Tigre si rivolse a Bond. “Naturalmente questa esercitazione dovrebbe svolgersi di notte. Fra qualche giorno anche voi dovrete fare qualcosa di simile. Osservate che le corde terminano con un gancio che gli scalatori lanciano e assicurano negli interstizi dei blocchi di pietra.” L’istruttore disse qualcosa a Tigre, indicando gli uomini di una squadra, e Tigre tradusse: “L’istruttore dice che l’uomo in coda è il più debole della squadra. Pensa che forse non riuscirà a farcela.”
Gli scalatori avevano quasi raggiunto la cima della parete, a circa sessanta metri di altezza, e stavano per sorpassarla quando l’uomo in coda mise un piede in fallo e precipitò all’indietro lanciando un urlo di terrore e agitando scompostamente braccia e gambe. Il corpo rimbalzò contro la parete poi cadde nelle acque calme del fossato.
L’ispettore brontolò qualcosa tra i denti, si strappò la camicia di dosso, superò con un balzo il parapetto e si tuffò nell’acqua da un’altezza di trenta metri. Non appena riemerse, si diresse con qualche rapida bracciata alla volta del corpo del giovane, che galleggiava con la faccia in giù. Tigre lanciò un’occhiata a Bond, e gli disse: “Non ha importanza. In ogni caso, quell’alunno non avrebbe superato il corso. E adesso andiamo nel cortile. Gli invasori hanno superato il muro e ora faranno uso del bojutsu contro i difensori, cioè combatteranno coi bastoni.”
Bond scoccò un ultimo sguardo all’istruttore che ora stava trascinando a riva quello che senza dubbio era un cadavere, e si chiese se tutto sarebbe andato bene alle prove del bojutsu.
Nel cortile, gli uomini lottavano l’uno di fronte all’altro, saltavano e cercavano di evitare i colpi dell’avversario, menando mazzate all’impazzata con dei grossi bastoni lunghi circa due metri.
Cercavano di colpire o paravano, usando il bastone come una lancia, miravano al ventre o si avvinghiavano in strani corpo a corpo con le facce che quasi si toccavano. Bond si era accorto con stupore che i combattenti rimanevano impassibili anche se erano raggiunti da bastonate al basso ventre. Ne chiese la spiegazione a Tigre il quale, visibilmente eccitato da quel selvaggio spettacolo di abilità e di forza, era troppo intento a non perdere una mossa e rimandò la risposta a più tardi. Intanto, gli invasori cominciavano a essere sopraffatti dalla difesa. Parecchi uomini neri giacevano al suolo privi di sensi o si lamentavano stringendosi uno stinco o la testa o lo stomaco. Finalmente, l’acuto sibilo del fischietto di un istruttore pose termine alla prova. I difensori avevano vinto. Un medico venne ad occuparsi dei feriti, e coloro che erano rimasti ancora in piedi si salutarono reciprocamente con dei profondi inchini e poi riverirono nello stesso modo Tigre, il capo istruttore e Bond.
Tigre pronunciò un breve ed energico discorso di congratulazione e poi condusse Bond a bere il tè e a visitare il museo delle armi ninja. Tra gli altri aggeggi, c’erano dei dischi delle dimensioni di un dollaro d’argento, muniti di punte acuminate, che venivano fatti girare su un dito e proiettati a grande distanza; vi erano inoltre delle catene alle cui estremità pendevano delle sfere provviste di punte, che si usavano come le bolas che nell’America Meridionale servono per abbattere il bestiame a distanza, e chiodi ritorti e aguzzi per ferire gli inseguitori a piedi nudi (Bond ricordò di aver visto chiodi simili disseminati sulle strade per ostacolare l’avanzata delle automobili tedesche, in tempo di guerra), e canne vuote per respirare sott’acqua (Bond aveva usato lo stesso stratagemma durante una sua avventura in un’isola dei Caraibi ), e un grande assortimento di pugni di ferro, e guanti dalle palme cosparse di ventose e microscopici uncini per “camminare” sulle pareti e sui soffitti, e una congerie di altri arnesi piuttosto primitivi per l’offesa e la difesa. Bond espresse la sua cortese ammirazione per l’attrezzatura ma nello stesso tempo non poté fare a meno di pensare all’invenzione russa usata con tanto successo nella Germania Occidentale: una pistola a gas cianidrico che non lasciava alcuna traccia e che permetteva di far diagnosticare la morte come il risultato di un collasso cardiaco. I celeberrimi sistemi ninjutsu non avevano certo la stessa potenza!
Quando tornarono nel cortile, il capo del plotone, che era stato mandato in cerca del motociclista inseguitore informò che erano state scoperte delle tracce di pneumatici a circa un chilometro dal castello. L’inseguitore si doveva essere fermato in quel punto per iniziare il viaggio di ritorno. Alla fine, con grande soddisfazione di Bond, e dopo una lunga sequela di inchini e saluti, anche i due amici ripresero la strada per Kyoto.
