Ian Fleming James Bond 007 Si vive solo due volte

Titolo originale:

You Only Live Twice

Traduzione di Enrico Cicogna

Tea due

Copyright 1964

Glidrose Productions Ltd’

Copyright 1998

Tea S’p’A’

Milano

Prima edizione Tea due

ottobre 1998

Tea

James Bond è l’ombra di se stesso, l’ultima impresa lo ha distrutto. Anche il suo capo, “M”, ormai dubita di lui, e solo dopo molte incertezze si decide a spedirlo in Giappone, nella speranza che una sfida impossibile gli restituisca il suo agente migliore. Qui,

“Bondo-san” si troverà di fronte di nuovo al nemico più accanito, feroce e micidiale che abbia mai incontrato: Ernst Stavro Blofeld. E

quando si allontanerà dalla scena dell’ultimo duello, Bond sarà un altro uomo, ignaro di tutto e persino di se stesso, convinto di essere un semplice pescatore giapponese…

 

Ian Lancaster Fleming nasce a Londra il 28 maggio 1908. Sulla sua infanzia e adolescenza gravano le ombre del nonno (ricchissimo banchiere scozzese), del padre (eroe della prima guerra mondiale) e del fratello maggiore (campione negli studi, nello sport e poi giornalista di successo). Il bisogno di indipendenza e di autoaffermazione lo spingono in diverse direzioni: studia a Eton e all’Accademia militare di Sandhurst; viaggia in Europa (dove prosegue gli studi) e tenta la strada del Foreign Office; colleziona libri di pregio e lavora per la Reuters. Finché, nel 1939, entra nell’Intelligence della Marina. Durante la guerra ricopre incarichi di grande importanza partecipando a molte, delicate operazioni di spionaggio. Finita la guerra, elegge a suo rifugio Kingston, in Giamaica, dove si costruisce una casa (la famosissima “Golden-eye” ,

“occhio d’oro”, dal titolo di un romanzo di Carson Mccullers) in cui passa due mesi ogni anno. E’ il 1952 e Fleming decide di sposarsi.

Mentre a Kingston aspetta la sua futura sposa (alle prese col divorzio in Inghilterra) crea il personaggio di James Bond e scrive Casinò Royal. Il romanzo viene pubblicato nel 1953 e il successo è immediato (i compassati critici inglesi ammettono: “è un intrattenimento veramente eccitante”). Negli anni successivi il successo cresce e si allarga romanzo dopo romanzo, esplodendo nel 1962 quando, dopo numerosi progetti falliti, appare il primo film della serie, Licenza di uccidere, diretto da Terence Young e interpretato da Sean Connery nel ruolo di James Bond. La “Bondmania”

sta per scatenarsi in tutto il mondo quando, minato nella salute, dopo una vita non esattamente “morigerata”, Ian Fleming muore, in seguito a un attacco cardiaco, il 12 agosto 1964.

 

Parte prima:

E’ meglio viaggiare con un bagaglio di speranze…

1. Morra giapponese

“Foglia tremante”, la geisha inginocchiata davanti a James Bond, si protese a baciarlo castamente sulla guancia destra.

“E’ una truffa,” protestò vivamente Bond. “Eravamo d’accordo che se avessi vinto avrei avuto un vero bacio, per lo meno sulla bocca.”

“Perla Grigia”, una Madame dai denti bizzarramente laccati di nero e così truccata da sembrare il personaggio di un Nô, si affrettò a tradurre. Vi furono risatine e urletti di incoraggiamento. Foglia Tremante si coprì il viso con le manine affusolate, come se le avessero chiesto di compiere un atto osceno senza precedenti. Ma poi le dita si schiusero, i lucidi occhi neri considerarono la bocca di Bond, come per prendere la mira, e il corpo della geisha tornò a protendersi. Questa volta il bacio fu pieno, e le labbra della donna indugiarono per un attimo su quelle di Bond. Un invito? Una promessa?

Bond ricordò che gli era stata offerta una geisha “da cuscino”.

Tecnicamente, si trattava di una geisha di casta inferiore; una geisha non molto abile nelle arti tradizionali della sua professione e quindi incapace di raccontare storielle spiritose, di dipingere o di comporre dei versi in onore del suo cliente. Ma, a differenza delle sue compagne più colte, questa era disposta a sobbarcarsi servizi più faticosi con la massima discrezione, beninteso completamente in privato e a caro prezzo. Comunque, per i gusti barbari e brutali di un gaijin, uno straniero, tali servizi erano assai più graditi di un tanka di trentuno sillabe, che peraltro egli non avrebbe capito, composto di squisiti ideogrammi e con l’intenzione di paragonare le grazie dell’ospite a quelle dei crisantemi in boccio sulle falde del Fuji.

L’applauso che accolse quella esibizione di sfrenata lussuria si affievolì rapidamente e rispettosamente. Il robusto individuo che indossava un yukata nero e che sedeva di fronte a Bond davanti al basso tavolino di lacca rossa, si tolse il bocchino Dunhill dalla chiostra dei denti d’oro e lo posò accanto al portacenere.

“Bondo-san,” disse Tigre Tanaka, Capo del Servizio Segreto giapponese, “ora vi sfiderò io a questo ridicolo gioco, e vi assicuro che vincerò.” Il viso largo e rugoso che Bond aveva imparato a conoscere così bene nello spazio di un mese si illuminò di un sorriso cordiale che ridusse gli occhi a due fessure scintillanti.

Bond sorrise a sua volta. “Va bene, Tigre. Ma prima voglio ancora del sakè! E non in questi buffi ditali. Ho già bevuto cinque bottigliette di questo intruglio e l’effetto non supera quello di un doppio Martini. Avrò bisogno di un altro doppio Martini se voglio dimostrare la supremazia dell’intuito occidentale sulle astuzie dell’Oriente. Per caso non ci sarebbe un volgare bicchiere dimenticato in un cantuccio di qualche stipo Ming?”

“Bondo-san. Ming è cinese. Le vostre nozioni sulle porcellane sono ristrette così come la vostra sete è illimitata. E poi, non è saggio sottovalutare le proprietà del sakè. In Giappone si dice: “E’ l’uomo che beve la prima bottiglia di sakè; la seconda bottiglia beve la prima; poi, è il sakè che beve l’uomo.”” Tigre Tanaka si girò verso Perla Grigia e iniziò una allegra conversazione che, secondo quanto parve a Bond, doveva essere tutta una presa in giro del rozzo occidentale e dei suoi mostruosi appetiti. A un cenno della Madame, Foglia Tremante fece un profondo inchino e scivolò fuori dalla stanza. Tigre si rivolse a Bond. “Vi siete fatta una bella reputazione, Bondo-san. Soltanto i lottatori di sumo riescono a bere tanto sakè senza accusarne gli effetti. Lei dice che senza dubbio siete un uomo da otto bottiglie.” Il viso di Tigre assunse una espressione ironica. “Ma dice anche che alla fine della serata non sarete un compagno molto valido per Foglia Tremante.”

“Ditele che sarei disposto ad apprezzare molto più volentieri le sue grazie più mature. Ditele che sono convinto che le sue esperienze in fatto di arte amatoria compenserebbero abbondantemente i miei temporanei cedimenti.”

La pesante galanteria ricevette l’accoglienza che si meritava.

Perla Grigia emise un fiotto di parole in giapponese e Tigre tradusse. “Bondo-san, questa è proprio una donna di spirito. Ha fatto un gioco di parole. Ha detto che lei è già rispettabilmente sposata con un bonsan e che nel suo futon non ce ne sta un altro. Bonsan significa prete, una barba grigia. Futon, come sapete, è il letto. Ha fatto un gioco di parole col vostro nome.”

Il trattenimento a base di geishe durava già da due ore, e la mascella di Bond era ormai indolenzita a furia di risatine a labbra strette e di argute galanterie. Ormai non ne poteva più; la geisha non lo divertiva affatto e i suoni discordanti che ella faceva uscire dalla cassa del samisen a tre corde, ricoperta con pelle di gatto, gli davano i nervi. Oltre a tutto, Bond sapeva che Tigre aveva osservato tutti i suoi sforzi con un piacere sadico. Dikko Henderson lo aveva preavvisato che, per uno straniero, i trattenimenti con le geishe erano più o meno equivalenti al tentativo di far divertire un gruppo di bambini sconosciuti in una nursery, sotto lo sguardo severo e vigilante della bambinaia, la Madame, in questo caso. Ma Dikko lo aveva anche avvisato che quello sarebbe stato un segno di grande considerazione da parte di Tigre Tanaka, che il trattenimento sarebbe costato a Tigre una fortuna, prelevata forse dai fondi segreti o forse dalle sue stesse tasche, e che Bond avrebbe dovuto far buon viso alla faccenda, visto che tutto poteva servire al successo della sua missione.

Perciò Bond sorrise, batté le mani estasiato, prese il bicchiere colmo di sakè caldo dalle mani che Foglia Tremante tendeva verso di lui in atto di adorazione e lo vuotò in due robusti sorsi. Volle ripetere l’esibizione e fu necessario un nuovo viaggio in cucina per preparare dell’altro sakè e poi, dopo aver appoggiato con forza i pugni sul tavolino laccato, disse in tono di sfida: “Bene, Tigre!

Cominciamo!”

Si trattava del vecchio gioco del jan-ken-pon, la morra giapponese, Forbice taglia Carta, Carta avvolge Pietra, Pietra smussa Forbice, conosciuto da tutti i bambini del mondo. Il pugno chiuso è la Pietra, due dita divaricate indicano la Forbice, e la mano aperta è la Carta.

Per due volte, il pugno chiuso dei contendenti oscilla in aria e al terzo colpo si abbassa e rivela il simbolo scelto. Il gioco consiste nel cercare di indovinare quale simbolo sceglierà l’avversario e nell’optare per quello che lo vince. E’ un gioco a base di bluff.

A sua volta, Tigre Tanaka appoggiò il pugno sul tavolino. I due uomini si fissarono. Nella stanzetta dalle pareti di carta il silenzio si era fatto profondo e, per la prima volta dall’inizio della serata, si poteva udire il sommesso mormorio del piccolo ruscello nel cortile ornamentale del giardino. Fu forse il silenzio, dopo tante chiacchiere e risatine, o forse fu la profonda gravità e la fermezza che divenne improvvisamente evidente nel viso forte e crudele da samurai di Tigre Tanaka, ma Bond si sentì percorrere da un brivido. Per qualche strana ragione, la gara si era trasformata in qualcosa di più di un gioco da bambini. Tigre era uno degli uomini più potenti del Giappone. Se avesse perso, la sconfitta da un miserabile gaijin alla presenza di due donne avrebbe costituito un fatto di grande importanza, per lui. Lo scacco sarebbe stato certo commentato in giro. In Occidente, un caso simile sarebbe passato del tutto inosservato. Ma in Oriente? Nel breve spazio di una conversazione, Dikko Henderson aveva cercato di inculcare a Bond un sacro rispetto per le consuetudini orientali, ma l’agente non era riuscito ad afferrare completamente tutte le sfumature. Questo era un caso concreto. Avrebbe dovuto cercare di vincere quell’infantile gioco di bluff e di controbluff, oppure avrebbe dovuto fare il possibile per perdere? Ma anche un tentativo di perdere presupponeva la stessa abilità nell’azzeccare e indovinare in anticipo i simboli dell’avversario. Le probabilità di vincere o di perdere di proposito erano uguali. E in conclusione, era veramente importante?

Disgraziatamente, James Bond aveva la spiacevole sensazione che anche questo stupido gioco potesse influire sul successo della missione che gli era stata assegnata.

Quasi fosse dotato di una seconda vista, Tigre Tanaka formulò il problema che angustiava Bond. Emise una risata rauca che somigliava più a un grido che a una manifestazione di ilarità o di gioia.

“Bondo-san, da noi, e specialmente in una riunione alla quale io vi ho invitato in qualità di onorevole ospite, la cortesia vorrebbe che io vi lasciassi vincere. Sarebbe qualcosa di più di una cortesia: sarebbe l’unico comportamento da adottarsi. Perciò io vi chiedo perdono in anticipo per la sconfitta che vi infliggerò.”

Bond sorrise allegramente. “Mio caro Tigre, sarebbe inutile giocare se non si cercasse di vincere. Sarebbe una grave offesa per me, se voi giocaste con l’intenzione di perdere. Ma, se mi è permesso di dirlo, le vostre osservazioni hanno il significato di una sfida. Sono simili agli insulti che si scambiano i lottatori di sumo prima del combattimento. Se io stesso non fossi così sicuro di vincere, non vi farei notare che avete parlato in inglese. Per favore, dite al nostro grazioso e distinto pubblico che io mi propongo di strofinare il vostro onorevole naso nella polvere a questo spregevole gioco, dimostrando in tal modo non soltanto la superiorità della Gran Bretagna, e in particolare della Scozia, sul Giappone, ma anche la superiorità della nostra Regina sul vostro Imperatore.” Bond, forse aizzato dal subdolo potere del sakè, si era compromesso. Le frecciate sulle due differenti civiltà erano diventate una abitudine tra Bond e Tigre, il quale, facendosi forte di un diploma di Economia Politica conseguito al Trinity College prima della guerra, si vantava della demokorasu delle proprie vedute e della vasta liberalità della sua comprensione dell’Occidente. Tuttavia, dopo aver parlato, Bond si accorse dell’improvviso lampeggiare degli occhi scuri del giapponese e si rammentò degli avvertimenti di Dikko Henderson: “Ora ascoltami bene, stupido bastardo di un inglese. Per ora tutto va okay, ma non forzare troppo la fortuna. T’ T’ è un tipo civilizzato, per quanto può esserlo un giapponese. Ma non fidarti troppo. Basta guardargli la grinta. C’è dentro del Manciù, e anche del Tartaro. E non dimenticare che l’amico era Cintura Nera di judo prima ancora di capitare in quel tuo maledetto Oxford. E non dimenticare che faceva la spia per il Giappone, quando si faceva passare per attaché assistente navale alla sua Ambasciata a Londra, e tutti voi stupidi bastardi credevate che fosse tutto okay solo perché aveva un diploma di Oxford. E non dimenticare come si è comportato durante la guerra. Non dimenticare che ha finito per essere nominato aiutante personale dell’Ammiraglio Ohnishi e che stava allenandosi come kamikaze quando gli americani hanno cominciato a rompere le scatole a Nagasaki e a Hiroshima e hanno costretto il Sol Levante a ricoricarsi in mare. E, se ti sei dimenticato tutto questo, chiediti soltanto perché mai hanno appioppato proprio a T’ T’, e non a un altro dei novanta milioni dei suoi compaesani, l’incarico di dirigere il Koan-Chosa-Kyoku. Okay, James? Mangiata la foglia?”

Da quando Bond era arrivato in Giappone, si era assiduamente esercitato a sedere nella posizione del loto. Era stato Dikko Henderson a consigliarglielo. “Se vuoi tentare di entrare nella manica di quella gente,” aveva detto, “e anche se non ce la fai, dovrai trascorrere molto del tuo tempo col deretano per terra. C’è un solo sistema per farlo senza scardinare le giunture: siediti nella posizione indiana, accovacciato con le gambe incrociate e con le caviglie che ti fanno un male del diavolo. Ci vuole un po’ di pratica ma non morirai mica, per questo, e in compenso ti farai una reputazione considerevole.” Bond era riuscito più o meno a farcela, ma ora, dopo due ore, si sentiva le giunture delle ginocchia in fiamme ed era ormai certo che se non si fosse sgranchito le gambe avrebbe finito per trovarsele irrimediabilmente arcuate. Disse a Tigre: “Per giocare contro un maestro della vostra portata, devo prima di tutto assumere una posizione più sciolta in modo da poter concentrare completamente il cervello.” Si alzò penosamente in piedi, si stirò e si sedette di nuovo ma questa volta allungò una gamba sotto il tavolino e appoggiò il gomito sul ginocchio piegato dell’altra. Era un sollievo incredibile. Alzò il bicchiere, e Foglia Tremante gli versò rispettosamente da bere da una bottiglietta appena preparata. Bond ingollò il sakè, restituì il bicchiere alla ragazza e improvvisamente colpì col pugno chiuso la superficie laccata del tavolino, facendo traballare le scatoline di dolci e tintinnare le porcellane. Guardò fieramente Tigre Tanaka e gridò: “Pronto!”

Tigre si inchinò. Bond restituì il saluto. La ragazza si protese, in attesa. Gli occhi di Tigre interrogarono quelli di Bond, cercando di indovinare quali fossero i suoi piani. Ma Bond aveva deciso di non fare piani e di non seguire un sistema prestabilito. Avrebbe giocato a casaccio, mostrando un simbolo qualsiasi nel momento psicologico dopo le due oscillazioni preparatorie.

Tigre chiese: “Tre partite da tre colpi?”

“Va bene.”

I due pugni si sollevarono lentamente dal tavolino, oscillarono per due volte in aria e poi si abbassarono contemporaneamente. Tigre aveva tenuto il pugno chiuso nel segno del Sasso. La mano di Bond era aperta nel segno della Carta che avvolge il Sasso. Un punto per Bond.

Il rito si ripeté e così pure il momento della verità. Tigre aveva il Sasso e le due dita di Bond indicavano la Forbice. Un punto per uno.

Tigre fece una pausa e appoggiò il pugno alla fronte. Chiuse gli occhi e si concentrò. Poi disse: “Sì. Ho capito, Bondo-san. Non potete sfuggirmi.”

 

“Benissimo,” disse Bond, cercando di liberare la mente dalla convinzione che Tigre avrebbe continuato col Sasso, o che Tigre si sarebbe aspettato da lui un comportamento adeguato a quel sospetto, e che quindi avrebbe fatto il segno delle Forbici per tagliare la Carta di Bond. E così via di questo passo. I tre simboli roteavano nel cervello di Bond come i simboli delle macchinette mangiasoldi.

I due pugni si sollevarono: uno, due, via! La seconda partita durò più a lungo. I due competitori continuavano a mostrare lo stesso simbolo, il che li obbligava a ripetere il colpo. Era come se i due avversari si stessero misurando psicologicamente. Ma in realtà non era così perché Bond non aveva scopi psicologici. Continuava a giocare a casaccio. Era pura fortuna. Tigre vinse la partita. Una a testa.

Ultima partita! I due avversari si fissarono. Il sorriso di Bond era tranquillo, piuttosto ironico. Una fiammella rossa brillò in fondo agli occhi di Tigre. Bond se ne accorse e pensò: “Sarebbe più saggio perdere. O forse no?” Vinse la partita con due colpi successivi, smussando le Forbici di Tigre col suo Sasso, e avvolgendo il Sasso di Tigre nella sua Carta.

Tigre si inchinò profondamente. Bond rispose con un inchino ancor più profondo, e cercò una frase che potesse minimizzare lo scorno del giapponese. “Dovrei fare adottare questo gioco in tempo per le vostre prossime Olimpiadi. Mi proporrebbero sicuramente di giocare per il mio paese.”

Tigre Tanaka rise con misurata cortesia. “Giocate con molta perspicacia. Qual è il segreto del vostro metodo?”

Bond non aveva nessun metodo. Inventò rapidamente quello che sarebbe stato più lusinghiero per Tigre. “Voi siete un uomo di pietra e di acciaio, Tigre. Ho pensato che il simbolo che avreste usato meno doveva essere quello della Carta. Ho giocato in conformità a questa convinzione.”

La trovata ebbe successo. Tigre si inchinò. Bond si inchinò e poi bevve un altro bicchiere di sakè, brindando a Tigre. Svanita la tensione, la geisha applaudì e Madame autorizzò Foglia Tremante a dare un altro bacio a Bond. La ragazza eseguì. Come era morbida la pelle delle giapponesi. E il loro tocco era leggerissimo. James Bond stava già facendo dei progetti sul resto della serata quando Tigre disse: “Bondo-san, devo discutere alcune cose con voi. Volete farmi l’onore di venire a casa mia a bere un bicchiere?”

 

Bond cancellò immediatamente dal suo cervello ogni pensiero di lussuria. Secondo Dikko, l’essere invitati da un giapponese nella sua residenza privata era segno di particolare favore. In effetti, per qualche strana ragione, aveva fatto bene a vincere quel gioco infantile. E ciò poteva avere un significato molto importante. Bond si inchinò. “Nulla mi farebbe più piacere, Tigre.”

Un’ora dopo, i due amici sedevano su autentiche e deliziose sedie davanti a un vassoio pieno di bottiglie. Le luci di Yokohama tingevano l’orizzonte di un colore arancione cupo e una leggera brezza profumata dell’odore del porto e del mare penetrava dai pannelli spalancati sul giardino. La casa di Tigre era incantevolmente ideata, come del resto avviene anche per le case dei più modesti impiegati giapponesi, in modo da rendere impercettibile la linea di separazione tra l’uomo e la natura. Anche gli altri tre pannelli della stanza erano stati spalancati e rivelavano una stanza da letto, un piccolo studio e un corridoio.

Tigre aveva fatto scorrere le pareti divisorie non appena era entrato, e nello stesso tempo aveva osservato: “In Occidente, quando avete qualche segreto da discutere, chiudete porte e finestre. In Giappone, spalanchiamo ogni cosa per essere sicuri che dietro le pareti sottili non ci sia nessuno in ascolto. E ciò che io devo discutere con voi è una faccenda della massima segretezza. Il sakè è abbastanza caldo? Avete le vostre sigarette preferite? E allora ascoltate ciò che vi dirò e giuratemi sul vostro onore che non ne parlerete ad anima viva.” Tigre Tanaka ruggì il suo potente riso dorato privo di allegria. “Se doveste rompere la vostra promessa, non mi rimarrebbe altra alternativa che quella di eliminarvi.”

2. Per Bond cala il sipario?

Esattamente un mese prima, era la vigilia della chiusura annuale del club Blades. Col primo di settembre, i soci che contro ogni tradizione si trovavano ancora a Londra, avrebbero dovuto rassegnarsi per un mese al Whites o al Boodle’s. Il Whites era generalmente considerato troppo rumoroso e troppo “alla moda”. Il Boodle’s era sovraffollato di antiquati gentiluomini di campagna che non facevano altro che parlare della prossima apertura della caccia alla pernice.

Per il Blades si preparava un mese di solitudine, ma non c’era nulla da fare. La servitù doveva prendersi le ferie, ma soprattutto occorreva rinfrescare la pittura delle pareti e sostituire qualche tegola del tetto. Per M, seduto accanto alla vetrata che dava su St’

James’s Street, la temporanea chiusura del Blades non costituiva un grave problema. Aveva in programma due settimane di pesca alla trota nel Test e per altre due settimane avrebbe consumato panini e caffè nel suo ufficio. Non era un autentico frequentatore di club e se avesse potuto scegliere avrebbe attraccato al Senior, il più grande di tutti i club residenziali del mondo. Ma al Senior c’era troppa gente che lo conosceva, e troppa gente che parlava di lavoro. E

c’erano inoltre troppi vecchi colleghi della marina che si facevano premura di abbordarlo per chiedergli che cosa mai avesse combinato dopo essere andato in pensione. E la bugia: “Ho trovato lavoro in una certa Universal Export”, aveva finito per venirgli a noia, senza contare che, se a qualcuno fosse venuto in mente di andare a verificare, la cosa poteva risultare rischiosa.

Porterfield gironzolava coi sigari. Si chinò e presentò la grande scatola all’ospite di M. sir James Molony inarcò un interrogativo sopracciglio. “Mi accorgo che gli Avana continuano ad affluire.” La sua mano esitò per un attimo e alla fine scelse un Romeo y Julieta; lo premette leggermente e se lo passò sotto il naso. Sir James si rivolse a M. “che cosa manda a Castro in cambio la Universal Export?

Dei missili Blue Streak?”

M non apprezzò la facezia e Porterfield se ne rese conto. Aveva servito agli ordini di M come sottufficiale in uno dei suoi ultimi incarichi militari. Mormorò rapidamente, ma non troppo: “Per dire il vero, Sir James, i migliori sigari della Giamaica possono oggi reggere il confronto con quelli dell’Avana. Finalmente sono riusciti ad azzeccare la foglia esterna.” Chiuse il coperchio di cristallo della scatola e si allontanò.

Sir James Molony prese il punteruolo che il capo cameriere aveva lasciato sul tavolo e perforò accuratamente l’estremità del sigaro.

Poi accese un fiammifero e accarezzò la punta con la fiamma aspirando con cautela finché il sigaro non tirò alla perfezione. Bevve prima un sorso di brandy e poi un sorso di caffè, si appoggiò alla spalliera della poltrona, e osservò con affetto e ironia le sopracciglia contratte del suo amico. Disse: “Va bene, amico mio. E ora parlate.

Qual è il problema?”

M era distratto. Sembrava che la sua pipa non tirasse. Tra una boccata e l’altra chiese: “Quale problema?”

Sir James Molony era il più grande neurologo dell’Inghilterra.

L’anno prima era stato insignito del Premio Nobel per la sua pubblicazione, ora famosa: Alcuni effetti secondari psicosomatici della inferiorità organica. Svolgeva inoltre la mansione di consulente neurologo del Servizio Segreto e, benché fosse raramente interpellato soltanto in casi estremi i problemi che gli venivano proposti lo interessavano vivamente in quanto vitali per lo Stato.

