picchiate io dico: venite in piazza a difendermi.

Se siete uomini davvero, venite con me il 25 gennaio.

Fino a quando direte che non c'è speranza non ci sarà speranza: ma se vi unite a noi e prendete posizione, la speranza ci sarà». Migliaia di egiziani guardarono il filmato nella settimana successiva al caricamento su Internet. Mani anonime stamparono la faccia di Asma su volantini e manifesti e li sparsero in tutto il Cairo. Il 25 gennaio, in strada, i piccoli gruppi di manifestanti che da giorni protestavano seguendo l'esempio della Tunisia divennero una marea di migliaia di persone; e la Primavèra d'Egitto cominciò.

A qualche mese di distanza da quegli eventi, nella hall di un grande albergo di Doha, capitale del Qatar, Asma mi raccontò cosa l'aveva portata a registrare il video. «Ero in strada quel 18 gennaio. La polizia mi ha fermato, mi ha maltrattato, mi ha umiliato: per l'ennesima volta. Perché ero una donna che camminava da sola o forse perché sapevano che ero un'attivista del movimento per la democrazia.

È scattato qualcosa in quel momento, è esplosa la rabbia accumulata nei miei ventisei anni da egiziana. Sono tornata a casa e ho cominciato a parlare davanti alla telecamera del telefonino. Non avevo nessun testo scritto: ho parlato e basta. Poi ho postato il video su YouTube. Era la seconda volta che facevo una cosa così. La prima poche persone avevano visto il filmato, ma questa volta lo hanno scaricato in migliaia. Credo che a fare la differenza sia stato il fatto che la mia era furia vera, si vedeva. O forse che parlavo la lingua di tutti i giorni, o che ho toccato un nervo scoperto.

Ho detto alla gente "siamo arabi, siamo egiziani, siate orgogliosi: non possiamo sempre essere tristi o depressi, dobbiamo reagire". Il giorno dell'appuntamento tantissime persone mi riconoscevano, chiedevano a me cosa fare. Erano venute per le loro ragioni, ma anche perché avevano visto il video su Internet e si erano sentite incoraggiate. Non ci potevo credere, non sapevo cosa rispondere. Dicevo solo che dovevamo stare lì, che non potevamo più aspettare.»

Fra le migliaia di volti che hanno fatto la storia di piazza Tahrir, quello di Asma Mahfouz rimarrà impresso per la sua normalità: nulla nell'atteggiamento e nei modi di questa ragazza bassina dal viso tondo fa pensare che sia in qualche modo diversa da milioni di sue coetanee. Asma ama dormire fino a tardi, i dolci e la compagnia degli amici. Il suo hobby è la fotografia. Ogni mattina sceglie con cura l'hijab, (il velo che copre i capelli ma lascia scoperto il volto), lo coordina con camicia e pantaloni e si trucca con attenzione.

Abita con i genitori e non ha un fidanzato. È religiosa ma non fanatica. Per l'appello dice di essersi ispirata ai personaggi della Disney, il re Leone e il pesciolino Nemo in particolare, perché «lottano per la giustizia». Fino a gennaio 2011 viveva una routine tranquilla e ripetitiva: viaggiava per due ore in metropolitana tutti i giorni per arrivare in ufficio (è impiegata in una compagnia telefonica), andava alle riunioni del gruppo di opposizione Movimento 6 aprile20 e quando tornava a casa la sera spesso era così stanca che si addormentava in pochi minuti.

Proprio la sua normalità l'ha resa eccezionale: la sua rabbia, la sua voglia di cambiare erano le stesse di un paese intero, ma soprattutto di una generazione che è riuscita dove quelle prima della sua hanno fallito. Anche grazie all'aiuto delle nuove tecnologie.

Come Asma, migliaia di giovani egiziani nei mesi precedenti alla rivoluzione avevano usato Internet per la loro causa. Negli ultimi anni in Egitto la rete era diventata il grimaldello per sfidare l'immobilismo: dal web erano uscite le voci che avevano aperto le prime crepe nel muro del consenso al regime, come i blogger Sandmonkey e Israa AbdelFatah. Grazie a Internet il Movimento 6 aprile era riuscito a costruire una rete nazionale di attivisti. Su Facebook il dirigente di Google Wael Ghonim aveva creato «Siamo tutti Khaled Said», la pagina-ricordo per un ragazzo di Alessandria malmenato e ucciso dalla polizia che, prima è diventata la vetrina virtuale di un Egitto diverso, poi si è trasformata nel motore organizzativo della rivolta.

