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Auschwitz-Birkenau


Considero senza dubbio quel viaggio come parte dell’esperienza di Auschwitz, non di quella di Terezín.

Nel vagone era buio pesto: era metà dicembre e non c’erano finestre. Credo che fossimo in troppi per sederci tutti. Il mio istinto fu di puntare a una parete e sedermi appoggiandovi la schiena (ma a ogni manovra di sopravvivenza è associato il senso di colpa: se io mi siedo, qualcun altro deve stare in piedi e verrà sballottato).

Come si comporta, la gente, quando viene pigiata in vagoni bestiame diretti ad Auschwitz? Se si lamentarono gemendo, io non li sentii, e immagino che i loro vicini più prossimi avrebbero detto qualcosa. Naturalmente non avevamo idea di cosa ci aspettasse, o almeno io non ce l’avevo. Per quanto potei capire al buio, le persone attorno a me si abbracciavano e facevano l’amore. Non so se fossero coniugi, amici, o completi estranei: in ogni caso, era la più grande affermazione di vita e io me ne sentivo abbastanza escluso. Magari fossi stato in grado di meditare, allora. Chiamai mia madre e mio fratello (eravamo stati separati dai soldati che ci spingevano a bordo) e con mio grande sollievo scoprii che erano seduti nello stesso vagone, poco più in là.

Quando finalmente arrivammo e fummo spinti fuori, sulla rampa, fui accecato dalle lampade ad arco che squarciavano l’oscurità. A farci strada c’era un comitato di accoglienza di robusti brutti ceffi delle SS. Alcuni avevano dei manganelli, altri enormi e spaventosi pastori tedeschi al guinzaglio; altri ancora entrambe le cose; tutti portavano sui berretti l’emblema della testa di morto (Totenkopf). Almeno i dipinti medievali dell’inferno lo ritraevano come un luogo caldo! (Ci sono alcuni ordini in tedesco per i quali ho ancora un’immediata avversione viscerale. Sono, in particolare, «Schnell! Schnell!» e «’Raus! ’Raus!». E non mi piace granché neppure l’appellativo Schweinehund).

Ad Auschwitz furono perpetrati innumerevoli atti di barbarica crudeltà; non tutti dalle guardie. Anche i kapò avevano potere di vita e di morte su di noi. Erano responsabili delle singole baracche, nelle quali avevano la loro stanzetta. Tendevano a portare con sé grandi bastoni, indossavano stivali da motociclista e si trovavano ad Auschwitz da tanto tempo. Molti di loro erano criminali che si erano presi un congedo sabbatico dalla feccia delle prigioni tedesche. (Schwerverbrecher è difficile da tradurre, ma immagino che gli psicopatici con qualche sadico omicidio sul curriculum sarebbero stati avvantaggiati, nel processo di selezione per quel lavoro).

La crudeltà e la brutalità, comunque, non furono inventate dai nazisti. Nel medioevo la gente veniva sbudellata, tirata sulla ruota fino a romperle tutte le ossa o messa al rogo legata a un palo. Ma il contributo unico e originale dei nazisti alla disumanità dell’uomo nei confronti dei suoi simili fu l’industrializzazione del genocidio.

Familiarizzai con quel sistema da catena di montaggio durante il mio successivo grand tour dei campi di concentramento.

Il centro d’accoglienza veniva eufemisticamente (o forse ironicamente) chiamato “la sauna”. Tutti gli effetti personali, i vestiti e le scarpe dovevano essere lasciati nella prima stanza. Poi si procedeva verso quella delle docce, che prevedeva la disinfestazione dai pidocchi, la disinfezione, la rasatura dei capelli e, quando richiesto, in occasione dei nuovi arrivi, l’impressione di un tatuaggio. Nell’ultima stanza venivano consegnati i pigiami da prigione a strisce e le calzature.

Più la guerra continuava e più i pigiami si facevano sottili e ruvidi, e il materiale simile alla paglia. Le scarpe erano di tela grossa inchiodata a suole di legno. Con un po’ di fortuna, poteva capitarti una taglia non completamente sbagliata.

Nei campi di sterminio c’erano edifici simili le cui docce, al posto dell’acqua, erogavano gas; lì, nell’ultima stanza non c’erano vestiti (Questa parte del racconto, ovviamente, non si basa sull’esperienza personale, fatta eccezione per l’informazione che la gente era indotta a credere che andava alle docce).