M si agitò nervosamente nella poltrona e dedicò la sua attenzione al traffico di St’ James’s Street.

Sir James Molony continuò: “Amico mio, come qualsiasi persona, anche voi avete dei determinati sistemi per raggiungere uno scopo.

Uno di questi consiste nell’invitarmi di tanto in tanto al Blades, ingozzarmi come un’oca di Strasburgo e poi rivelarmi qualche spaventoso segreto, per poi chiedermi di aiutarvi. Se ben ricordo, l’ultima volta volevate sapere se ero in grado di ricavare certe informazioni da un diplomatico straniero riducendolo in stato di ipnosi a sua insaputa. La ritenevate l’ultima risorsa e io vi ho risposto che non potevo farci nulla. Due settimane dopo ho letto sui giornali che quello stesso diplomatico aveva fatto una brutta fine nel tentativo di misurarsi con la forza di gravità librandosi da una finestra di un decimo piano. Il coroner ha rilasciato un chiaro verdetto sul genere: “Caduto o spinto fuori”. Che canzone devo cantare oggi, per ripagarvi del pranzo che mi avete offerto?” Sir James Molony si fece più tenero e aggiunse con simpatia: “Avanti, M!

Sfogatevi pure!”

M lo guardò freddamente negli occhi. “Si tratta di 007. Mi preoccupa sempre di più.”

“Vi ho fatto avere i miei rapporti sulle sue condizioni. C’è qualcosa di nuovo?”

“No. Nulla di cambiato. Sta disgregandosi a poco a poco. Arriva tardi in ufficio. Non ha voglia di lavorare. Commette un sacco di errori. Sta bevendo eccessivamente e perde un mucchio di soldi in una di quelle nuove bische. Tutto ciò significa che uno dei miei migliori uomini sta raggiungendo il limite di sicurezza oltre il quale diventerà un pericolo per il Servizio. Pare incredibile, se si considera il suo passato!”

Sir James Molony scosse la testa. “Non è affatto incredibile. O voi non leggete i miei rapporti o non date loro molta importanza. Ho ripetuto molte volte che quell’uomo soffre delle conseguenze di una violenta emozione.” Sir James Molony si curvò in avanti e puntò il suo sigaro in direzione del petto di M. “voi siete un duro, M, e nel vostro mestiere bisogna esserlo. Ma ci sono certi problemi, come quelli umani ad esempio, che non possono essere sempre risolti a colpi di frusta. Ci troviamo di fronte a uno di questi casi. Abbiamo un agente forte e coraggioso come penso dovevate essere voi alla sua età. E’ un celibe impenitente, un gran dongiovanni. Un giorno si innamora improvvisamente, e in parte io penso che ciò sia accaduto perché la donna in questione era un uccellino ferito e aveva bisogno del suo aiuto. E così si sposa e qualche ora dopo la donna del suo cuore viene uccisa da quel super gangster… Come si chiamava?”

“Blofeld,” rispose M, “Ernst Stavro Blofeld. ”

“Già. Il vostro uomo se la cava con una ferita alla testa. Ma da quel momento comincia a disgregarsi e il vostro medico, pensando che la ferita possa aver danneggiato il cervello, me lo manda. Non ha assolutamente nulla. Nulla da un punto di vista fisico, intendo. E’

soltanto uno choc. Mi ha confessato di aver perso completamente il gusto della vita, l’interesse nel lavoro e perfino nell’esistenza.

Questo tipo di confessione è assai frequente, tra i miei pazienti. E’

una forma di psiconeurosi, e può sopravvenire a poco a poco o improvvisamente. Nel caso del vostro uomo, è stata provocata di colpo da una situazione vitale insopportabile o da una situazione che egli considera insopportabile per non averla mai provata prima di questo momento derivata dalla perdita della persona amata e aggravata, in questo caso particolare, dal fatto che egli si considera responsabile della sua morte. Orbene, amico mio, né io né voi abbiamo mai dovuto sopportare un simile peso e non sappiamo come reagiremmo. Vi posso comunque dire che si tratta di un fardello maledettamente pesante da trascinarsi dietro. E il vostro uomo sta curvando sempre di più la schiena. Ho l’impressione, e l’ho scritto nel mio rapporto, che il suo mestiere così irto di pericoli, di sorprese, di avventure, dovrebbe essere sufficiente a scuoterlo dallo stato in cui si trova. Ho scoperto che bisogna cercare di insegnare agli uomini che non esiste un limite massimo per la disgrazia, e che finché nel corpo rimane un alito di vita è necessario accettare le calamità dell’esistenza. Molto spesso, queste calamità sembreranno infinite, insopportabili, ma fanno parte della condizione umana.

Avete cercato di assegnargli qualche missione difficile, in questi ultimi mesi?”

“Due volte,” rispose M tetramente. “Ha sempre fatto fiasco. La prima volta si è quasi fatto ammazzare, e la seconda ha commesso un errore che ha messo in pericolo gli altri. Ecco un’altra cosa che mi preoccupa. Prima non commetteva mai un errore. E ora, improvvisamente, pare propenso alle disgrazie.”

“E’ un altro sintomo della sua nevrosi. E allora, che cosa pensate di fare?”

“Lo licenzio,” disse M con voce rabbiosa. “Come se lo avessero reso inabile o come se avesse una specie di malattia incurabile. Nella sua Sezione non c’è posto per un cervello malato, malgrado il suo stato di servizio e nonostante tutte le scuse e i pretesti che voi psichiatri potrete trovargli. La pensione, naturalmente. E inoltre un eccellente benservito e tutto il resto. Cercheremo di trovargli un lavoro. Forse potremo impiegarlo presso quelle nuove organizzazioni per la sorveglianza delle banche.” M alzò uno sguardo un po’ incerto verso gli occhi azzurri e comprensivi del famoso neurologo. “Capite il mio punto di vista, Sir James? Alle dipendenze del Quartier Generale c’è un mucchio di gente e io non so proprio dove poter collocare 007 senza correre dei rischi.”

“Così perderete uno dei vostri migliori uomini.”

“E’ stato uno dei miei migliori uomini, ma ora non lo è più.”

Sir James Molony si riadagiò nella poltrona e guardò fuori dalla vetrata continuando a fumare pensierosamente il suo sigaro. Quel Bond gli era simpatico. Prima di allora lo aveva avuto come paziente almeno una dozzina di volte e si era reso conto che lo spirito e le riserve di cui disponeva 007 potevano sottrarlo alla precaria situazione che avrebbe stroncato un essere umano normale. Egli sapeva che Bond, trovandosi di fronte a una situazione disperata, avrebbe attinto a queste riserve e avrebbe ritrovato la voglia di vivere. I pazienti neurotici che erano scomparsi per sempre dal suo ambulatorio, quando era scoppiata l’ultima guerra, non si potevano contare. La grossa preoccupazione aveva cancellato le piccole, la paura maggiore aveva annullato quelle minori. Si decise a parlar chiaro. “Dategli un’altra opportunità, M. sono disposto a rispondere per lui, se ciò vi può essere di aiuto.”

 

“A quale opportunità state pensando?”

“Be’, io non sono molto al corrente del genere dei vostri affari, M, e non voglio saperne nulla. Ma non avete qualcosa di veramente difficile da affidare a quell’uomo? Ci vorrebbe una missione disperatamente importante ma apparentemente impossibile. Dategli pure una pedata nel fondo dei pantaloni, se credete di doverlo fare, ma Bond ha soprattutto la necessità di un supremo appello alle sue qualità, di qualcosa che lo riempia di preoccupazioni a tal punto da fargli dimenticare i suoi guai personali. Non c’è nulla come la morte o la gloria per distrarre un uomo da se stesso. Non potreste inventare qualcosa che abbia almeno l’apparenza di una missione urgente? Se ci riuscite, affidategli l’incarico. E’ probabile che riesca a rimettersi in carreggiata. Per lo meno, dategli ancora una opportunità. Volete?”

Il violento trillo del telefono rosso, che per tante settimane non si era fatto sentire, fece schizzare Mary Goodnight dal seggiolino di fronte alla macchina per scrivere. La segretaria di Bond si precipitò nella stanza accanto, attese un secondo per riprendere fiato e poi sollevò il ricevitore come se si fosse trattato di un serpente a sonagli.

“Sì, signore… No, signore. Parla la sua segretaria.” Miss Goodnight consultò l’orologio, cosciente del peggio. “E’ molto strano, signore. Non dovrebbe tardare più di qualche minuto. Devo dirgli di chiamarvi, signore?… Sì, signore.” Depose il ricevitore sulla forcella, e si accorse che la mano le stava tremando. Dannato uomo! Dove diavolo si era cacciato? Gridò a voce alta: “Oh, James, vieni in fretta!” Tornò a sedersi sconsolatamente davanti alla macchina per scrivere, guardò i tasti grigi senza vederli e cercò di trasmettere con tutte le sue forze un messaggio telepatico. “James!

James! M ti vuole! M ti vuole! M ti vuole!” Il cuore le balzò nel petto. Il Syncraphone. Forse questa volta non se n’era dimenticato.

Tornò a precipitarsi nella stanza accanto e spalancò violentemente il cassetto di destra della scrivania. No! Il minuscolo ricevitore di plastica dal quale Bond avrebbe potuto ricevere il richiamo del centralino era rimasto nel cassetto. Tutti gli alti funzionari del Quartier Generale avevano l’obbligo di portare con sé l’apparecchio quando uscivano dal palazzo. Ma da diverse settimane Bond dimenticava di prenderlo o, molto più probabilmente, non se ne dimenticava neppure, non lo prendeva semplicemente. “Oh, dannato! Dannato!

 

Dannato!” esclamò ancora ad alta voce Miss Goodnight.

Le condizioni della propria salute, lo stato del tempo, le meraviglie della natura, sono argomenti che occupano assai raramente i pensieri dell’uomo comune che non abbia ancora raggiunto i trentacinque anni. Prima di raggiungere quel traguardo, James Bond si era più o meno disinteressato sia della salute, sia del tempo, sia della natura. A parte le occasionali conseguenze delle sbornie, e il rattoppo di eventuali danni fisici che Bond considerava generalmente come l’estensione delle cadute infantili con scorticatura delle ginocchia , egli aveva dato per scontata la sua ottima salute. Il tempo? Era un problema che implicava soltanto la soluzione offerta da un impermeabile o dal mantice sollevato sulla sua Bentley convertibile. Quanto agli uccelli, ai fiori, alle api, alle meraviglie della natura, gli importava soltanto sapere se cantavano o se pungevano, e se profumavano o se puzzavano. Ma in quel giorno, l’ultimo giorno di agosto, alla distanza di otto mesi esatti dalla morte di Tracy, Bond sedeva nel Roseto della Regina Mary a Regent’s Park e il suo cervello era totalmente occupato proprio nella riflessione su questi temi.

Prima di tutto, la salute. Si sentiva a pezzi e sapeva che anche il suo aspetto esteriore lo dimostrava. Per mesi e mesi, senza dir nulla a nessuno, lui aveva percorso Harley Street, Wigmore Street e Wimpole Street alla ricerca di un medico qualsiasi che riuscisse a rimetterlo in sesto. Era ricorso agli specialisti, ai generici, ai ciarlatani, perfino a un ipnotizzatore. Aveva detto loro: “Mi sento malissimo.

Dormo da cane. Non mangio quasi nulla. Bevo troppo e il mio interesse per il lavoro è andato a farsi friggere. Sono a pezzi. Cercate di guarirmi.” Gli avevano misurato la pressione, avevano fatto analizzare un campione di orina, gli avevano auscultato il cuore e la gabbia toracica, gli avevano rivolto domande alle quali aveva risposto in tutta sincerità, e in conclusione gli avevano detto che fondamentalmente poteva considerarsi sano come un pesce. Aveva pagato le cinque ghinee e aveva scrupolosamente acquistato da John Bell and Croyden le nuove specialità che gli erano state prescritte: tranquillanti, sonniferi, tonici… Ora aveva anche rotto i rapporti con la sua ultima risorsa, l’ipnotizzatore, il cui consiglio fondamentale era stato quello di cercare di riacquistare il vigore perduto possedendo una donna. Come se non ci si fosse provato abbastanza! Donne! Quelle che per le scale gli avevano consigliato di prendere le cose con calma. Quelle che gli avevano chiesto di portarle a Parigi. Quelle che gli avevano chiesto con indifferenza:

“Ti senti meglio ora, carino?” L’ipnotizzatore era un tipo abbastanza sopportabile, anche se rompeva le scatole quando si metteva a raccontare il suo sistema per togliere le verruche o le persecuzioni di cui lo affliggeva l’Associazione Medica Britannica, ma a un certo momento Bond ne aveva avuto abbastanza di starsene seduto ad ascoltare quella voce monotona e a cercare di rilassarsi continuando a fissare secondo le istruzioni una lampadina accesa. Perciò aveva rinunciato al completo trattamento, e alle cinquanta ghinee versate in anticipo, e si era rifugiato in quel giardino nascosto in attesa di aver la forza di ritornare in ufficio, a dieci minuti da lì.

Consultò l’orologio. Le tre passate, e avrebbe dovuto essere al suo posto di lavoro alle due e mezzo. Al diavolo! Santo cielo, come faceva caldo! Si passò la mano sulla fronte e la asciugò sul fianco dei pantaloni. Prima non sudava in quel modo. Forse il tempo stava cambiando. Colpa della bomba atomica, nonostante il parere contrario degli scienziati. Sarebbe stato bello trovarsi da qualche parte nel Sud della Francia. Un posto dove poter fare una nuotata quando si voleva. Ma in vacanza c’era già stato, quell’anno. Quel mese di incubo che gli avevano concesso dopo la morte di Tracy. Era andato in Giamaica. E che inferno era stato. No! Le vacanze non erano la soluzione adatta. Anche qui si stava veramente bene. Le rose erano proprio belle. Avevano un buon profumo ed era delizioso starle a guardare ascoltando il rumore soffocato del traffico. E il sommesso ronzio delle api, il loro volo preciso attorno ai fiori… Le api non avevano crucci. Soltanto vivere e morire. Facevano quello che dovevano fare e poi cadevano morte. Come mai non si vedevano in giro mucchi di api morte? Ogni giorno ne dovevano morire migliaia, milioni. Forse, le altre se le mangiavano. Oh, al diavolo! Era meglio tornare in ufficio a litigare con Mary. Era un tesoro e aveva ragione di rimproverarlo. Mary era la sua coscienza. Ma Mary non poteva rendersi conto dei guai che egli stava soffrendo. Che guai? Oh, basta! Non valeva la pena di approfondire! James Bond si alzò e si avvicinò al rettangolino di legno sul quale era scritto il nome delle rose che aveva ammirato. Quelle rosso fuoco erano le “Super Star”, e quelle bianche si chiamavano “Iceberg”. Poi, con un guazzabuglio di pensieri nel cranio, sulla salute, sul caldo e sui cadaveri delle api, James Bond si diresse verso l’alto palazzo grigio i cui piani superiori spuntavano al di sopra degli alberi. Erano le tre e mezzo.

Soltanto due ore da superare prima del prossimo bicchiere.

L’addetto all’ascensore appoggiò il moncone del braccio destro sulla leva e disse: “La vostra segretaria ha un diavolo per capello, signore. Ha continuato a cercarvi dappertutto.”

“Grazie, sergente.”

Ricevette lo stesso messaggio quando arrivò al quinto piano e mostrò il lasciapassare alla guardia seduta dietro la scrivania.

Percorse senza fretta il corridoio silenzioso che portava a un gruppo di stanze contrassegnate col segno del doppio 0, aprì la porta sulla quale spiccavano le cifre 007 e la richiuse dietro di sé. Mary Goodnight alzò lo sguardo verso di lui e disse con calma: “M ti vuole. Ha chiamato mezz’ora fa.”

“Chi è M?”

Mary Goodnight balzò in piedi, con gli occhi sfavillanti. “Per l’amor di Dio, James, scuotiti! Su, raddrizzati la cravatta.” Gli si avvicinò e con rapidi tocchi cercò di renderlo più presentabile. “Hai i capelli scomposti. Ecco, adopera il mio pettine.” Bond prese il pettine e se lo passò distrattamente tra i capelli. Disse: “Sei una brava figliola, Goodnight.” Si passò una mano sul mento. “Per caso, non avresti anche un rasoio? Devo essere in forma quando salirò sul patibolo.”

“Ti prego, James.” I suoi occhi luccicavano. “Va’ da lui. E’ da molte settimane che non ti chiama. Forse si tratta di qualcosa di importante.” Disperatamente, cercò di infondere un po’ di coraggio nella sua voce.

“L’inizio di una nuova vita è sempre importante. In ogni modo, chi ha paura del Lupo Cattivo M? Ci staresti a darmi una mano nel mio futuro allevamento di galline?”

Mary gli voltò le spalle e si coprì il viso con le mani. Bond le diede un colpetto amichevole sulla schiena, poi entrò nel suo ufficio e sollevò il ricevitore rosso. “E’ 007, signore… Sono spiacente, signore. Ero dal dentista… Lo so, signore. Sono spiacente. L’ho lasciato nel cassetto della scrivania… Sissignore.”

Posò lentamente il ricevitore, si guardò attorno come per dare al suo ufficio un ultimo saluto, poi uscì nel corridoio e salì nell’ascensore con la rassegnazione di un condannato a morte.

Miss Moneypenny lo guardò con malcelata ostilità. “Potete entrare.”

Bond raddrizzò le spalle e guardò la porta dietro la quale la sua sorte era stata decisa tante volte. Temendo quasi di ricevere una scossa elettrica sfiorò la maniglia con precauzione ed entrò nell’ufficio di M chiudendo l’uscio dietro di sé.

3. La missione impossibile

M, con le spalle curve strette nel vestito scuro di taglio dozzinale, era in piedi vicino alla finestra e guardava fuori verso il parco. Senza voltarsi, disse: “Siediti.” Niente nome, niente numero!

Bond si sedette al solito posto, di fronte alla poltrona di M e osservò che sul piano di cuoio rosso della scrivania non era in vista alcun dossier. Anche i cestini della corrispondenza in arrivo e in partenza erano vuoti. A un tratto ebbe la spiacevole consapevolezza di aver deluso M, di aver deluso il Servizio, di aver deluso se stesso. La scrivania vuota, la poltrona vuota, costituivano l’accusa finale. Non abbiamo nulla per te, sembravano volessero dire. Siamo spiacenti. E’ stato bello conoscerti, ma non c’è nulla da fare.

M si avvicinò allo scrittoio e si sedette guardando Bond. Non si poteva leggere nulla sulla sua rugosa faccia di uomo di mare. Era freddo come la pelle scura della sua poltrona. “Sai perché ti ho mandato a chiamare?”

“Me lo immagino, signore. Posso rassegnare le dimissioni?”

M rispose irosamente: “Di che diavolo stai parlando? Non è colpa tua se la Sezione Doppio Zero è stata con le mani in mano per tanto tempo. Accade spesso. Ci sono stati periodi di ozio anche prima, mesi interi senza che tu avessi nulla da fare.”

“Ma ho combinato dei pasticci nelle mie due ultime missioni. E so anche che in questi ultimi mesi il mio responso medico non è stato molto promettente.”

“Sciocchezze. Tu non hai nulla. Hai avuto delle esperienze spiacevoli ed era logico che ne risentissi. Quanto alle due ultime missioni, chiunque può commettere degli errori. Ma non posso permettermi di mantenere gente che non ha nulla da fare e perciò ti tolgo dalla Sezione Doppio Zero.”

 

Bond, che per un momento si era sentito risollevare, ripiombò di nuovo nella più cupa amarezza. Il vecchio era gentile e cercava di inzuccherargli la pillola. “Allora, se per voi è lo stesso, signore, io insisto nel presentarvi le mie dimissioni. Sono stato un Doppio Zero per troppo tempo. Sono spiacente, ma il lavoro d’ufficio non mi interessa. E, d’altra parte, non riesco a combinare nulla di buono.”

M fece qualcosa che Bond non gli aveva mai visto fare prima di allora. Alzò il pugno destro e lo sbatté violentemente sul piano della scrivania. “Con chi diavolo credi di parlare? Chi diavolo credi che diriga gli affari, qui? Dio santo! Ti mando a chiamare per darti una promozione e per affidarti l’incarico più importante della tua carriera e mi vieni a parlare di dimissioni! Ragazzaccio testardo!”

Bond era stupefatto. Fu sommerso da un’ondata di emozione. Che cosa stava succedendo, per l’inferno? Balbettò: “Mi spiace terribilmente, signore. Mi è parso di essere un po’ a terra, ultimamente.”

“Te lo dirò io quando sarai a terra.” M lasciò andare un altro pugno sulla scrivania, ma con meno forza. “E adesso stammi a sentire: ti promuovo alla Sezione Diplomatica. Una sigla di quattro cifre e un extra di mille sterline all’anno. Probabilmente non conoscerai molto di quella Sezione, ma posso dirti che ne fanno parte solo altri due agenti. Se vuoi, potrai rimanere nell’ufficio dove sei ora e conservare la tua vecchia segretaria. Anzi, lo preferirei. Non desidero che sia data pubblicità al tuo cambiamento di lavoro.

Capito?”

“Sì, signore.”

“In ogni modo, entro la settimana dovrai partire per il Giappone.

Il Capo del Personale è stato incaricato di occuparsi personalmente della sistemazione della cosa. Nemmeno la mia segretaria è al corrente del progetto. Come vedi,” M agitò la mano, “non esiste neanche un dossier su questo caso. E ciò prova quanto sia importante.”

“Ma perché avete scelto me, signore?” Il cuore di Bond batteva all’impazzata. Questo era il cambiamento più straordinario della sua sorte che fosse mai accaduto! Dieci minuti prima, la sua carriera stava precipitando in un mucchio di rifiuti e la sua vita stava andando in rovina, e ora lo stavano collocando sulla cima! Che cosa stava succedendo?

“Per la semplice ragione che è un lavoro impossibile. No, non proprio così. Diciamo che è un lavoro che non ha probabilità di successo. In passato hai dimostrato di essere adatto per gli incarichi difficili. La sola differenza, in questo caso, è che non sarà un incarico nel quale dovrai usare la violenza,” M abbozzò un gelido sorriso, “sarà una questione di scaltrezza, e niente altro. Ma se riesci, cosa di cui dubito molto, tu avrai contribuito a raddoppiare la nostra conoscenza dei segreti dell’Unione Sovietica.”

“Potete darmi maggiori chiarimenti, signore?”

“Sarà necessario, dato che non c’è nulla di scritto. La Sezione J

ti fornirà particolari più dettagliati sul Servizio Segreto giapponese. Il Capo del Personale autorizzerà il colonnello Hamilton a rispondere liberamente a tutte le tue domande, ma tu non dovrai confidargli nulla degli scopi dell’incarico. Capito?”

“Sì, signore.”

“Bene. Hai qualche nozione di criptografia?”

“Molto poche. Ho sempre preferito farne a meno, nel caso in cui fossi caduto in mani nemiche non avrei avuto troppe tentazioni così.”

“Giusto. Invece, i giapponesi sono dei maestri. Possiedono la mentalità adatta per risolvere i problemi di lettere e di cifre. Dopo la guerra, sotto la guida della Cia, sono riusciti a costruire macchine decifratrici incredibili, molto migliori di quelle della Ibm o di altre simili. E durante lo scorso anno sono stati in grado di mettere la mano sulle più riservate informazioni sovietiche da Vladivostok e dalla Russia Orientale: informazioni diplomatiche, navali, delle forze aeree, tutto, insomma.”

“Straordinario, signore.”

“Straordinario, ma per la Cia.”

“Non le passano a noi? Credevo che con la Cia fossimo in ottimi rapporti sotto tutti gli aspetti.”

“Non nel Pacifico. Loro la considerano una riserva speciale. Al tempo di Allan Dulles ci passavano almeno riassunti su qualsiasi argomento che ci potesse interessare, ma da quando quel nuovo Mccone ha preso le redini in mano, non abbiamo avuto più nulla. Mccone è un uomo di valore, senza dubbio, e personalmente andiamo molto d’accordo, ma mi ha detto candidamente che non fa altro che ubbidire agli ordini del Consiglio Nazionale della Difesa. Ci temono. E non hanno del tutto torto. Anche noi li temiamo, del resto. Due dei loro più importanti criptografi sono scappati un paio di anni fa e devono aver rivelato un sacco di informazioni che a nostra volta avevamo passato agli americani. Il guaio della nostra cosiddetta democrazia è che la stampa si impadronisce di questi casi e li sbandiera ai quattro venti. La Pravda non stilla lacrime quando uno dei loro cerca rifugio da noi. Le Izvestia non reclamano una pubblica inchiesta, anche se suppongo che qualcuno del Kgb pagherà il fio. Ma per lo meno possono continuare a lavorare tranquillamente senza essere afflitti da membri in pensione del Soviet Supremo che vengono a ficcare il naso nei loro affari e che vogliono insegnar loro come si fa a far funzionare un Servizio Segreto.”

