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Praga, 12 novembre 1928

Il tempo è il nemico.

Odiato, rinnegato, maledetto.

Il tempo della sofferenza, che si dilata nell’infinito. Il tempo della gioia, che scivola via come acqua tra le dita.

Il tempo che scorre indifferente. Il ticchettio ossessivo che corrode la carne.

Subdolo, silente, invisibile.

Il tarlo che consuma, divora, si nutre senza farsi scoprire.

D’un tratto lo specchio rivela l’inganno. La maschera si frantuma, la verità si mostra nella sua crudezza. La pelle macchiata, le rughe profonde, gli occhi spenti, i capelli bianchi.

E la forza manca, le gambe tremano, la schiena s’incurva. È il primo segnale. L’allarme che la macchina sta per incepparsi. La vecchiaia prende il sopravvento, arrugginisce il motore, corrode gli ingranaggi. Pezzo per pezzo. La vista, l’udito, lo stomaco, l’intestino.

Il tempo da luce si trasforma in oscurità. È prima un vento che fa volare in cielo, poi un’ancora di piombo che schiaccia a terra.

Dorian sorride. La vita è assurda, a volte. Di più, cinica. Ha sempre temuto di perdere la giovinezza e la bellezza. Di veder comparire sul suo volto le prime tracce della vecchiaia e di rimanere soffocato dai rimorsi di non essere stato capace di vivere le emozioni più estreme. Di non essersi cibato delle tentazioni dei sensi e di non aver realizzato i desideri più inconfessabili.

Adesso la paura ha cambiato forma. Il tempo e la morte gli hanno voltato le spalle. Hanno deciso di ignorarlo per sempre, condannandolo a un’immortalità gelida e devastante. Quel terrore ha un nome, si chiama futuro. Un tunnel buio in discesa, che Dorian sta percorrendo da anni.

Spalanca le tende della camera.

Davanti a sé si apre la vista della Staroměstské Náměstí, la piazza della Città Vecchia di Praga. Al centro svetta il campanile, dove spicca l’orologio astronomico. Un meccanismo perfetto e splendido, un’opera d’arte meravigliosa. Nel mezzo il quadrante del sole e della luna, delimitato sopra dalle finestre del corteo dei dodici apostoli e sotto dai medaglioni che raffigurano i mesi dell’anno.

Un rintocco cupo. Ancora un altro.

Dorian osserva la statua dello scheletro che suona una campana con la mano destra e capovolge una clessidra con la sinistra. Nello stesso tempo, si animano altre sculture meccaniche. Il viandante con la borsa, emblema dell’avarizia, il turco, della lussuria, e infine un personaggio con lo specchio. Il suo preferito, il simbolo della vanità. Le statue scuotono la testa, rinnegano il vizio al quale hanno immolato la loro esistenza.

Dorian cammina nella stanza dell’albergo, torna all’origine del suo peccato. Sopra il tavolo è poggiato il quadro del pittore parigino. Il ritratto è cambiato negli ultimi mesi. I suoi lineamenti si sono deformati, la bocca piegata in una smorfia di disgusto, il volto in un ghigno malefico. Sono comparse le rughe. Solchi profondi che deturpano la fronte, si diramano in ragnatele agli angoli delle labbra. Le palpebre sono gonfie e viola, il biondo dei capelli ha assunto una sfumatura grigia. Come la pelle, un incarnato esangue macchiato di aloni scuri.

Lo sguardo del ritratto, però, è ciò che più lo inquieta. Quegli occhi non sono i suoi. C’è una scintilla di tenebra, il godimento osceno per quello che ha fatto. Il volto ha iniziato a deformarsi da una settimana, prima che Dorian fuggisse dalla Scozia. L’alcol, la droga, le orge nei sotterranei del castello di Inverness.

— Sono immortale. Sono un dio — sussurra osservando il mostro del ritratto.

D’improvviso risuona una risata. Cupa, come se ribollisse dalle profondità della terra. La tela vibra. Là dentro si nasconde il demonio, lo specchio della sua dissoluzione, del dolore che ama infliggere agli altri.

Dorian sgrana gli occhi. Indietreggia. Balbetta terrorizzato. — Chi… chi sei?

— Siamo noi.

— Noi?

— Sono la tua anima. L’Anima Nera.

— Tu non puoi essere me! — urla Dorian, puntandole il dito contro.

— Ne sei sicuro?

— Sei un mostro! Sei carne in putrefazione!

— Sono ciò che saresti oggi. Pensi di poter rimanere perfetto per sempre?

— Sì, per sempre!