Comunque, per ragioni che non ho mai pienamente capito, la nostra iniziazione al Familienlager («campo per famiglie») di Auschwitz-Birkenau fu diversa. Per esempio, ci lasciarono vestiti e capelli. Sospetto perché per gli ebrei cechi provenienti da Terezín, la cui eliminazione nelle camere a gas era programmata nel giro di sei mesi dal loro arrivo, il campo era solo un centro di raccolta. Forse non valeva la pena aprire altri lager per separare gli uomini dalle donne e dai bambini. Una teoria alternativa è che quelle misure servissero a raggirare la Croce rossa, nel caso avesse deciso di controllare cosa accadeva agli ebrei di Terezín. Gassando ogni convoglio sei mesi dopo l’arrivo al campo, ci sarebbe sempre stata una riserva di arrivi più recenti da ispezionare, se necessario. Il privilegio più significativo, dal mio punto di vista, era che uomini, donne e bambini, nonostante fossero segregati in baracche diverse, erano liberi di farsi visita. Anche il tatuaggio dei numeri sull’avambraccio ci fu fatto più tardi, da squadre specializzate di prigionieri che andavano di baracca in baracca. Detto per inciso, il numero citato nel titolo di questo libro è il mio numero di Buchenwald, non quello di Auschwitz. Mi è sembrato giusto considerarmi un adulto a partire dalla liberazione di Buchenwald, quando la mia vita mi è stata restituita e ho cessato di essere solo un numero.

Probabilmente non c’è alcun bisogno di descrivere la disposizione di Auschwitz-Birkenau. Devono essere poche, al mondo, le persone che non abbiano visto le sinistre fotografie degli stretti rettangoli adiacenti, ognuno con la sua unica strada e le lunghe baracche di legno nero che vi si affacciavano perpendicolarmente, ciascuno circondato da un recinto elettrificato di filo spinato e torrette di guardia provviste di riflettori e armi. Quello che non risulta evidente dalle fotografie è l’odore di fango misto a ipoclorito di calcio, in particolare nella zona in fondo, dove erano situate le latrine e i servizi (e, guarda caso, la mia baracca). L’ipoclorito di calcio è una polvere candeggiante e, nel mio subconscio, il suo fetore unico e pungente sarà per sempre associato a quel luogo. I nazisti erano terrorizzati dalle epidemie e, chiaramente non convinti che il DNA ariano sarebbe stato rispettato dai patogeni in quanto diverso, ordinavano quantità esagerate di quel disinfettante economico.

Fummo divisi: mia madre venne portata in una baracca femminile e mio fratello nel blocco per i bambini, con il quale in seguito ebbi a che fare e che era proprio di fronte al mio. Il 15 dicembre 1943 fu un giorno davvero infausto.

Non ebbi idea della vera natura del nuovo campo fino a che non ci fu fatta una lezione di gruppo da incubo da parte degli uomini arrivati con i convogli precedenti, che già occupavano buona parte del blocco a cui fui destinato (mi fu assegnato un posto in una cuccetta a quattro piani, e un segnaposto sarebbe tornato utile, dato che eravamo pressati insieme come sardine su ogni livello).

Quella fu infatti la prima volta che venni a sapere dell’esistenza delle camere a gas e cosa significasse il fumo che vedevamo uscire dalle ciminiere del vicino crematorio: anche se probabilmente non sarebbe toccato a noi per altri sei mesi, ammettere di esserci ammalati avrebbe avvicinato il giorno dell’esecuzione.

Chi era lì da più tempo si offrì di darci un sacco di consigli e informazioni. Le sole cose che possedevamo – un cucchiaio e un contenitore d’alluminio per la minestra – di notte dovevano essere usate come cuscino: non c’era altro posto dove tenerle e, mi spiace dirlo, si verificavano dei furti. Il termine Muselmann era riferito ai prigionieri che, avendo perso la voglia di vivere, si trascinavano in giro rinunciando a tutto, persino all’igiene personale; questa, in effetti, comportava di lavarsi con acqua ghiacciata nella vasca dei gelidi servizi, e richiedeva determinazione e forza di volontà, specialmente con le temperature sotto zero di dicembre.

L’unica cosa da fare se una guardia ti colpiva in faccia era buttarsi a terra e restarci. Con un po’ di fortuna, in quel modo non venivi percosso di nuovo. Immaginai che tutti i ragazzi tedeschi fossero cresciuti con i popolarissimi libri sul selvaggio West di Karl May; a quanto pare, erano tra i preferiti di Hitler. L’eroe tedesco si chiamava Old Shatterhand, per la sua capacità di stendere gli avversari con un singolo colpo in testa. Ero sicuro che le SS si vedessero volentieri in quel ruolo.

Il mio atteggiamento nei confronti di quei criminali delle SS divenne un misto di paura, disprezzo e repulsione.