Bond sapeva che M aveva dato le dimissioni dopo il caso Prenderghast. La faccenda aveva coinvolto un Capo Zona dalle tendenze omosessuali che recentemente era stato condannato a trent’anni di galera con grande scalpore. Anche Bond aveva dovuto deporre in quel particolare caso, e sapeva che tra interpellanze alla Camera, processo al Tribunale Penale e sessioni davanti al Tribunale Farrer del Servizio Informazioni, l’attività del Quartier Generale era stata paralizzata per un mese intero. Inoltre, un Capo Sezione completamente innocente, ma che aveva considerato la sporca faccenda come un attentato alla sua probità, si era ammazzato. Per riportare M

in argomento, Bond chiese: “Come dovrei fare per mettermi in contatto con quei giapponesi, signore?”

M appoggiò le mani aperte sul piano della scrivania. Era il gesto rituale che indicava l’arrivo del punto cruciale e Bond trattenne il fiato. “A Tokyo c’è un uomo che si chiama Tigre Tanaka. Capo del loro Servizio Segreto. Non mi ricordo come lo chiamino i giapponesi. Una specie di tiritera impronunciabile. Quel Tanaka è un grand’uomo. Si è diplomato a Oxford e poi è tornato in Inghilterra, come spia dei giapponesi, prima della guerra. In seguito si è arruolato nella Kempeitai, la loro Gestapo in tempo di guerra, si è allenato come kamikaze, e sarebbe morto se non ci fosse stata la resa. Bene, Tanaka è l’uomo che controlla ciò che noi desideriamo, che io desidero, e che desiderano i nostri Capi. Devi andare da lui e devi fartelo dare. In che modo, non so proprio. E’ affar tuo. Ma puoi capire perché ho detto che non ci sono probabilità di successo.

Tanaka è una pedina preziosissima per la Cia ed è probabile che non ci veda molto di buon occhio.” Le labbra di M presero una piega amara. “In generale, quasi tutti la pensano come lui. Non so se a torto o a ragione. Non sono un uomo politico. Comunque, Tanaka non sa gran che sul nostro Servizio, a parte ciò che gli può aver riferito di poco lusinghiero la Cia. Dal 1950 non abbiamo una base in Giappone. Non avevamo nulla da fare. Tu lavorerai con gli australiani. Mi hanno detto che il loro Capo è un uomo di valore e la Sezione J me lo conferma. In conclusione, le cose stanno così. Se qualcuno può avere una probabilità di riuscita, questo qualcuno sei tu. Vuoi tentare, James?”

L’espressione di M si era fatta improvvisamente cordiale, il che non accadeva molto spesso. James Bond sentì di voler bene a quell’uomo che aveva governato il suo destino per tanto tempo e che lui conosceva troppo poco. Il suo intuito gli suggeriva che dietro a quell’incarico si celavano motivi che lui non poteva capire. Era forse un tentativo di salvezza? M gli stava forse dando l’ultima opportunità? Tuttavia, l’argomento gli sembrava abbastanza solido. Ma perché M non aveva scelto un agente che parlasse il giapponese? Bond non si era mai spinto oltre Hong Kong. Era anche vero che gli orientalisti avevano i loro particolari inconvenienti troppo legati alle cerimonie del tè, alle decorazioni floreali, allo Zen, e così di seguito. La cosa gli sembrava plausibile. “Sì, signore. Mi piacerebbe provare.”

M annuì bruscamente. “Bene.” Si curvò in avanti e schiacciò un bottone dell’intercom. “Capo del Personale? Che numero avete assegnato a 007? Bene. Scende subito da voi.” M si appoggiò alla spalliera della poltrona e socchiuse le labbra in uno dei suoi rari sorrisi. “Sei condannato alla tua vecchia cifra. Bene, 7777. Puoi andare a ricevere le istruzioni.”

Bond rispose: “Va bene, signore. E… humm… grazie.” Si alzò e uscì. Si avvicinò in fretta a Miss Moneypenny, si chinò e la baciò sulla guancia. Lei arrossì e portò una mano al viso. “Penny, sii un angelo e chiama Mary. Dille che pianti in asso tutti gli appuntamenti che può avere per questa sera perché la invito a cena da Scott. Dille che mangeremo il primo gallo cedrone dell’anno e berremo champagne rosé. Festeggiamo.”

“Che cosa?” gli occhi di Miss Moneypenny si spalancarono per la curiosità.

“Oh, non so. Il compleanno della Regina o qualcosa di simile.”

James Bond lasciò la stanza e si recò nell’ufficio del Capo del Personale.

Miss Moneypenny afferrò il ricevitore del telefono interno e trasmise il messaggio con voce emozionata. “Credo che stia di nuovo bene, Mary. Proprio come prima. Sa il cielo che cosa gli ha potuto dire M. oggi ha pranzato con Sir James Molony, ma non dirlo a Bond.

Ma può darsi che Sir James abbia a vedere con la cosa. Ora Bond è dal Capo del Personale. E Bill ha dato ordine di non disturbarlo. Forse c’è qualche lavoro in vista. Bill era così misterioso!…”

Bill Tanner, già colonnello Tanner del Genio, e grande amico di Bond nel Servizio, alzò il capo dalla scrivania coperta di scartoffie e sorrise cordialmente. “Siediti, James. E così, hai accettato? Ne ero certo, ma in ogni modo è una bella grana. Pensi di riuscirci?”

“Non ci penso affatto,” rispose allegramente Bond. “Quel Tanaka mi pare un osso duro e io non sono certo un abile diplomatico. Ma perché M ha scelto proprio me, Bill? Credevo di essere uscito dalle sue buone grazie dopo i guai che ho combinato negli ultimi due affari. Mi ero già abituato all’idea di un allevamento di polli. E adesso, da bravo, dimmi come stanno realmente le cose.”

Bill Tanner era preparato e rispose tranquillamente. “Storie, James. Hai passato un brutto momento, come può capitare a tutti. M ha pensato che ci vorresti tu per risolvere questo incarico, ecco tutto.

Sai bene che opinione ha di te. Ad ogni buon conto, questa volta non dovrai menare le mani, come al solito. Era ora che tu te ne andassi da quella dannata Sezione Doppio Zero. Non hai mai pensato che potevi essere promosso?”

“Assolutamente no,” rispose fermamente Bond. “Non appena tornerò da questo affare, chiederò di riottenere il mio vecchio numero. Ma adesso dimmi cosa devo fare. In che cosa consiste questo camuffamento australiano? Avrò qualcosa da offrire a quell’orientale in cambio dei suoi gioielli? Come potrò mandarvi la roba se riesco a mettervi le mani sopra? Deve essere un affare maledettamente complicato.”

“Puoi offrirgli tutta la produzione della Stazione H. se vuole può mandare uno dei suoi uomini a Hong Kong per tenersi in contatto con noi. Probabilmente è già bene organizzato per quanto riguarda la Cina, ma senza dubbio non possiede un collegamento così perfetto come quello che noi abbiamo a Macao, la “Rotta Azzurra”. Hamilton ti spiegherà ogni cosa. L’uomo col quale dovrai lavorare a Tokio è un australiano che si chiama Henderson , Richard Lovelace Henderson. Il nome è un po’ strano, ma la Sezione J e tutti gli anziani del Servizio giapponese assicurano che si tratta di un uomo di valore.

Avrai un passaporto australiano e faremo in modo che tu sia considerato come il suo nuovo aiutante in Giappone. Ciò ti consentirà di avere un rango diplomatico e di godere di una certa importanza, il che ha un grandissimo merito, in quel paese. Se riesci a mettere le mani su ciò che ci interessa, Henderson si incaricherà di farcelo avere via Melbourne. Gli manderemo del personale specializzato per facilitargli le cose. Prossima domanda.”

“Cosa penseranno della faccenda quelli della Cia? Dopo tutto, è uno sfacciato colpo basso.”

“La Cia non è il padrone del Giappone, e in ogni caso non la metteremo al corrente. Dipende tutto da quel Tanaka. Dovrà arrangiarsi lui per passare il macchinario all’Ambasciata australiana. Ma la cosa più importante è che Tanaka non vada a rivelare tutto il nostro complotto alla Cia. Se tu fallisci dovremo lasciare la responsabilità dell’accaduto agli australiani. Se la sono già assunta una volta, quando abbiamo tentato di aprirci una nostra strada nel Pacifico. Siamo in ottimi rapporti con il loro Servizio.

Gente molto in gamba. E, in ogni modo, anche la Cia ha i suoi torti.

Parecchie volte ha messo il naso nel nostro lavoro, in ogni parte del mondo, e spesso ci ha creato delle grane. Se la cosa non dovesse andare in porto, ci resta ancora qualcosa da dire a Mccone. Ma una parte del tuo lavoro consiste nel far sì che questo non accada.”

“Ho l’impressione che mi vogliate immischiare nell’alta politica.

Non è affatto la mia specialità, lo sai bene. Ma quella roba è veramente così importante come dice M?”

“Sicuro. Se riesci a metterci le mani sopra, il paese riconoscente ti comprerà quell’allevamento di polli di cui non fai che parlare.”

“E sia. Ora, se fai un fischio a Hamilton sono disposto a cominciare a imparare qualcosa sull’Oriente misterioso.”

“Kangei! Benvenuto a bordo,” disse la graziosa hostess delle Linee Aeree Giapponesi, vestita col kimono e l’obi, quando qualche settimana più tardi James Bond si adagiò in una comoda poltrona vicino all’oblò di un quadrigetto Douglas Dc 8. La giapponesina continuò a sussurrare un fiume di parole incomprensibili con le quali voleva probabilmente impartire istruzioni sull’uso dei salvagente e informare i passeggeri dell’ora di arrivo all’aeroporto di Orly. Le borse impermeabili “in caso di mal d’aria” erano decorate con delicati motivi di bambù intrecciati, e, secondo un libretto di informazioni turistiche deliziosamente rilegato, i ghirigori della reticella portabagagli rappresentavano “il tradizionale e beneaugurante motivo del guscio della tartaruga”. La hostess si inchinò e porse a Bond un grazioso ventaglio, un pannolino caldo in un cestello di vimini e un sontuoso menu dove una nota informava i passeggeri che un ampio assortimento di sigarette, di profumi e di perle poteva essere acquistato. Poi, l’aereo era partito con una spinta di venticinquemila chili per la prima delle quattro tappe che lo avrebbero portato a Tokio attraverso il Polo Nord.

Bond osservava un quadretto che riproduceva tre arance in un recipiente azzurro (no, dopo un’ora era giunto alla conclusione che dovevano essere nespole) appeso di fronte a lui, e, non appena l’aereo smise di salire verticalmente ordinò il primo brandy e ginger ale della serie che lo avrebbe sostenuto sulla Manica, su un lembo del Mare del Nord, sul Kattegat, sull’Oceano Artico, sul Mare di Beaufort, sul Mare di Bering e il Pacifico Settentrionale. Aveva deciso che qualsiasi cosa fosse accaduto nella sua impossibile missione, non avrebbe mosso un dito per salvare la vecchia pellaccia nell’altra parte del mondo. Quando ammirò il grosso orso bianco impagliato ad Anchorage, in Alaska, la raffinatezza del servizio di bordo lo portò alla convinzione che, a conti fatti, se avesse dovuto rifarsi una nuova pelle, in cambio di quella vecchia, non gli sarebbe importato nulla di scegliersela gialla.

4. Dikko nella Ginza

Il pugno gigantesco colpì violentemente la palma dell’altra mano producendo un rumore molto simile all’esplosione di una pistola calibro 45. Il largo viso dell’australiano si fece paonazzo e due grosse vene gli si gonfiarono sulle tempie. Cercò di controllarsi e quasi sottovoce cominciò una lunga filastrocca di oscenità. Alla fine allungò una mano sotto il tavolino, poi ci ripensò e la risollevò, tendendola verso il bicchiere di sakè e vuotandolo d’un fiato.

Bond disse tranquillamente: “Vacci piano, Dikko. Che cosa ti ha punto? E che cosa significano queste volgari espressioni da piantatore?”

Richard Lovelace Henderson, membro del Corpo Diplomatico Australiano di Sua Maestà, era seduto accanto a Bond in un bar affollato nei pressi della Ginza. Si guardò attorno con aria bellicosa e mormorò, torcendo la bocca in una smorfia amara e irosa:

“Stupido bastardo, hanno ascoltato tutti i nostri discorsi! Quel porco di Tanaka ha fatto mettere un microfono qui, sotto il nostro tavolo! Vedi quel filo sottile lungo la gamba? E vedi quel tipo vicino al bar? Sì, quel tipo con un braccio solo che sembra maledettamente rispettabile col suo vestito blu e con la cravatta nera. E’ uno degli uomini di Tigre. Ormai li riconosco a prima vista.

Mi hanno pedinato in lungo e in largo per dieci anni. Tigre li veste tutti come piccoli gentiluomini della Cia. Devi diffidare sempre dei giapponesi che bevono come gli occidentali e che vestono in quel modo. Sono tutti uomini di Tigre.” Poi brontolò tra sé e sé: “Ho una maledetta voglia di andare a dire una parolina a quel bastardo.”

Bond osservò: “Be’, se hanno registrato i nostri discorsi non c’è dubbio che domani mattina Tanaka si divertirà un mondo, a sentirli.”

“Oh, diavolo! Quel vecchio bastardo sa benissimo quello che io penso di lui,” disse Dikko Henderson con rassegnazione. “Vuol dire che ora ne avrà anche la registrazione. Così imparerà a non avvicinarsi troppo a me, e ai miei amici,” aggiunse, lanciando un’occhiata d’intesa a Bond. “Perché questa trovata l’ha escogitata in tuo onore. E non mi importa affatto se sentirà ciò che ora gli sto dicendo. Bludger! Stammi a sentire, Tigre! Questo è il più feroce insulto australiano. Può avere molti significati”, e a questo punto alzò la voce, “ma generalmente vuol dire pervertito, ruffiano, bugiardo, traditore e farabutto, senza alcuna remissione. E spero ardentemente che, quando domani farai colazione, le tue alghe bollite ti vadano di traverso quando sentirai che cosa penso di te.”

Bond rise. Il torrente di bestemmie e di oscenità era cominciato a fluire fin dal giorno prima, al suo arrivo all’aeroporto Haneda, “il campo delle ali”. Bond aveva perso più di un’ora per districare la sua unica valigia dal settore doganale ed era uscito furibondo nell’atrio centrale dove era stato travolto da una folla eccitata di giovani giapponesi che agitavano delle bandiere di carta con la scritta “Convenzione Internazionale dei Lavandai”. Bond si sentiva molto stanco dopo il volo e si era lasciato sfuggire una robusta imprecazione. Dietro le sue spalle una voce gli aveva fatto eco, aggiungendo subito un’altra serie di parolacce. “Ecco l’uomo che fa per me! E’ questo il giusto modo di salutare l’Oriente! Avrai bisogno di tutte queste parole e di altre ancora, quando avrai finito di lavorare qui.” Bond si era voltato. L’uomo massiccio e alto, con un vestito grigio spiegazzato, gli aveva teso una mano simile a un grosso prosciutto. “Lieto di conoscerti. Io sono Henderson. Eri l’unico bianco, su quell’aereo, e perciò suppongo che tu sia Bond.

Dammi la valigia. Ho la macchina fuori e quanto prima ci liberiamo da questo puzzolente manicomio tanto meglio sarà.”

Henderson aveva l’aspetto di un pugile di mezza età ritirato dal ring e dedito al bere. Sotto la stoffa leggera e aderente del suo vestito risaltavano i muscoli delle spalle e delle braccia e l’adipe dello stomaco. Aveva il viso rugoso e simpatico, occhi azzurri e freddi e il naso rotto. Sudava abbondantemente (Bond notò che anche a lui succedeva lo stesso inconveniente) e, mentre si apriva un varco tra la folla usando la valigia come un ariete, trasse dalla tasca dei pantaloni uno spiegazzato quadratino di tessuto di spugna e si asciugò il viso e il collo. La folla si scostava senza lamentarsi per lasciar avanzare il gigante, e Bond, seguendone la scia, era giunto a una Toyopet parcheggiata in sosta vietata. L’autista era sceso dalla macchina e si era inchinato. Henderson lo aveva sommerso di un torrente di istruzioni in giapponese e poi aveva raggiunto Bond sul sedile posteriore. “Prima di tutto ti porto all’albergo, l’Okura, il più nuovo di quelli occidentali. L’altro giorno hanno ucciso un turista americano al Royal Oriental e non vogliamo perderti così in fretta. Poi ci faremo una bella bevuta.”

Bond aveva indicato gli agglomerati di casette che formavano i sobborghi di Tokio e attraverso i quali la macchina filava a una velocità che per Bond poteva definirsi soltanto da suicida. “Non sembra la più bella città del mondo.” “Tokio è una maledettissima città,” aveva risposto Henderson: “O fa troppo freddo o fa troppo caldo, senza contare che c’è un terremoto quasi ogni giorno. Ma non preoccupartene. Avrai soltanto l’impressione di essere leggermente ubriaco. Però devi guardarti dai tifoni. Se ti trovi in strada, quando comincia a soffiare quel dannato vento, rifugiati subito nel bar più solido che trovi sotto mano e sbronzati. I più difficili da passare sono i primi dieci anni. Ma poi, quando cominci a orientarti, trovi qualcosa di positivo. Infernalmente caro, se vuoi vivere all’occidentale, ma io mi limito ai vicoli popolari e mi va benone.

Veramente spassoso. Bisogna però conoscere la lingua e sapere quando bisogna inchinarsi, e quando togliersi le scarpe, e tutte le altre usanze. Dovrai imparare in fretta e bene le loro abitudini se vuoi arrivare in porto con la gente che ti interessa. Sotto i colletti inamidati e i pantaloni a righe degli uffici ministeriali si nascondono ancora parecchi samurai. Io li piglio in giro ma loro ridono con me perché hanno finito per capire il mio modo di fare. Ma ciò non significa che io non faccia l’inchino quando so che si deve fare e quando voglio ottenere qualcosa. Ma vedrai che non è difficile.” Henderson aveva detto qualcosa all’autista che di tanto in tanto guardava nello specchietto retrovisore. Il giapponese si era messo a ridere e aveva risposto vivacemente. “L’avrei giurato,” aveva osservato Henderson. “Siamo pedinati. E’ una tipica mossa del vecchio Tigre. Gli ho detto che avresti alloggiato all’Okura, ma vuole rendersene personalmente conto. Se questa notte troverai qualcuno dei suoi uomini o, se sei fortunato, qualcuna delle sue donne sotto il tuo letto, non devi far altro che parlar loro gentilmente e quelli ti faranno un inchino e saetteranno via.” Tuttavia, dopo le abbondanti libagioni al bar Bambù dell’Okura, era seguita una notte solitaria e tranquilla. Il giorno dopo era stato occupato nella visita alla città e nella commissione di biglietti da visita che descrivevano Bond come Secondo Segretario del Dipartimento Culturale dell’Ambasciata australiana. “Sanno benissimo che si tratta del nostro Servizio Informazioni,” aveva spiegato Henderson, “e sanno anche che io ne sono il capo e che tu sei il mio assistente provvisorio, e quindi non abbiamo bisogno di fingere.” E quella sera erano andati a fare un’altra robusta bevuta al Melody’s, il bar preferito di Henderson, vicino alla Ginza, dove tutti chiamavano Henderson “Dikko” o “Dikko-san”, e dove i due amici erano stati fatti rispettosamente accomodare a un tavolino d’angolo che, a quanto pare, era perennemente riservato all’australiano.

E ora, Henderson allungò una mano sotto il tavolo e strappò i fili che lasciò penzoloni. “Bisogna che mi ricordi di dirne quattro a quel negro bastardo di Melody,” disse rabbiosamente. “Se penso a tutto il bene che ho fatto a quel puzzolente bastardo! Era il bar preferito della colonia inglese e di tutti i membri del Circolo della Stampa.

C’era anche un buon ristorante, ma ora l’hanno chiuso. Una sera il cuoco italiano ha inciampato nel gatto e ha rovesciato una pentola di zuppa, e perciò ha preso la bestiaccia e l’ha buttata nel forno.

Naturalmente la cosa è stata commentata in giro e tutti gli amici degli animali e gli altri ipocriti bigotti bastardi si sono messi d’accordo per boicottare Melody e per fargli togliere la licenza. Io sono riuscito a ungere le ruote là dove occorreva farlo e alla fine l’ho salvato, anche se la colonia e gli altri hanno disertato in massa e Melody è stato costretto a chiudere il ristorante. Sono rimasto l’unico cliente fedele della banda di allora e lui ora mi fa questo scherzo! Be’, penso che qualcuno abbia unto anche lui. A ogni modo, per quel che riguarda T’ T’, è la fine del nastro. Ma glielo dirò in faccia, sta’ sicuro. A quest’ora dovrebbe saperlo che né io né i miei amici abbiamo l’intenzione di assassinare l’Imperatore né di far saltare in aria la Dieta o cose del genere.” Dikko si guardò attorno come se invece volesse mettere in atto quei propositi. “Ora, James, a noi. Ti ho combinato un incontro con Tigre per domani mattina alle undici. Ti verrò a prendere e ti accompagnerò.

L‘“Ufficio dei Costumi Popolari Asiatici”. Non starò a descrivertelo.

Non ci riuscirei. Ora, io non so bene perché tu sei venuto qui. C’è stato un subisso di cablogrammi da Melbourne. Li ha dovuti tradurre personalmente il sottoscritto. Tante grazie! E il mio Ambasciatore, Jim Saunderson, una brava persona, dice che non vuole saperne nulla.

Pensa che sarebbe bene ignorarti. D’accordo? Non ti devi offendere; è un tipo saggio e vuol tenersi le mani pulite. E nemmeno io, del resto, voglio sapere nulla della missione che ti hanno affidato. In questo modo, il bambù in polvere nel caffè lo propineranno soltanto a te. Tuttavia, mi pare di capire che tu ti proponi di farti dare da Tigre qualcosa di molto importante all’insaputa della Cia, no? Sarà un affare molto difficile. Tigre è un diplomatico di carriera con una mentalità conseguente. Sebbene, in apparenza, sia un demokorasu al cento per cento, è un dritto , dritto tre volte. L’occupazione americana e l’influsso americano sembrano una solida base per una stretta collaborazione nippo-americana. Ma un giapponese rimane sempre un giapponese. Fanno lo stesso con tutte le altre grandi nazioni: Cina, Russia, Germania, Inghilterra. E’ il loro spirito che conta, non le loro espressioni bugiarde. I sorrisi e le smorfie non contano proprio nulla. E il tempo non ha nessuna importanza per loro.

Dieci anni sono l’ammiccare di una stella, per i grandi. Mi spiego? E

così, Tigre e i suoi superiori, che penso siano la Dieta e, in ultima istanza, l’Imperatore, considereranno la tua proposta sotto due aspetti principali. E’ qualcosa che è necessaria subito, oggi? Oppure è un investimento a lungo termine; qualcosa che potrà essere utile al paese tra dieci o venti anni? Se io fossi in te farei uso dell’argomento della lunga scadenza. Questa gente, gente come Tigre che è uno degli uomini più importanti del Giappone, non ragiona in termini di giorni o di mesi o di anni. Pensa in termini di secoli. E

ha ragione, se ci pensi un momento.”

Dikko Henderson tracciò un ampio gesto con la sinistra. Bond era convinto che Dikko stava avviandosi allegramente verso una potente sbronza. Aveva trovato chi era in grado di tenergli testa, il che non doveva essere molto facile, a Tokyo. I due amici avevano già superato l’ottava bottiglietta di sakè, ma Dikko si era già provvisto di una base di whisky Suntory al bar dell’Okura, mentre aspettava che Bond terminasse di spedire un innocuo telegramma a Melbourne. Il prefisso

“Informationwise” significava che il cablo era destinato a Mary Goodnight, per annunciarle il suo felice arrivo e per comunicarle il suo indirizzo. Ma Bond non aveva nulla in contrario che Dikko diventasse brillo. Avrebbe parlato di più, con più abbandono e alla fine con maggiore saggezza. E Bond voleva sapere molte cose.

“Che tipo è quel Tanaka? E’ tuo nemico o amico?”

“Entrambe le cose. Probabilmente più amico che nemico. Per lo meno, io la penso così. Io lo diverto, almeno. I suoi colleghi della Cia sono invece dei maledetti scocciatori. Con me si lascia andare.

Abbiamo diverse tendenze in comune e soprattutto condividiamo il gusto nei piaceri del samsara il vino e le donne. E’ un gran seduttore. Anch’io, del resto. Sono riuscito a impedirgli due volte di sposarsi. Il guaio di Tigre è che vorrebbe sempre arrivare al matrimonio. Se pensi che sta già pagando gli alimenti a tre ex mogli…

E così, Tigre mi è diventato debitore di un On. Vuol dire un debito di riconoscenza altrettanto importante, secondo le abitudini giapponesi, quanto la reputazione. Se tu hai un On, non sarai mai felice se non lo avrai ripagato onorevolmente, se puoi scusarmi l’orribile gioco di parole. E se un uomo ti regala un salmone, non puoi ripagarlo con un gamberetto. Devi farlo con un salmone ugualmente grosso o anche più grosso, in modo che sia lui a contrarre un On verso di te, e così siete a posto moralmente, socialmente e soprattutto spiritualmente. Orbene, l’On di Tigre nei miei riguardi è piuttosto grosso e difficile da ripagarsi. In parte si è sdebitato con delle informazioni interessanti per il Servizio.