Asma Mahfouz, della «generazione Internet» che è stata il cuore pulsante della Primavera araba, è diventata una delle voci principali: ma come la maggior parte dei suoi colleghi rifiuta l'idea che sia stata la rete a scatenare la rivoluzione.

«Non sono stata io con il mio video a far accadere quello che avete visto, né è stato Internet. E non sono stati neanche i miei amici del Movimento 6 aprile» spiega. «Noi come gruppo venivamo da una lunga strada: lavoravamo insieme dal 2004. Avevamo provato a organizzare scioperi e proteste, ma ci avevano sempre bloccato. La gente diceva che avevamo fallito. Non era così, stavamo imparando dagli errori: quando siamo tornati in piazza, a gennaio, eravamo più preparati. Certo, negli ultimi due o tre anni ci eravamo resi conto che il clima era cambiato, era cresciuta la consapevolezza; ma poi tutto è precipitato in pochi mesi.

Il regime ha falsificato i risultati delle elezioni del 2010, ci sono state le violenze contro i cristiani ad Alessandria, sono aumentati i prezzi e migliaia di persone sono finite in povertà; infine, c'è stata la Tunisia. Abbiamo guardato quello che stava accadendo a Tunisi e ci siamo svegliati: noi e tutto l'Egitto. È stato come un vulcano: si muove per anni, e alla fine esplode quando meno te lo aspetti.»

Asma pensa che il suo video abbia avuto il merito di dar voce e corpo ai pensieri di migliaia di giovani egiziani come lei: «La differenza fra altri filmati e il mio sta nel fatto che, quel giorno, la mia frustrazione era la stessa di un paese intero. Forse la gente non si aspettava che a urlarla fosse una ragazza. Forse nella vita reale non mi avrebbe ascoltato: ma sul web sì. Ho detto solo: "Siete esseri umani, tirate fuori la dignità", ma in poche ore hanno iniziato ad arrivarmi sms di sconosciuti, perché avevo detto il mio nome e numero di telefono. Dicevano: "Io ci sarò". Poi le persone hanno cominciato a fermarmi e a chiedermi se ero la ragazza del video. Un giorno ho visto un volantino con la mia faccia e le mie parole: non sapevo neanche chi lo avesse fatto, ma ero io. E lì mi sono detta, mio Dio cosa ho fatto?».

Semplicemente, aveva acceso una miccia che avrebbe cambiato la vita sua e dell'Egitto intero.

Gli effetti del terremoto Asma li ha vissuti anche nel suo piccolo mondo: «Negli anni passati, quando ero nel Movimento 6 aprile, mia sorella si vergognava di me» racconta.

«Mio fratello più grande, che è nell'esercito, mi chiamava in continuazione per ordinarmi di smetterla con la politica.

Quello piccolo, poliziotto, non mi ha parlato per due anni. Mia madre non era affatto convinta di ciò che facevo.

Solo mio padre mi difendeva. Adesso mia sorella va in giro a dire che sono sua parente. E i miei fratelli mi chiedono di intercedere perché vengano promossi.» Improvvisamente poi hanno cominciato ad arrivarle richieste di interviste, inviti all'estero, premi internazionali e persino - insieme a un gruppo di blogger arabi - la candidatura al Nobel per la Pace.

Asma non si è fatta travolgere. Quando la incontrai, nel marzo 2011, affrontava tutto con i piedi ben saldi a terra: aveva preso un lungo permesso dal lavoro per viaggiare e tornare a studiare e, da giornali e televisioni, continuava a dire la sua sulla politica egiziana. Nonostante già allora si intravedessero i problemi che avrebbero poi portato alla seconda ondata della rivoluzione, quella del novembre di quell'anno, la sua fiducia nel futuro dell'Egitto era granitica: «Noi ce la faremo. Per la prima volta vedo in strada, al Cairo, gente ottimista e non depressa: vedo speranza. Non la lasceremo morire: torneremo in piazza se serve. Gandhi diceva: "All'inizio ti ignoreranno, poi rideranno di te, poi ti combatteranno: e alla fine tu vincerai". Noi vinceremo».

Altrettanto incrollabili erano le sue certezze nelle potenzialità delle egiziane. «Quello che è accaduto è una grande vittoria per la parte femminile di questo paese: io a piazza Tahrir c'ero e posso dirvi che uomini e donne hanno lottato insieme, sono stati picchiati insieme, hanno pianto insieme, hanno vinto insieme. Noi egiziane ci siamo svegliate.

Ti assicuro che fra qualche mese saranno gli uomini a dover chiedere che i loro diritti siano rispettati di fronte ai nostri.»