“Be’, Bondo-san, che cosa ne dite della mia scuola?”
“E’ una scuola seria. Gli esercizi che vi si imparano possono essere senza dubbio di grande utilità, ma ritengo che le vesti nere per le spedizioni notturne e i vari aggeggi che mi avete mostrato possono essere tanto compromettenti quanto una pistola, se uno degli uomini viene fatto prigioniero. Ma la scalata della parete è stata veramente straordinaria e il bojutsu deve essere molto efficace contro i comuni malfattori notturni armati di catena di bicicletta e di coltello a serramanico.”
Tigre sibilò nervosamente tra i denti: “Parlate come se l’unico genere di lotta da voi ammesso fosse quello che si vede nelle pellicole di cowboy. Non andreste molto lontano nella Corea del Nord, coi vostri metodi, se cercaste di penetrarvi vestito da contadino e senza armi.”
James Bond cominciava ad averne abbastanza delle emozioni provate durante la giornata e provava anche una certa pietà per lo studente che si era sacrificato per soddisfare la vanità di Tigre. Rispose brevemente: “Nessuno dei vostri ninja durerebbe molto a lungo nella zona orientale di Berlino”, e si chiuse in un cupo silenzio.
11. Lezione di anatomia
Con indicibile soddisfazione di Bond, quella sera i due amici si fermarono nel più elegante albergo di Kyoto, il Miyako. Il comodo letto, l’aria condizionata, il gabinetto di stile occidentale sul quale ci si poteva finalmente sedere, erano degli autentici sogni. A completamento del programma, Tigre disse a Bond che quella sera era costretto a lasciarlo solo perché doveva cenare col Capo della Polizia locale; diede quindi ordine che gli fosse servita in camera una doppia porzione di uova strapazzate e una bottiglia di whisky.
Dopo cena, per un tardivo senso del dovere, Bond si sorbì una puntata di un dramma televisivo molto famoso in Giappone, “I sette detective”, non riuscì a scoprire il colpevole e andò a letto per una dormita che durò dodici ore.
La mattina dopo, soffrendo delle conseguenze del whisky e, provando un leggero rimorso, si lasciò indurre da Tigre a compiere una visita alla più antica casa di tolleranza del Giappone, prima di compiere il rapido viaggio fino a Osaka e di lì, attraverso il Mare Interno, raggiungere l’isola meridionale di Kyushu. “Mi sembra un po’ presto, per andare a trovare delle puttane,” fu il suo unico commento.
Tigre scoppiò a ridere. “Mi spiace veramente che i vostri bassi istinti debbano sempre avere il sopravvento. Attualmente, in Giappone la prostituzione è illegale, e noi stiamo per recarci a visitare un monumento nazionale.”
“Ah! Che bello spettacolo!”
Ci fu un grande spreco di inchini e di sussurri, quando arrivarono allo spazioso edificio nella ormai defunta via delle lanterne rosse dell’antica capitale, e lo zelante custode offrì loro varie pubblicazioni descrittive. Scivolarono di stanza in stanza sui pavimenti lucidissimi, e si soffermarono ad esaminare gravemente i tagli prodotti dalle spade dei samurai , uomini impazienti e lussuriosi, come spiegò Tigre , nelle cornici di legno delle porte.
Bond chiese quante stanze da letto ci fossero nella casa, perché aveva avuto l’impressione che tutto lo spazio fosse occupato da una vasta cucina e da molte stanze da pranzo.
“Quattro stanze,” rispose il custode.
“Non è il migliore sistema di gestire una casa di tolleranza,”
commentò Bond. “Sarebbe stato meglio dotare l’iniziativa di una più rapida possibilità di rotazione, come si faceva una volta da noi.”
“Bondo-san,” gemette Tigre. “Per favore, cercate di evitare dei confronti tra il vostro sistema di vita e il nostro. Nei tempi antichi, questo era un luogo di riposo e di svago. Si mangiava, si ascoltava musica, ci si narrava storie. I clienti sussurravano dei tanka. Vedete quella scritta sul muro? Dice: “Tutto è nuovo, domani”.
Deve averlo scritto un uomo molto saggio.”
“Certo. E dopo aver scritto, ha buttato via la penna, ha impugnato la spada e si è messo a gridare: “Non è ancora libera la stanza numero quattro?” Bel monumento nazionale! E’ come nei nuovi Stati africani dove danno da intendere che il pentolone dei cannibali nella capanna del capo serviva in realtà a cuocere patate per i bambini affamati. Tutti cercano di dimenticare il proprio passato burrascoso, invece di farne motivo di orgoglio. Come noi stessi ci vantiamo di Morgan il Pirata o di Nell Gwynne, per esempio. Il grande assassino e la grande sgualdrina fanno parte della nostra storia. Non dovreste cercare di darci da bere che il vostro più antico bordello è una specie di Stratford-on-Avon.”