Un’altra parte del suo On l’ha pagata accettando la tua presenza qui e concedendoti un appuntamento subito dopo il tuo arrivo. Se tu fossi una persona qualsiasi, ci avresti messo settimane e settimane. Ti avrebbe propinato delle abbondanti dosi di shikiri-naoshi vuol dire

 

“anticamera” e alla fine ti avrebbe liquidato con un inchino e un mezzo sorriso. I lottatori di sumo fanno un grande uso di queste lunghissime attese sul ring, per umiliare gli avversari di fronte al pubblico. Capisci? E così, tu cominci con questo vantaggio. Tanaka è predisposto a fare quello che gli chiedi perché in questo modo il suo On verso di me verrebbe totalmente cancellato e forse io stesso sarei costretto ad assumermi un bel po’ di On nei suoi confronti. Ma la cosa non è così semplice. Tutti i giapponesi hanno un costante On verso i loro superiori, verso l’Imperatore, verso gli antenati e verso gli dei. E tale On può essere ripagato soltanto comportandosi bene, ed eseguendo “le cose giuste”. Non è facile, dirai. Perché, come si fa a sapere qual è la cosa giusta agli occhi dei superiori?

Be’, i giapponesi se la cavano facendo ciò che l’immediato superiore pensa sia giusto fare e così, di grado in grado, si arriva all’Imperatore che deve vedersela con gli antenati e con gli dei. Ma, giunti a questo punto, non ci sono tante difficoltà, perché l’Imperatore incorpora in se stesso tutte le gerarchie che gli sono superiori e così può tranquillamente continuare ad occuparsi in pace del suo hobby preferito che è quello di dissezionare pesci. Capito?

Non è così misterioso come sembra a prima vista. Pressappoco succede la stessa cosa nelle grandi ditte come la Ici o la Shell, o nei nostri Servizi, con la differenza che in questi casi la gerarchia ha un limite nel Consiglio di Amministrazione o nel Presidente. E’ più facile così. Non c’è bisogno di compromettere l’Onnipotente o l’anima del bisnonno per decidere di ridurre il prezzo dell’aspirina di cinque centesimi il tubetto.”

“Non mi sembra molto demokorasu.”

“Naturalmente non lo è, pezzo di bastardo. Per l’amor del cielo, mettiti in testa che i giapponesi sono una razza umana diversa da tutte le altre. Hanno cominciato a essere un popolo civile, nell’abietto senso che diamo a questa parola in Occidente, cinquanta o al massimo cento anni fa. Gratta un russo e ci troverai un tartaro.

Gratta un giapponese e ci troverai un samurai. La maggior parte delle storie sui samurai sono delle leggende, come le balle del selvaggio West da dove sono nati gli americani, o i vostri guerrieri in armatura lucente della Corte di Re Artù. Per il solo fatto che certa gente gioca a baseball o porta la bombetta, certa gente non può dirsi virgolette civilizzata chiuse le virgolette. Per dimostrarti che sono un po’ brillo non ubriaco, intendiamoci aggiungerò che l’Onu scatenerà l’ira di Dio quando virgolette libererà chiuse le virgolette i popoli coloniali. Diamo loro mille anni di tempo, e allora sì. Ma dieci sono troppo pochi. Non faremmo altro che sostituire le loro cerbottane con altrettante mitragliatrici. Vedrai quando cominceranno a pretendere di avere anche l’energia nucleare.

Perché naturalmente vorranno virgolette la parità chiuse le virgolette con le sporche potenze imperialistiche. Scommetto che ciò accadrà prima di dieci anni, amico. E quando succederà, mi scaverò un bel fosso profondo e mi ci siederò dentro.”

Bond si mise a ridere. “Anche questo non mi sembra molto demokorasu.”

“Me ne frego della tua demokorasu. Io propendo per un governo aristocratico.” Dikko ingoiò la sua nona bottiglietta di sakè. “E per un voto proporzionato a seconda delle categorie individuali. Ti concedo un decimo di voto del mio governo, se sei d’accordo con me!”

“Per il cielo, Dikko! Come mai siamo finiti nella politica? Andiamo a mangiare qualcosa. Credo che vi sia un certo buon senso aborigeno in ciò che dici…”

“Non parlarmi di aborigeni! Che diavolo credi di saperne sugli aborigeni? Lo sai che nel mio paese c’è un movimento in atto macché in atto, addirittura al galoppo per concedere il diritto di voto agli aborigeni? Non permetterti più di parlarmi con quel tono da liberale se non vuoi che ti faccia una cravatta a nappine coi tuoi testicoli.”

Dikko Henderson si alzò in piedi e lanciò una bordata di parole giapponesi all’uomo che stava dietro al banco del bar. “Prima di condannarti irrimediabilmente ti porto a mangiare le anguille, in un posto dove è possibile trovare una onesta bottiglia di liquore. Poi andremo nella “Casa delle totali delizie”.”

“Dikko, non sei altro che un miserabile canguro puzzolente, ma io ho un debole per le anguille, a meno che non siano in gelatina. Io pagherò la cena e il trattenimento che seguirà. Tu ti incaricherai del vino di riso e degli altri beveraggi. Stai calmo. Il tipo del bar ci sta squadrando.”

“Sono venuto qui per far squadrare Mr’ Richard Lovelace Henderson, e non per farlo seppellire.” Dikko Henderson trasse di tasca un mucchio di banconote da mille yen e cominciò a contarle per il cameriere. “Non ancora, per lo meno.” Si avviò maestosamente verso il bancone del bar e apostrofò il grosso negro dalla giacca amaranto che fungeva da barman. “Melody, vergognati!” Poi si aprì il passo con alterigia e uscì dal locale seguito da Bond.

5. Magic 44

Dikko Henderson andò a prendere Bond alle dieci della mattina dopo.

Il suo aspetto era alquanto malandato e i duri occhi azzurri erano iniettati di sangue. Dopo aver salutato Bond si diresse subito al bar dell’albergo e ordinò un doppio brandy con ginger ale. Bond disse gentilmente: “Non avresti dovuto mescolare tutto quel sakè col Suntory.““L’hai detto, amico. Mi sono presa una bella futsukayoi, una onorevole sbronza. Ho la bocca come la gruccia di un avvoltoio. Non appena sono arrivato a casa, dopo quel trattenimento dalle puttane, ho dato di stomaco. Ma riguardo al Suntory ti sbagli. E’ un intruglio onesto. Prova il meno caro, l’Etichetta Bianca, a circa quindici scellini la bottiglia. Ci sono due marche più rinomate, ma la meno cara è quella migliore. Ho visitato la distilleria, qualche tempo fa, e ho conosciuto uno della famiglia. Mi ha confidato una cosa interessante, sul whisky. Mi ha detto che si può fare del buon whisky solo dove si fanno delle buone fotografie. Hai mai sentito dire una cosa simile? Ha detto che aveva qualcosa a che fare con l’effetto della luce sull’alcool. Ma, dimmi un po’, ho detto molte sciocchezze l’altra notte? O ne hai dette tu? Mi sembra di ricordare che uno di noi due ne ha dette.”

“Mi hai solo aspramente rimproverato per le condizioni del mondo.

Ma in tono amichevole, e quindi non ti porto rancore.”

“Oh, Cristo!” Dikko Henderson si passò mestamente una mano tra i capelli brizzolati. “Non ho pestato nessuno?”

“Solo una ragazza. Le hai dato una sculacciata così forte da farla cadere.”

“Oh, solo questo?” Dikko emise un sospiro di sollievo. “E’ stata una carezza amorosa. Del resto, a che cosa serve il deretano di una ragazza? Da quel che mi pare di ricordare, è stato un gran successo di ilarità. No? E tu, come te la sei spassata con la tua? Mi sembrava molto contenta.”

“Lo era.”

“E’ stata una bella festa.” Trangugiò il resto del liquore e si alzò. “Su, compare. Andiamo. Non è il caso di fare aspettare Tigre.

Una volta mi è successo e lui mi ha tenuto il broncio per una settimana.”

Era una tipica giornata estiva di Tokyo, afosa, appiccicaticcia e grigia, con l’atmosfera satura di una finissima polvere proveniente dai lavori di demolizione e di costruzione. Dopo mezz’ora di strada verso Yokohama si fermarono davanti a un tetro edificio grigio sul quale spiccava a grandi lettere la scritta “Ufficio dei Costumi Popolari Asiatici”. C’era un intenso traffico di giapponesi che entravano e uscivano da un gran portone barocco, ma nessuno si interessò a Dikko e a Bond e nessuno chiese loro che cosa volessero quando entrarono nell’atrio dell’edificio. Henderson aprì una porta sulla quale era scritto “Sezione di Coordinamento” e, sempre seguito da Bond, percorse un lungo corridoio sul quale si aprivano numerose stanze popolate da giovani dall’aspetto intellettuale, intenti a scartabellare volumi. Le pareti erano coperte da grandi carte geografiche costellate di spilli colorati e da interminabili scaffali di libri. Una porta con la scritta “Rapporti Internazionali” dava su un altro corridoio fiancheggiato questa volta da porte chiuse sulle quali erano segnati in inglese e in giapponese i nomi degli occupanti. Dopo una svolta si trovarono nell‘“Ufficio Microfilm” e da lì passarono nella “Documentazione”, un’ampia sala di lettura molto affollata. Qui, per la prima volta, i due vennero notati da un uomo seduto a un tavolo vicino all’ingresso. L’uomo si alzò e si inchinò profondamente, senza dire una parola. Mentre continuavano a camminare, Dikko spiegò sottovoce: “A questo punto cessa il camuffamento. La gente che è rimasta alle nostre spalle era veramente intenta a compiere ricerche sugli usi e costumi orientali. Ma gli uomini che incontreremo d’ora in poi fanno già parte del personale esterno di Tigre, incaricato dei lavori di ufficio. E’ a cominciare da questo punto che saremmo gentilmente respinti, se ci fossimo arrivati per caso.” Dietro un’ultima sfilata di scaffali si apriva una porticina dove un cartello diceva: “Progetto di estensione del Reparto di Documentazione. Pericolo! Lavori in corso”. Da dietro l’uscio si udiva un frastuono di macchine scavatrici, di seghe circolari e di attrezzi simili. Oltrepassata la porta, i due si trovarono in una stanza completamente vuota e col pavimento di legno.

Non vi era alcun indizio né di macchine né di lavori di costruzione.

Dikko rise, accorgendosi dell’espressione stupita di Bond, e indicò una scatola di metallo applicata alla porta da dove erano entrati.

“Un nastro registrato,” spiegò. “E’ una bella trovata, non ti sembra?

E questo,” indicò il pavimento, “è ciò che i giapponesi chiamano “il pavimento usignolo”. Una reliquia del passato, quando la gente non voleva essere colta di sorpresa dagli intrusi. Anche qui serve per lo stesso scopo. Provati a cercare di camminare senza farti sentire.” I due fecero qualche passo e immediatamente le lamine di legno abilmente incastrate cominciarono a scricchiolare rumorosamente. Nel legno di un uscio si aprì uno spioncino e un occhio guardò fuori; subito l’uscio si spalancò rivelando una stanza piccolissima e priva di altre uscite. Un inserviente si inchinò e scambiò alcune frasi con Dikko. Il nome di Tanaka-san venne più volte ripetuto. Alla fine l’inserviente si inchinò di nuovo e Dikko si rivolse a Bond. “Adesso devi arrangiarti. Metticela tutta, campione! Tigre ti farà riportare all’albergo. Arrivederci.”

Bond gli raccomandò: “Di’ alla mamma che sono morto da eroe”, ed entrò nella stanzetta mentre la porta si chiudeva alle sue spalle.

Sulla scrivania dell’inserviente c’era una serie di bottoni; il giapponese ne premette uno. Si udì un lieve fruscio e Bond ebbe l’impressione di discendere. La stanzetta era dunque un ascensore.

Che razza di trucchi aveva escogitato Tigre per proteggersi! Quale sarebbe stata la prossima sorpresa? La discesa continuò per qualche tempo. Quando cessò, l’inserviente aprì la porta e Bond rimase di stucco. Si trovava sulla piattaforma di una stazione della metropolitana. Proprio così: c’erano le luci rosse e verdi agli estremi dove si aprivano le gallerie, c’erano le convenzionali piastrelle bianche alle pareti e sul soffitto a volta e, dietro di lui, c’era perfino un’edicola vuota. Un giapponese gli si avvicinò e gli disse in perfetto inglese: “Vi prego di seguirmi, Comandante”, e si diresse verso un andito contrassegnato dalla scritta: “Uscita”. Il grande atrio, che un giorno avrebbe condotto alle scale mobili, era attualmente occupato da uffici provvisori attraverso i quali passava un ampio corridoio. Bond fu introdotto in una stanza che fungeva da sala d’aspetto. Un impiegato lasciò la macchina per scrivere, si alzò, fece un inchino e entrò nella stanza adiacente. Riapparve quasi subito e, tenendo l’uscio aperto, disse: “Vi prego di accomodarvi, Comandante.”

Bond avanzò e la porta si richiuse silenziosamente alle sue spalle.

Il tipo massiccio che Dikko gli aveva descritto gli venne incontro e gli tese una mano muscolosa e asciutta. “Mio caro Comandante. Buon giorno. E’ un gran piacere fare la vostra conoscenza.” Il sorriso dei denti d’oro sottolineava il benvenuto. Gli occhi brillavano dietro le folte ciglia scure, quasi femminee. “Accomodatevi. Che cosa ve ne pare del mio ufficio? E’ un po’ diverso da quello del vostro Capo, vero? Ma la nuova metropolitana non sarà pronta prima di dieci anni e a Tokyo i locali per ufficio scarseggiano. Perciò ho pensato di installarmi in questa stazione abbandonata. E’ un posto quieto, isolato e anche fresco. Mi spiacerà quando i treni cominceranno a funzionare e io dovrò sloggiare.”

Bond si accomodò sulla sedia che stava di fronte alla scrivania di Tigre. “E’ un’idea geniale. E mi sono piaciuti molto i Costumi Popolari che sono sulla nostra testa. C’è veramente tanta gente che si interessa di Costumi Popolari?”

Tigre Tanaka scosse la testa. “Che cosa importa? Gli stampati si regalano. Non ho mai chiesto al direttore chi li legge. Gli americani, credo, o i tedeschi. Forse anche qualche svizzero. C’è sempre qualche persona seria che si interessa di queste cose. E’

costoso beninteso. Ma per fortuna la spesa non è a carico del Ministero degli Affari Interni, dal quale io dipendo. Quaggiù dobbiamo badare al centesimo. Suppongo che succeda lo stesso anche coi vostri stanziamenti.”

Bond era convinto che quell’uomo doveva essere perfettamente al corrente della situazione finanziaria del Servizio Segreto. Disse:

“Meno di dieci milioni di sterline all’anno non servono a gran che, quando c’è da star dietro a tutto il mondo.”

I denti d’oro luccicarono sotto la luce fluorescente. “Per lo meno, da quando dieci anni fa avete chiuso i vostri uffici in questa parte del mondo, avete risparmiato qualcosa.”

“Sì, ci siamo messi d’accordo con la Cia perché ci rappresenti.

Sono molto efficienti e pieni di buona volontà.”

“Proprio come ai bei tempi di Dulles?”

Vecchia volpe! “Pressappoco. Al giorno d’oggi tra gli americani prevale la tendenza di considerare il Pacifico come una specie di giardino privato.”

 

“Del quale voi vorreste prendere in prestito la falciatrice…

Senza farvene accorgere.” Il sorriso di Tigre era sempre più felino.

Bond non poté far a meno di ridere. Quel diavolo di un uomo doveva aver già tratto le sue conclusioni. Alla risata di Bond, Tigre aveva risposto con un’altra risata più cauta. Bond continuò: “C’è stato uno dei nostri, un certo Capitano Cook, e anche altri, che hanno scoperto diverse cosette in quel giardino. L’Australia e la Nuova Zelanda sono due grandi paesi. Dovete ammettere che il nostro interesse nei confronti di quella metà del mondo è ampiamente giustificato.”

“Mio caro Comandante. Per vostra fortuna, invece di colpire l’Australia abbiamo attaccato Pearl Harbour. Non potete certamente dubitare che se avessimo pensato diversamente avremmo conquistato sia quel paese che la Nuova Zelanda, due grandi zone insufficientemente sviluppate. Voi non sareste certamente stati in grado di difenderle e gli americani ci avrebbero lasciato fare. Se la nostra politica fosse stata diversa, ora noi possederemmo la metà del Commonwealth Britannico. Personalmente, io non ho mai capito la mossa strategica di Pearl Harbour. Volevamo forse conquistare l’America? Le linee di rifornimento erano troppo lunghe. E invece, l’Australia e la Nuova Zelanda erano a portata di mano.” Spinse verso Bond una grossa scatola di sigarette. “Fumate? Queste sono le Shinsei. Sono sopportabili.”

James Bond aveva quasi terminato la sua provvista di Morland speciali e ben presto sarebbe stato costretto a ricorrere al tabacco locale. E inoltre, doveva riordinare i suoi pensieri. Quella intervista aveva l’aspetto di una riunione ad alto livello tra il Regno Unito e il Giappone, e lui si sentiva come un pesce fuor d’acqua. Prese una sigaretta, l’accese e aspirò un paio di boccate.

Bruciava rapidamente e aveva un vago sapore di concia americana, ma era buona e forte. Bond emise una nuvola di fumo e sorrise: “Mr’

Tanaka, questi sono argomenti per studiosi di storia politica. Io mi interesso di argomenti più concreti e di affari che riguardano il futuro più che il passato.”

“Vi capisco benissimo, Comandante.” Tigre Tanaka era evidentemente deluso del fatto che Bond avesse evitato il suo gioco delle indeterminatezze. “Ma noi diciamo: “Parla dell’anno prossimo e il diavolo si metterà a ridere”. Il futuro è imperscrutabile. Ma ditemi, che impressione vi ha fatto il Giappone? Vi divertite?”

“Penso che chiunque si diverta in compagnia di Dikko Henderson.”

 

“Sì, è un uomo che vive come se dovesse morire il giorno dopo. E’

questo il modo migliore di vivere. E’ un buon amico e la sua compagnia mi piace. Abbiamo molti gusti in comune.”

“Vi è molto affezionato. Io non lo conosco a fondo ma credo che si senta molto solo. E’ una combinazione disgraziata, quella della intelligenza e della solitudine. Non farebbe forse meglio a sposare una ragazza giapponese e a sistemarsi? Non potreste trovargliene una voi?” Bond era contento che la conversazione avesse preso una piega più personale. Aveva l’impressione di trovarsi sulla via giusta. Era molto meglio di una conversazione di alta politica. Tuttavia, si avvicinava il momento in cui egli avrebbe dovuto affrontare l’argomento decisivo, e la prospettiva non lo allettava molto.

Come se lo avesse capito, Tigre disse: “Ho fatto conoscere al nostro amico molte ragazze giapponesi, ma il risultato è stato sempre negativo, o per lo meno transitorio. Ma ditemi, Comandante, che cosa posso fare per voi? Si tratta della falciatrice?”

Bond sorrise. “Già. Il nome che il fabbricante ha dato a quel particolare strumento è Magic 44.”

“Ah, sì. E’ uno strumento di grande utilità. Sono convinto che potrebbe essere molto utile al vostro paese. Proprio stamane mi è capitato tra le mani qualcosa che prova quanto siano utili le sue capacità.” Tigre Tanaka aprì un cassetto della scrivania e ne tolse una cartella sulla quale era stampata, in stampatello e in lettere giapponesi, la parola Gokuhi. Bond pensò che volesse significare

“Massimo Segreto”. Tanaka glielo confermò. La cartella conteneva due fogli di carta gialla e Bond si accorse che uno era coperto di ideogrammi giapponesi e l’altro di una quarantina di righe scritte a macchina. Tanaka gli tese il secondo foglio e disse: “Posso chiedervi di non rivelare a nessuno ciò che state per leggere?”

“Se voi insistete, Mr’ Tanaka.”

“Ne sono costretto, Comandante.”

“Va bene.” Bond prese il foglio. Il testo era scritto in inglese e diceva:

“A tutte le Stazioni di grado 2 e superiori. Da decifrarsi personalmente da parte del destinatario e susseguentemente da distruggersi. Non appena avvenuta la distruzione confermare a mezzo codice “Saturno”. Testo: Ad amplificazione del discorso del numero uno al Soviet Supremo il primo settembre questi conferma che siamo in possesso della bomba da duecento megatoni e che verrà eseguito un esperimento il 20 settembre a grande altezza nell’area di Novaya Zemlya. Si prevede una notevole radiazione e una protesta pubblica nell’Artico, nel Pacifico Settentrionale e nelle zone dell’Alaska. La protesta può essere controbattuta e sarà controbattuta da Mosca con allusioni ai recenti esperimenti americani e alle ripetute richieste del numero uno per la cessazione di tutti gli esperimenti nucleari che sono state successivamente respinte. Informiamo che la caduta di una bomba simile su Londra a mezzo Icbm distruggerebbe qualsiasi forma di vita a sud di una linea tracciata fra Newcastle e Carlisle.

Ne consegue che un secondo missile fatto cadere nelle vicinanze di Aberdeen provocherebbe inevitabilmente la totale distruzione dell’Inghilterra e dell’Irlanda. Questo argomento sarà usato tra poco dal numero uno nei suoi contatti diplomatici che tendono a ottenere la soppressione di tutte le basi americane in Inghilterra e il suo disarmo nucleare. Ciò metterà a dura prova e probabilmente distruggerà l’alleanza angloamericana poiché si può presumere che l’America non vorrà rischiare una guerra nucleare con pericolo per il suo territorio solo per salvare un alleato di scarsa utilità un alleato che Washington considera attualmente alla stessa stregua del Belgio o dell’Italia. Se questi passi diplomatici che devono naturalmente essere considerati come comportanti certi rischi dovessero aver successo ne consegue che passi simili sarebbero fatti anche in Europa e più avanti anche nell’area del Pacifico scegliendo paesi individuali per campagna terroristica e demoralizzante. I frutti finali di questo vasto piano se positivi garantiranno la sicurezza dell’Urss per il futuro prevedibile e alla fine condurrebbero alla pacifica coesistenza con l’America. Gli scopi pacifici dell’Urss saranno continuamente sottolineati dal numero uno e da tutte le agenzie ministeriali. Questa è la linea di condotta che anche la vostra Stazione deve seguire in qualsiasi momento. Per istruzione tutti i cittadini sovietici che lavorano in Inghilterra saranno ritirati da quel paese una settimana prima dell’inizio dei passi iniziali. Non saranno date spiegazioni ma sarà provocato un considerevole aumento della tensione. Lo stesso procedimento che potrebbe essere considerato come una prova d’assaggio nel paese bersaglio sarà seguito nei paesi successivi più sopra riferiti. Per il momento non dovrete prendere speciali precauzioni nella vostra Stazione salvo prepararvi in assoluto segreto all’eventualità che la vostra Stazione possa trovarsi implicata in data futura.

 

L’evacuazione del vostro personale e la distruzione degli archivi sarà obbligatoria quando riceverete la parola d’ordine “Fulmine”

diretta personalmente a voi sul circuito 44. Fine del testo. Firmato Centrale.”

James Bond lasciò cadere il documento sulla scrivania come se temesse di venirne contaminato. Emise un sibilo e poi allungò una mano, prese una Shinsei, l’accese e aspirò profondamente. Alzò gli occhi verso Tanaka che lo stava osservando con cortese interesse.

“Suppongo che il numero uno sia Kruscev, non è così?”

“Esatto, e le stazioni di grado due e superiori sono i consolati e le ambasciate. E’ un documento interessante, non vi sembra?”

“E’ un errore non comunicarci questo materiale. Abbiamo un trattato di amicizia e di commercio, con voi. Non pensate che nascondendo un’informazione così importante commettete un’azione disonorevole?”

“La parola onore è molto importante, in Giappone. Non sarebbe ancor più disonorevole mancare di parola ai nostri buoni amici americani?

Essi hanno ampiamente promesso a me e al mio governo che qualsiasi informazione di importanza vitale per i nostri comuni amici ed alleati sarà comunicata loro in modo da non tradire la provenienza.

Non ho prove per poter credere che essi non abbiano mantenuto la promessa.”

“Voi sapete meglio di me, Mr’ Tanaka, che la manipolazione e la trascrizione per celare la provenienza, riduce questo tipo di materiale a un grado di importanza non più elevato di quei rapporti segreti provenienti da innumerevoli fonti “degne di fede”. La natura di questa fonte particolare e il fatto che nel messaggio si possono leggere le parole del nemico rappresenta almeno il cinquanta per cento del valore dell’informazione. Senza dubbio, Washington trasmetterà a Londra una versione ridotta e pasticciata di questa comunicazione. Io spero che lo abbiano già fatto, comunque sia. Ma capite che può essere loro interesse non trasmettere l’avviso della terribile minaccia che pende sull’Inghilterra? Al tempo stesso, è interesse dell’Inghilterra non perdere nemmeno un’ora per escogitare un piano di difesa contro questo progetto. Un primo passo, che salta subito in mente, consisterebbe nel prepararsi a internare tutti i cittadini sovietici che si trovano in Inghilterra, al primo segnale delle misure di evacuazione menzionate nel messaggio.”