Non potevo realmente odiarli o giudicarli, perché secondo i miei standard non erano esseri umani. Mi vengono in mente i cartelli esposti accanto ai branchi di scimmie giapponesi nei parchi nazionali di quel Paese, che consigliano di non guardare i maschi negli occhi in quanto viene considerato un atto di sfida che può spingerli ad attaccare. Non osavo fissare le guardie in volto, nel caso leggessero il disprezzo nei miei occhi: potevano picchiarci o ucciderci a loro piacimento, quindi provocarli non aveva senso. In qualche modo credo sia passato per la mente anche del più criminale di loro che tra quegli emaciati Muselmänner che trascinavano i piedi e sui quali avevano pieno potere ci fosse la vecchia élite intellettuale d’Europa. Forse quel pensiero aumentava la soddisfazione che traevano dal loro lavoro. Dopotutto, non era uno dei loro grandi leader a «prendere la pistola» ogni volta che sentiva la parola cultura? La razza superiore sembrava essersi trasformata in un’aberrante sottospecie di ominidi – l’autentico Untermensch – un bizzarro sviluppo nell’Europa del XX secolo!

Nonostante fossi esausto, il giorno del mio arrivo, dopo questa introduzione al nuovo stile di vita, non mi aspettavo di chiudere occhio. Nondimeno, una parte della notte devo aver dormito, dato che non sentii Kurt, il mio amico poeta patito di Hegel, impiccarsi. Stava nella mia stessa cuccetta e, quando fui svegliato la mattina presto per l’appello, era appeso con la cintura al palo dal suo lato. Lo shock e il dolore che provai erano permeati di profondo rispetto: non mi sarei aspettato una tale determinazione dal mio filosofico amico amante dei libri.

Non so quanti altri si suicidarono quella notte. Il mattino dopo per la prima volta vidi mucchi di cadaveri.

A dire il vero, non era così semplice uccidersi, nemmeno con il metodo più ovvio, vale a dire aggrapparsi al recinto di filo spinato elettrificato. Il tratto per raggiungerlo non era in piano; c’era un basso fossato e i pali erano disposti su un terrapieno. Molto tempo dopo vidi cadaveri anneriti appesi al filo spinato a Gross-Rosen (di cui parlerò in seguito), ma nel nostro Familienlager non sfuggivamo mai allo sguardo degli uomini nelle torrette di guardia, né ai loro riflettori nella notte. Presumendo che, a quel punto della guerra, ogni soldato della Wehrmacht che sapesse sparare come si deve fosse al fronte, la probabilità era di finire nella camera a gas con qualche ferita d’arma da fuoco non letale: un modo poco piacevole di andarsene!

Mia madre fece i provini per l’orchestra femminile di Auschwitz – un’attività che forniva protezione dalla camera a gas e dai lavori forzati – ma senza successo.

Immagino ci fosse una sovrabbondanza di pianisti dilettanti, un talento abbastanza comune fra le signore agiate del ceto medio dell’epoca. Durante un’ondata epidemica che colpì il campo, mia madre contrasse la meningite, ma di nuovo, con nostra grande fortuna, lì in genere non si trattava di una patologia grave e si tendeva a non dire niente. Naturalmente era molto depressa e non si aspettava più di sopravvivere alla guerra.

Non sono sicuro di quanto si sentisse in colpa: era un argomento tabù fra di noi, ma continuava a citare una vecchia canzone o poesia tedesca, ripetendo, in relazione al futuro della nostra famiglia: «Sarebbe stato troppo bello… Non era destino». In diverse occasioni però mi disse: «Se qualcuno di noi sopravvivrà, sarai tu». Mi sto costringendo a mettere nero su bianco questo straziante racconto per onorare la sua memoria.

A mio fratello fu assegnato un posto nel blocco dei bambini, la cui creazione era stata un miracolo, reso possibile da un certo Fredy Hirsch. Non so se esista una categoria di santi ebrei omosessuali, ma Fredy Hirsch merita di essere canonizzato per i molti prodigi fatti (incluso darmi un lavoro che contribuì a salvarmi la vita) e alla fine fu martirizzato. Era un ebreo tedesco e parlava con l’accento biascicato di Aquisgrana. Già prima della guerra era stato insegnante e organizzatore di attività sportive giovanili. Nel periodo trascorso a Terezín era stato molto attivo nel sistema scolastico, anche se io non lo avevo mai incontrato prima di arrivare a Birkenau. Nel campo esibiva una figura atletica, eccezionalmente ben vestita, con naso aquilino e i capelli neri impomatati completati da eleganti stivali in pelle in stile nazista. A mio avviso incarnava tutto ciò che essi ammiravano.