Tigre scoppiò in una sonora risata. “Bondo-san, i vostri commenti sui nostri sistemi di vita diventano sempre più oltraggiosi. Andiamo, è ora di ripulire la vostra mente con le salubri brezze del Mare Interno.”
Il Murasaki Maru era una modernissima nave da tremila tonnellate, dotata di tutte le comodità di un transatlantico. La folla salutava la sua partenza come se la nave fosse in procinto di attraversare l’oceano, invece di compiere in un viaggio di una giornata il tragitto di quello che poteva essere paragonato a un grande lago. Il ponte formicolava di varie comitive di gitanti , dipendenti di aziende, di circoli ricreativi o universitari , che facevano parte della vasta popolazione viaggiatrice del Giappone, sempre in moto per visitare parenti o santuari, o per ammirare le bellezze del paese. La nave passava maestosamente tra innumerevoli isolette montagnose, e Tigre colse l’occasione per informare Bond che in quelle acque vi erano degli ottimi gorghi “particolarmente prediletti dai suicidi”.
Poco dopo, Bond e Tigre si ritrovarono nel ristorante della prima classe davanti a una frittata al prosciutto e a una bottiglia di sakè. Tigre aveva delle velleità pedagogiche ed era deciso a ridurre l’estrema ignoranza di Bond nei confronti della cultura giapponese.
“Bondo-san, mi sto chiedendo se riuscirò mai a farvi apprezzare le sfumature del tanka giapponese o dello haiku. Sono le due forme classiche della poesia giapponese. Avete mai sentito parlare di Basho, per esempio?”
“No,” rispose Bond cortesemente. “Chi è?”
“Proprio come pensavo,” disse Tigre con amarezza. “E tuttavia, voi mi considerereste molto ignorante se vi dicessi di non aver mai sentito parlare di Shakespeare, di Omero, di Dante, di Cervantes o di Goethe. E tuttavia, Basho, un poeta del diciassettesimo secolo, può essere considerato alla loro altezza.”
“Che cosa ha scritto?”
“Era un poeta vagabondo. Componeva soprattutto degli haiku, che sono canti di diciassette sillabe.” Tigre assunse un’espressione sognante e recitò:
Nell’amara radice
del cuore, sento
il vento d’autunno.
“Non vi dice nulla? Sentite questo:
La farfalla bagna
le ali, nel profumo
dell’orchidea.
Non riuscite a capire la bellezza di questa immagine?”
“Piuttosto ambigua, se la si paragona a Shakespeare,” disse Bond.
Dopo la pesca, i grilli
cantano,
tra i gamberi morti.
“Non riesco ad afferrare il significato di quest’ultimo haiku,”
disse Bond in tono di scusa.
“Non riuscite ad afferrare la bellezza della natura morta contenuta in questo canto? L’attimo dell’acuta osservazione della natura, dell’umanità? Per favore, Bondo-san, cercate di scrivere un haiku.
Sono certo che finirete per riuscirvi. Dopo tutto, avrete pure una certa educazione!”
Bond rise. “La maggior parte della mia educazione è basata sugli autori greci e latini. Cesare, Omero, eccetera. Non serve affatto per ordinare una tazza di caffè a Roma o ad Atene, dopo aver lasciato la scuola. E cose come la trigonometria, che ho dimenticato del tutto.
Comunque, datemi una penna e un pezzo di carta e farò un tentativo.”
Tigre glieli porse e Bond si prese la testa fra le mani. Poi, dopo vari tentativi e diverse cancellature, disse: “Tigre, che cosa ve ne pare? Ha la logica del vecchio Basho e molto più succo.” E lesse a voce alta:
Si vive solo due volte:
una volta quando si nasce
e una volta quando si guarda
la morte in faccia.
Tigre batté le mani in segno di approvazione ed esclamò: “E’
eccellente, Bondo-san. E’ eccellente davvero.” Riprese la penna e la carta, segnò alcuni ideogrammi e poi scosse il capo. “No, non se ne può fare un haiku. Ci sono troppe sillabe. Ma tuttavia è un tentativo molto onorevole.” Scrutò Bond. “Pensavate forse alla vostra missione?”
“Forse,” rispose Bond con indifferenza.
“Siete preoccupato?”
“Un po’, per quanto riguarda le difficoltà materiali. Quanto ai principi morali del gioco, mi ci sono già rassegnato. Così come stanno le cose, devo per forza ammettere che il fine giustifica i mezzi.”
“E dunque, non siete preoccupato per la vostra vita!?”
“Non troppo. Ho svolto delle missioni ben più difficili.”
“Mi debbo congratulare per il vostro stoicismo. Siete diverso dalla maggior parte degli occidentali che danno così importanza alla vita.”
Tigre lo guardò con una certa simpatia. “C’è forse una ragione speciale?”
Bond preferì sorvolare. “Non mi pare. Ma, per l’amor del cielo, smettiamola! Non cercate di sottomettermi a uno dei vostri lavaggi del cervello giapponesi. Piuttosto, ordinate dell’altro sakè e rispondete alla domanda che vi ho rivolto ieri. Come mai, quei lottatori potevano sopportare indifferentemente quegli spaventosi colpi al basso ventre? Ciò mi servirebbe senza dubbio molto di piche non tutte quelle storie sulla poesia.”