“Capisco il vostro punto di vista, Comandante. Tuttavia, in questo caso c’è una possibilità che l’informazione possa arrivare al vostro governo.” Il viso di Tanaka assunse un’espressione furba.

Bond si curvò ansiosamente sulla scrivania. “Ma io ho dato la mia parola d’onore!”

L’espressione di Tanaka cambiò improvvisamente, e il suo viso si fece torvo e malinconico. “Comandante, in Inghilterra ho passato dei giorni felici. I vostri concittadini sono stati molto gentili con me e io non li ho ripagati con la stessa moneta. (Ecco l’On, pensò Bond.) A mia discolpa adduco la giovinezza e l’entusiasmo per la guerra che io pensavo dovesse dare molta gloria al mio paese. Mi sono sbagliato e siamo stati sconfitti. L’espiazione per quel disonore è una questione importante, una questione che compete ai giovani di questo paese. Io non sono un uomo politico e non so che forma assumerà l’espiazione. Per il momento stiamo passando attraverso il solito periodo di transizione dei vinti. Ma io, Tanaka, ho i miei conti privati da sistemare. Ho un grande debito verso il vostro paese. Oggi vi ho rivelato un segreto di stato e ne sono stato incoraggiato dall’amicizia che porto a Dikko. Sono stato altresì incoraggiato dal vostro aspetto serio e dalla franchezza con la quale mi avete esposto l’incarico che vi è stato affidato. Sono pienamente consapevole dell’importanza che questo documento può avere per l’Inghilterra. Ve ne ricordate il testo?”

“Parola per parola, credo.”

“E avete promesso di non comunicarlo a chicchessia.”

“Sì.”

Tigre Tanaka si alzò e tese la mano a Bond. “Per il momento, arrivederci. Spero di avere l’occasione di vedervi ancora.” Il forte viso di Tigre tornò a illuminarsi e ora non c’era nessuna finzione nell’ampio sorriso dorato. “L’onore è un modo di comportarsi, Comandante. Il bambù si deve piegare alla brezza. Ma anche il cedro deve piegarsi al tifone. Ciò significa che alle volte il dovere impegna più di qualsiasi parola. Una macchina vi attende per riportarvi in albergo. Vi prego di porgere a Dikko i miei più rispettosi saluti e di dirgli che mi deve mille yen per guasti ad apparecchiature di proprietà dello stato.”

James Bond strinse la mano robusta e disse di tutto cuore: “Grazie, Mr’ Tanaka.” Uscendo dalla piccola stanza segreta Bond non aveva che una preoccupazione: con quanta rapidità Dikko avrebbe potuto mettersi in contatto con Melbourne? E quanto tempo ci sarebbe voluto da Melbourne a Londra?

 

6. Tigre, Tigre!

Ormai era passato un mese e Mr’ Tanaka era diventato “Tigre”, e il Comandante Bond “Bondo-san”. Tigre aveva spiegato il perché di quell’appellativo. “Per i giapponesi, è difficile pronunciare il nome James, e poi ci sembrerebbe di non portarvi abbastanza rispetto.

Bond-san assomiglia troppo alla parola giapponese bonsan, che significa prete. D’altra parte, la consonante dura al termine del vostro cognome “Bond”, è altrettanto difficile da pronunciare e quindi, in questi casi, usiamo aggiungere una “o” alla fine del nome.

E così, voi siete Bondo-san. Vi va?”

“Spero soltanto che Bondo non significhi una parolaccia, in giapponese.”

“No, non ha nessun significato. E’ una parola assolutamente rispettabile.”

Le settimane erano passate senza significativi progressi per la missione di Bond; l’unico fatto positivo era costituito dall’apparente tenace amicizia che si era andata formando tra Bond, Tigre e Dikko. Fuori dalle ore di lavoro i tre erano diventati praticamente inseparabili, ma Bond aveva l’impressione di venire costantemente, ma discretamente, valutato nel corso delle gite nei dintorni e durante le frequenti orge notturne. “Penso che tu stia facendo dei progressi, campione. Tigre considererebbe altamente disonorevole lasciarti nutrire delle illusioni per poi liquidarti con un no secco. Si sta preparando qualcosa, dietro le scene, ma non ho la più pallida idea di che cosa si tratta. Forse i superiori di Tigre fanno delle storie, ma lui è dalla tua parte. E Tigre gode di un bel peso sulla bilancia. D’altra parte quell’On che pensa di avere nei riguardi dell’Inghilterra è un gran fattore a tuo vantaggio. La rivelazione che ti ha fatto nel corso del vostro primo incontro è uno straordinario regalo, come si dice qui. Ma sta’ attento! Non accumulare troppo On nei riguardi di Tigre. E quando sarà arrivato il momento di scendere a patti, io spero che tu abbia un regalo veramente importante da offrirgli, in modo che l’On di entrambe le parti sia più o meno equilibrato. Non un gamberetto in cambio di un salmone! Capito?”

“Non so che cosa dirti,” disse dubbioso Bond. L’impressione del primo assaggio che Tigre aveva concesso a Bond era stata formidabile.

L’esperimento della bomba da duecento megatoni aveva effettivamente avuto luogo ed era stato accolto dal mondo con le proteste che Mosca aveva previsto. Ma la reazione dell’Occidente era stata immediata.

Con la scusa di proteggere il personale sovietico di stanza in Inghilterra dalle manifestazioni dell’animosità pubblica, si era limitato ogni suo movimento nel raggio di venti miglia dalle rispettive residenze e, “allo scopo di protezione”, la polizia pullulava attorno all’Ambasciata sovietica, ai vari consolati e ai diversi uffici commerciali. Naturalmente c’erano state rappresaglie nei riguardi dei diplomatici britannici e dei giornalisti in Russia, ma c’era da aspettarselo. Poi, il Presidente Kennedy aveva pronunciato il discorso più violento della sua carriera e aveva preannunciato rappresaglie indiscriminate da parte degli Stati Uniti nel caso in cui anche una sola bomba atomica fosse stata lanciata dall’Unione Sovietica in qualsiasi parte del mondo. Queste tonanti dichiarazioni, accolte con sgomento dall’uomo della strada americano, ebbero da parte di Mosca la debole replica che i russi avrebbero fatto altrettanto se una bomba occidentale fosse caduta sul territorio dell’Urss o di uno dei suoi satelliti. Qualche giorno dopo, Bond era stato convocato un’altra volta nell’ufficio sotterraneo di Tigre. “Naturalmente non lo andrete a dire in giro,”

gli aveva detto Tigre sorridendo diabolicamente, “ma l’Autorità Centrale ha rimandato sine die ogni azione concernente quell’affare di cui siete a conoscenza.”

“Vi ringrazio per questa informazione confidenziale,” aveva risposto Bond. “Spero che vi renderete conto che la vostra generosità di tre settimane fa ha enormemente alleviato la tensione internazionale, con particolare riguardo al mio paese. La mia patria vi sarebbe immensamente grata se venisse a conoscenza della vostra generosità nei miei riguardi. Posso sperare in altre benevolenze da parte vostra?” Bond aveva imparato ad usare le circonlocuzioni in uso presso gli orientali, benché non fosse ancora riuscito a raggiungere la raffinatezza dei discorsi di Dikko con Tigre, che comportavano almeno una imprecazione in ogni frase e sembravano divertire enormemente il giapponese.

 

“Bondo-san, è bene che sappiate che nell’eventualità più che improbabile che vi facilitassimo l’affitto dello strumento che vi interessa, vi richiederemo un prezzo assai elevato. Che cosa può offrirci il vostro paese in cambio del pieno uso del Magic 44?”

“In Cina possediamo una importantissima rete di spionaggio conosciuta come la “Rotta Azzurra” di Macao. Tutte le informazioni provenienti da quella fonte sarebbero messe a vostra disposizione.”

Un’espressione malinconica si soffuse sul volto massiccio di Tigre, ma in fondo ai suoi occhi di tartaro brillava una fiammella maliziosa. “Temo proprio di avere delle cattive notizie per voi, Bondo-san. La “Rotta Azzurra” non ha segreti per la nostra organizzazione da diversi anni in qua. Abbiamo già tutte le informazioni che desideriamo, da quella fonte. Vi potrei mostrare gli schedari, se lo desiderate. L’abbiamo semplicemente ribattezzata

“Rotta Arancione”, e devo ammettere che il materiale fornitoci è molto interessante. Ma lo abbiamo già in nostro possesso. Che altro potreste offrirci?”

Bond non poté fare a meno di scoppiare a ridere. L’orgoglio della Sezione Je , anche di M, in quanto a quello! il lavoro, la spesa, il rischio per tenere la “Rotta Azzurra” in efficienza. E almeno il cinquanta per cento speso per i giapponesi. Santo cielo, in quel viaggio gli si stavano aprendo gli occhi. Quella notizia avrebbe prodotto un grande sconvolgimento al Quartier Generale. Rispose con calma: “Abbiamo molta altra merce. Ora che mi avete dimostrato l’indubbia utilità del vostro aggeggio, potrei chiedervi a quale prezzo ce lo cedereste?”

“Voi credete che nei vostri scaffali ci sia davvero qualcosa che valga quanto il mio aggeggio? Forse del materiale simile al mio, se pur molto inferiore, che possa avere una uguale importanza per la difesa del nostro paese?”

“Senza dubbio,” disse Bond con fermezza. “Ma, mio caro Tigre, se per caso si arrivasse a una decisione, non sarebbe una buona idea quella di venire personalmente a Londra a dare un’occhiata ai nostri scaffali? Sono certo che il mio Capo sarebbe felicissimo di ricevervi.”

“Voi non avete pieni poteri per negoziare?”

“Sarebbe impossibile, mio caro Tigre. Le nostre misure di sicurezza sono tali che nemmeno io possiedo una conoscenza completa di tutta la nostra merce. Per quanto mi riguarda, io posso solamente trasmettere al mio Capo le vostre istruzioni o rendervi qualsiasi servizio di cui abbiate bisogno.”

Tigre Tanaka rimase pensieroso per qualche attimo, come se rimuginasse dentro di sé le ultime parole di Bond. Poi chiuse l’incontro con un invito al ristorante delle geishe, e Bond se ne andò, un po’ perplesso, per trasmettere a Melbourne e a Londra il suo rapporto su quanto aveva potuto raccogliere.

Nella stanza dove ora si trovava seduto dopo il trattenimento delle geishe, e dove Tigre aveva appena finito di minacciarlo allegramente di morte, un numero imprecisabile di teste di tigri apriva le fauci minacciose dalle pareti o digrignava i denti sul pavimento. Il posacenere era ricavato da una zampa di tigre e la sedia dove era accomodato Bond era ricoperta da una pelle di tigre. Mr’ Tanaka era nato nell’anno della Tigre mentre Bond, come Tigre gli aveva compiacentemente rivelato, era nato nell’anno del Topo. Bond bevve un generoso sorso di sakè e disse: “Mio caro Tigre, sarei desolato di darvi la seccatura di dovermi eliminare dalla faccia della terra.

Volete dire che questa volta il cedro non deve piegarsi sotto il tifone? E va bene. Questa volta vi do la mia massima parola d’onore.”

Tigre avvicinò la sedia al tavolo, si versò un’abbondante razione di Suntory e la allungò con un po’ di soda. Il rumore del traffico notturno dell’autostrada Tokyo-Yokohama giungeva affievolito da dietro un gruppo di casettine. Era la fine di settembre ma faceva ancora caldo. Mancavano dieci minuti alla mezzanotte. Tigre cominciò a parlare sottovoce. “In questo caso, mio caro Bondo-san, dato che vi conosco come un uomo di onore, salvo, naturalmente, per le questioni che riguardano il vostro paese, vi racconterò una storia interessante. Ecco qua.” Si alzò dalla sedia e si sedette sul tatami sistemandosi nella posizione del loto per sentirsi maggiormente a suo agio. “Fino dal principio dell’epoca di Meiji, che come voi sapete è stato l’Imperatore che ha promosso il progresso e l’occidentalizzazione del Giappone fin dall’inizio del suo regno, circa cento anni fa, parecchi stranieri sono venuti nel nostro paese e vi si sono stabiliti. In genere erano degli studiosi o degli originali, e Lafcadio Hearn, nato in Europa e diventato cittadino giapponese può essere considerato un tipico esempio. Quasi sempre sono stati tollerati, anche se un po’ derisi. Sarebbe come se un giapponese, dopo aver imparato il gallico, si mettesse a dettare sentenze, spesso impertinenti, sulle usanze della Scozia. Se uno straniero proseguisse le sue ricerche cortesemente e pacificamente, sarebbe considerato come un amabile eccentrico. Così è successo che gli occidentali che si sono stabiliti in Giappone e vi hanno vissuto, benché occasionalmente e soprattutto in tempo di guerra siano stati considerati come spie e abbiano sofferto la prigionia e varie persecuzioni. Dopo l’occupazione, abbiamo avuto un grande afflusso di questi stranieri, la maggior parte dei quali come potete immaginare è americana. La vita orientale è particolarmente attraente per chi desidera evadere da una civiltà che è diventata sono certo che anche voi condividete il mio parere sempre più repellente per tutti ad eccezione che per coloro che appartengono agli strati più infimi della specie umana per cui il cibo abbondante e cattivo, i giocattoli rilucenti come le automobili e la televisione, e il rapido guadagno, spesso ottenuto disonestamente oppure in cambio di scarsa fatica e abilità, rappresentano il summum bonum, se mi concedete questa nostalgica reminiscenza dei bei tempi di Oxford.”

“D’accordo,” ammise Bond. “Ma questo modo di considerare la vita non è forse incoraggiato ufficialmente dal vostro stesso paese?”

Tigre Tanaka si rabbuiò. “Per il momento,” proseguì freddamente,

“siamo assoggettati a quella che io potrei citare come la “Scuola di Coca Cola”. Baseball, orribili seni super-carrozzati, luci al neon, tutto ciò fa parte dello scotto che dobbiamo pagare per la sconfitta.

Rappresentano il tiepido tè del sistema di vita che noi chiamiamo demokorasu. Sono una delirante smentita dei capri espiatori ufficiali della nostra sconfitta la smentita dello spirito dei samurai come la si esprime nei kamikaze, una smentita dei nostri antenati, dei nostri dei. Sono spregevoli modi di vivere,” Tigre sputò quasi quelle parole, “ma per fortuna sono temporanei. Hanno tanta importanza nella storia del Giappone così come può averne la vita di una libellula.”

Fece una pausa. “Ma torniamo a noi. I nostri residenti americani sono abbastanza simpatici a un livello molto basso, naturalmente. Godono della sottomissione, che in realtà è assai superficiale, delle nostre donne. Godono dei superstiti rigidi schemi della nostra vita la simmetria posta a confronto col caos che regna in America. Godono della nostra semplicità con il suo substrato di profondi significati, che si esprimono nella cerimonia del tè, nella disposizione dei fiori, nei N” tutte cose che essi non capiscono minimamente. Godono anche della nostra venerazione per i vecchi e della nostra adorazione del passato, forse perché essi non hanno antenati e nemmeno una vita familiare degna di menzione. Perché nel loro mondo precario essi riconoscono che le nostre sono cose permanenti, proprio come, nel loro modo di fare ignorante e infantile, essi ammirano le avventure del selvaggio West e gli altri miti americani che sono giunti fino a loro non attraverso l’educazione, ma per mezzo della televisione.”

“Siete molto duro, Tigre. Conosco parecchi americani che non corrispondono alla descrizione che voi ne fate. Probabilmente voi state parlando del tipo di soldato di infimo livello è la seconda generazione di americani, che basilarmente sono dei tedeschi, o degli irlandesi o dei cechi o dei polacchi che dovrebbe essere mandato a lavorare nei campi o nelle miniere del suo paese di origine anziché avere la facoltà di fare lo spaccone con troppi soldi in tasca in un paese conquistato sotto la protezione della bandiera stellata. Ogni tanto qualcuno di loro sposa una ragazza giapponese e si stabilisce qui. Ma in genere finiscono tutti per andarsene alla svelta. I nostri

“tommies” hanno fatto lo stesso in Germania. Ma ciò è ben diverso dai Lafcadio Hearn del mondo.”

Tigre Tanaka si inchinò fino a terra. “Vi chiedo scusa, Bondo-san.

Voi avete perfettamente ragione e io ho dirottato per indegni sentieri nel mio racconto. Non vi ho pregato di venire qui per lasciarmi sfogare la mia intima ripugnanza per la disfatta. Vi chiedo scusa. E voi avete ragione, infatti. Ci sono anche parecchi americani colti che si sono stabiliti nel mio paese e che sono dei cittadini esemplari. Avete fatto bene a riprendermi perché anch’io ho degli amici fra costoro, nelle arti, nelle scienze e nella letteratura, ed essi sono veramente degli apprezzabili membri della comunità. Era un piccolo sfogo, mi capite?”

“Certo, Tigre. Il mio paese non è stato invaso da parecchi secoli.

Il sovrapporsi di una nuova cultura a quella tradizionale è una esperienza che non abbiamo sofferto. Non saprei dire come reagirei se mi trovassi in simili circostanze, ma probabilmente farei come voi. E

ora, per favore, continuate la vostra storia.” Bond afferrò la bottiglietta di sakè da un recipiente pieno di acqua che un braciere manteneva calda. Riempì il bicchiere e bevve. Tigre Tanaka si dondolò un paio di volte sulle natiche e riprese.

“Come ho detto, ci sono alcuni stranieri che si sono stabiliti in Giappone e per la maggior parte si tratta di eccentrici inoffensivi.

Ma ce n’è uno che è arrivato in Giappone lo scorso gennaio e che si è rivelato un eccentrico di genere diabolico. Quell’uomo è un mostro.

 

Potete ridere di me, Bondo-san, ma quell’uomo non è altro che un demonio sotto specie umane.”

“Ho conosciuto molti uomini cattivi nel corso della mia vita, Tigre, e in genere erano leggermente pazzi. E’ così anche in questo caso?”

“Al contrario. La calcolata ingenuità di quell’uomo, la sua profonda conoscenza della psicologia del mio popolo, dimostrano invece che egli è un genio eminente. Nell’opinione dei nostri migliori studiosi e sapienti, egli è un investigatore scientifico e un collezionista unico nella storia del mondo.”

“Che cosa colleziona?”

“Colleziona la morte.”

7. Il collezionista della morte

James Bond non poté fare a meno di sorridere, udendo quella drammatica risposta. “Un collezionista della morte? Volete dire che uccide della gente?”

“No, Bondo-san. La cosa non è così semplice. Egli persuade, o meglio induce la gente a uccidersi.” Tigre fece una pausa e aggrottò la fronte. “No, anche questo non è esatto. Diciamo che offre una facile e attraente opportunità una risorsa a coloro che pensano di suicidarsi. A conti fatti, in poco meno di sei mesi egli ha al suo attivo più di cinquecento giapponesi.”

“Perché non lo arrestate e non lo impiccate?”

“Bondo-san, non è così facile. Sarà meglio che cominci dal principio. Nel gennaio di quest’anno sono entrati legalmente in Giappone un gentiluomo di nome Guntram Shatterhand, dottore, e sua moglie, Frau Emmy Shatterhand, nata de Bedon. Erano provvisti di passaporti svizzeri e il dottore ha dichiarato di essere orticultore e botanico specializzato in piante subtropicali. Era latore di encomiastiche referenze del Jardin des Plantes di Parigi, del Kew Gardens e di altre autorevoli organizzazioni, tutte redatte però in termini piuttosto vaghi. Il dottore si è messo subito in contatto con le autorità giapponesi e con gli esperti del Ministero dell’Agricoltura, e ha dichiarato ufficialmente di essere disposto a spendere non meno di un milione di sterline per la creazione di un giardino o di un parco esotico nel quale egli avrebbe fatto trapiantare una collezione inestimabile di alberi e di arbusti provenienti da ogni parte del mondo. Li avrebbe importati a sue spese e in sufficiente stato di sviluppo da poter creare il suo parco nel più breve tempo possibile. Se avete qualche nozione di agrologia dovete convenire che si tratta di un sistema piuttosto caro.”

“Non ne so nulla. Deve essere un po’ come quei milionari del Texas che importano palme già sviluppate e arbusti tropicali dalla Florida.”

“Esattamente. Il parco non sarebbe stato aperto al pubblico, ma messo a completa disposizione degli esperti giapponesi autorizzati, a scopo di studio e di ricerca. Una tale offerta è stata entusiasticamente accettata dal governo, il quale, in cambio, ha concesso al buon dottore un permesso di residenza di dieci anni un privilegio abbastanza raro. Nel frattempo, secondo l’uso, le autorità dell’Ufficio Immigrazione hanno svolto le consuete indagini sul passato del dottore, tramite il mio dipartimento. Non avendo agenti in Svizzera, ho dovuto rivolgermi ai nostri amici della Cia e a tempo opportuno ho avuto ottime informazioni. Pare che Shatterhand sia di origine svedese e non molto noto in Svizzera, dove possedeva i minimi requisiti indispensabili per ottenere la residenza. Abitava a Losanna in un appartamento di due stanze e aveva un ottimo credito presso l’Union des Banques Suisses. Dato che il danaro è l’unica misura di valore in Svizzera, l’ottimo credito di cui godeva Shatterhand voleva dire che egli era più volte milionario. Le informazioni sono state più che soddisfacenti, anche se nessuno è stato in grado di ragguagliarci sulla sua competenza come botanico. Il Kew e il Jardin des Plantes, a nostra richiesta, hanno citato Shatterhand come un dilettante entusiasta che aveva fatto dono a queste istituzioni di esemplari tropicali e subtropicali molto importanti, raccolti in spedizioni finanziate da lui stesso. In conclusione: un cittadino interessante e un solido finanziamento le cui pacifiche intenzioni sarebbero state di giovamento al Giappone. No?”

“Così pare anche a me.”

“Dopo aver visitato in lungo e in largo tutto il paese, il dottore ha deciso di stabilirsi in un castello semidiroccato a Kyushu, la nostra isola meridionale. Il castello è situato in un angolo estremo della costa, non lontano da Fukuoka, la principale prefettura dell’isola, e in passato aveva fatto parte di una fortezza di fronte allo stretto di Tsushima, dove ha avuto luogo la famosa disfatta della flotta russa. Originariamente, quei castelli erano stati costruiti per respingere gli attacchi dalla Corea. Gran parte delle costruzioni sono ora ridotte in rovine, ma il castello scelto dal dottore è un edificio gigantesco che fino alla guerra è stato abitato dalla famiglia di un eccentrico milionario tessile. Il formidabile muro di cinta era proprio ciò che il dottore desiderava per proteggere il suo isolamento. Il castello è stato restaurato da un esercito di muratori e di decoratori e nel frattempo da ogni parte del mondo sono cominciate ad arrivare le piante che il dottore aveva ordinato. Devo anche ricordare che una ulteriore ragione per la scelta di quel posto consisteva nel fatto che l’intera proprietà vasta circa cinquecento acri occupa un terreno molto vulcanico e cosparso di geyser e di fumarole che in Giappone sono molto comuni.

Le condizioni geologiche sono quindi ideali per provvedere durante tutto l’anno la temperatura necessaria agli arbusti tropicali e alle piante delle zone equatoriali. Il dottore e sua moglie, che tra parentesi è estremamente brutta, si sono trasferiti al più presto nel castello e hanno cominciato a reclutare il personale che avrebbe dovuto servire nella casa e nel parco.” A questo punto, Tigre parve rattristarsi. “Io non avrei dovuto prendere alla leggera certi rapporti che il Capo della Polizia di Fukuoka mi ha inviato. A quanto sembrava, il dottore stava reclutando il suo personale solamente tra gli antichi membri della Società del Drago Nero.”

“Di che cosa si tratta?”

