1.
In principio fu il frigo

«All’origine era il nulla! Non c’erano i detersivi, e neanche i surgelati».

«Non c’erano nemmeno i buoni premio!».

«Poi venne il frigorifero».

Sentenziano così i due clown che si tolgono il cappello passando ammirati davanti a un frigorifero nella commedia La signora è da buttare5 di Dario Fo.

Era il 1748 e William Cullen non aveva idea che il metodo artificiale di refrigerazione che stava presentando all’Università di Glasgow sarebbe stato il primo passo di una rivoluzione che avrebbe cambiato le abitudini della società a venire. Bastarono, infatti, appena cento anni per mettere a punto dei modelli perfezionati: John Gorrie, giudice di pace e sindaco di una cittadina della Florida, brevetta la ice-making machine, un macchinario per la produzione di ghiaccio basato sulla dinamica tra gas freon e serpentina di raffreddamento in grado di consentire la rapida diffusione di aria compressa. Le sue intenzioni d’uso erano di tutt’altro tipo: il ghiaccio prodotto doveva servire ad abbassare la temperatura dei suoi pazienti affetti dalla febbre gialla. Ahimè, il brevetto rimase nel cassetto perché Gorrie non trovò i finanziamenti necessari. Ma un altro passo era stato fatto. Era il 1851.

Negli anni Trenta del Novecento l’elettrodomestico bianco troneggia nelle case americane. In Italia, invece, bisogna aspettare gli anni Sessanta. Solo allora il potere d’acquisto delle famiglie cresce al punto che il frigorifero, da elettrodomestico alla portata di pochi, diventa rapidamente un oggetto di uso comune. In ogni cucina ce n’è uno e la concorrenza tra le case produttrici si intensifica; intanto cambia radicalmente il modo in cui i cibi vengono conservati, rivoluzionando per sempre il modo di mangiare.

L’arrivo del frigorifero è il segno di un’epoca di abbondanza, del boom economico. I paesi dell’Europa occidentale registrano tassi di crescita del 5% all’anno, la produzione industriale triplica i volumi. È la fine della povertà, quella raccontata nella Geografia della fame di Josué de Castro o analizzata dall’inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia, avviata nel 19516. Quella che ricostruisce Vito Teti nel suo Fine pasto7: «c’è chi divide il proprio alloggio con gli animali, chi vive in grotte, soffitte o cantine, quando i più fortunati convivono in una sola stanza con più di quattro persone. Quasi un milione di famiglie non consuma carne né vino né zucchero». Sono gli anni dell’abbandono delle campagne, delle «terre ingrate», delle migrazioni verso i tanti Nord europei e italiani, dopo il grande esodo dell’Otto e Novecento verso l’America che «il potere aveva giustificato con la formula ‘o emigrati o briganti’»8. Gli anni in cui i contadini sono considerati analfabeti e rozzi, come se non potessero avere una loro cultura o «come se il rapporto con la natura (le stagioni, le seminagioni, le sperimentazioni, gli innesti e le selezioni, gli orti e le terrazze, il vino e le mele, il grano e il riso, la conservazione e la lavorazione dei prodotti) e la vita associativa (la famiglia, il sagrato e l’osteria, le lotte contro gli usurpatori) non fossero cultura, non fossero civiltà»9.

Con l’esodo rurale che porta via dalle campagne quindici milioni di famiglie10, insieme allo stile di vita cambiano anche le abitudini alimentari: il consumo di calorie pro capite aumenta di circa un terzo, quello di carne raddoppia. È un mutamento profondo: «Esplosero i consumi di prodotti costosi come la carne, soprattutto bovina, il caffè e lo zucchero; ma sulle tavole dell’epoca apparve in abbondanza un po’ di tutto, dalla frutta e verdura ai latticini, dai condimenti ai dolci, dal formaggio al vino»11.

Finisce il tempo in cui sia nelle città che nelle campagne si conservano i cibi nelle cantine, nelle casse di legno con dentro blocchi di ghiaccio, o nelle ghiacciaie. Accumulare cibo nel frigo, stipare carne nel freezer, rappresenta la catarsi, il riscatto da un’epoca di rinuncia, la rappresentazione plastica della Giulia di Cristo si è fermato a Eboli, il romanzo di Carlo Levi in cui la domestica, mentre insapona la schiena del protagonista, dice «quanto sei bello», dove per bellezza si intende l’essere sovrappeso.

