Ringraziamenti


Questa cronaca non avrebbe mai visto la luce se non fosse stato per l’influenza di alcuni buoni amici. In primo luogo fu Bea Green – una Kindertransportee arrivata nel Regno Unito prima della guerra e una sorta di attivista nel tenere viva la memoria di quegli eventi – a insistere sul fatto che raccontare questo spaccato di storia fosse un dovere verso i miei figli e nipoti – per quanto fosse per me straziante – perché «avevano il diritto di sapere». Poi un certo numero di amici e colleghi che avevano chiesto di vedere ciò che avevo scritto mi spinsero a condividerlo con un pubblico più ampio, perché, con mio grande stupore, pensavano fosse una «buona lettura». Fra questi, sono in debito con i dottori James Lawton, Darren Tymens, Ivan Vince, i professori Charmian Brinson, Rafael e Deniz Kandiyoti e, in particolare, con tre altri sopravvissuti ai campi di concentramento dalle storie alquanto diverse: Peter Frank, Otto Jakubovic, con sua moglie Angela, e Frank Bright. Diversi amici sono poi stati di grande aiuto nell’attirare la mia attenzione su omissioni e sviste, e posso solo sperare, considerando quanto anziani sono ormai alcuni di noi, di essere riuscito a correggerne la maggior parte.

Sono profondamente grato a Suzanne Bardgett, non solo per aver scritto un’introduzione tanto commovente, ma anche per aver fornito ai ragazzi cechi del mio racconto, ai loro discendenti e alle loro famiglie (circa trentacinque persone in tutto), l’unica e sola opportunità che hanno avuto di incontrarsi, all’Imperial War Museum nel settembre 2005. Suzanne ha organizzato la proiezione di un filmato in cui si vedevano i bambini salire sui bombardieri in partenza per l’Inghilterra, nell’autunno del 1945, ha preparato un rinfresco e ci ha dato modo di apprezzare il magnifico lavoro da lei fatto per esporre al pubblico i ricordi delle nostre esperienze durante la seconda guerra mondiale.

Riguardo alla consunta giacca in pelle di cui parla e che al momento onora la sua mostra: se ci fosse un premio per il capo più brutto del mondo, la proporrei come principale concorrente. Non credo che sia mai stata pensata per essere indossata all’esterno; la mia opinione è che fosse originariamente intesa per essere portata sotto l’uniforme della Luftwaffe dagli equipaggi di volo operanti ad alta quota, per tenerli al caldo. Il petto era costituito da tanti piccoli riquadri di montone cuciti insieme, con la pelle di un malsano bianco sporco che dava verso l’esterno. Le maniche erano di maglia, malamente attaccate alle spalle. Il design tradiva una nazione povera di risorse materiali, ma ben provvista di schiavi costretti a fare un gran lavoro. La caratteristica che la rendeva tanto preziosa, prima per una guardia di Buchenwald e poi per me – al punto che la portai sul bombardiere Lancaster per il volo verso l’Inghilterra – era che teneva straordinariamente caldo, si trattava senza dubbio dell’indumento più caldo che avessi mai avuto. Forse dovrei menzionare il fatto che la guardia di Buchenwald non sollevò obiezioni sul fatto che la prendessi, dato che all’epoca era morta, probabilmente in seguito a una precedente visita da parte di alcuni dei miei compagni di prigionia.

Prima di esporre la giacca alla vista di tutti sulla mia motocicletta, apportai un discutibile miglioramento al suo aspetto da pecora morta colorandone la pelle con una tintura per scarpe in camoscio marrone scuro. Ed è così che si presenta ancora oggi. I miei figli ricordano che la indossavo per lavare la macchina, forse per via dell’imbarazzo che causava loro. Una cosa di cui sono sicuro è che, all’epoca in cui la donai all’Imperial War Museum, niente era tanto lontano dai miei pensieri quanto l’idea di scrivere delle mie esperienze in tempo di guerra. Eppure, fu la prima volta che riflettei sul fatto che magari alcune cose, apparentemente del tutto inutili, meritassero di essere preservate per i posteri, invece di finire in un sacco di vecchi stracci: quindi forse il seme era stato piantato.


Felix Weinberg

16 settembre 2011