5.
Sprechiamo cibo, riscaldiamo il pianeta

Il colore giallo paglierino è inconfondibile, minuscoli puntini marroni corrono lungo tutta la superficie. La pelle è avvizzita, un’ammaccatura più scura segnala il tempo che passa, mentre il picciolo è completamente secco. La mela è ferma lì, da chissà quanto tempo, nascosta nel cassetto della frutta e della verdura. Accanto, un paio di carote, anche loro raggrinzite, sono le ultime rimaste nel vassoio di plastica che le conteneva. Per il resto, il cestello è vuoto. Nei ripiani sopra il frigo, alcuni vasetti contengono marmellate con una patina di muffa, un tubetto spremuto di maionese, una bottiglia di plastica con un residuo d’acqua. L’avanzo della cena della sera prima, acquistata con un clic sul telefono, è ancora nella sua confezione, lasciato in frigo con l’idea ottimistica – e quasi mai reale – che possa essere consumato il giorno dopo.

È la condizione in cui versano molti frigoriferi che si trovano in case normali, di famiglie comuni. Sono gli avanzi che abitano tipicamente il frigo, sia quando è vuoto, sia quando è pieno di alimenti freschi. Spinti dall’idea che avremmo mangiato quel frutto o utilizzato quella maionese, li abbiamo acquistati e, subito dopo, abbandonati sui ripiani del frigo. Quegli alimenti sono diventati avanzo e, al fresco del nostro elettrodomestico, rifiuto.

Se si potesse calcolare il tempo che trascorre perché un alimento da cibo diventi avanzo, e da avanzo rifiuto, scopriremmo che è sempre di meno e che più passano gli anni, più la distanza tra cibo e rifiuto diminuisce.

Andrea Segrè, il più grande esperto italiano di scarti alimentari, nel libro L’oro nel piatto56 sostiene che «spesso è proprio il frigorifero a essere scambiato per pattumiera». Lo incontro all’Università di Bologna dove, oltre vent’anni fa, ha iniziato a combattere lo spreco alimentare fondando Last Minute Market, impresa sociale di cui è presidente. La nebbia avvolge l’intero cortile dell’università su cui affaccia il suo studio. Quando ci sediamo, mi racconta gli studi, le ricerche, le proposte fatte in questi anni. Alle sue spalle una sfilza di premi e riconoscimenti, come l’onorificenza di commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, di cui è stato insignito dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

«Purtroppo le persone non hanno contezza del fenomeno, non sanno che siamo noi consumatori i principali responsabili dello spreco», sostiene. «Abbiamo verificato sul campo», continua, raccontandomi i risultati di uno degli ultimi progetti a cui ha lavorato57, «che tra lo spreco dichiarato nei sondaggi e quello reale esiste un divario enorme».

Per capirlo, hanno selezionato un campione di circa quattrocento famiglie e hanno chiesto loro di compilare un «diario dello spreco», un taccuino dove segnare di volta in volta il cibo buttato nel cestino. Attraverso l’analisi dei dati sono riusciti a definire quanto il fenomeno sia sottostimato, ovvero quanto ognuno di noi non abbia la percezione della quantità di cibo che viene sprecato. «Oltre alla registrazione dei dati riportati sul diario», continua Andrea Segrè, «abbiamo aggiunto una verifica in più: siamo andati a casa delle famiglie per controllare i rifiuti».

Il risultato è che lo spreco era anche più alto di quello riportato nei diari; in altre parole, se inizialmente veniva dichiarato mezzo chilo di spreco pro capite a settimana, quello effettivamente verificato arrivava a settecento grammi. Praticamente una cifra molto vicina al chilo di cibo che ogni settimana ognuno di noi butta nel pattume.

I numeri mondiali sono da capogiro: ogni anno si sprecano 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti commestibili, cioè un terzo della produzione alimentare globale e quattro volte quella necessaria per nutrire le persone che soffrono la fame58. Cifre e percentuali che hanno un prezzo: secondo la FAO, i costi vivi dello spreco alimentare – compresi quelli ambientali e sociali – superano abbondantemente i duemila miliardi di dollari59. Solo l’Italia spende dodici miliardi, sfiorando l’1% del PIL. Se prendiamo quella mela, le carote, il vasetto di maionese e il resto degli avanzi, e li uniamo al resto del cibo che sprechiamo giorno dopo giorno e che dal frigo finisce direttamente nella spazzatura, il risultato è impressionante: buttiamo più di cinque milioni di tonnellate di eccedenze alimentari60.