I cittadini si trasformano in maniera irreversibile in consumatori12 e imparano a considerare il cibo alla stregua di una qualsiasi merce. L’agricoltura, dal canto suo, si trasforma, cambia pelle, comincia a far sue le innovazioni tecnologiche e genetiche, si industrializza. Nascono i primi supermercati13 e nella dieta delle famiglie italiane entrano prodotti fino a quel momento sconosciuti, i biscotti e le merendine sostituiscono il pane della colazione, lo yogurt prende un posto fisso nel frigorifero.

Una trasformazione epocale i cui esiti arrivano fino a oggi, con conseguenze importanti perché il cibo che mangiamo, quello conservato nei vani sempre più spaziosi dei moderni elettrodomestici, nasconde molte delle cause che influiscono sui cambiamenti climatici.

Dunque, per capire qual è il rapporto tra il cibo e l’attuale crisi climatica, quali sono le responsabilità del sistema alimentare e quali gli effetti del riscaldamento globale su quello che mangiamo, dobbiamo partire proprio dal frigo. Per cominciare, dai guasti prodotti dall’elettrodomestico stesso: nel 1974, sulla prestigiosa rivista scientifica «Nature»14, Mario Molina e Sherwood Rowland pubblicano i risultati dei loro studi che mostrano il pericoloso assottigliamento dello strato di ozono presente nella stratosfera a causa dei clorofluorocarburi (CFC), composti chimici utilizzati per frigoriferi e refrigeratori. L’allarme dei ricercatori resta inascoltato per anni: la comunità internazionale impiegherà, infatti, oltre un decennio per riconoscere il valore di quella scoperta scientifica. Solo nel 1987, con il Protocollo di Montreal, si mettono al bando i clorofluorocarburi, e qualche anno dopo i due scienziati ricevono il premio Nobel per la chimica. L’industria corre ai ripari sviluppando gli idrofluorocarburi (HFC), gas refrigeranti che, pur non contribuendo all’assottigliamento dello strato di ozono, hanno però un potente effetto serra. Greenpeace lancia una campagna di pressione per convincere i governi a individuare delle alternative. Venuta a conoscenza che un istituto di Dortmund, in Germania, ha messo a punto un misto di composti adatti alla refrigerazione e meno inquinanti, fa costruire il primo prototipo finanziandolo a proprie spese. In poche settimane arrivano 70 mila ordini, e la tedesca DKK Scharfenstein inizia a produrre il primo green-freeze, un frigo senza sostanze nocive per il pianeta.

Ma per trovare gli indizi che ci portano ai cambiamenti climatici dobbiamo mettere da parte le questioni legate alla tecnologia e aprire il nostro frigo, guardarci dentro.

Ci troveremo la frutta riposta nel cassetto in basso, magari insieme a un peperone e un broccolo; le uova disposte ordinatamente nella parte superiore dello sportello; un pezzo di parmigiano o, sempre più spesso, una confezione di formaggio già grattugiato e pronto per essere spolverato sulla nostra pasta. E ancora del vino, l’acqua, i succhi di frutta, un barattolo di marmellata, una confezione di prosciutto affettato e disposto in una vaschetta di plastica.

Tutto quanto abbiamo appena elencato è cibo che viene prodotto, conservato, lavorato, confezionato, trasportato, preparato e servito.

Ognuna di queste fasi ha un impatto sull’ambiente.

Gli studiosi lo definiscono ecological footprint (impronta ecologica)15, un indicatore statistico che mette in relazione il consumo di risorse naturali con la capacità del pianeta di rigenerarle. Più semplicemente, misura la quantità di terra (o mare) biologicamente produttiva, necessaria per fornire le risorse, assimilare i rifiuti e assorbire le emissioni di CO2 di ogni singolo prodotto.

Secondo l’ultimo rapporto del Global Footprint Network16, se ogni abitante del pianeta vivesse come la media dei cittadini europei, consumeremmo tutte le risorse annuali disponibili nei primi cinque mesi dell’anno. A livello globale, per soddisfare i nostri fabbisogni, ogni anno, abbiamo bisogno di una Terra e mezza. Se invece guardiamo solo all’Europa, continente ricco, allora l’impronta aumenta e la nostra domanda di risorse ecologiche raggiunge 2,8 Terre.

Questo significa più emissioni di CO2 di quelle che gli ecosistemi sono in grado di assorbire, più biomassa distrutta dalla deforestazione di quanto la natura possa rigenerare, esaurimento delle zone di pesca, maggiore erosione del suolo e perdita di biodiversità.