— Per sempre, ma insieme a me.

Dorian lo osserva. Inorridisce. — Sono solo menzogne!

— Fin dove ti spingeresti, Dorian? Saresti disposto a rinunciare a tutto?

Rimane a bocca aperta. Ricorda la voce che aveva sentito nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi. E solo allora, dopo tutti quegli anni, comprende.

— Mi avete maledetto — bisbiglia incredulo.

— Abbiamo esaudito il tuo desiderio più agognato. Azione, reazione. Ogni scelta comporta delle conseguenze.

— Quali conseguenze?

— Il libero arbitrio. Le decisioni che hai preso. E gli eventi che si sono succeduti, come quando tocchi la prima tessera del domino, che fa cadere tutte le restanti. Come Sybil. Come la vita che cresceva nel suo ventre.

Una fitta al petto. Il dolore del ricordo, che in quegli anni si era imposto di cancellare. In pochi attimi, la decadenza gli appare davanti agli occhi. Immagini sfocate, ingiallite dal tempo. È Dorian che ha perso la ragione, corrotto dal piacere.

E poi Sybil, che spalanca le braccia e si getta nel Tevere. Henry, che si abbandona al suicidio.

Dorian trova un coltello sul tavolino. L’afferra con violenza e si trafigge il cuore. Un sussulto, dalle labbra esce un fiotto di sangue.

Poi il buio.

Quando riapre gli occhi, si ritrova sdraiato a terra. Una pozza di sangue si allarga attorno a lui. Il coltello insanguinato è sul pavimento, a un metro di distanza. Si guarda la maglietta, squarciata sul petto. Sotto, però, non c’è neppure una cicatrice.

— Non puoi morire, Dorian. È la maledizione eterna. Il peccato che si dilata nell’immortalità.

— È una menzogna! Un maledetto inganno — sbotta Dorian. — Perché dovrei meritare questo supplizio? Cos’ho fatto quel dannato giorno a Parigi?

— Hai desiderato.

— Ho solo desiderato di rimanere giovane per sempre! Mi merito le fiamme dell’inferno? Mi merito questa solitudine che mi corrode ogni giorno?

— Non sei solo. Sarò con te per sempre. E per sempre al tuo fianco.

— Vattene! — si dispera Dorian.

— Non è possibile.

Il giovane si piega sul tavolo, senza forze. — C’è sempre una possibilità.

— Certo che c’è. La possibilità è l’impossibile.

— Nulla è impossibile per me. Dimmelo, dimmelo adesso.

— La possibilità risiede nell’inganno della semplicità. Dimostra che conosci il significato dell’amore.

Dorian esita un istante. Scoppia a ridere.

— L’amore? Certo che lo conosco!

— Davvero? E cos’è?

Allarga le braccia, esasperato. Non riesce a trovare le parole giuste. Quelle dannate parole non vogliono uscire dalla gola.

Il ghigno sul viso dell’Anima Nera diventa un sorriso sinistro.

— Ho amato Sybil! — esclama Dorian.

— Hai creduto di amarla. Ma non sai neppure definire quel sentimento. Eppure sembra così abusato, così risentito, così banale.

Dorian stringe i pugni. La rabbia gli annebbia la mente.

— Quando saprai definirlo, tornerai a essere l’uomo di un tempo.

L’Anima Nera scompare. Il mostro s’inabissa nella tela, riaffiora la perfezione gelida di Dorian, ritratto a Parigi, nell’ultimo istante in cui la sua vita era ancora la definizione della scoperta, dell’ignoto, della speranza di un futuro.

Adesso l’ha capito, non c’è più alcun futuro per cui valga la pena di vivere.

Dorian si stende sul letto. Ogni tensione si scioglie in una risata folle e liberatoria. Si sbaglia, non è una maledizione. È l’onnipotenza di una vittoria. L’Anima Nera tornerà a tormentarlo, ma lui la ignorerà.

Perché se è condannato a una vita eterna potrà provare ogni emozione. Raggiungere vette inimmaginabili di piacere, esplorare ogni sensazione. Sarà bello e giovane per sempre, il dolore non graffierà mai la sua pelle. Poi, quando si sarà stancato, troverà il vero amore. E se non sarà possibile, lo annienterà con la vendetta della sofferenza.

La sua mano trova qualcosa sul letto. È una piccola tessera del domino, sopra sono disegnati due punti neri. Distanti, incapaci di toccarsi e di fondersi. Affogati in quel bianco così piatto e gelido.

Occhi di serpente. La sfortuna nera.

L’amore e il dolore.