A questi semplici dati – già sufficienti a far rabbrividire – si aggiungono quelli dell’IPCC61: lo spreco rappresenta l’8% delle emissioni totali di gas serra, con 3,3 miliardi di tonnellate all’anno. Vale a dire che nella torta delle responsabilità della crisi climatica, insieme ai trasporti, al modello energetico e a quello agricolo, dobbiamo aggiungere una fetta generata dallo spreco di cibo.

La mela, le carote, l’avanzo del piatto pronto, la marmellata lasciata lì da tempo immemore, sono la sintomatologia più evidente di uno spreco che Jean Baudrillard, già negli anni Settanta, nel suo libro La società dei consumi62, definiva «l’altra faccia dell’abbondanza», che «orienta il sistema e determina una ulteriore categoria che va perfino oltre il consumo». Baudrillard lo chiama ‘consumazione’: «lo spreco assume una funzione sociale superiore, è la rappresentazione – da ostentare – dell’abbondanza», in un contesto in cui «tutte le strade con le vetrine ingombre, sfavillanti (la luce, senza la quale le merci non sarebbero quelle che sono), con la loro ostentazione di salumi, con tutta la festa alimentare e di altri abiti che mettono in mostra, tutte stimolano la salivazione fiabesca».

«Anche perché», mi dice Segrè, «il cibo non ha più valore, non costa niente. Quando andiamo al supermercato ci dirigiamo direttamente verso il prodotto che ha il costo per caloria più basso». E se il cibo non ha valore, buttarlo è ancora più semplice. Il risultato lo vediamo nel frigorifero, dove i prodotti che abbiamo acquistato restano a marcire. Nel compiere quel gesto meccanico con cui svuotiamo il frigo per prepararlo a un altro carico di cibo, dovremmo avere la capacità di fermarci, fare un fermo immagine, e pensare a quello che stiamo buttando, alle conseguenze per il pianeta, oltre che per le nostre tasche.

Mentre stiamo per buttare una mela, il frutto più presente sulle nostre tavole, chiediamoci: quali effetti avrà questo gesto? Facciamo un viaggio a ritroso, ripercorriamo i molti chilometri lungo i quali si dipana la filiera di quel frutto, seguiamo la strada che ha fatto prima di entrare nel nostro frigorifero, dal supermercato – magari avvolto in una confezione di plastica – al centro logistico dove è stato smistato nei vari punti vendita, fino allo stabilimento dove è stato conservato dopo la raccolta.

A Cles, una piccola località nei pressi del lago artificiale di Santa Giustina, nella Val di Non, in Trentino, c’è il quartier generale di Melinda, il consorzio leader nella produzione di mele. Mauro Erlicher, responsabile di uno degli stabilimenti più importanti, mi porge un casco e un gilet anti-infortunistica e mi indica la macchina su cui salire. «È di mia figlia, la mia è dal meccanico», mi dice per rispondere al mio sguardo preoccupato quando vedo il cartello con la ‘P’ di principiante sul lunotto posteriore. Erlicher ha una lunghissima esperienza nel settore. Prima di salire in macchina risponde al telefono dando indicazioni sui carichi di mele che devono partire il prima possibile. Dà istruzioni chiare per l’interlocutore ma quasi incomprensibili per me. Scopro solo al termine della telefonata che quello che stava parlando era il ladino, un dialetto antico – per alcuni una lingua – tipico di quelle valli. «Qui se non parli così non ti capisce nessuno», mi dice sorridendo.

Saliti in macchina, prendiamo una strada secondaria che sale lungo il massiccio di Predaia. Intorno, una distesa di meleti a perdita d’occhio, interrotta solo dagli altipiani che circondano l’intera valle. La nostra destinazione è nascosta tra le curve della montagna, dietro un imponente cancello automatico.