Molto dipende da quali mezzi di trasporto usiamo, quanto consuma la casa in cui viviamo, quante persone ci abitano, quanta energia viene prodotta da fonti rinnovabili, quanti rifiuti produciamo e, appunto, cosa mangiamo. Alcune tipologie di dieta hanno un impatto sull’ambiente maggiore di altre: ad esempio, per produrre un chilo di carne si consumano molte più risorse naturali di quante ne servono per produrre un chilo di pane.

Per capire meglio come, giorno dopo giorno, intacchiamo il delicato equilibrio che regola il pianeta dobbiamo aver presente come funziona il sistema climatico terrestre. Una fitta rete di relazioni tra forze naturali che possiamo riassumere così: prima di raggiungere la superficie terrestre, le radiazioni solari attraversano le nuvole e l’atmosfera, le quali riflettono, diffrangono, assorbono e trasmettono diverse quantità di energia nel sistema terrestre. A sua volta la superficie terrestre, le piante e gli alberi ne assorbono la parte necessaria per la fotosintesi e ne riflettono il resto. Questo scambio energetico fa sì che la temperatura del pianeta si mantenga su una media annua di 14 °C. Un equilibrio che, in condizioni normali, è mantenuto costante dalla presenza dei gas serra, che hanno il compito di trattenere il calore emesso dalla superficie terrestre creando quell’effetto che si riscontra all’interno di una serra. Se però la concentrazione di questi gas aumenta, resta intrappolato più calore del normale e la Terra si riscalda.

Esattamente quello che è successo in questi ultimi anni. Infatti, le attività umane – approvvigionamento energetico, agricoltura, industria, trasporti – hanno prodotto una quantità enorme di gas serra generando un riscaldamento globale medio di circa un grado in più rispetto al periodo preindustriale.

Non dovrebbe sorprenderci, basta guardarsi intorno: siamo circondati da automobili con una sola persona a bordo, abitiamo edifici vetusti che disperdono più energia del necessario, usiamo potentissimi condizionatori per raffreddare gli ambienti di lavoro, continuiamo a viaggiare su aerei che costano sempre meno e inquinano sempre più. La nostra intera esistenza è dominata dall’uso dell’energia elettrica. Trasporti, riscaldamento, illuminazione, dipendono quasi totalmente da combustibili fossili, tanto da far sostenere all’economista Jeremy Rifkin che «le future generazioni probabilmente ci battezzeranno ‘popolo dei combustibili fossili’ e chiameranno la nostra epoca Età del carbonio, così come noi ci riferiamo a epoche passate come Età del ferro o Età del bronzo»17.

Il modo in cui viaggiamo, ci vestiamo, la quantità di corrente che consumiamo, dipendono in larga misura dai mercati, dalle politiche nazionali e internazionali che hanno tenuto conto in maniera esclusiva della crescita economica e quasi mai della salute del pianeta.

Negli anni Ottanta il biologo Eugene Stoermer ha coniato il termine «antropocene»18 per definire l’era geologica nella quale le attività dell’uomo sono la causa principale delle trasformazioni territoriali, strutturali e geografiche. Questa epoca – il nostro presente – si mostra nelle sue conseguenze più allarmanti e solo la responsabilità congiunta di ogni singolo cittadino, della politica e delle istituzioni possono tentare di arginare già nel brevissimo e nel medio periodo un processo altrimenti ineluttabile. Ma se è vero – e lo è – che la responsabilità è anche di ciascuno di noi, allora dobbiamo assumerla nelle scelte che compiamo ogni giorno.

Torniamo dunque al nostro frigo. «Quello che cerchi è dentro di te, il resto è ancora nel frigo», dice Snoopy, il celebre personaggio ideato dal fumettista statunitense Charles M. Schulz, in una delle tante strisce comiche che hanno accompagnato diverse generazioni di lettori. Niente di più vero. Ciò che troviamo in media in un frigorifero ci racconta che poco meno della metà dei nostri acquisti è destinato a spese di casa, cibo e bevande, e che il nostro frigo è il più ricco d’Europa. Gli italiani continuano a spendere molto per il cibo, e la carne è la regina della spesa: su cento euro pagati alla cassa, venti sono per arrosti e bistecche.