Tigre rise e ordinò dell’altro sakè. “Disgraziatamente, voi siete ormai troppo vecchio per imparare quel trucco. Se vi avessi avuto tra le mani all’età di quattordici anni, sarebbe stato differente. Ora vi spiego. Avete visto i lottatori di sumo? Sono loro che hanno inventato quel trucco, parecchie centinaia di anni fa. Per loro, è importantissimo immunizzare quella parte del corpo. Sapete che, fino alla pubertà i testicoli sono trattenuti nel canale inguinale e che nel periodo dell’adolescenza uno speciale muscolo si rilassa e i testicoli scendono nello scroto. Ebbene, il lottatore di sumo è indirizzato verso quella professione fin dalla pubertà. Di solito si sceglie un ragazzo per la sua forza o per il suo peso o perché appartiene a una famiglia di lottatori. Praticando un continuo massaggio su quelle parti, si riesce a rinforzare il muscolo e a far risalire i testicoli nel canale inguinale da cui sono discesi.”
“Caspita!” esclamò Bond pieno di ammirazione. “Voi giapponesi la sapete lunga. Volete dire che con quell’esercizio si possono far risalire e ridiscendere i testicoli a volontà?”
“Pio meno, è proprio così. Prima del combattimento, i lottatori si bendano accuratamente quella parte per mantenere invulnerabili gli organi nel loro nascondiglio. Dopo la lotta, nel bagno, i testicoli ritorneranno al loro posto, nello scroto. E’ un vero peccato che sia troppo tardi per voi imparare quell’arte. Avreste avuto un pericolo di meno, nella vostra missione. So per esperienza che il basso ventre è il tallone di Achille degli agenti, quando lottano o quando corrono il pericolo di essere catturati. Come voi sapete, è difficile resistere a una tortura effettuata su quegli organi.”
“Altro che se lo so!” esclamò Bond. “Molti dei nostri uomini si servono di un aggeggio per riparare gli organi sessuali, ma io l’ho trovato troppo scomodo.”
“Come è fatto quell’arnese?”
“E’ un leggero scudo di alluminio foderato. Di solito lo indossano i nostri giocatori di cricket.”
“In Giappone non abbiamo nulla di simile. Non giochiamo a cricket, ma solo a baseball.”
“Siete stati fortunati ad evitare una occupazione britannica,”
commentò Bond. “Il cricket è un gioco ben più difficile e richiede un’estrema abilità.”
“Gli americani non la pensano così.”
“Sicuro. Come farebbero, altrimenti, a vendervi i loro attrezzi da baseball?”
Verso il tramonto arrivarono a Beppu, nell’isola meridionale di Kyushu. Tigre disse che quello era il momento giusto per una visita ai famosi geyser e alle fumarole della piccola stazione termale. La mattina seguente non avrebbero avuto il tempo per farlo, dato che dovevano partire presto per Fukuoka, la loro meta finale. Bond provò un leggero brivido, nell’udire quel nome. Si avvicinava rapidamente il momento in cui le passeggiate turistiche e le bevute di sakè sarebbero cessate.
I due amici visitarono tutti i dieci spettacolari “inferni” delle alture di Beppu, come erano ufficialmente chiamati. La puzza di zolfo era insopportabile e ogni ribollente e gorgogliante fumarola era più spaventosa della precedente. I geyser fumosi ed eruttanti fango bollente erano di diversi colori , rossi, azzurri, arancione , e dappertutto si vedevano dei grandi cartelli con teschi e tibie incrociate che ammonivano i visitatori di tenersi lontano. Al decimo
“inferno”, c’era una scritta in inglese e in giapponese che annunciava una eruzione ogni venti minuti precisi. I due amici si unirono a un gruppetto di persone sotto i fari che illuminavano un piccolo cratere tranquillo circondato da rocce spruzzate di fango.
Dopo cinque minuti di attesa, si udì un brontolio cupo nel sottosuolo e dal cratere sprizzò una colonna di fango bollente che si alzò a una altezza di sei metri prima di ripiombare nel recinto. Mentre stava allontanandosi dall‘“inferno”, Bond notò una grande ruota dipinta di rosso, chiusa in un recinto separato e assicurata da grosse catene.
Sul recinto vi erano dei cartelli di ammonimento e dei teschi particolarmente minacciosi.
“Dicono che quella ruota controlla le eruzioni del geyser.
Assicurano che se qualcuno girasse quella ruota, l’intera stazione termale salterebbe in aria. E’ una specie di valvola di sicurezza del vulcano, senza la quale l’eruzione non potrebbe liberare parte della sua forza che è equivalente a un migliaio di tonnellate di dinamite.