Non ho idea di come fosse riuscito a ottenere la considerevole influenza che evidentemente aveva presso l e SS, ma la usò al meglio facendo aprire il blocco dei bambini, del quale era kapò o Blockälteste («capobaracca»). Questo in larga misura protesse i minori dalle brutalità della vita del campo, dagli appelli al freddo e dai furti. Senza voler nulla togliere in nessun modo ai meriti di Fredy Hirsch, le autorità naziste devono aver pensato che sarebbe stato molto più semplice imporre il regime brutale del campo senza avere frotte di bambini traumatizzati di tutte le età che correvano qua e là. Fredy organizzava attività adatte alle varie fasce d’età, inclusi alcuni sport al chiuso e delle recite.

La baracca numero 31, il blocco dei bambini, era un’oasi nella desolazione circostante. Dietro la stanza del kapò c’era un’area con un rudimentale bancone per distribuire il cibo, che a un certo punto divenne il mio regno. Fredy era scrupoloso per quanto concerneva il rispetto dell’igiene personale (in particolare, insisteva nell’ispezionare accuratamente le parti intime dei ragazzi, le mie incluse, per controllarne la pulizia). Le pareti erano decorate da murales dipinti a mano con le scene dei film e delle favole della Disney. (Tra parentesi, solo piuttosto di recente ho saputo di più riguardo all’artista che aveva creato quei murales, leggendo il suo necrologio sul «Times». Questa pittrice di talento era stata scelta dal famigerato dottor Mengele per dipingere ritratti dei prigionieri zingari, perché secondo lui le fotografie non enfatizzavano adeguatamente le loro caratteristiche razziali. Così la ragazza esagerava i tratti che lui voleva enfatizzare, e Mengele, in cambio, salvò lei e la madre dalla camera a gas. L’autrice dei dipinti divenne una famosa artista ed è morta da poco, in America, per cause naturali).

Io non vivevo nel blocco dei bambini ma, con un altro salvifico colpo di fortuna, fui scelto da Fredy Hirsch per i l Menagedienst, che comportava scarrozzare barili di zuppa e “caffè” per il campo e scodellare porzioni ai prigionieri. I barili di zuppa erano enormi e troppo pesanti da portare per degli adolescenti denutriti quali eravamo.

Così in quattro usavamo due lunghi pali, che infilavamo nelle maniglie piegate all’ingiù che stavano sui due lati del barile. Quando i contenitori erano pieni, eravamo a malapena in grado di sollevarli e fare pochi passi prima di doverli riappoggiare di nuovo. Così procedevamo per il campo, terminando con il blocco 31, dove servivamo i bambini.

La zuppa sapeva principalmente di acqua calda. Gli altri ingredienti erano perlopiù radici (rape, pastinache ecc., che giurai di non toccare mai più se fossi sopravvissuto) e verdure essiccate, come striscioline di foglie di cavolo, conosciute con il nome collettivo di Stacheldraht («filo spinato»). Il “caffè”, comunque, contribuì a mantenermi in vita. Era evidente che non avesse mai visto un solo chicco di caffè, ma conteneva zucchero. Se non lo si mescolava con troppa foga (e il mestolo non era abbastanza lungo da raggiungere la base fino a che la maggior parte del liquido non era stata distribuita) sul fondo del contenitore rimaneva una brodaglia di surrogato consistente in fondi di cicoria e zucchero, che raccoglievamo con il cucchiaio e dividevamo fra noi portabarili. Il sapore era rivoltante, ma era piena di calorie (ce n’erano probabilmente di più in quella porzione giornaliera che in un’intera settimana di cibo del campo). Dubito che sarei sopravvissuto senza: un altro di quei tanti piccoli miracoli.

Il 6 marzo o giù di lì tutti i prigionieri del campo che vi si trovavano già il giorno che arrivammo furono trasferiti in un campo vicino, per poi scomparire del tutto poco dopo. Fra di loro c’era Fredy Hirsch. Le notizie dal campo adiacente furono che aveva preso troppi farmaci la notte prima (i mezzi per una simile fine dovevano essere stati forniti dai suoi contatti nazisti, suppongo). In via ufficiale non ci fu detto niente, ma il fatto che i prigionieri fossero spariti esattamente sei mesi dopo il loro arrivo e che le ciminiere sputassero fumo mandava un sinistro messaggio. Tuttavia non riesco a ricordare di essermi preoccupato per le ovvie implicazioni sul mio futuro. O io ho dimenticato delle cose o, più probabilmente, il problema della sopravvivenza quotidiana oscurava ogni ansia su quanto ci aspettava di lì a tre mesi.