Gli ultimi anni, però, hanno visto dei cambiamenti. Anzitutto nella composizione delle famiglie: sono diventate meno numerose, sempre più spesso con un solo figlio, magari diviso tra genitori separati che lavorano (quando un lavoro ce l’hanno) tutto il giorno e che sempre più frequentemente mangiano fuori casa. Il 36% dell’intera spesa alimentare familiare avviene fuori, e anche quando mangiamo a casa cuciniamo sempre meno, preferendo acquistare cibo già pronto. Usiamo decine di app per ordinare pranzi e cene che ci vengono consegnati dopo pochi minuti da riders in bicicletta, spesso sfruttati e costretti a lavorare per pochi euro l’ora. O, in alternativa, acquistiamo cibi pronti direttamente al supermercato, che intanto si sta attrezzando per rendere l’offerta sempre più ampia e a prezzi sempre più bassi.

Ciò cui stiamo assistendo è una trasformazione lenta e apparentemente inesorabile del cibo, che diventa sempre più prodotto trasformato, sempre meno materia prima. Non è un caso che gli alimenti che richiedono una lenta trasformazione domestica stiano ampiamente al di sotto dell’andamento medio delle vendite.

«Le persone non hanno più il tempo di ‘pipiare’ il sugo», racconta un agricoltore pugliese quando spiega le motivazioni della crisi del pomodoro pelato19. Perché ‘pipiare’, ovvero cuocere a fuoco lento il sugo come facevano le nostre nonne, ha bisogno di tempo, ma il tempo, negli anni di una crisi che sembra non finire mai, non c’è. Così il ready to eat (pronto da mangiare) diventa un settore in forte crescita con un segno positivo che sfiora le due cifre. L’intensificarsi dei ritmi di vita, i tempi serrati del lavoro e della città, hanno portato anche alla individualizzazione delle preferenze di consumo, spingendo sempre più verso un cibo personalizzato: ogni componente della famiglia decide e sceglie cosa mangiare.

I numeri parlano chiaro: secondo i dati forniti da Coop, il valore dei piatti pronti venduti nell’ultimo anno è di sedici miliardi di euro, e quasi la metà degli italiani è un assiduo consumatore di sushi acquistato presso un punto della Grande distribuzione organizzata (GDO). Così, quando apriamo il frigo, al posto del cespo di lattuga troveremo l’insalata in busta, già lavata, tagliata e pronta da mangiare; ci sarà una vaschetta di plastica a sorreggere due mele lucenti avvolte in una pellicola di plastica. Potremmo trovare perfino il mandarino già sbucciato e una vaschetta di pasta pronta avanzata dal giorno prima.

Fanno tutto gli altri, noi dobbiamo solo usare le mani per portare il cibo alla bocca. Sembra una situazione di segno positivo e del tutto innocente. Senza conseguenze. E invece no. Decisamente no.

Prendiamo proprio l’insalata, uno dei prodotti più semplici dell’agricoltura. Se per decenni siamo stati abituati a comprare un cespo di lattuga, portarlo a casa, lavarlo e consumarlo, ora invece quella stessa insalata è stata coltivata in serre che occupano una superficie di settemila ettari nella Piana del Sele, in Campania; una volta raccolta è stata messa in enormi capannoni industriali, lavata in vasconi pieni d’acqua, refrigerata, imbustata utilizzando ingenti quantità di plastica, etichettata e, infine, trasportata in un supermercato per essere nuovamente messa dentro un frigorifero. Insomma, per avere la comodità di quell’insalata pronta abbiamo costruito infrastrutture industriali che prima non esistevano e serre che garantiscono una produzione per tutto l’anno, consumato plastica e disperso enormi quantità di gas climalteranti.

Qualcuno ha calcolato l’impatto climatico prodotto dal sistema alimentare industriale. L’8 agosto 2019, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il principale organismo internazionale delle Nazioni Unite che si occupa di studiare e valutare i cambiamenti climatici, pubblica un rapporto speciale che analizza la correlazione tra ecosistemi terrestri – compresi agricoltura e sistema alimentare – e clima20.

In Italia, la notizia passa in secondo piano: i media sono totalmente assorbiti dalle eccezionali condizioni meteo e dall’apertura della crisi di governo. Il fatto che il rapporto abbia a che fare con le sorti dell’intero pianeta non basta a richiamare l’attenzione dei giornali.

Il documento analizza e definisce per la prima volta le responsabilità del settore agricolo nel suo complesso. Questione che resta solitamente nell’ombra. «Siamo abituati a pensare alle emissioni di CO2 solo a proposito della produzione energetica e ai trasporti. Eppure l’agricoltura, la deforestazione e altri usi del suolo (quello che gli esperti chiamano AFOLU21) sono responsabili del 23% delle emissioni totali, una cifra che arriva al 37% se si includono i processi di trattamento e trasformazione dei prodotti alimentari», osserva Riccardo Valentini, professore di Ecologia forestale all’Università della Tuscia.