“Si trattava,” corresse Tigre. “La Società è stata ufficialmente sciolta dopo la guerra. Ma ai suoi tempi d’oro è stata la società segreta più potente e temuta del Giappone. In origine vi facevano parte gli elementi peggiori degli soshi i samurai che le radicali riforme di Meiji di un secolo fa avevano lasciato senza occupazione ma in seguito erano stati reclutati anche dei terroristi, dei fascisti, dei banditi, degli ufficiali delle diverse armi che avevano lasciato la carriera per motivi disonorevoli, degli agenti segreti, dei soldati di fortuna e altri rifiuti umani. Ma alla Società si iscrissero anche vari uomini importanti dell’industria e della finanza e di tanto in tanto anche qualche ministro del Gabinetto, che considerava molto utile l’appoggio del Drago Nero quando c’era qualche sporca faccenda da compiere. La cosa che allora mi sembrò strana ma ora non più era che il dottore avesse scelto di stabilirsi, a parte le ragioni pratiche, proprio in quell’angolo del Giappone dove si trovava il Quartier Generale del Drago Nero e che è tradizionalmente un nido di estremisti. Toyama Mitsuru, l’antico Capo del Drago Nero, veniva da Fukuoka; così fecero l’anarchico Hirota e Nakano, Capo del Tohokai, e il gruppo fascista della Dieta. Quel distretto è stato sempre un nido di canaglie e lo è tuttora. Le sette estremiste non muoiono mai del tutto, mio caro Bondo-san, come del resto voi sapete benissimo considerando il rinascere delle Camicie Nere in Inghilterra. Comunque sia, il dottor Shatterhand riuscì facilmente a reclutare una ventina di tipi duri e pericolosi che, correttamente vestiti da servitori o da giardinieri, possono ingannare chiunque. Il Prefetto di Polizia ha pensato che fosse suo dovere compiere una visita di cortesia per mettere in guardia l’ospite illustre; ma il dottore ha ribattuto che aveva bisogno di guardie competenti se voleva conservare il suo isolamento e mantenere lontani i curiosi dalla sua pregevole collezione di piante. La giustificazione sembrava abbastanza ragionevole e in ogni modo il dottore godeva di forti influenze a Tokyo. Il Prefetto se n’è andato enormemente impressionato dal profuso sfoggio di ricchezza ancora più evidente nel cuore di quella misera provincia.”

Tigre Tanaka fece una pausa. Versò dell’altro sakè a Bond e dell’altro Suntory per sé. Bond approfittò dell’occasione per chiedere se la Società del Drago Nero era stata effettivamente così potente come si diceva. Era forse equivalente ai tong cinesi?

“Molto più potente. Voi avrete forse sentito parlare dei tong Ching-Pang e Hung-Pang che erano così temuti in Cina all’epoca del Kuomintang. Ebbene, i Draghi Neri erano cento volte peggio. Averli alle calcagna significava morte sicura. Erano spietatissimi, e non per particolari convinzioni politiche, ma unicamente per sete di danaro.”

“E alle dipendenze di quel dottore svizzero hanno forse combinato qualche misfatto?”

 

“Oh, no. Non sono altro che dei servitori o dei dipendenti, o, tutt’al più, delle guardie del corpo. No, il problema è ben diverso e molto più complesso. Il fatto è che quel Shatterhand ha creato quello che io posso descrivere soltanto come un giardino di morte.”

Bond inarcò le sopracciglia. In realtà, le metafore di Tigre gli sembravano ridicolmente drammatiche.

Tigre sorrise e continuò: “Bondo-san, dalla vostra espressione mi accorgo che voi mi credete o pazzo o ubriaco. Ora ascoltatemi. Quel Shatterhand ha riempito il suo parco solo di vegetazione tossica, i laghi e i fiumi di pesci carnivori, e ha infestato il luogo di serpenti, scorpioni e ragni velenosi. Tanto il dottore che la sua orribile moglie non soffrono alcun danno da tutto ciò perché quando escono dal castello il dottore indossa un’armatura completa del diciassettesimo secolo e la donna indumenti protettivi. I giardinieri portano stivaloni di gomma e si proteggono con dei masko, ovvero delle maschere di garza antisettica che molti giapponesi portano per evitare le infezioni.”

“Tutto ciò mi sembra pazzesco.”

Tigre frugò nelle pieghe del yukata che aveva indossato non appena entrato in casa e ne trasse alcuni fogli. Li porse a Bond e disse:

“Abbiate pazienza e non giudicate ciò che non capite. Io non so nulla di queste piante velenose, e, a quanto mi sembra, voi non ne sapete molto più di me. Eccovi una lista delle piante che si trovano in quel parco e alcuni commenti del nostro Ministero dell’Agricoltura.

Leggete con calma e vedrete che deliziosa vegetazione cresce sulla superficie del globo.”

Bond prese alcuni fogli che portavano l’intestazione del Ministero dell’Agricoltura. La prima pagina comprendeva delle note generali sui veleni vegetali e nelle altre erano elencate le varie piante. Ecco ciò che lesse Bond:

 

I veleni elencati comprendono sei categorie: 1. Delirante. Sintomi: illusioni spettrali, delirio; dilatazione delle pupille; sete e sensazione di aridità; mancanza di coordinazione; poi paralisi e spasmi.

2. Inebriante. Sintomi: eccitazione delle funzioni cerebrali e della circolazione; perdita della coordinazione e della funzione muscolare; doppia visione; poi sonno e coma profondo.

3. Convulsivo. Sintomi: spasimi intermittenti, dalla testa in giù.

 

Morte per esaurimento, generalmente entro tre ore, o rapida guarigione.

4. Deprimente. Sintomi: vertigine, vomito, dolori addominali, visione confusa, paralisi, perdita dei sensi e a volte asfissia.

5. Astenico. Sintomi: intorpidimento, ronzii, dolori addominali, vertigine, vomitivo, purgativo, delirio, paralisi, perdita dei sensi.

6. Irritante. Sintomi: sensazione di bruciore in gola e allo stomaco, sete, nausea, vomito. Morte per choc, convulsioni o esaurimento; o per inedia, dovuta alle lesioni della gola e dello stomaco.

ESEMPLARI INDICATI DALLE DOGANE E DAL DIPARTIMENTO

TRIBUTI ED IMPORTATI DAL DOTTOR SHATTERHAND: Corniolo della Giamaica, albero del veleno da pesca (Piscidia ery-thrina): Albero, dieci metri. Fiori bianchi e rossi. Inebriante.

Principio tossico: piscidina. Indie Occidentali.

Noce-vomica (Strychnos nux-vomica): Albero, dodici metri. Corteccia liscia, bei frutti dal sapore amaro. Fiori bianco-verdognoli. I semi sono la parte più velenosa. Convulsivo. Principio tossico: stricnina e brucina. India meridionale e Giava.

Albero tossico della Guaiana (Strychnos toxifera): Il veleno curaro per le frecce è estratto dalla corteccia. Rampicante. La morte sopravviene entro un’ora per paralisi respiratoria. Principi tossici: curaro, stricnina, brucina. Guaiana.

Fave di S’ Ignazio (Strychnos Ignatii): Albero di piccole dimensioni. I semi producono brucina. Convulsivo. Filippine.

Falso Upas (Strychnos tieuté): Grande arbusto rampicante. Stricnina o brucina dalle foglie, dai semi, dallo stelo o dalle radici. Giava.

Serpentaria delle Indie Orientali (Strychnos colubrina): Albero rampicante. Produce stricnina, brucina. Convulsivo. Giava, Timor.

Ipecacuana (Psychotria ipecacuana): Pianta cespugliosa. Deprimente.

Principi tossici: emetina, dalla radice. Brasile.

Strofanto (Strophantus hispidus): Rampicante legnoso, due metri.

Principio tossico: strofantina, incina. Astenico. Africa Occidentale.

Tanghinia velenosa (Tanghinia venenifera o cerbera tanghin): Piccolo albero sempreverde, sei metri. Frutto violaceo con riflessi verdognoli. Principio tossico: tanghinina, cerberina. Astenico.

Madagascar.

 

Upas (Antiaris toxicaria): Albero della giungla. I rami spuntano a partire da trenta metri di altezza. Legno leggero, bianco, duro, emana lattice. Principi tossici: antiarina dal lattice. Astenico.

Giava, Borneo, Sumatra, Filippine.

Tossicodendro, Edera velenosa (Rhus toxicodendron): Cespuglio rampicante. Fiori giallo-verdastri. Lo stelo contiene un lattice irritante. Principio tossico: tossicodendro. Stati Uniti.

Oleandro giallo, campanilla (Thevetia peruviana): Albero di piccole dimensioni. Ogni sua parte può essere mortalmente tossica, e in particolare il frutto. Rallentamento dei battiti del polso, vomito, choc. Hawai.

Ricino (Ricinus communis): Dai semi si estrae l’olio di ricino.

Contiene un principio tossico: il ricino. Innocuo se mangiato. Se entra nella circolazione sanguigna attraverso ferita o abrasione è fatale in un periodo dai sette ai dieci giorni. La centesima parte di un milligrammo può uccidere un uomo di cento chili. Perdita dell’appetito, emesia, effetti purgativi, delirio, collasso e morte.

Hawai e America Meridionale.

Oleandro comune (Nerium indicum): Arbusto sempreverde. La corteccia, la linfa, i fiori e le foglie sono mortalmente tossici.

Agisce sul cuore. Usato in India nel trattamento della lebbra, per provocare aborti e come mezzo di suicidio. India, Hawai. Caso di morte provocato da carne arrostita su uno spiedo fatto di legno di oleandro.

Grano di rosario, occhio di granchio, fagiolo Jequiritz (Abrus precatorius): Arbusto rampicante, piccoli semi del peso medio di 0,10

gr’ usati dagli orafi indiani come pesi. I semi macinati e impastati con un po’ di acqua fredda sono modellati in forma di piccoli coni.

Se questi coni sono introdotti sotto la pelle di un uomo o di un animale, la morte sopravviene entro quattro ore. India, Hawai.

Malerba Jimson (Datura stramonium): Solanacea con foglia larga, grande fiore bianco profumato, frutto con aculei. E inoltre: Ololiuqui (Datura metaloides) del Messico, e D’ tatula dell’America Centrale e Meridionale. Tutte allucinanti. I frutti secchi sono fumati dagli arabi e dagli swahili, le foglie sono masticate dai negri dell’Africa Orientale, i semi aggiunti all’hashish e le foglie mescolate alla canapa dagli indiani del Bengala. La D’ tatula era usata dagli indiani Zapotec nei tribunali come droga della verità.

L’uso continuato del toloachi, liquore prodotto dalla D’ tatula, causa l’imbecillità cronica.

Gloriosa superba: Bellissimo giglio rampicante. Le radici, gli steli e le foglie contengono un narcotico dal sapore aspro, superbina, oltre a colchicina e colina. Tre grani di colchicina hanno un effetto mortale. Hawai.

Albero scatola di sabbia (Hura crepitans): L’intero albero contiene un attivo emetocatartico che si usa in Brasile per avvelenare i pesci. Contiene anche crepitina, dello stesso gruppo velenoso del ricino. Innocuo se ingoiato. Se immesso nella circolazione sanguigna provoca la morte entro dieci giorni. America Centrale e Meridionale.

Orgoglio dell’India, albero della bacca cinese, albero della Cina (Melia azedarach): Piccolo albero. Belle foglie color verde scuro e fiori color lavanda. Il frutto contiene un narcotico tossico che colpisce il sistema nervoso. Hawai, America Centrale e Meridionale.

Noce fisica (Jatropa curcas): Arbusto. I semi sono violentemente purgativi, spesso mortali per il conseguente esaurimento. Caraibi.

Tubero Messicano, camotillo: Tubero selvatico che cresce dappertutto. Secondo la tradizione indiana, deve essere raccolto in periodo di luna calante; si crede che l’azione mortale abbia inizio tanti giorni dopo l’assorbimento quanti giorni è durato l’immagazzinamento dopo il raccolto. Principio tossico: solanina.

America Centrale e Meridionale.

Fungo divino (Amanita mexicana): Strettamente imparentato con l’agarico europeo. Fungo nero che si può consumare crudo o mescolato a latte caldo e alcool di agave. Produce ipersensibilità della superficie della pelle, acutizza sensibilmente i sensi dell’udito e della vista e poi produce delle allucinazioni per diverse ore. In seguito, profonda depressione. Principio attivo sconosciuto. America Centrale e Meridionale.

Bond terminò la lettura e restituì i fogli osservando: “Il giardino del dottor Shatterhand è un vero Eden di delizie, Dio mio!”

“E voi avrete sentito certamente parlare del pesce piranha dell’America Meridionale. Può scarnificare completamente un cavallo in meno di un’ora. Il nome scientifico è serrasalmo. La sottospecie natteteri è la più vorace. Il nostro buon dottore ha preferito popolare i suoi laghi con questa specie, invece di ricorrere ai soliti pesci rossi. Capite che cosa voglio dire?”

“No,” rispose Bond, “francamente non riesco a capire. Quali sono gli scopi che si prefigge il buon dottore?”

8. Uccideteli coi fiori

Erano le tre del mattino. Il frastuono del traffico di Yokohama si era placato. James Bond non si sentiva stanco; al contrario, stava considerando con tutto il suo interesse la straordinaria faccenda del dottore svizzero che, come Tigre aveva detto al principio, collezionava la morte. Tigre non gli stava raccontando quella storia per puro divertimento e a un certo punto sarebbe arrivato al dunque.

Ma quando?

Tigre si passò le mani sul viso e poi chiese: “Avete letto di quel suicidio sull’edizione della sera dell’Asahi di oggi?”

“No.”

“Si trattava di un giovane studente di diciotto anni che per la seconda volta era stato bocciato all’esame di ammissione all’università. Abitava nei sobborghi di Tokyo. Vicino a casa sua ci sono i cantieri per la costruzione di un nuovo grande magazzino. Il ragazzo è uscito di casa e si è avvicinato ai cantieri. C’era un battipalo in funzione e lo studente, eludendo la sorveglianza degli operai, si è precipitato improvvisamente e ha messo la testa sotto il maglio.”

“Che orrore! Perché?”

“Aveva recato disonore ai suoi genitori e ai suoi antenati. Quello è stato il suo modo di espiare. Il suicidio è uno dei piu’ spiacevoli aspetti del sistema di vita giapponese.” Tigre fece una pausa. “O

forse uno dei più nobili. Dipende dai vari punti di vista. Quel ragazzo e la sua famiglia devono aver conquistato un grande prestigio, nel rione.”

“Non si può guadagnare un grande prestigio con la testa spiaccicata.”

“Pensateci bene, Bondo-san. Da voi non si usano forse le decorazioni alla memoria?”

“D’accordo, ma non si concedono certo a coloro che si suicidano per non aver superato un esame.”

“Noi non siamo demokorasu come voi.” Vi era un tono leggermente ironico nella voce di Tigre. “Il disonore deve essere cancellato, come pretendono i giapponesi che voi considerereste all’antica. Non vi è una contrizione più sincera di quella dell’offerta della propria vita. In realtà, è l’unica cosa che abbiamo da offrire.”

“Ma anche se quel ragazzo non fosse stato ammesso all’università, avrebbe potuto tentare qualche altro corso di studi. Come voi ben sapete, quando in Inghilterra non riusciamo a superare un esame diciamo “Accidenti!” o forse qualche altra esclamazione più efficace, ma poi ricominciamo da capo o i nostri genitori ci costringono a farlo e ritentiamo la prova. Non ci uccidiamo, e non pensiamo nemmeno di farlo. Se lo facessimo saremmo considerati dei vigliacchi, degli uomini che non sono capaci di affrontare una sconfitta e le vicissitudini della vita. E non solo recheremmo un enorme dolore ai nostri genitori, ma non daremmo alcuna soddisfazione ai nostri antenati.”

“Da noi è differente. E nonostante la demokorasu, i genitori di quel ragazzo questa sera si rallegreranno e saranno felicitati dai loro vicini. Per noi, l’onore è più importante della stessa vita, più superbo, più bello.”

Bond scrollò le spalle. “Per conto mio, penso che il suicidio di quel ragazzo rappresenti soltanto lo sciupio di una vita umana giapponese. In realtà, tutti questi suicidi nel Giappone non sono altro che una forma di isterismo, una delle tante manifestazioni di violenza che appaiono in tutta la storia del vostro paese. Se voi considerate così poco importante la vostra vita, considererete ancora meno importante quella degli altri. L’altro giorno ho assistito a un incidente di traffico in un crocicchio del centro. C’erano parecchie macchine sfasciate e diversi feriti per terra. I poliziotti, invece di preoccuparsi di trasportare subito all’ospedale gli infortunati, hanno ordinato loro di non muoversi per poter segnare col gesso la posizione di ognuno e per poter prendere delle fotografie, senza dubbio nella previsione che il caso avrebbe avuto una conseguenza legale.”

“E’ una pratica normale,” disse Tigre indifferentemente. “La nostra demografia è costantemente in aumento. L’aborto è consentito. Gli incidenti di traffico ci aiutano a risolvere diversi problemi di sovrappopolazione. Ma c’è qualcosa di vero in ciò che avete detto prima. Da noi, il suicidio si chiama jisatsu la cui traduzione letterale è “auto omicidio”, e, benché costituisca una soluzione violenta di un problema personale, non presuppone un marchio di infamia come nel vostro paese. Uno dei nostri più famosi racconti popolari, è quello dei quarantasette ronin, “uomini onda” ovvero samurai rimasti senza legittimo signore feudale. A causa della loro negligenza, il loro padrone, un certo Asano, era stato assassinato.

Essi giurarono di vendicarlo, e così fecero. Poi si riunirono in un luogo chiamato Ako e per espiare la propria negligenza si praticarono il seppuku, che è quello che voi chiamate il hara-kiri, termine volgare che significa “ventre-taglio”. Oggigiorno, all’epoca delle feste al santuario di Ako, si organizzano treni speciali per il trasporto dei reverenti pellegrini.”

“Be’, se allevate i vostri figli con dei concetti simili, è logico che essi crescano con la venerazione del suicidio.”

“Proprio così,” disse Tigre orgogliosamente. “Ogni anno, in Giappone ci sono venticinquemila suicidi. Soltanto i burocrati considerano vergognosa questa statistica. E quanto più il suicidio è spettacolare, tanto più calorosamente viene approvato. Non molto tempo fa, un giovane studente ha acquistato una grande rinomanza per aver tentato di segarsi la testa. Gli innamorati si prendono per mano e si gettano nella cascata di Kegon a Nikko. Un altro luogo favorito è il vulcano Mihara, nell’isola di Oshima. La gente si butta di corsa giù dal pendio rovente del cratere e, con le scarpe in fiamme, precipita nel gorgogliante calderone di lava. Per combattere questo passatempo popolare, le autorità hanno recentemente aperto sulla cima del vulcano con una spesa non indifferente un “Ufficio Prevenzione Suicidi”. Ma ci sono sempre le ruote del vecchio treno che possono servire da ghigliottina. Oltre a tutto, hanno il merito di non richiedere mano d’opera. Basta fare un salto al momento opportuno.”

“Siete un vecchio bastardo assetato di sangue, Tigre. Ma, per concludere, a che cosa serve tutta questa conferenza? E che cosa c’entra l’amico Shatterhand e il suo grazioso giardino?”

“C’entra e come, Bondo-san. Vedete, contro il volere del buon dottore, naturalmente, il suo giardino velenoso è diventato la meta più ambita dei suicidi di tutto il Giappone. C’è tutto quello che si può desiderare: un viaggio sul nostro famoso diretto “Idillio” per Kyoto; la traversata del nostro bel Mare Interno, così ricco di storia patria; il treno locale dal porto di arrivo di Beppu fino a Fukuoka e una passeggiata o un viaggio in taxi lungo la meravigliosa costa fino agli imponenti bastioni del misterioso Castello della Morte. Ci si arrampica sul muraglione, o si entra alla chetichella nel carro dei fornitori, e poi c’è l’ultima deliziosa e solitaria passeggiata, fors’anche tenendo per mano l’innamorata, attraverso gli ameni boschetti. E infine, la grande puntata, il gioco del pachinko, che è la passione dei giapponesi. Quale pallina avrà il vostro numero? Sarà una morte facile o dolorosa? Sarà forse una vipera Russell che vi morderà a una gamba mentre state camminando lungo i silenziosi e ben curati viali? O forse sarà una mortale rugiada che scenderà su di voi mentre dormite sotto uno dei magnifici alberi? O

forse la fame o la curiosità vi spingerà ad assaggiare qualche bella bacca rossa o uno di quei frutti simili alle arance? D’altronde, chi volesse fare le cose alla svelta, potrebbe sempre servirsi di una delle tante ribollenti fumarole. In ciascuna di esse, la temperatura di mille gradi centigradi consentirebbe sì e no il tempo per uno strillo. Quel luogo non è altro che un emporio della morte, con gli scaffali pieni di deliziose derrate di autodistruzione distribuite gratuitamente. Potete credere forse che vecchi e giovani non vi accorrano come a un santuario? La polizia ha fatto erigere blocchi lungo la strada. I visitatori autorizzati, i botanici e gli studiosi devono essere muniti di lasciapassare. Ma gli aspiranti suicidi raggiungono il santuario attraverso i campi e le paludi, si arrampicano sui muraglioni, si spezzano le unghie, pur di riuscire a entrare. Naturalmente il buon dottore ne è costernato. Ha fatto collocare dappertutto dei cartelli di ammonimento pieni di teschi e di tibie incrociate. Ma i cartelli non servono ad altro che a fare un po’ di pubblicità! Pensate che ha speso un capitale per attaccare al tetto del castello uno di quei palloni gonfiati di elio dal quale pendono degli striscioni con scritte che minacciano gli intrusi coi rigori della legge. Disgraziatamente il pallone serve soltanto da irresistibile richiamo. Qui c’è la morte!, proclama. Venite a prenderla!”

“Siete matto, Tigre. Perché non lo arrestate? Perché non date fuoco al giardino?”

“Arrestarlo? E con che pretesto? Perché ha regalato al Giappone una collezione di piante unica al mondo? Bruciare un parco che vale un milione di sterline e che appartiene a un rispettabile gaijin?

Quell’uomo non ha fatto nulla di male. Se c’è qualcuno da biasimare è il popolo giapponese. E’ vero che egli potrebbe stabilire una sorveglianza più oculata e far pattugliare più efficacemente il luogo. Ed è indubbiamente molto strano che egli faccia chiamare l’autoambulanza quando le vittime sono già del tutto defunte e hanno generalmente assunto l’aspetto di un sacco pieno di ossa calcinate tolte da una fumarola. Considerando la lista che vi ho mostrato, ci sarebbe da aspettarsi di poter ricuperare di tanto in tanto qualche individuo paralizzato o cieco. Herr Doktor suppone che in caso di cecità o di amnesia la vittima cada in una delle fumarole per un fatale errore. Può anche darsi. Ma il conto totale oltrepassa ormai i cinquecento suicidi e, col flusso della pubblicità, un numero sempre maggiore di persone sarà attirato dal Castello della Morte. Dobbiamo far cessare tutto ciò.”

“Che misure sono state prese, finora?”

“Commissioni investigative hanno fatto visita al dottore e sono state ricevute con somma cortesia. Il dottore ha chiesto che siano presi provvedimenti per proteggerlo contro i visitatori clandestini.

Lamenta che costoro disturbano il suo lavoro, spezzano rami di piante pregevoli e sradicano arbusti insostituibili. E’ disposto a collaborare a qualsiasi misura proposta ma non permette che si parli dell’abbandono del progetto che gli sta tanto a cuore e che è così apprezzato dagli specialisti giapponesi di botanica. Inoltre, ha fatto un’altra generosa offerta. Sta costruendo un laboratorio di ricerche con addetti che ha provveduto a selezionare personalmente, badate bene per estrarre i veleni dalle piante del parco e destinarli a un apposito centro medico. Avrete notato che molti di quei tossici sono la base di parecchie medicine.”

“Ma voi che cosa c’entrate in tutta questa faccenda?” Bond cominciava a sonnecchiare. Erano già le quattro e l’orizzonte seghettato dai tetti grigi dalle tegole di porcellana si stava ormai rischiarando. Era ora di andare a letto. Ma Tigre era evidentemente ossessionato da quella storia pazzesca e misteriosa in cui gli aspetti reali ed evidenti del Giappone si mescolavano con ridicole e sorpassate reminiscenze di Poe, di Le Fanu, di Bram Stoker e di Ambrose Bierce.

Tigre sembrava non rendersi conto dell’ora tarda. Forse, il suo viso da samurai aveva assunto un’espressione più sinistra e più brutale. Il subcosciente del tartaro, ammansito e civilizzato, stava forse venendo a galla con maggiore evidenza, come un animale in gabbia, nel fondo scuro del suo sguardo. Ma il solo segno della sua irrequietezza si rivelava di tanto in tanto col dondolio delle natiche e l’agitarsi dei piedi. Tigre continuò: “Il mese scorso, Bondo-san, ho mandato in quel luogo uno dei miei uomini migliori per cercare di scoprire qualche cosa. Ne avevo avuto l’incarico dal mio Ministero, quello degli Interni, il quale a sua volta aveva avuto istruzioni dal Primo Ministro. L’affare era diventato di pubblico dominio. Ho scelto l’uomo adatto. E’ stato incaricato di penetrare nel parco, di osservare e di fare il suo rapporto. Una settimana dopo, Bondo-san, l’hanno ripescato dal mare su una spiaggia nei pressi di quel Castello della Morte. Era cieco e delirava. La parte inferiore del suo corpo era terribilmente ustionata. Il disgraziato non faceva altro che balbettare un haiku a proposito di libellule.

Più tardi ho scoperto che da ragazzo si divertiva, come fanno tutti i bambini da noi, ad attaccare un filo al corpo di una libellula femmina prima di lasciarla libera. Il filo è un’attrazione per il maschio, e con questo sistema se ne possono catturare moltissimi. I maschi si attaccano alla libellula femmina e non la mollano più. Ha continuato a ripetere l’haiku è un verso di diciassette sillabe fino alla morte, che non si è fatta molto attendere. Diceva:

“Desolazione! Le libellule color rosa volano sopra le tombe.””