A maggio da Terezín giunse un altro convoglio, poi ci furono arrivi a intermittenza da altre parti d’Europa.

Olandesi e ungheresi, in particolare, sembravano crollare molto in fretta. Il tempo si fece caldo, il fango si seccò e noi fummo messi a eseguire lavori inutili, come riempire buche nel terreno che altri erano appena stati costretti a scavare.

Ci fu un’altra occasione che vale la pena ricordare, nella quale mi trovai molto vicino alla morte. Alla squadra a cui ero stato assegnato fu ordinato di trasportare dei mattoni lungo il perimetro del campo, cosa che molti di noi fecero reggendoli sulle braccia tese. Questa tecnica si rivelò dolorosa, così io naturalmente mi misi i mattoni in spalla legandoli con la cintura. Purtroppo si ruppe, facendo cadere a terra i mattoni. La guardia mi stava guardando e sguinzagliò il suo pastore tedesco, che fece per attaccarmi. All’improvviso pensai che, se mi fossi messo a correre, il cane mi avrebbe atterrato e con tutta probabilità dilaniato, così rimasi immobile guardandolo dritto negli occhi. L’animale si fermò, sembrava indeciso sul da farsi: evidentemente non era stato programmato per una tale eventualità. E poi l’ennesimo colpo di fortuna: non solo la sua aggressività svanì, ma anche quella della guardia. Forse si vergognava della mancanza di determinazione militare del suo cane, ma mi lasciò raccogliere in pace i miei mattoni.

A metà giugno i nostri sei mesi erano scaduti, ma ci fu una deviazione dal piano prestabilito. A partire dal 7 luglio circa, agli adolescenti, incluso me, insieme agli uomini che sembravano più in forma, venne ordinato di spogliarsi e sfilare davanti a degli ufficiali delle SS seduti a un tavolo. Quando fui interrogato, io aggiunsi un anno alla mia vera età e, grazie in parte al fatto che avevo dovuto trasportare pesanti barili e forse anche alla mistura di zucchero e cicoria, fui promosso ai lavori forzati. Dopo qualche giorno in un campo vicino, mi ritrovai in un gruppo che venne caricato sul retro di camion aperti e portato via. Quella fu l’ultima volta che vidi mia madre e mio fratello.

All’epoca non riuscivo pienamente a comprendere il significato di ciò che mi stava accadendo intorno, e forse era meglio così. L’intero gruppo partito a marzo era stato eliminato nelle camere a gas. Questo includeva Fredy Hirsch (ancora si discute sul fatto se al momento fosse morto, svenuto o semplicemente sedato).

Passarono anni prima che fossi in grado di inserire quegli eventi in una cornice storica. Anche al di fuori dei campi, in tutta l’Europa occupata, le notizie sull’andamento della guerra erano filtrate dalla macchina della propaganda nazista. All’interno dei lager le voci erano tante, ma non ci si poteva dare troppo credito.

Comunque, era chiaro che i piani originali di Hitler basati su continue vittorie naziste, erano andati all’aria. Le forze tedesche in Russia si stavano esaurendo e, all’inizio del giugno 1944, gli sbarchi del D-Day richiesero l’invio di altri uomini. Così, prima che arrivasse il nostro turno di essere gassati, Hitler fu obbligato a mettere il suo bisogno di manodopera davanti all’esigenza di una rapida implementazione della “Soluzione finale”.

Mio fratello era troppo giovane per lavorare. Sono convinto che, se avesse potuto scegliere, mia madre sarebbe andata alla camera a gas con lui, ma dubito che fosse possibile. Credo che sia morta in qualche altro campo di lavoro. Tutti i miei tentativi di rintracciarla, le mie ricerche di ulteriori informazioni negli archivi, si sono rivelate inutili. Soffermarsi su questi pensieri non è produttivo, se si vuole vivere una parvenza di vita normale, ma invito chiunque desideri condividere i miei incubi a immaginarsi quel gruppo di bambini, incluso il mio fratellino terrorizzato, che viene spinto nella camera a gas. Ha avuto un’infanzia così breve e triste: spesso vorrei essere stato un fratello più presente, per lui.

È il caso di sottolineare che lo sterminio dell’8 marzo, seguito dall’eliminazione dell’intero campo per famiglie, il 10-12 luglio 1944, fu di gran lunga il più grande omicidio di massa di cittadini cecoslovacchi avvenuto durante la seconda guerra mondiale.

Ormai ero solo, ma almeno non avevo nessun altro di cui preoccuparmi.