«Una cifra enorme», dice Valentini scuotendo la testa. Quando lo incontro ha l’aria trafelata di chi ha poco tempo. È appena rientrato da Mosca ed è pronto a ripartire per un’altra conferenza internazionale, non prima di aver seguito i suoi studenti alle prese con le tesi di laurea. Ripete ‘enorme’ più volte, come a voler sottolineare la gravità della situazione. «Fino a qualche anno fa – ammette – non ci credevo neanche io che il cibo avesse un tale impatto sul riscaldamento globale».

Valentini è uno degli scienziati dell’IPCC, fa parte a pieno titolo di quella comunità di esperti che da anni studia il fenomeno per produrre poi le stime più attendibili su cui la politica globale è chiamata a confrontarsi. Per questo s’infervora quando iniziamo a parlare di quanti ancora minimizzano: «I negazionisti dovrebbero pubblicare una ricerca scientifica che dimostri la loro tesi e al momento non esiste nulla di scientificamente verificabile», dice riferendosi ad alcuni colleghi. La verità è che «i modelli climatici con cui facciamo le stime sul futuro vengono prima verificati replicando il clima del passato. Il problema è che, se a questi modelli non aggiungiamo la CO2 prodotta dalle attività umane, con il solo andamento delle variabili naturali non si spiega l’aumento della temperatura dell’ultimo secolo». Per questo, conclude, «i cambiamenti climatici sono una verità, ed è bene prenderne atto».

Del resto l’IPCC non ha mai smesso di ammonire le istituzioni internazionali sulla gravità del fenomeno. Il rapporto speciale Global Warming of 1.5 ºC22 ne è la prova più evidente. Gli scienziati dell’IPCC sono stati invitati a scriverlo all’indomani dell’approvazione dell’Accordo di Parigi23, raggiunto a dicembre del 2015 da 196 paesi dopo estenuanti negoziati. Negoziati che hanno portato all’impegno di «mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto dei 2 °C rispetto ai livelli preindustriali» fino alla fine del Ventunesimo secolo, facendo però ogni sforzo per limitarne l’incremento a 1,5 °C.

Ma a distanza di tre anni l’IPCC pubblica un rapporto che invita a «cambiamenti rapidi, lungimiranti e senza precedenti in tutti gli aspetti della società»24. Le conclusioni non lasciano spazio a interpretazioni: 2 °C in più sono troppi. È necessario limitare il riscaldamento entro 1,5 °C e ripensare radicalmente il nostro modo di stare sul pianeta. Se si riuscisse a contenere l’aumento di temperatura entro 1,5 °C, l’innalzamento del livello del mare dovrebbe rimanere più basso di dieci centimetri e le barriere coralline diminuire ‘solo’ del 70-90%, invece di estinguersi.

Queste conclusioni nascono dall’analisi degli scenari predisposti dall’IPCC, che mostrano chiaramente la direzione da prendere. Gli scienziati li definiscono RCP, Representative Concentration Pathways: sono i singoli scenari in cui ci troveremo in base alla strada che decideremo di percorrere. Quello del business as usual ci porterà a fine secolo allo scenario RCP 8,5, il più drammatico, che vedrà un aumento della temperatura di oltre 5 °C. Viceversa, riducendo le emissioni si può raggiungere uno scenario 6,0 (con blande riduzioni e un aumento della temperatura fino a 3,7 °C) o quello con riduzioni più consistenti ma ancora non sufficienti per raffreddare il pianeta.

Ecco perché l’unica strada percorribile è quella segnata in blu nei grafici degli scienziati, che prevede riduzioni molto elevate (scenario RCP 2,6) per restare entro il grado e mezzo di aumento delle temperature medie globali.

«Capisci che questi scenari sono drammatici?», incalza Valentini. «Quando poi scopri che la crisi climatica è causata anche dal cibo che mangiamo, allora ti rendi conto che è il momento di fare qualcosa a tutti i livelli, a partire da noi».