Naturalmente è una fandonia che serve solo per i turisti. Ma adesso torniamo in città, Bondo-san. E’ l’ultimo giorno che passiamo assieme,” e aggiunse rapidamente, “in questo viaggio, beninteso. Ho voluto organizzare qualcosa di speciale e dalla nave ho fatto telegrafare che ci preparassero una festa fugu!”
Bond bestemmiò tra sé e sé. Il ricordo delle uova strapazzate che aveva mangiato la sera prima gli era insopportabilmente dolce. Si chiese che nuova mostruosità gli stesse preparando Tigre.
“Il fugu è il pesce pallone giapponese. Quando è in acqua somiglia a un gufo, ma quando è catturato si gonfia fino a sembrare una palla ricoperta di spine acuminate. Spesso li facciamo seccare, li vuotiamo e li usiamo come lanterne. Ma la carne è particolarmente prelibata. E’
il cibo preferito dai lottatori di sumo, perché si suppone che la carne di quel pesce sia estremamente energetica. Ma il fugu è anche molto apprezzato dai suicidi e dagli assassini perché il suo fegato e le ghiandole sessuali contengono un veleno potentissimo.”
“E’ un’ottima scelta per il menu di questa sera. Vi ringrazio per il pensiero, Tigre!”
“Non dovete aver timore, Bondo-san. Date le pericolose proprietà di questo pesce, ogni ristorante dove si serve del fugu è provvisto di personale specializzato ed è controllato dal Ministero.”
Lasciarono i bagagli nell’albergo dove Tigre aveva prenotato le camere, si deliziarono con l’o-furo, l’onorevole bagno che presero assieme in una minuscola piscina piastrellata di azzurro dall’acqua calda puzzolente di zolfo, e infine, completamente rilassati, si diressero verso il mare.
(Bond si era innamorato della civile, e vagamente romana, abitudine giapponese del bagno. Era forse per il fatto che si lavavano fuori dal bagno, invece di avvoltolarsi nella propria sporcizia, che i giapponesi avevano quel caratteristico odore di pulito? Tigre aveva detto esplicitamente che, nel caso più favorevole, gli occidentali puzzavano di porcile.)
Il ristorante aveva per insegna un gigantesco pesce pallone che pendeva sulla porta. Nell’interno, con grande sollievo di Bond, c’erano delle sedie e dei tavoli allo stile occidentale dove un certo numero di persone era occupato a mangiare con l’intensa concentrazione tipica dei giapponesi. I due amici furono accompagnati a un tavolo riservato. Bond tenne a precisare immediatamente: “Voglio avvisarvi, Tigre, che non ho intenzione di commettere l’onorevole suicidio prima di aver ingollato almeno cinque bottigliette di sakè.”
Le cinque bottigliette furono messe subito davanti a Bond, tra il risolino soffocato delle cameriere. Bond le vuotò tutte, bicchiere dopo bicchiere ed espresse la sua soddisfazione. “Ora posso attaccare quel dannato pesce pallone,” disse in tono bellicoso. “E se muoio, tanto di guadagnato per il nostro amico dottore e castellano.”
Gli fu messo davanti, con una infinità di cerimonie, un bellissimo piatto di porcellana grande come una ruota di bicicletta. Su di esso, delle sottilissime fette di carne erano disposte tutt’attorno come i petali di un fiore. Seguendo l’esempio di Tigre, Bond impugnò i bastoncini. Era molto fiero di aver raggiunto il grado di Cintura Nera nel maneggio di quegli strumenti: una volta era infatti riuscito a mangiare un uovo poco cotto servendosi esclusivamente di quelle stecche.
Il pesce non aveva nessun sapore, nemmeno di pesce. Ma era assai piacevole al palato e Bond si lasciò andare a spropositati complimenti perché Tigre, che schioccava le labbra a ogni boccone, evidentemente se li attendeva. Seguirono altri piatti che contenevano diverse parti del pesce, e ancora del sakè, ma questa volta aromatizzato con pinne crude di fugu.
Bond si appoggiò allo schienale della sedia e accese una sigaretta.
“Bene, Tigre, siamo agli sgoccioli del vostro corso di istruzione. Mi avete detto che domani dovrò spiccare il volo. Che voto mi date, dall’uno al dieci?”
Tigre lo guardò un poco perplesso. “Non mi avete deluso, Bondo-san, a parte una certa vostra tendenza a scherzare alla maniera occidentale sulle nostre abitudini orientali. Fortunatamente sono un uomo dotato di una pazienza infinita, e debbo ammettere che la vostra compagnia mi ha fatto molto piacere e mi ha divertito, fino a un certo punto. Vi posso dare sette e mezzo.”
Quando si alzarono per andarsene, un uomo urtò Bond per raggiungere l’uscita. Era un uomo robusto col volto nascosto da un masko bianco e con in testa un cappellaccio di cuoio nero. L’uomo del treno!
Guarda, guarda! pensò Bond. Se si fa vedere sulla strada per Fukuoka, lo acchiappo. E, se non lo vedo più, lo attribuirò al
“Ministero delle strane coincidenze”. Ma con questo, classifico con uno zero le capacità di osservazione di Tigre!