James Bond aveva la sensazione di vivere in un sogno: la minuscola stanza con le pareti divisorie di falsa carta di riso, la prospettiva del piccolo giardino buio nel quale gorgogliava dell’acqua, il rossore lontano dell’alba imminente, la sommessa voce del narratore che raccontava una storia fantastica, come la si sarebbe potuta ascoltare in una tenda sotto le stelle… E tuttavia era una faccenda accaduta qualche giorno prima, qualcosa che continuava ad accadere, qualcosa che importava a Tigre e che per una ragione ancora sconosciuta stava coinvolgendo lo stesso Bond. Perché? Forse perché Tigre non aveva nessun altro a cui confidarsi? Bond si riscosse dalla sonnolenza che lo stava dominando e si rizzò sulla sedia. “Sono spiacente, Tigre. E poi che cosa avete fatto?”

Tigre Tanaka sembrò irrigidirsi sul rettangolo dorato del tatami orlato di nero. Guardò Bond negli occhi e rispose: “Che cosa potevo fare? Null’altro che chiedere scusa ai miei superiori e attendere che mi si presentasse una onorevole soluzione. Aspettavo che arrivaste voi.”

“Io?!”

“Hanno mandato voi. Poteva esser un altro.”

James Bond non riuscì a trattenere uno sbadiglio. La serata non accennava a concludersi. Tigre era fissato e Bond non sapeva come fare per scuoterlo. “Tigre, è ora di andare a letto. Ne parleremo domani. Cercherò di darvi il mio parere, per quanto mi sarà possibile. E’ un problema molto difficile e perciò io credo che sia bene dormirci sopra.” E fece per alzarsi.

Tigre parlò seccamente: “Sedetevi, Bondo-san. Se avete una benché minima considerazione per la vostra patria, voi partirete domani.”

Consultò l’orologio. “Col treno delle dodici e venti dalla stazione centrale di Tokyo. La vostra meta è Fukuoka, nell’isola meridionale di Kyushu. Non ritornerete all’albergo e non vi accomiaterete da Dikko. Da questo momento voi dipenderete direttamente da me.” La sua voce si fece sommessa e suadente. “Inteso?”

Bond fece un salto come se fosse stato punto. “In nome di Dio, Tigre, di che cosa state parlando?”

Tigre Tanaka rispose: “L’altro giorno, nel mio ufficio, voi avete fatto una dichiarazione significativa. Parlando del Magic 44, avete detto di essere autorizzato a sobbarcarvi qualsiasi servizio personale che io avrei potuto chiedervi.”

“Non ho detto di essere autorizzato. Ho detto semplicemente che avrei fatto qualsiasi cosa per voi sotto la mia personale responsabilità.”

“E’ piche sufficiente. Io vi ho preso in parola e ho chiesto un’udienza al Primo Ministro. Ho avuto l’autorizzazione a procedere, ma sono stato pregato di considerare la faccenda come un segreto di Stato conosciuto soltanto da lui e da me… e da voi, beninteso.”

“Via, Tigre,” disse con impazienza Bond. “Fatela finita e ditemi che cosa volete da me.”

Ma Tigre non aveva fretta. Rispose: “Bondo-san, io sarò sincero con voi, e voi non vi offenderete, perché noi siamo amici. Sì? Il fatto è che in Giappone io e altri uomini autorevoli, ci siamo fatti un’opinione poco soddisfacente degli inglesi fin dal tempo della guerra. Non solo avete perso un grande impero, ma sembrava perfino che foste ansiosi di disfarvene al più presto. Va bene,” alzò una mano, “non staremo ad approfondire le ragioni del vostro comportamento politico, ma quando avete apparentemente cercato di arrestare questa frana a Suez, siete riusciti solo a creare uno dei fiaschi più notevoli della storia del mondo, se non il peggiore.

Successivamente, il vostro Governo si è dimostrato incapace di tenere le redini dello Stato e ha consegnato l’effettivo controllo del paese alle Trade Unions, le quali sembrano avere un solo programma: lavorare sempre di meno e guadagnare sempre di più. Questi sistemi paternalistici, questo voler evitare una onesta giornata lavorativa, stanno minando la fibra morale degli inglesi una qualità che un tempo tutto il mondo ammirava. Al suo posto, ora vediamo un’orda di gente vacua e senza scopo, alla ricerca del piacere, che gioca al totocalcio e al bingo, che si lamenta del tempo e del declino delle fortune del paese, e che si avvoltola nostalgicamente nei pettegolezzi sulla famiglia reale e sulla cosiddetta aristocrazia, pubblicati dai più abietti giornali del mondo.”

James Bond scoppiò in una sonora risata. “Avete una bella faccia di bronzo, Tigre! Dovreste scrivere tutto questo in una lettera al Times e firmarvi “Un ottuagenario”. Perché non venite in Inghilterra a dare un’occhiata in giro? Le cose non vanno poi così male.”

“Bondo-san, avete confermato il mio punto di vista con le vostre stesse parole. “Le cose non vanno così male”, davvero! Questa è la scusa infantile dello scolaro che ha preso una brutta pagella. In realtà le cose vanno assai male, secondo l’opinione dei pochi amici che vi rimangono. E voi avete il coraggio di venire da me e di chiedermi del materiale di grande valore per il Servizio Segreto, allo scopo di sostenere le rovine pietose di quella che è stata una grande potenza? Perché dovremmo darvelo? Che cosa ci guadagneremmo?

Che cosa guadagnereste voi, Bondo-san? Sarebbe come dare da respirare una boccetta di sali a un pugile rimminchionito dai colpi, proprio prima dell’inevitabile knock-out.”

Bond era furioso. “Storie, Tigre! Tutte storie! Voi non siete altro che un branco di assassini in potenza, ansiosi di liberarvi dai vostri padroni americani per mettervi di nuovo a recitare la parte del samurai, e state già ringhiando, dietro i vostri sorrisi ipocriti. Lasciate che vi dica, mio caro amico, che l’Inghilterra può essersi abbondantemente dissanguata dopo due guerre mondiali, che la politica del Welfare può averci fatto sperare di ricevere troppe cose gratuitamente, che la liberazione delle nostre colonie può essere stata troppo rapida, ma che gli inglesi hanno saputo ancora conquistare l’Everest, e vincere un mucchio di record negli sport, e guadagnare dei Premi Nobel. I nostri uomini politici saranno forse un mucchio di teste di zucca, ma penso che anche i vostri lo siano.

Tutti gli uomini politici lo sono. Ma il popolo inglese è ancora in gamba, anche se siamo solo cinquanta milioni.”

 

Tigre Tanaka sorrise soddisfatto. “Ben detto, Bondo-san. Ero sicuro che il vostro famoso stoicismo inglese avrebbe ceduto, se avessi colpito duro. Ho voluto provare. Per vostra conoscenza, queste sono le stesse parole che ho detto al mio Primo Ministro. E sapete che cosa mi ha risposto? Ha detto: “Va bene, Mr’ Tanaka. Mettete pure alla prova questo Comandante Bond. Se riesce, mi avrete convinto che in Inghilterra esistono ancora uomini efficienti e che il prezioso materiale richiesto sarà al sicuro nelle loro mani. Se fallisce, declinerete cortesemente la richiesta.””

Bond scosse le spalle con impazienza. Era ancora sotto l’effetto del violento attacco di Tigre e delle mezze verità che si celavano dietro le sue parole. “Va bene, Tigre. E in che cosa consiste questa ridicola prova? Mi immagino che sarà qualche tipica sciocchezza da samurai.”

“Pio meno,” ammise Tigre Tanaka con equanimità. “Dovrete entrare nel Castello della Morte e uccidere il Drago.”

9. Giappone attuale

La Topoyet nera correva lungo le strade deserte, lucide della rugiada che preannunciava una bella giornata.

Tigre aveva indossato un abito sportivo, come se si preparasse a una gita in campagna. Sul sedile accanto a sé aveva una piccola valigia. La meta era un bagno pubblico che Tanaka aveva assicurato essere di una natura molto speciale e molto piacevole. A quanto sosteneva Tigre, doveva essere un luogo anche molto discreto, e quest’ultima qualità avrebbe permesso di iniziare la trasformazione di Bond in qualcosa di più simile a un giapponese.

Tigre aveva scavalcato tutte le obiezioni di Bond. Quel dottore era senza dubbio un procacciatore di morte. Ma per quale ragione? Perché era pazzo? Per divertimento? Tigre non lo sapeva, né gli importava molto saperlo. Per ovvie ragioni politiche, la sua eliminazione, che era stata ufficialmente deliberata, non poteva essere eseguita da un giapponese. E così, l’arrivo di Bond era stato molto opportuno. Lui era dotato di una grande esperienza in simili operazioni e, se in seguito fosse stato arrestato dalla polizia giapponese, si poteva escogitare una spiegazione fittizia basata su manovre di servizi segreti stranieri. Bond sarebbe stato processato, condannato, e poi fatto uscire clandestinamente dal paese. Se avesse fallito, il dottore o i suoi guardiani lo avrebbero probabilmente ucciso. Sarebbe stato un vero peccato. Bond aveva obiettato che il botanico svizzero non gli aveva fatto nulla di male, ma Tigre aveva ribattuto che ogni uomo dabbene avrebbe dovuto nutrire un sentimento di odio verso un individuo che aveva provocato la morte di cinquecento suoi simili.

Non era forse vero? E, in ogni modo, Bond avrebbe avuto in cambio la Magic 44. Non gli bastava, forse, per mettere a tacere la sua coscienza? A malincuore, Bond aveva dovuto ammettere che Tigre aveva ragione. Come ultima risorsa, si era aggrappato al pretesto che l’incarico non aveva comunque alcuna probabilità di riuscita perché in Giappone uno straniero si riconosce a un chilometro di distanza.

Tigre aveva risposto di averci già pensato e che per prima cosa avrebbero fatto una visita al bagno pubblico. Là, Bond avrebbe ricevuto un primo trattamento, e si sarebbe potuto riposare prima di prendere il treno su cui Tigre lo avrebbe accompagnato. Sorridendo diabolicamente, il giapponese aveva aggiunto che almeno una parte del trattamento sarebbe stata piacevole e rilassante.

L’edificio dei bagni aveva l’aspetto di un comune albergo giapponese: un sentiero accuratamente lastricato che serpeggiava tra due file di pini nani, l’atrio spalancato e illuminato da una lampada giallognola che si rifletteva sul pavimento di legno lucido, tre ragazze sorridenti nonostante fossero ormai le cinque del mattino vestite col costume tradizionale, e l’inevitabile fila di immacolate pianelline. Dopo molti inchini e contro inchini, Bond si avviò a piedi scalzi (le pianelline erano troppo piccole, per lui, e le spiegazioni di Tigre alle ragazze suscitarono cortesi risatine soffocate dietro le mani) dietro una delle ragazze che lo guidò verso un pannello aperto in fondo a un corridoio. L’agente entrò in una piccola stanza che gli sembrò una combinazione di bagno turco e di stanza da letto. Una ragazza, che indossava soltanto un paio di mutandine attillate e un esiguo reggiseno, fece un profondo inchino, disse: “Scusate, per favore”, e cominciò a sbottonargli i pantaloni.

Bond le trattenne la manina, si rivolse alla ragazza che lo aveva accompagnato e che stava per chiudere il pannello e disse:

“Tanaka-san”, con un tono di voce che implorava e ordinava nello stesso tempo. Tigre fu mandato a chiamare. Apparve con indosso soltanto un paio di mutande. “Che cosa c’è, ancora?”

 

“Tigre, sono sicuro che questa graziosa ragazza e io andremo perfettamente d’accordo. Ma vorrei sapere qual è il menu. Sono io che mangio lei o è lei che mangia me?”

Tigre spiegò pazientemente: “Dovreste proprio imparare a ubbidire agli ordini senza far domande, Bondo-san. Questa sarà l’essenza dei nostri rapporti nei giorni futuri. Vedete quello scatolone? Quando la ragazza vi avrà svestito, vi chiuderà dentro e vi lascerà sudare abbondantemente, perché sotto c’è un fuoco di legna. Dopo circa dieci minuti vi tirerà fuori e vi laverà dalla testa ai piedi. E vi pulirà delicatamente anche le orecchie con uno speciale bastoncino d’avorio.

Poi verserà una tintura scura molto forte in quella vasca da bagno in cui voi vi immergerete preoccupandovi di bagnare anche i capelli e la faccia. Poi la ragazza vi asciugherà e vi taglierà i capelli alla moda giapponese. In seguito, vi farà stendere su quel letto e vi praticherà un massaggio che, secondo le vostre istruzioni, potrà essere delizioso e prolungarsi per tutto il tempo che vorrete. Poi dormirete. Al vostro risveglio, una ragazza vi augurerà il buongiorno con un bacio e con la prima colazione composta di uova al lardo e caffè. Poi vi potrete fare la barba o potrete incaricare una ragazza di farvela. Ecco tutto.” Tigre rivolse una breve domanda alla ragazza, la quale rispose cortesemente e si sollevò dalla fronte un ciuffo di capelli neri con un gesto civettuolo, e poi riprese: “La ragazza ha detto che ha diciotto anni e che si chiama Mariko Ichiban.

Mariko vuol dire “verità”, e Ichiban “numero uno”. In questi stabilimenti le ragazze sono tutte numerate. E adesso, vi prego di non disturbarmi più. Mi preparo a godermi il vostro stesso trattamento, ad eccezione della tintura. E vi prego di aver fiducia, in futuro. Voi state per trascorrere un periodo di sensazioni completamente nuove che potranno essere strane e sorprendenti, ma mai dolorose almeno finché vi troverete ai miei ordini. Assaporatele.

Godetele come se il destino non ve ne dovesse riservare altre.

D’accordo? E allora, buona notte, mio caro Bondo-san. La notte sarà breve, ma se vi abbandonerete completamente sarà deliziosa in ogni attimo.” Tigre fece un cenno malizioso con la mano e, prima di andarsene e di chiudere il pannello, disse ancora: “Quando vi alzerete, domani mattina, voi sarete “un uomo nuovo”.”

James Bond capì l’antifona almeno in parte e, mentre le operose dita di Mariko si affaccendavano a slacciargli i bottoni dei pantaloni, le sollevò il mento e le diede un bacio sulla morbida bocca dalle labbra rosate.

Più tardi, mentre sudava e rifletteva nel comodo scatolone di legno, molto stanco, leggermente brillo, ma di buon umore, gli ritornarono alla mente le idee nere che lo avevano assalito nel Roseto della Regina Mary. Ricordò anche il colloquio con M, che gli aveva raccomandato di lasciare a casa la pistola dato che non gli sarebbe servita in una missione puramente diplomatica. Un sorriso ironico accentuò le rughe attorno alla bocca dell’agente.

Mariko si stava esaminando nello specchio appeso alla parete e si stava ritoccando l’acconciatura e il disegno delle sopracciglia.

“Mariko. Fuori!” disse Bond.

Mariko sorrise e si inchinò. Senza fretta si tolse il reggiseno e si avvicinò alla scatola di legno.

Che cosa intendeva dire Tigre, con quella storia dell’uomo nuovo?

Bond porse una mano a Mariko, osservando come il suo seno si irrigidiva nello sforzo di aiutarlo a venir fuori dallo scatolone.

In realtà, quello che seguiva Tigre attraverso la folla della stazione di Tokio, era veramente un uomo nuovo. Il viso e le mani di Bond avevano preso una tinta scura, e i suoi capelli neri, abbondantemente unti, erano stati tagliati e pettinati con una frangetta che gli scendeva a metà fronte. Gli estremi delle sopracciglia erano stati accuratamente rasati e ora tendevano obliquamente all’insù. Come la maggior parte degli altri viaggiatori, anche Bond indossava una camicia bianca di cotone con i polsini a bottone, e portava una cravatta dozzinale di maglia di seta con una spilla dorata. I pantaloni neri, confezionati in serie, erano trattenuti alla vita da una cintura di plastica pure nera e avevano il cavallo piuttosto basso poiché il giapponese ha generalmente il busto lungo e le gambe corte. Un paio di sandali di plastica nera e un paio di calzini di nylon blu scuro completavano l’abbigliamento.

Da una spalla gli pendeva una borsa di tela un po’ consunta delle Linee Aeree Giapponesi, contenente una camicia, un paio di mutande, un paio di pantaloni e calze di ricambio, oltre a qualche pacchetto di sigarette Shinsei e ad alcuni oggetti di toletta di marca giapponese. In tasca, Bond aveva un pettine, un portafogli usato contenente circa cinquemila yen in biglietti di piccolo taglio, e un robusto temperino dalla lama non più lunga di cinque centimetri, secondo le prescrizioni legali. Non aveva fazzoletto, ma solo un pacchetto di quadratini di carta crespata. (Più tardi, Tigre gli aveva spiegato: “Bondo-san, l’abitudine occidentale di soffiarsi il naso e di custodire il muco in tasca, bene avvolto in un tessuto di seta o di lino come se si trattasse di un gioiello, fa leggermente ribrezzo. Trattate in quel modo anche le altre secrezioni del vostro corpo? Spero proprio di no! E così, se in Giappone avete voglia di soffiarvi il naso, fatelo con discrezione e liberatevi subito dopo del risultato.”)

Nonostante la sua alta statura, Bond passava inosservato nella folla degli indaffarati passeggeri che si aprivano il varco a furia di spintoni. Terminata la sua truccatura nello stabilimento dei bagni, Mariko si era divertita un mondo a rivestirlo. “Ola, signole giapponese,” aveva detto, dopo aver esaminato il risultato finale e dopo aver concesso a Bond un ultimo lungo bacio.

“La vostra roba, e quella che avete lasciato nell’albergo, è stata portata nell’appartamento di Dikko,” aveva spiegato Tigre. “Tra qualche ora, Dikko informerà il vostro Capo che siete partito da Tokyo con me per visitare il luogo dove funziona il Magic 44 e che starete assente per qualche giorno. Il mio stesso ufficio sa solo che io sono partito per una missione a Fukuoka, ma ignora che voi viaggiate con me. Ora prenderemo il diretto per Gamagori, che si trova sulla costa meridionale, e poi l’eliscafo della sera per attraversare la baia di Ise fino al porto di Toba. Là passeremo la notte. Il viaggio fino a Fukuoka sarà fatto senza fretta, in modo da permettervi di imparare molte cose. E’ necessario che io vi faccia familiarizzare con le abitudini e le usanze giapponesi per ridurre al minimo i vostri errori, quando sarà arrivato il momento opportuno.”

La lucida carrozza color argento e arancione si fermò vicino a loro. Tigre si affrettò a salirvi, ma Bond cedette cortesemente il passo a un gruppo di donne. Quando Bond si fu accomodato vicino a Tigre, questi sibilò irosamente: “Prima lezione, Bondo-san! Non cedete mai il passo alle donne. Spingetele, urtatele, calpestatele.

Le donne non hanno priorità, in questo paese. Potete essere cortese soltanto nei riguardi di uomini molto anziani, e basta. Capito?”

“Sì, maestro,” disse ironicamente Bond.

“E non fate dello spirito occidentale, fintanto che sarete mio allievo. Siamo impegnati in una missione molto importante.”

“E va bene, Tigre,” rispose Bond, rassegnato. “Ma per tutti i diavoli…”

Tigre alzò una mano. “Ancora un’altra cosa. Vi prego di non imprecare. Nella lingua giapponese non esistono imprecazioni e quindi l’abitudine al turpiloquio è sconosciuta.”

“Ma, santo cielo, Tigre! Nessun uomo degno di rispetto potrebbe trascorrere la giornata senza la sequela di parolacce che lo aiutano a sopportare i contrattempi della vita e che servono da valvola di sicurezza. Se voi arrivate in ritardo a un importantissimo appuntamento coi vostri superiori e vi accorgete di aver lasciato tutti i documenti a casa, certamente direte… be’, Giovannino, Federico, zio Carletto, se mi permettete degli eufemismi, tanto per non offendere nessuno.”

“No,” disse Tigre. “Io direi shimata, che significa “ho commesso un errore”.”

“Soltanto shimata?”

“Non c’è altro da dire.”

“Be’, supponiamo che sia stato il vostro autista a dimenticare i documenti. Non lo subissereste di insulti?”

“Se volessi licenziare il mio autista, potrei forse chiamarlo bakyaro che significa pressappoco “maledetto cretino”, o addirittura konchikisho che vuol dire “animale”. Ma questi sono insulti molto gravi e l’autista avrebbe il diritto di mettermi le mani addosso. E

senza dubbio scenderebbe dalla macchina e mi pianterebbe in asso.”

“E queste sono le parolacce giapponesi? E che mi dite dei vostri tabù? Dell’Imperatore, degli antenati e di tutti gli altri dei? Non li mandate mai all’inferno, o peggio?”

“No. Non avrebbe alcun significato.”

“E le parolacce di altra natura? Quelle sporche, per esempio.

Quelle a sfondo sessuale…”

“Ce ne sono soltanto due: chimbo, che è maschile, e monko che è femminile. Ma sono soltanto volgari descrizioni anatomiche. Non si impiegano come parolacce. Nella nostra lingua non c’è nulla di simile.”

“Humm… sono letteralmente sbalordito! Un popolo violento privo di un linguaggio violento! Un giorno o l’altro scriverò un trattato su questo argomento. Non mi stupisce che non vi rimanga altra alternativa che il suicidio, se siete bocciati a un esame, o che tagliate la testa alla vostra bella se vi infastidisce.”

Tigre rise: “Generalmente la spingiamo sotto il tram o sotto un treno.”

“Parola mia, sarebbe molto meglio sfogarsi con un “Porc…””, e Bond sgranò la solita litania.

“Basta così, Bondo-san,” disse Tigre con calma. “L’argomento è chiuso. Ma voi mi farete il piacere sia di evitare le imprecazioni sia di controllare la vostra espressione quando le pensate. Siate calmo, stoico, impassibile. Non vi incollerite. Sorridete alla cattiva sorte. Se vi torcete una caviglia, mettetevi a ridere.”

“Tigre, siete un maestro crudele.”

Tigre sorrise soddisfatto. “Bondo-san, voi non mi conoscete abbastanza. Ma adesso andiamo a mangiare e a bere qualcosa al buffet.

Tutto quel Suntory che mi avete costretto a bere la notte scorsa mi brucia ancora le budella.”

“Perché non provate col hara-kiri, scusate, col seppuku? Vi allevierebbe, senza dubbio.”

James Bond si affannò a raccogliere riso e listarelle di polpo crudo coi bastoncini (“Bisogna che vi abituiate alle specialità del paese, Bondo-san”), pur continuando ad osservare dai finestrini del buffet la costa frastagliata e disseminata di risaie. Era del tutto distratto quando qualcuno lo urtò violentemente. Per la verità, quella dell’urtare il prossimo è una specialità giapponese, e Bond cominciava a farci l’abitudine. Ma ora si voltò e fece a tempo a vedere le terga di un uomo robusto che si infilava in uno scompartimento. L’uomo aveva in testa un cappellaccio di cuoio nero e le fettucce bianche attorno alle orecchie indicavano che egli portava un masko. Quando i due amici tornarono al loro posto, Bond si mise una mano in tasca e si accorse di essere stato derubato del portafogli. Tigre fu stupefatto. “Non succede quasi mai, in Giappone,” disse, sulla difensiva. “Ma non importa. A Toba ve ne darò un altro. Sarebbe un errore rivolgerci al capotreno. E’ meglio non richiamare l’attenzione su di noi. Alla prossima fermata verrebbe avvisata la polizia e ci sarebbero degli interrogatori a non finire e mille formulari da riempire. Il tutto senza scopo, naturalmente. A quest’ora, il ladro si è messo in tasca il masko e il cappello e nessuno potrà più riconoscerlo. Sono spiacente per l’accaduto, Bondo-san. Spero che vorrete dimenticarlo.”

“Naturalmente. Non ha importanza.”

Scesero dal treno a Gamagori, un grazioso villaggio in riva al mare davanti a un’isola gibbosa nella quale , spiegò Tigre, c’era un importante santuario. Proseguirono per Toba con l’eliscafo, e il viaggio a cinquanta nodi all’ora sul pelo dell’acqua fu emozionante.