Mi confidò che avrebbe voluto candidarsi alle prime elezioni libere ma non poteva, perché l'età minima era 30 anni e lei ne aveva solo 26. Pochi mesi dopo la regola cambiò e Asma, al voto del novembre 2011, si presentò come candidata in uno dei collegi più noti dell'Egitto, quello di Heliopolis, un'area intorno al Cairo dove vive la borghesia benestante.

La sua campagna partì fra mille incertezze: gli avversari la accusavano di non essere abbastanza solida, di aver preferito Heliopolis all'area degradata dove era cresciuta e ancora viveva, di voler cavalcare la notorietà. Lei all'inizio sbandò sotto i colpi dell'inesperienza, poi dimostrò di imparare in fretta: cominciò a parlare con maggiore cognizione, usando argomenti sensati e vincendo le perplessità di molti. A giudizio degli esperti avrebbe avuto una reale possibilità di essere eletta, ma a pochi giorni dal voto, in concomitanza con gli scontri del novembre 2011 fra l'esercito e i manifestanti che chiedevano ai militari di lasciare il potere, scelse di ritirarsi per protesta contro quello che stava accadendo. I maligni commentarono che sapeva di perdere: Asma li ignorò.

Nonostante il ritiro, c'è da scommettere che di Asma Mahfouz l'Egitto sentirà parlare ancora. All'indomani dell'uscita di scena spiegò che i suoi sogni erano ancora tutti da realizzare, che lei aveva tempo e non si dava per vinta. «Il mio obiettivo più grande» aveva detto a me prima che ci salutassimo «è risolvere la questione palestinese. Pensi che sia troppo ambizioso? Può darsi, ma tanta gente pensava che anche Mubarak fosse un bersaglio troppo grande per una ragazzina con il telefonino. E guarda come è finita. Facciamo così: ci rivediamo fra qualche anno e ne riparliamo.»

Scrive 'Ala al-Aswani: «Le egiziane sono state delle pioniere nel mondo arabo, le prime a essere istruite, le prime a lavorare, le prime a guidare macchine o pilotare aerei, le prime a sedere in Parlamento e le prime a ricoprire incarichi ministeriali. Una visione civile delle donne come esseri umani è prevalsa, in Egitto, sino agli inizi degli anni Ottanta, quando nel paese si è diffusa in modo dilagante un'ondata di pensiero fondamentalista wahabita che ha offerto una visione completamente diversa delle donne».21

Nei giorni di piazza Tahrir le egiziane hanno dimostrato di voler combattere questa visione e di volersi riprendere i loro primati. In quei pochi chilometri quadrati del centro del Cairo l'Egitto intero si è concentrato: le stiliste che dettano al mondo arabo le ultime tendenze in fatto di hijab sono scese in strada accanto a donne coperte dalla testa ai piedi. Intellettuali di lungo corso come Nawal al-Sadaawi si sono ritrovate insieme a rappresentanti della generazione Internet come Asma Mahfouz. Le giornaliste che per anni avevano taciuto sugli abusi del regime hanno strappato il velo dell'informazione di Stato, si sono licenziate in modo plateale e hanno passato giorni e notti in strada. Insieme a loro sono arrivate le ragazze di campagna come Samira Ibrahim Mohamed, arrestata e sottoposta con la forza al test della verginità: la prima ad aver trovato il coraggio di rivendicare dignità sfidando i vertici dell'esercito in tribunale.22

È proprio questo mix che spinge chi per anni ha lottato per un Egitto migliore a essere ottimista sul futuro, nonostante l'affermazione dei partiti conservatori alle elezioni, lo scarso numero di candidate elette in Parlamento e il braccio di ferro fra le autorità militari e civili che continuamente minaccia i risultati raggiunti con la rivoluzione anti-Mubarak: «Le donne che sono scese in strada non lo hanno fatto per l'impulso di un momento» mi disse a novembre 2011 nel suo ufficio a poca distanza da piazza Tahrir Magda Adly di El-Nadeem, l'organizzazione non governativa che da anni si batte contro la tortura. «Quello che avete visto è stato il frutto di un lungo percorso. Gli stereotipi si sono dissolti, siamo uscite in strada e non siamo state molestate: anzi, siamo state trattate da pari a pari. Proprio per questo so che la nostra vittoria non andrà persa, nonostante le grida di allarme arrivate dopo l'affermazione dei partiti religiosi. Se guardo all'oggi so che sul momento rischiamo di perdere molto: sarà una transizione lunga e di certo a tratti dolorosa per le donne. Ma se guardo al futuro, ai prossimi cinque-dieci anni, so che vinceremo. La rivoluzione ha cambiato qualcosa: indietro non si torna.»