Parte seconda: …che arrivare
12. Appuntamento a Samara
Alle sei del mattino seguente venne a prenderli una macchina del Prefetto di Polizia di Fukuoka. Sul sedile anteriore avevano preso posto due caporali della Polizia. Si diressero velocemente verso il nord, seguendo la strada costiera. Dopo un po’, Bond disse: “Tigre, siamo seguiti. Non mi importa di ciò che pensate, ma vi assicuro che l’uomo che mi ha rubato il portafogli in treno era ieri sera nel ristorante fugu, e ora ci sta seguendo in motocicletta, a circa un chilometro di distanza. Ci scommetto qualsiasi cosa. Date retta a me e dite all’autista di buttarsi in una strada laterale, di lasciarsi sorpassare e poi di dargli la caccia. Ho un certo fiuto, per queste cose, e vi prego di fare ciò che vi dico.”
Tigre grugnì. Guardò dal finestrino posteriore e poi diede delle rapide istruzioni all’autista. Questi rispose con un pronto “Hai!”
mentre il poliziotto seduto al suo fianco estraeva dalla fondina una M-14 automatica. Tigre strinse a pugno le possenti mani.
Giunti a una strada laterale sulla sinistra, che portava a un ciuffo di arbusti, l’autista sterzò rapidamente, e fermò il motore.
Si misero in ascolto, al riparo delle piante. Il rombo della motocicletta si avvicinò e poi si allontanò di nuovo. L’autista fece una rapida marcia indietro, si riportò sulla strada e cominciò l’inseguimento. Tigre ringhiò furiosamente ulteriori istruzioni. E
poi spiegò a Bond: “Gli ho detto di cercare di fermarlo suonando la sirena, e, se il nostro uomo non ci dà retta, di spingerlo pure nel fossato.”
“E’ forse meglio mettere in pratica il primo sistema,” rispose Bond che cominciava ad avere qualche dubbio. “Potrei anche essermi sbagliato e forse non è altro che un commesso viaggiatore che ha fretta.”
Correvano a ottanta all’ora lungo una strada serpeggiante. Ben presto scorsero la scia di polvere sollevata dalla motocicletta e, subito dopo, l’uomo curvo sul manubrio.
L’autista mormorò qualcosa che Tigre tradusse: “Dice che la moto è una Honda 500 cc’ e che potrebbe facilmente sfuggirci, se volesse. Ma anche i delinquenti giapponesi rispettano la disciplina. Ubbidirà senza dubbio alla sirena.”
La sirena lanciò il suo urlo lacerante. Quando l’uomo voltò la testa, Bond si accorse che aveva il viso coperto dal masko bianco. Il motociclista rallentò e, prima di fermarsi completamente infilò la mano destra nell’interno della giacca. Bond aveva la mano sulla maniglia della portiera e avvisò: “Attento, Tigre! E’ armato!” Mentre la macchina si fermava accanto alla moto, Bond aprì di colpo lo sportello e si lanciò a capofitto contro l’uomo, facendolo cadere al suolo assieme al suo veicolo. Il caporale che sedeva accanto all’autista si precipitò a sua volta sul caduto e i due corpi rotolarono nel fossato. Quasi immediatamente, il caporale si rialzò in piedi stringendo in mano un coltello lordo di sangue. Lo gettò via e si curvò di nuovo sul motociclista slacciandogli rapidamente la giacca e la camicia. Poi si rialzò e scrollò la testa. Tigre gli gridò qualcosa e l’agente cominciò a schiaffeggiare energicamente la faccia del caduto. Il masko scivolò sul mento dell’uomo e Bond riconobbe il rictus della morte. Nauseato, si rivolse a Tigre.
“Fatelo smettere, Tigre! Quell’uomo è morto!”
Tigre scese nel fossato, raccolse il coltello dell’uomo e, chinatosi, tagliò fino alla spalla la manica destra della giacca del cadavere. Poi chiamò Bond e gli indicò un ideogramma nero tatuato sotto l’ascella. “Avevate ragione, Bondo-san. E’ un Drago Nero.” Si rialzò, aggrottò le sopracciglia e disse: “Shimata!”
I due poliziotti assistevano alla scena cortesemente perplessi.
Tigre impartì loro degli ordini. Frugarono gli indumenti del morto e porsero a Tigre alcuni oggetti, tra i quali c’era il portafogli di Bond coi cinquemila yen, e un taccuino. Poi sollevarono il morto e lo infilarono senza tanti complimenti nel portabagagli della macchina.
Subito dopo nascosero la motocicletta tra gli alberi, si riassettarono gli abiti e tornarono a sedersi in macchina.