All’interno lo scenario cambia completamente. Il colore autunnale dei meleti è soppiantato dal grigio del cemento e della ghiaia. Intorno è tutto un cantiere, un grande cartello indica l’ingresso della cava. Qui l’azienda Tassullo per decenni ha scavato la montagna per estrarre materiale edile. L’ha fatto fino all’ultimo granello, fino a quando non è rimasto più niente da scavare. L’ingresso della miniera Rio Maggiore è imponente, una lunga galleria si fa spazio incuneandosi tra la Dolomia, la roccia calcarea di cui è composta la montagna, percorrendo i quindici chilometri di gallerie e tunnel.

«L’idea a cui abbiamo lavorato in questi anni insieme all’azienda Tassullo, alla Fondazione Edmund Mach e alla Provincia di Trento è di recuperare una cava esausta e conservarci le mele», mi racconta Erlicher mentre imbocca il tunnel principale. «In questo modo – continua – abbiamo dato una seconda vita al ventre della montagna, che altrimenti sarebbe rimasto inutilizzato, e abbiamo evitato di costruire altri capannoni che contribuiscono a deteriorare il territorio».

Lo scenario che ci si presenta è quello di un enorme frigorifero scavato nella montagna, enormi celle ricavate nei fianchi della roccia, dove vengono conservati cinque milioni di mele ogni anno. «Sono solo una parte della nostra produzione – continua Erlicher –, ma stiamo lavorando per conservarne sempre di più». Mele che arrivano direttamente dalla montagna sopra la nostra testa e dalle valli vicine. «È il primo caso al mondo di conservazione delle mele in celle ipogee», mi dice con un certo orgoglio.

Lo scenario è surreale. Sembra di essere nel gigantesco caveau di una banca dove al posto dei lingotti ci sono le mele. Mele che vengono smistate nel corso dell’anno ai vari punti vendita e da lì nelle nostre case. Ma per fare in modo di avere le mele in tavola tutto l’anno, c’è bisogno di conservarle adeguatamente.

Perché la mela respira. Una volta staccata dall’albero, assorbe ossigeno e rilascia anidride carbonica. Respirando produce zuccheri e matura. Più velocemente lo fa, prima si deteriora. Regolando la respirazione, invece, la si può conservare fino a dodici mesi. Ma devono esserci delle caratteristiche precise. Per questo nelle trentaquattro celle ipogee l’atmosfera è controllata, la quantità di ossigeno non deve superare l’1%, e lo stesso vale per l’anidride carbonica. Così, insieme alle basse temperature e al buio, le mele possono conservarsi senza perdere le loro caratteristiche.

Naturalmente questo imponente sistema di conservazione è funzionale a un mercato che, solo in Europa, produce dieci milioni di tonnellate di mele ogni anno63 e che vede l’Italia leader nella produzione, dopo la Polonia.

Risulta allora evidente che la singola mela che stiamo buttando rappresenta il risultato finale di un processo produttivo che ha escogitato le più disparate soluzioni per permetterci di mangiarne tutto l’anno. Persino con nuove varietà che possono durare un anno, non nelle celle ipogee ma nei normali frigoriferi domestici.

È il caso della Cosmic Crisp64. Coltivata per la prima volta dalla Washington State University nel 1997, secondo i produttori può raggiungere livelli di conservazione inimmaginabili finora, sbaragliando il mercato. Dopo vent’anni di sperimentazioni, sono già stati piantati venti milioni di alberi e l’obiettivo è quello di competere con la regina del mercato, la Golden Delicious, coltivata proprio nella Val di Non e conservata nelle celle ipogee.

Naturalmente, questa montagna di mele ha un impatto sull’ambiente. Il terreno dove sono stati piantati i meleti, i fitofarmaci con cui sono state trattate le piante, l’acqua per l’irrigazione, il trattore, il lavoro dell’agricoltore, la raccolta fatta con i carri, il trasporto all’industria, la refrigerazione, il confezionamento, il trasporto (di nuovo) verso il punto vendita: ognuno di questi passaggi utilizza energia, consuma carburante; in una parola, genera emissioni.

Dal canto suo il frutteto assorbe CO2 e rilascia ossigeno, rivestendo quindi un importante ruolo ecologico, oltre che produttivo.