Mentre stavano sbarcando, Bond scorse con la coda dell’occhio una sagoma massiccia mescolata tra la folla. Era forse il ladro? Ma quell’uomo portava grossi occhiali cerchiati di tartaruga e nella folla c’erano altri uomini della sua corporatura. Bond non ci pensò pie seguì Tigre attraverso le viuzze festosamente adornate di bandiere di carta e di lanterne fino al solito edificio dall’ingresso ingentilito dai soliti pini nani. Erano attesi e furono accolti con la usuale deferenza. Bond ne aveva già abbastanza di inchini e di sorrisi e si trovò relativamente a suo agio quando fu lasciato finalmente solo nella sua maledettamente delicata stanzina, con la consueta delicata teiera, con la delicata tazzina e il delicato dolcetto avvolto in carta di riso. Si sedette davanti al pannello aperto su un giardino grande come un fazzoletto e guardò sconsolatamente verso il mare. Vicino alla riva si ergeva l’imponente statua di un signore in tight e bombetta; Tigre gli aveva detto che si trattava dell’onorevole signor Mikimoto, fondatore dell’industria delle perle coltivate, che era nato a Toba come povero pescatore e che aveva inventato il sistema di inserire nell’ostrica perlifera dei granelli di sabbia che col tempo sarebbero diventati il nucleo di una perla. I pensieri di Bond erano tetri. Al diavolo Tigre e il suo pazzesco progetto! In che razza di pasticcio si era cacciato? Stava ancora rimpiangendo la sua sorte quando Tigre entrò nella stanza e gli ordinò perentoriamente di indossare uno dei tanti yukata che pendevano nell’armadio ricavato in una parete di carta e nel quale era riposto anche il futon.

“Dovete concentrarvi maggiormente, Bondo-san,” disse Tigre con calma. “Ma state facendo dei progressi. Per premiarvi ho dato ordine che vi sia servito tutto il sakè che vorrete e una cena con la specialità del luogo: aragosta.”

Il morale di Bond si sollevò leggermente. L’agente si tolse i pantaloni e si avvolse in un yukata marrone scuro (“Alt!” fece Tigre.

“Avvolgetelo sulla destra! Soltanto ai cadaveri lo si avvolge sulla sinistra”); poi si rannicchiò nella posizione del loto e si sedette di fronte a Tigre davanti a un tavolino basso. Doveva riconoscere che lo yukata era un indumento arioso e comodo. Si inchinò. “Mi sembra un programma onesto. E ora, Tigre, perché non mi raccontate del vostro allenamento come kamikaze? Ditemi tutti i particolari. Di che si trattava, in effetti?”

Arrivò il sakè. La graziosa cameriera si inginocchiò sul tatami e versò il liquore ai due ospiti. Tigre ci aveva evidentemente pensato, perché l’alcool di riso fu servito in due autentici bicchieri. Bond vuotò il suo d’un fiato. Tigre osservò: “La volgarità del vostro modo di bere si adatta alla vostra futura identità.”

“E quale sarebbe la mia futura identità?”

 

“Quella di un minatore di Fukuoka. Molti uomini alti lavorano nelle miniere. Le vostre mani non sono abbastanza ruvide, è vero, ma il vostro lavoro consisterà nello spingere i carrelli di minerale.

Quando verrà il momento, vi riempiremo le unghie di polvere di carbone. Eravate troppo stupido per maneggiare un piccone. E poi, siete sordo e muto. Ecco,” Tigre gli porse un cartoncino sudicio e spiegazzato con una scritta in giapponese. “C’è scritto “Tsumbo de oshi” , sordo e muto. La vostra invalidità ispirerà compassione e anche un po’ di ribrezzo. Se qualcuno vi rivolgerà la parola, mostrate il cartoncino e la gente desisterà. Può anche darsi che vi facciano l’elemosina. Accettatela e inchinatevi profondamente.”

“Molte grazie. Suppongo che dovrò rendere conto di queste elemosine al vostro fondo segreto, è vero?”

“Non sarà necessario.” Tigre era impassibile. “Le spese di questa missione sono sostenute direttamente dal Primo Ministro.”

Bond si inchinò. “Sono molto onorato. E ora, vecchio bastardo, datemi dell’altro sakè e raccontatemi dei kamikaze. A tempo opportuno sono disposto a diventare un minatore sordomuto di Fukuoka, in pubblico sono disposto a sibilare e a inchinarmi, ma, per gli dei, quando siamo soli lasciatemi imprecare a mio piacimento o quanto prima mi ridurrò anch’io a infilare la testa sotto un battipali.

Siamo d’accordo?”

Tigre curvò la testa in un profondo inchino. “Shimata! Ho sbagliato. Ho calcato troppo. Il mio dovere è di intrattenere un amico, oltre a quello di istruire un allievo. Alzate il bicchiere, Bondo-san, o la ragazza non oserà mai riempirvelo di sua iniziativa.

E così, voi volete sapere dei kamikaze.” Tigre si dondolò avanti e indietro sulle natiche, e i suoi occhi scuri da assassino si fecero introspettivi. Senza guardare Bond, il giapponese cominciò: “E’

successo quasi venti anni fa. Le cose si stavano mettendo male per il mio paese. Io avevo lavorato nel Servizio Segreto sia a Roma che a Berlino. Mi ero tenuto lontano dalle incursioni aeree e ancor più lontano dalle prime linee e tutte le sere, quando ascoltavo la radio della mia patria e sentivo le notizie del lento ma continuo avanzare delle forze americane, isola dopo isola, villaggio dopo villaggio, non davo retta alle false notizie dei Nazi, ma pensavo soltanto che il mio paese era in pericolo e che io dovevo aiutare a difenderlo.”

Tigre fece una pausa. “E il vino mi si inacidiva in gola, e le ragazze diventavano pezzi di ghiaccio nel mio letto. Ascoltavo le vicende di quella magnifica invenzione, il corpo dei kamikaze. “Il vento degli dei” aveva già salvato il mio paese nel tredicesimo secolo, distruggendo la flotta del Kublai Khan. Mi sono detto che questo era il modo di morire; niente medaglie, morte totale, suicidio, se volete chiamarlo con questo nome, ma a costo di una perdita enorme per il nemico. Mi sembrava la forma più eroica di combattimento personale che fosse mai stata inventata. Avevo quarant’anni. Avevo vissuto pienamente. Mi sembrava che avrei potuto sostituire un uomo più giovane. La tecnica era elementare. Chiunque può imparare a pilotare un aereo. I caccia guidavano l’attacco e non c’era altro da fare che lasciarsi andare contro la nave più grande, possibilmente una portaerei carica di apparecchi pronti ad attaccare il Giappone. Si teneva la nave sotto gli occhi e ci si buttava giù, cercando di centrare il ponte di decollo o il montacarichi, che è il punto debole della nave. Bisognava tralasciare il ponte di comando o la linea di emersione, che erano fortemente corazzati. Bisognava colpire i punti vulnerabili, capite?”

Tigre era completamente assorto nei suoi ricordi di guerra. Bond conosceva quei sintomi. Lui stesso si addentrava spesso nella foresta incantata della memoria. Alzò il bicchiere. La ragazza inginocchiata si inchinò e glielo riempì. “Sì, continuate, Tigre.”

“Ho costretto il Kempeitai ad accettare le mie dimissioni e sono rientrato in Giappone. Poi, usando mezzi leciti e illeciti, sono riuscito a farmi ammettere nella squadra dei kamikaze in allenamento. Non è stato facile. Sembrava che tutti i giovani del paese volessero servire l’Imperatore a quel modo. A quel tempo, il materiale di volo cominciava a scarseggiare, ed eravamo costretti a servirci di un apparecchio più difficile a manovrarsi, il baku. Era un piccolo aereo, costruito quasi esclusivamente di legno, che aveva il muso imbottito di circa cinquecento chili di esplosivo. Una specie di bomba volante, insomma. Il pilota disponeva di un solo comando: una leva per controllare la direzione.” Tigre sollevò la testa. “Vi posso dire, Bondo-san, che era meraviglioso e terribile assistere alla partenza di una squadriglia di kamikaze. Quei giovani, vestiti di bianco immacolato, con a tracolla l’antica sciarpa dei samurai, correvano felici verso i piccoli apparecchi come se fossero attratti dall’essere amato. Il rombo dei caccia di scorta, e poi la partenza, alle prime luci dell’alba o nel buio della notte, verso l’obiettivo che era stato segnalato dalle spie o intercettato dalla radio. Era come se quei giovani volassero incontro ai loro antenati nel cielo. E

infatti era così. Nessuno di loro è mai tornato indietro o è mai stato fatto prigioniero.”

“E che cosa avete concluso? E’ vero; siete riusciti a terrorizzare la flotta americana e quella britannica. Ma avete perso molte migliaia dei vostri migliori uomini. Ne valeva forse la pena?”

“Vale forse la pena scrivere una delle più belle pagine della storia del proprio paese? Sapete che i kamikaze sono la sola unità nella storia della guerra i cui titoli di merito sono al disotto della verità? L’unità proclamava di aver danneggiato o affondato 276

mezzi navali, dalle portaerei in giù. In realtà, ne sono risultate 322.”

“Per vostra fortuna, la resa è avvenuta prima che vi mandassero in missione.”

“Per mia fortuna? Forse. Comunque, Bondo-san, uno dei miei sogni favoriti è quello di inabissarmi col mio aereo tra la luce del sole e gli scoppi dei proiettili antiaerei, di vedere le minuscole figure che scappano terrorizzate sul ponte di decollo in cerca di un riparo, e di sapere che un uomo tutto solo è in procinto di uccidere centinaia di nemici e di distruggere un congegno bellico del valore di un milione di sterline.”

“Penso che l’inventore dei kamikaze si sarà suicidato, al momento della resa.”

“L’ammiraglio Onishi si è suicidato, e nel modo più onorevole.

Quando si vuol procedere a un seppuku, si invitano due dei migliori amici perché provvedano a dare il colpo di grazia. L’ammiraglio si tagliò il ventre da sinistra a destra e poi verticalmente, fino allo sterno. Fu un taglio perfetto, ma lui non morì subito e, rifiutando il colpo di grazia, rimase un giorno intero, prima di morire, in contemplazione delle proprie viscere. Fu un atto sincero per chiedere scusa all’Imperatore.” Tigre fece un gesto con la mano. “Tuttavia non voglio rovinarvi la cena. Sono convinto che certe nostre usanze possano offendere la vostra suscettibilità occidentale. Ecco l’aragosta. Non sono forse degli splendidi animali?”

Coppe di lacca con riso, uova crude di quaglia in salsa e alghe a fettucce, erano state poste davanti ai due commensali. Su due piatti ovali erano disposte due aragoste le cui teste e code erano state lasciate come ornamento alle rosee fette di carne sistemate nel centro. Bond attaccò il suo piatto coi bastoncini e si stupì quando si accorse che la carne era cruda. La sua sorpresa aumentò quando l’animale cominciò a muoversi, ad agitare le antenne e a scivolare fuori dal piatto. “Queste dannate bestie sono vive!”

Tigre sibilò tra i denti in atto di disapprovazione: “Francamente, Bondo-san, voi mi state deludendo. Non ne combinate una giusta. Spero che farete qualche progresso durante il resto del viaggio. E ora mangiate e non fate lo schifiltoso. Questa è una squisitezza giapponese.”

Bond si inchinò ironicamente. “Shimata!” disse. “Ho commesso un errore. Per un momento ho pensato che all’onorevole aragosta giapponese non piacesse essere mangiata viva. Grazie per avermi corretto.”

“Vi abituerete presto ai sistemi di vita giapponesi,” disse Tigre in tono condiscendente.

“Sono i sistemi di morte giapponesi che non mi convincono,” rispose Bond cortesemente. Poi alzò il bicchiere in direzione della ragazza inginocchiata, per cercare di darsi un po’ di forza col sakè prima di provarsi ad assaggiare l’intruglio di alghe.

10. Studi superiori

Tigre e Bond si fermarono all’ombra delle gigantesche cryptomerie che fiancheggiavano il viale e osservarono i pellegrini che, con le macchine fotografiche a tracolla, andavano a visitare il famoso Geku di Ise, il tempio più importante della religione scinto. Tigre disse:

“Ecco, Bondo-san. Ora avete osservato il comportamento dei pellegrini davanti al santuario. Adesso dovete cercare di imitarli senza richiamare l’attenzione su di voi.”

Bond si avviò lungo il viale ben curato, oltrepassò il grande architrave di legno e raggiunse la folla raggruppata davanti al santuario. Due sacerdoti, con dei vivaci chimoni rossi e dei bizzarri copricapo neri, sorvegliavano la massa dei fedeli. Bond fece una riverenza verso il santuario, gettò una moneta nella rete metallica destinata a raccogliere le offerte, batté forte le mani, chinò la testa in atteggiamento di preghiera, tornò a battere le mani, fece un’altra riverenza e se ne andò.

“Bene,” commentò Tigre. “Uno dei sacerdoti vi ha dato un’occhiata di sfuggita, ma i fedeli non si sono accorti di voi. Forse avreste dovuto battere le mani più forte. Serve a richiamare su di voi l’attenzione della dea e dei vostri antenati per indurli a esaudire la vostra preghiera. A proposito, di che preghiera si trattava?”

“Temo proprio di essermene dimenticato, Tigre. Stavo cercando di ricordare la giusta successione dei movimenti.”

“La dea se ne sarà accorta, Bondo-san, e vi aiuterà a concentrarvi maggiormente per l’avvenire. Adesso torneremo alla macchina e andremo ad assistere a un’altra cerimonia alla quale voi parteciperete attivamente.”

Bond sospirò. Nel piazzale riservato al parcheggio, oltre ai grandi torii che custodivano l’ingresso, frotte di studenti sbucavano dai torpedoni mentre le donne adibite alla custodia dei veicoli gridavano “Awri, awri, awri”, e fischiavano per dirigere le vetture negli spazi riservati. Le ragazze indossavano dei severi vestiti blu e portavano delle calze di cotone nere. I ragazzi avevano la bella uniforme nera dal colletto chiuso degli studenti giapponesi. Tigre si aprì il passo tra la folla, sempre seguito da Bond. Quando ne emersero, Tigre sembrava soddisfatto. “Avete notato qualcosa, Bondo-san?”

“Solo un mucchio di belle ragazze, ma un po’ troppo giovani per il mio gusto.”

“Sbagliato. Se voi foste passato ieri, tra quelle ragazze, sareste stato accolto con dei risolini mascherati dietro le mani e da dei gaijin a non finire! Oggi nessuno si è accorto di voi, e non vi hanno preso per uno straniero. Lo si deve indubbiamente al vostro nuovo aspetto ma anche al progresso del vostro modo di comportarvi. Siete più sicuro di voi e vi sentite pia vostro agio.” Tigre esibì il suo sorriso dorato. “Il sistema Tanaka. Non è poi così squilibrato come voi pensate.”

Wadakin, sulla strada che porta a Kyoto, l’antica capitale, attraverso le montagne, è un modesto villaggio senza speciali caratteristiche. Tigre impartì delle precise istruzioni all’autista della macchina che i due amici avevano noleggiato, e la vettura si fermò di fronte a un imponente edificio simile a un granaio, in una viuzza interna. Si sentiva un acuto odore di bestiame e di letame.

Venne a riceverli colui che presumibilmente doveva essere il capo mandriano. Aveva le guance rosse e gli occhi buoni pieni di saggezza dei suoi colleghi della Scozia e del Tirolo. Tigre gli rivolse un lungo discorso e l’uomo dedicò a Bond un allegro sorriso. Poi, dopo aver abbozzato un inchino, precedette i due uomini verso la stalla.

Nell’interno del vasto locale faceva fresco; le grosse vacche brune, disposte in due lunghe file, ruminavano placidamente. Il mandriano sollevò una sbarra di legno, e mormorò qualcosa a una delle vacche.

Questa si alzò faticosamente sulle gambe sottili e uscì barcollando e fissando Bond con uno sguardo che lui ritenne di disapprovazione. Il mandriano intanto aveva portato una cassa di bottiglie di birra; ne prese una, la stappò e la porse a Bond. Tigre ordinò perentoriamente:

“Datela da bere alla vacca.”

Bond prese la bottiglia e si avvicinò coraggiosamente all’animale che alzò subito il muso e spalancò la bocca nella quale l’agente versò tutto il liquido. La mucca bevve così avidamente che per poco non ingoiò anche la bottiglia, e poi passò la ruvida lingua sulla mano di Bond, che rimase impassibile. Stava ormai abituandosi ai giochetti di Tigre e aveva deciso di sostenere qualsiasi prova a cui il giapponese lo avrebbe sottomesso con almeno la parvenza della presenza di spirito di un kamikaze.

Subito dopo, il mandriano gli porse una bottiglia piena di un liquido incolore. Tigre si incaricò delle spiegazioni. “Questo è shochu. E’ una specie di gin molto grezzo. Riempitevene la bocca, spruzzatelo sulla schiena della vacca e poi massaggiatela, in modo da far penetrare l’alcool nella pelle.”

Bond ebbe l’impressione che Tigre sperasse che un po’ di quel fuoco liquido gli andasse di traverso. Comunque, riuscì a spruzzare lo shochu senza trangugiarlo e si mise a strofinare energicamente la ruvida schiena dell’animale che si contorceva dal piacere. Dopo un po’, Bond si rivolse a Tigre e, dopo essersi asciugato col dorso della mano la bocca bruciata dall’alcool, gli chiese, in tono bellicoso: “E adesso? Adesso che cosa farà la vacca per me?”

Tigre scoppiò a ridere e tradusse la domanda al mandriano che a sua volta si mise a ridere e considerò Bond con un certo rispetto. Poi ci fu un’altra conversazione vivace tra i due giapponesi, uno scambio di cortesie e di inchini, e alla fine Tigre e Bond se ne andarono dopo aver consegnato al mandriano una mancia generosa. La meta seguente fu un ristorante del villaggio, fortunatamente deserto. I due ospiti furono fatti sedere su vere sedie, davanti a solide e autentiche tavole, e subito la cameriera arrivò con la bottiglietta del sakè.

Bond tracannò d’un fiato il vino di riso, nella vana speranza di far scomparire l’aspro sapore dello shochu, e poi chiese a Tigre: “E

adesso, ho diritto a una spiegazione, non vi pare?”

Tigre sembrava soddisfatto di se stesso. “La spiegazione vi sarà fornita dalla carne che mangeremo tra poco. E’ la carne di manzo migliore e più succulenta del mondo. Manzo di Kobe, ma così buono che non riuscirete a trovarlo nemmeno nel ristorante picaro di Tokyo.

Proviene dall’allevamento di un mio amico. Il mandriano era un’ottima persona, non è vero? Pensate che fa bere a ognuna delle sue vacche due litri di birra al giorno e le massaggia con lo shochu, così come avete fatto voi. Inoltre le nutre con un abbondante pastone di orzo.

Vi piace la carne di manzo?”

“No,” disse Bond, imperturbabile. “Il fatto è che non mi piace proprio.”

“E’ un peccato,” disse Tigre, senza sembrare molto afflitto. “Vuole il caso che stanno per servirvi la migliore bistecca del mondo, eccezione fatta per l’Argentina. E ve la siete ben meritata. Il mandriano è stato molto colpito dal modo con cui avete trattato quella vacca.”

“E che cosa prova, tutto questo?” borbottò Bond di malumore. “E

quale onorevole esperienza mi attende, questo pomeriggio?”

La bistecca venne servita con l’accompagnamento di una serie di piattini di contorno, e di una salsiera piena di sangue che Bond rifiutò decisamente. Ma la carne era veramente squisita e straordinariamente tenera. Tigre, continuando a masticare voracemente, rispose alla domanda di Bond. “Vi porterò a visitare una delle scuole segrete di allenamento del mio Servizio,” disse. “Non è molto distante di qui. Si trova in una vecchia fortezza, nelle montagne, e si chiama “Scuola Centrale di Alpinismo”. Le attività che si svolgono in quel Centro passano del tutto inosservate, e ciò è un gran bene perché è lì che i miei agenti imparano una delle arti più temibili che si insegnano in Giappone, il ninjutsu, che letteralmente significa l’arte della segretezza o dell’invisibilità. Tutti gli uomini che vedrete hanno già frequentato dieci dei diciotto corsi sull’arte marziale del bushido, ossia “via del guerriero”, e ora stanno addestrandosi ad essere dei ninja, ossia dei “penetratori invisibili”, il che ha costituito per secoli e secoli la base dell’addestramento delle spie, degli assassini e dei sabotatori.

Vedrete i miei uomini camminare sull’acqua, arrampicarsi sui muri e sui soffitti, e vi mostrerò l’equipaggiamento che permette loro di rimanere sott’acqua per un giorno intero, e parecchi altri trucchi.

Naturalmente, a parte le loro straordinarie doti fisiche, i ninja non sono degli esseri soprannaturali, così come vuole l’immaginazione popolare; comunque, i segreti del ninjutsu sono ancora custoditi gelosamente e appartengono a due scuole principali, la Iga e la Togakure, dalle quali escono i miei istruttori. Credo che le esercitazioni vi interesseranno e che ne potrete trarre qualche esperienza. Non permetto mai ai miei agenti di portare con sé delle armi da fuoco o delle altre armi evidenti. Nei miei principali campi d’azione, che sono la Cina, la Corea e la Russia, il possesso di un’arma all’atto dell’arresto costituirebbe una implicita prova di colpevolezza. I miei uomini devono imparare ad uccidere senza far uso di armi. Tutto ciò che concedo loro è un randello e un pezzo di catena, il cui possesso è facilmente giustificabile. Capite?”

“Sì, mi pare logico. Anche noi abbiamo un reparto simile, aggregato al Quartier Generale. Ma senza dubbio l’arte dello judo e del karatè richiedono anni e anni di allenamento. Che grado avete raggiunto, nello judo?”

Tigre si stuzzicò pensierosamente i denti. “Non ho superato la Cintura Nera e il settimo Dan. Non sono riuscito a raggiungere la Cintura Rossa e l’undicesimo Dan. Avrei dovuto rinunciare a qualsiasi altra attività, e con quale scopo? Per essere promosso poco prima di morire al dodicesimo e finale Dan? Dopo aver trascorso la vita intera a ruzzolare di qua e di là nell’Accademia Kodokan di Tokyo? No, grazie. Soltanto un fanatico potrebbe avere questa aspirazione.”

Sorrise. “Niente sakè! Niente belle ragazze! E, peggio ancora, non avere mai la possibilità di mettere in pratica l’arte che si è imparata, e cioè non poter mai affrontare un assassino e un ladro armato e averne il sopravvento. Coloro che hanno raggiunto le alte sfere dello judo sono soltanto una via di mezzo tra un monaco e un ballerino. Non fa per me!”

Qualche tempo dopo stavano filando di nuovo sulla strada diritta e polverosa. Per istinto, Bond si voltò a guardare dal finestrino posteriore seminascosto dalle tendine di pizzo che costituiscono il segno distintivo delle auto da noleggio e un pericoloso ingombro del campo visivo del conducente. In fondo al viale c’era un solitario motociclista. Più avanti, quando la macchina svoltò in una strada laterale nelle montagne il motociclista li stava ancora seguendo.

Bond avvisò Tigre, ma questi scrollò le spalle. “Sarà un agente della polizia stradale. Se è qualcun altro, ha scelto male l’ora e il posto.”

Il castello era del solito tipo riprodotto dalle stampe giapponesi e si ergeva nella spaccatura tra due montagne che un tempo doveva essere stato un importante passo, a giudicare dagli antichi cannoni che si affacciavano dall’alto dei possenti muraglioni di granito nero. Vennero fermati dapprima all’ingresso di un ponte levatoio e poi, dopo aver superato un fossato, all’entrata del castello. Tigre mostrò il suo lasciapassare e le guardie in borghese si profusero in profondi inchini e in sibili di rispetto. Poi, una campana squillò sulla parte più alta dell’imponente edificio che, come Bond ebbe agio di constatare dal cortile interno, aveva bisogno di una buona ripulitura generale. Quando la macchina si fermò, frotte di giovani in pantaloncini corti e in scarpette da ginnastica uscirono da varie porte e si misero in fila dietro a tre uomini più anziani. Tigre scese maestosamente dalla macchina e tutti si inchinarono profondamente. Tigre e Bond risposero a loro volta con un inchino. Vi fu uno scambio di brevi saluti con gli uomini più anziani e poi Tigre lasciò libero sfogo alla sua eloquenza con un lungo discorso in giapponese che uno degli uomini , evidentemente il comandante , punteggiava di rispettosi “Hai”. Dopo un “Hai, Tanaka-san” finale, l’ufficiale si rivolse agli studenti, la cui età si aggirava tra i venticinque e i trentacinque anni, pronunciò dei numeri e sei uomini fecero un passo avanti. Gli uomini ricevettero delle istruzioni, fecero dietrofront e corsero nell’interno del castello. Tigre spiegò: “Sono andati a indossare gli abiti mimetizzati. Poi ripercorreranno la strada che abbiamo fatto; se c’è qualcuno, lo porteranno qui. E ora assisteremo a un esercizio di attacco al castello.” Tigre impartì alcuni ordini e gli uomini si dispersero in un attimo. Circa un quarto d’ora dopo, dai bastioni che si alzavano alle loro spalle partì un fischio e subito dieci uomini sbucarono dalla foresta sulla sinistra. Erano vestiti di nero dalla testa ai piedi e soltanto gli occhi erano visibili attraverso le fessure dei cappucci. Corsero fino al bordo del fossato, si legarono ai piedi delle strisce ovali di legno di balsa, e scivolarono sull’acqua con un movimento simile a quello degli sciatori fino a raggiungere la base della gigantesca parete nera. Senza indugiare, gli uomini si liberarono dai galleggianti, tolsero di tasca delle corde e dei chiodi da roccia e cominciarono subito ad arrampicarsi sulla parete come veloci ragni neri.

007 1964 - Si vive solo due volte
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