Qualche minuto dopo aver ripreso il viaggio, Tigre disse pensierosamente: “E’ incredibile! Quella gente deve avere qualcuno che mi pedina in permanenza, a Tokyo.” Sfogliò il taccuino. “Sì, ci sono tutte le mie mosse della settimana scorsa e tutte le tappe del nostro viaggio. Voi siete semplicemente descritto come un gaijin. Ma quell’uomo potrebbe aver telefonato una vostra descrizione. E’ un contrattempo davvero spiacevole, Bondo-san, e io vi debbo tutte le mie scuse. Naturalmente vi assolvo dalla vostra missione. Sono stato imperdonabilmente trascurato. Non ho preso abbastanza sul serio questa gente. Bisogna che telefoni a Tokyo non appena saremo arrivati a Fukuoka. Ma per lo meno vi sarete reso conto delle misure prese dal dottor Shatterhand per proteggersi. Quell’uomo è qualcosa di più di ciò che sembra. Sono convinto che in passato deve essere stato un agente segreto esperto. Se non fosse così, non avrebbe potuto scoprire la mia identità, che è un segreto di Stato, non sarebbe convinto che sono io il suo principale nemico, e non avrebbe preso delle contromisure per salvaguardare la sua segretezza. Devo concludere che Shatterhand è un gran pazzo o un gran criminale. Non siete d’accordo, Bondo-san?”
“Penso di sì. Sono molto impaziente di vedere quel tipo. E non vi preoccupate, per la missione. Questa era proprio la scintilla che ci voleva per accendermi i razzi in coda.”
Il Quartier Generale della sezione locale del Sosaka, la Cid dell’isola meridionale di Kyushu, si trovava vicino alla strada principale per Fukuoka. Era un edificio tetro, di mattoni gialli, con uno stile pseudo tedesco. Tigre confidò a Bond che prima e durante la guerra quella era la sede del Quartier Generale del Kempeitai, la Gestapo giapponese. Tigre fu ricevuto con tutti gli onori. L’ufficio del Capo della Cid era piccolo e disordinato. Il sovrintendente Ando dava l’impressione di essere perfettamente simile a uno dei tanti impiegati giapponesi, ma Bond scorse il suo sguardo acuto e intelligente dietro le lenti spesse dei suoi occhiali. Mentre Tigre e Ando continuavano a parlare, Bond si sedette e si preparò a una lunga attesa, fumando pazientemente. Finalmente, Ando prese da uno scaffale una grande fotografia aerea del Castello della Morte e la spiegò sul tavolo. Tigre si rivolse a Bond e lo pregò di avvicinarsi usando delle forme di cortesia che non sfuggirono né all’agente inglese né al Sovrintendente giapponese. Bond pensò di aver accumulato molto On nei riguardi di Tigre o, alternativamente, che Tigre riteneva di aver perso molta della sua reputazione nei suoi confronti, dopo la faccenda del Drago Nero. “Per favore, Bondo-san, esaminate questa fotografia. Il Sovrintendente dice che l’accesso dalla terraferma è quasi impossibile, attualmente. I candidati suicidi pagano i contadini del luogo per essere guidati attraverso le paludi che si trovano in questo punto,” e indicò il luogo, “e si sa che ci sono varie brecce, nel muraglione che circonda la proprietà, che vengono costantemente spostate e tenute libere per i suicidi. Tutte le volte che la polizia mette degli uomini a sorvegliare una di quelle brecce, i guardiani del castello fanno sapere ai contadini dove se ne sono aperte delle nuove. Il Sovrintendente non sa più cosa fare.
Nell’ultima settimana, l’obitorio ha ospitato venti cadaveri. Il Sovrintendente vuole rassegnare le dimissioni.”
“Naturalmente,” disse Bond. “E magari sta già pensando a un bell’avvelenamento a base di fugu. Vediamo un po’.”
Alla prima occhiata, il cuore di Bond si riempì di sgomento. Il castello gli sembrava molto più inavvicinabile di quello di Windsor!
La proprietà copriva tutta l’area di un piccolo promontorio che si affacciava sul mare dalla costa rocciosa. La scogliera a strapiombo alta circa sessanta metri, che girava attorno al promontorio, era stata rivestita di giganteschi blocchi di pietra fino al livello del mare. I blocchi formavano un massiccio muraglione verticale nel quale si aprivano di tanto in tanto le nicchie per i cannoni e, in ordine sparso, le garitte per le sentinelle. La parete si alzava per circa tre metri sul parco fitto di alberi e di cespugli fra i quali scorrevano dei ruscelli sinuosi e si stendeva un laghetto con una piccola isola nel centro. Dal lago e da qualche macchia di verde sembrava si alzasse una nuvola di vapore. Nella parte posteriore della proprietà si ergeva il castello, protetto dalla campagna a più basso livello da un muro, apparentemente di modeste proporzioni. Era da quel muro che i candidati suicidi riuscivano a entrare. Il castello era un gigantesco edificio a cinque piani, nel solito stile giapponese, coi tetti ricoperti di piastrelle di porcellana. La parte più alta era decorata da statue che rappresentavano delfini, e il resto dell’architettura era sovraccarico di una profusione di fregi, di minuscoli balconi, di torrette isolate, di verande, il tutto dipinto in nero e oro. L’assieme dava l’impressione di una fantasmagorica scenografia perfettamente adatta per un film di vampiri. Con l’aiuto di una grossa lente, Bond esaminò tutta la proprietà, centimetro per centimetro, ma non riuscì a rilevare nulla di interessante, oltre alla presenza di qualche giardiniere intento a lavorare nel parco o a rastrellare i viali.