Ma questo sistema complesso, questo fragile equilibrio che tiene insieme la necessità di utilizzare risorse energetiche per produrre e il ruolo ecologico che svolgono naturalmente gli alberi in natura, si rompe quando la singola mela viene sprecata. Per portare sulle nostre tavole un chilo di mele è necessario produrne un chilo e trecento grammi, come dimostra uno studio sull’impatto ambientale dello spreco in Europa65. La differenza di trecento grammi viene persa durante il tragitto. È come se ogni cinque mele una venisse buttata. Di queste, una fetta viene persa nella fase della produzione, una parte nella trasformazione, una sugli scaffali del supermercato e un’altra, quella più grande, dentro casa.

Quella singola mela andrà ad aggiungersi alle altre, facendo così crescere quella già enorme montagna di frutti che, secondo i ricercatori, è fatta da due milioni di tonnellate ogni anno. Se provassimo a contarle, scopriremmo che parliamo di oltre 400 milioni di mele, vale a dire di migliaia di ettari che hanno lavorato e dissipato energia, del tutto inutilmente. Perché quando produci un alimento che non sarà consumato vengono inevitabilmente sprecate risorse naturali e generate emissioni.

Intanto il mercato delle mele è in continua espansione. Nel 2018 in Europa ne sono state prodotte tredici milioni di tonnellate, di cui solo due in Italia, un paese che ne consuma però meno della metà. E nel paradosso di un sistema di produzione vorace e alla ricerca di spazi e luoghi dove poter posizionare il proprio prodotto, la fortuna del mercato italiano, nel 2019, è arrivata solo grazie a una gelata che ha investito la Polonia dimezzandone la produzione, facendo quindi respirare la quota italiana rispetto alla concorrenza.

Solo in Europa sprechiamo 88 milioni di tonnellate di cibo66, contribuendo a immettere nell’atmosfera 186 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, generate lungo le diverse fasi della filiera. «Se fossero una nazione – si legge nell’ultimo rapporto ISPRA – lo spreco e le perdite alimentari mondiali sarebbero al terzo posto nel mondo, solo dopo la Cina e gli Stati Uniti, per livello di emissioni di gas serra»67. Secondo i ricercatori, bisognerebbe «porre l’accento sulle grandi quantità di acqua e di fertilizzanti impiegate nella produzione di questo cibo, che purtroppo non raggiunge mai una bocca umana».

Lo sa bene Giancarlo Sofia, un agricoltore della Val di Non, che da qualche anno sta cercando con ogni mezzo possibile di prevenire gli impatti delle gelate e, allo stesso tempo, di usare meno fitofarmaci. Così si è messo in testa di sperimentare un nuovo sistema, con un irroratore posto alla sommità della singola pianta che dovrebbe evitare la formazione della brina. Per farlo è riuscito a convincere una multinazionale israeliana a produrlo e a metterlo in commercio. Mi mostra come funziona, con la passione di chi tra quegli alberi ci ha passato una vita intera. «Questo sistema lo chiameranno Sophia», mi dice con un certo orgoglio nell’avere il suo nome associato a uno strumento che, nelle sue intenzioni, potrebbe essere rivoluzionario.

Di agricoltori come Sofia ne esistono a migliaia, sono piccoli produttori specializzati che fanno i conti ogni anno con un clima «impazzito». Mi racconta di come è cambiato il modo di coltivare: «Una volta da noi si cominciava a irrigare a metà maggio, ora visto che le stagioni sono anticipate, il primo di aprile sono in campo a dare l’acqua alle piante». Per Sofia, come per tutti i produttori della zona, è un dato di fatto, «non c’è bisogno che me lo dicano gli scienziati». Così come è un fatto che siano aumentati gli eventi estremi. Per spiegarmi il perché, mi racconta di come la gelata del 1957, che «ha azzerato tutto e ci ha messo in ginocchio», fosse considerata un fatto straordinario fino a qualche anno fa. «Ora invece», dice con un tono un po’ desolato, «ogni anno succede qualcosa. La mattina esci di casa a controllare che non abbia fatto la gelata e a mezzogiorno sei povero, perché tutta la frutta è da buttare». Il singolo agricoltore si trova a produrre sapendo che la gelata, la grandinata o l’anticipo della stagione vegetativa non sono più eventi eccezionali, ma variabili da affrontare ogni anno, con una frequenza che non ha pari nella storia recente.