Ann Pettifor, economista inglese e autrice di The Case for the Green New Deal, in un’intervista ha sostenuto che per affrontare la crisi del nostro ecosistema bisogna riformare il sistema economico e finanziario25. Farlo ci permetterebbe di percorrere il sentiero blu. L’evidenza cui ci riporta la scienza è che i sentieri già solcati ci hanno spinto troppo in alto e la strada percorsa si è ulteriormente affollata: la popolazione mondiale è passata dal miliardo dell’Ottocento ai sette miliardi di oggi e, secondo le stime, supererà i nove miliardi nei prossimi trent’anni; i consumi sono aumentati, l’offerta di cibo è quasi raddoppiata, l’uso dei fertilizzanti è cresciuto di nove volte, l’uso di acqua è sproporzionato, i consumi di calorie sono saliti di un terzo, per non dire dell’incredibile aumento di cibo sprecato. Specularmente registriamo l’aumento di terra arabile utilizzata per la produzione di mangimi, milioni di ettari all’anno di deforestazione e altrettanti degradati da una scorretta gestione del suolo.

5 http://copioni.corrierespettacolo.it/wp-content/uploads/2016/12/FO%20Dario__La%20signora%20è%20da%20buttare__null__U(18)-D(5)__Commedia__2a.pdf.

6 Camera dei Deputati, Archivio della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla (1951-1954), https://archivio.camera.it/patrimonio/main-page/commissione-sulla-miseria-italia-e-­sui-mezzi-combatterla-1951-1954.

7 V. Teti, Fine pasto, Einaudi, Torino 2015, p. 47.

8 G. Fofi, Levi, Scotellaro, Dolci e i contadini del Sud, in Le tre agricolture: contadina, industriale, ecologica, a cura di P.P. Poggio, Jaca Book, Milano 2015, p. 72.

9 Ivi, p. 73.

10 R. Fanfani, L’agricoltura in Italia, il Mulino, Bologna 2004.

11 E. Scarpellini, I consumi in Italia: un quadro storico e culturale, in Storia d’Italia. Annali 27, I consumi, a cura di S. Cavazza ed E. Scarpellini, Einaudi, Torino 2018, p. 41.

12 A. De Bernardi, I consumi alimentari in Italia: uno specchio del cambiamento, in L’Italia e le sue regioni. L’età repubblicana, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2015.

13 F. Ciconte, S. Liberti, Il grande carrello. Chi decide cosa mangiamo, Laterza, Bari-Roma 2019.

14 M.J. Molina, F.S. Rowland, Stratospheric Sink for Chlorofluoromethanes: Chlorine Atom-Catalysed Destruction of Ozone, in «Nature», 249, 1974, pp. 810-812, https://www.nature.com/articles/249810a0.

15 Il concetto di impronta ecologica è stato introdotto da Mathis Wackernagel e William Rees nel loro libro Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth, New Society Publishers, Gabriola Island 1996. Per una definizione accurata di ecological footprint e carbon footprint si veda il rapporto del Barilla Center for Food & Nutrition, Agricoltura sostenibile e cambiamento climatico, 2012, https://www.barillacfn.com/it/pubblicazioni/agricoltura-sostenibile-e-cambiamento-climatico/.

16 EU Overshoot Day. Living Beyond Nature’s Limits, 2019, a cura di Global Footprint Network e WWF, https://www.footprintnetwork.org/content/uploads/2019/05/WWF-GFN-EU-Overshoot-Day-report.pdf.

17 J. Rifkin, La terza rivoluzione industriale, Mondadori, Milano 2018.

18 C. Bonneuil, J.-B. Fressoz, La terra, la storia e noi. L’evento Antropocene, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2019.

19 F. Ciconte, S. Liberti (a cura di), Spolpati. La crisi dell’industria del pomodoro tra sfruttamento e insostenibilità, terzo rapporto della campagna Filiera Sporca, 2016, http://www.filierasporca.org/wp-content/uploads/2016/11/Terzo-Rapporto-Filierasporca_WEB1.pdf.

20 IPCC, Climate Change and Land, 2019, https://www.ipcc.ch/site/assets/uploads/2019/08/Fullreport-1.pdf.

21 Agriculture, Forestry and Other Land Use.

22 IPCC, Global Warming of 1.5 ºC, 2018, https://www.ipcc.ch/sr15/.

23 Per una disamina sull’Accordo si veda https://ec.europa.eu/clima/policies/international/negotiations/paris_it.

24 https://ipccitalia.cmcc.it/i-governi-approvano-la-sintesi-per-decisori-politici-dellipcc-special-report-on-global-warming-of-1-5c/.

25 L. Marsili, Basta ipocrisie: bisogna riformare il sistema finanziario in maniera radicale, in «L’Espresso», 8 gennaio 2020.