Lo sa bene Andrea Berti, ex direttore di Codipra, il consorzio di difesa dei produttori agricoli del Trentino che ogni anno si trova a dover fare i conti con i danni del maltempo, garantendo l’attivazione di assicurazioni che tamponino le perdite. Anche se, mi dice quando lo incontro nel suo ufficio, «in Italia sono ancora troppo pochi gli agricoltori che le attivano».

Andrea racconta la storia dell’agricoltura trentina snocciolando dati e statistiche, mi parla del 2017 come «l’anno peggiore dalla nascita dell’agricoltura in Trentino», ammettendo però che «c’è bisogno di un approccio resiliente perché non si può pensare di risolvere la situazione solo con strumenti finanziari, come le assicurazioni».

Lo dice sapendo che «la variabilità climatica, in un’industria a cielo aperto come l’agricoltura, gioca un ruolo sempre più cruciale con cui dover fare i conti». Anche perché la mela deve arrivare intatta sullo scaffale del supermercato o nel cassetto del nostro frigorifero. Deve avere lo stesso calibro – standardizzato da norme europee che lo classificano in base al diametro e alla forma –, la stessa lucentezza, e non deve presentare alcuna malformazione.

«Il problema è che il consumatore vuole il frutto perfetto», sostiene Claudio Mazzini, responsabile sostenibilità di Coop Italia, quando gli chiedo del ruolo della Grande distribuzione organizzata nello spreco del cibo. «La responsabilità è un po’ di tutti gli attori della filiera è c’è ancora molto da fare», mi dice, raccontandomi delle diverse iniziative messe in atto da Coop nella lotta agli sprechi. Mazzini è convinto della necessità che la filiera produttiva faccia sistema perché, «se per esempio i produttori di cocomeri non si mettono d’accordo tra di loro, producono molto di più di quante siano le bocche da sfamare. E poi se la prendono con noi», conclude con un tono un po’ amaro.

Così, schiacciate nella morsa tra un consumatore che vuole il frutto perfetto, un sistema produttivo spesso disaggregato e l’aumento della variabilità climatica, le mele viaggiano lungo la filiera come se dovessero sempre passare per una selezione all’ingresso. Una parte si ferma sul campo, un’altra non supera lo scoglio dell’industria di trasformazione, un’altra ancora non arriva sullo scaffale del supermercato.

Gli esperti distinguono tra perdite (food losses) che si verificano lungo le fasi produttive e sprechi (food waste) che invece avvengono durante la trasformazione, la distribuzione e il consumo. Quello che è certo è che quelle che varcheranno la soglia del frigorifero, le prescelte, saranno solo una parte dell’enorme produzione mondiale, le più belle, le più lucide, le più rotonde. Ma non è detto che i consumatori le mangeranno, perché molte finiranno direttamente nel cestino della spazzatura.

«In realtà, parte delle mele che non arrivano sullo scaffale del supermercato vanno a finire all’industria di trasformazione», sostiene Mazzini parlandomi della produzione dei succhi di frutta. A confermarlo sono i dati forniti durante Prognosfruit68, l’annuale conferenza cui partecipano i produttori, che conferma come a causa delle condizioni climatiche avverse, caratterizzate da gelate, temperature particolarmente elevate a luglio, forti venti e grandinate, le mele saranno più piccole e più rovinate, per cui quelle utilizzate per i succhi saranno molte di più.

Qualche anno fa, una grandinata estiva ha colpito nella notte l’intera produzione di mele del Trentino, settemila ettari coltivati da quattromila aziende agricole, mettendo in ginocchio l’intera produzione. Le mele «grandinate» sarebbero andate direttamente al macero o, nella situazione più rosea, all’industria dei succhi di frutta, se a Melinda non fosse venuto in mente di chiedere ai consumatori di fare una scelta consapevole: acquistare una mela un po’ rovinata dalla grandine ma certamente commestibile come le altre.

Così, grazie a una fortunata campagna promozionale, hanno messo in vendita le mele rovinate. L’immagine della locandina riportava una mela con una lacrima che scendeva dal punto rovinato dalla grandine e un messaggio chiaro: «Sono le mele colpite dalla grandine che presentano, solo nella forma, qualche lieve imperfezione, ma sono tutte di primissima qualità». Una scelta importante che ha messo il consumatore davanti all’evidenza che quel frutto non può trovarsi sempre in forma smagliante sullo scaffale del supermercato, non può sopravvivere una vita intera al riparo del frigorifero.

Intanto, sul piano legislativo sono arrivate norme come la cosiddetta legge Gadda (n. 166 del 19 agosto 2016)69, che agevola le donazioni e la distribuzione di alimenti (e medicinali) che altrimenti verrebbero buttati. Sono aumentate le app antispreco, i negozi che vendono a basso prezzo alimenti in via di scadenza e i supermercati che ridistribuiscono il cibo a enti caritatevoli. Azioni importanti che hanno colto l’urgenza di mettere fine alla piaga dello spreco, ma che andrebbero associate a una trasformazione culturale dei consumatori (noi) e dei produttori, a partire dal criterio, tutto estetico, in base al quale acquistiamo i prodotti e, soprattutto, da quello compulsivo con cui li produciamo. Prevenire lo spreco vuol dire anche evitare di generarlo.

Dobbiamo essere consapevoli che sprecare anche una singola mela ha un impatto sull’ambiente. Di certo piccolo. Ma se calcoliamo la CO2 emessa per produrre un chilo di mele, se lo facciamo considerando una zona di produzione energeticamente virtuosa come il Trentino, che utilizza 0,19 kg di CO2 equivalente per chilo di prodotto, rispetto alla Germania che ne emette quindici volte tanto70, e moltiplichiamo questa cifra per quei 400 milioni di mele sprecate ogni anno, possiamo renderci conto che la CO2 emessa in atmosfera è semplicemente intollerabile.

56 A. Segrè, S. Arminio, L’oro nel piatto, Einaudi, Torino 2015, p. 5.

57 Si tratta del progetto REDUCE, Research, Education and Communication. An Integrated Approach for the Prevention of Food Waste, 2019, https://www.sprecozero.it/wp-content/uploads/2019/07/REDUCE-FINAL_SDG-12.3-ITALY_FOOD-WASTE-1.pdf.

58 Si legga il rapporto del Barilla Center for Food & Nutrition, L’Italia e il cibo: sfide nutrizionali, agricoltura, perdite e spreco alimentare, 2019, https://www.barillacfn.com/it/pubblicazioni/l-italia-e-il-cibo/.

59 FAO, Food Wastage Footprint. Full-Cost Accounting. Final Report, 2014, http://www.fao.org/3/a-i3991e.pdf.

60 P. Garrone, M. Melacini, A. Perego, Surplus Food Management against Food Waste. Il recupero delle eccedenze alimentari. Dalle parole ai fatti, https://www.bancoalimentare.it/sites/bancoalimentare.it/files/executive_summary_surplus_food_managemnt_against_food_waste.pdf.

61 IPCC, Climate Change and Land cit.

62 J. Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, Bologna 2010, p. 4.

63 Assomela: le previsioni di produzione di mele per la stagione 2019/20, in «Fresh Plaza», 26 agosto 2019, https://www.freshplaza.it/article/9136836/assomela-le-previsioni-di-produzione-di-mele-per-la-stagione-2019-20/.

64 Cosmic Crisp, la nuova mela che dura un anno in frigo, in «la Repubblica», 2 dicembre 2019, https://www.repubblica.it/ambiente/2019/12/02/news/cosmic_crisp_la_nuova_mela_che_dura_un_anno_in_frigo-242424832/.

65 S. Scherhaufer, G. Moates, H. Hartikainen, K. Waldron, G. Obersteiner, Environmental Impacts of Food Waste in Europe, in «Waste Management», 77, 2018, pp. 98-113.

66 Ibid.

67 ISPRA, Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali, 2018, http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/rapporti/spreco-alimentare-un-approccio-sistemico-per-la-prevenzione-e-la-riduzione-strutturali-1.

68 Assomela: le previsioni di produzione di mele cit.

69 https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/08/30/16G00179/sg.

70 Si legga il Bilancio di sostenibilità 2016 del progetto Trentino frutticolo sostenibile, http://trentinofrutticolosostenibile.it/document/Bilancio_Tfs_bozza_ok.pdf.