Bond posò la lente e disse, di malumore: “Questo non è un castello!
E’ una fortezza! Come pensate che io possa riuscire a entrare in questo dannato parco?”
“Il Sovrintendente chiede se siete un esperto nuotatore. Ho dato ordine che mi mandino una completa attrezzatura dalla scuola di ninjutsu. Il muraglione sul mare non rappresenta un grosso problema.”
“So nuotare abbastanza bene, ma come faccio per arrivare alla base del muraglione? Da dove parto?”
“Il Sovrintendente dice che a un solo chilometro di distanza dal promontorio c’è un’isola di ama che si chiama Kuro.”
“Che cos’è un’isola di ama?”
“Ce ne sono diverse, in Giappone; suppergiù una cinquantina. Gli ama fanno parte di una speciale tribù le cui ragazze pescano le awabi, un frutto di mare particolarmente pregiato. A volte pescano anche delle ostriche perlifere. Lavorano nude e quasi sempre sono molto belle. Ma sono scontrose e non vedono di buon occhio gli intrusi che vanno nelle loro isole. Hanno le loro abitudini primitive e i loro usi. Sono un po’ come i vostri zingari. Raramente si sposano con uomini che non siano della loro tribù, e ciò ne ha fatto una razza a parte.”
“E’ interessante, ma come faccio a stabilire una base su quell’isola? Può darsi che sia necessario attendere parecchi giorni prima che il tempo sia propizio per la traversata.”
Tigre parlò col Sovrintendente, il quale rispose con un lungo discorso. “Ah, so desu ka!” esclamò Tigre, approvando. Poi, rivolto a Bond: “Sembra che il Sovrintendente sia un lontano parente di una famiglia di Kuro. La famiglia è composta di padre, madre e una figlia. La ragazza è Kissy Suzuki. L’ho già sentita nominare. Quando aveva diciassette anni, è diventata famosa perché è andata a Hollywood a fare un film. Volevano una bella pescatrice giapponese e qualcuno aveva sentito parlare di lei. Dopo il film, la ragazza non ha voluto rimanere a Hollywood ed è tornata alla sua vita di ama.
Avrebbe potuto guadagnare una fortuna, ma nessuno è riuscito a convincerla a rimanere in America. L’avevano battezzata “la Garbo giapponese”. Ora Kissy deve avere circa ventitré anni e il mondo non si ricorda più di lei, ma allora l’opinione pubblica fu molto favorevole alla sua decisione, la stampa si occupò a lungo di lei e tutti ritennero che la ragazza si era comportata molto onorevolmente.
Il Sovrintendente ritiene che voi potrete sistemarvi presso quella famiglia. Sembra che abbiano degli obblighi verso di lui. Dice che è una casa semplice ma comoda, grazie al denaro che la ragazza ha guadagnato a Hollywood. Le altre case dell’isola non sono altro che capanne di pescatori.”
“Ma il resto della comunità non si risentirà della mia presenza nell’isola?”
“No. Quella gente appartiene alla religione shinto, e se il Sovrintendente parlerà col loro sacerdote non ci saranno difficoltà di sorta.”
“E va bene, mi sistemerò in quell’isola e da lì una notte nuoterò fino al muro. Ma come farò ad arrampicarmi?”
“Vi darò l’equipaggiamento ninja. E’ già qui. Avete visto come si usa. E’ molto semplice.”
“Non è stato altrettanto semplice per l’uomo che è caduto nel fossato, comunque. E poi che cosa devo fare?”
“Vi nasconderete da qualche parte e aspetterete l’occasione propizia per ucciderlo. Lascio a voi la scelta del sistema migliore.
Come vi ho detto, il dottor Shatterhand gira sempre protetto da una corazza, e un uomo vestito in quel modo è molto vulnerabile. Basterà farlo cadere. Quando sarà a terra dovrete soltanto strangolarlo con la catena ninja che porterete avvolta alla vita. Se sua moglie è con lui, bisognerà strangolare anche quella donna. E’ certamente compromessa nella faccenda e del resto è troppo brutta per vivere.
Poi fuggirete dalla parte del mare e tornerete a nuoto a Kuro. Quando sarete arrivato, verrà subito una lancia della Polizia a prendervi.
La notizia della morte di Shatterhand sarà risaputa subito.”
Bond era un po’ dubbioso. “Be’, sembra tutto molto facile. Ma non avete pensato ai sorveglianti. Mi sembra che quel luogo ne pulluli.”
“Bisognerà cercare di evitarli. Come avete visto, nel parco ci sono parecchi nascondigli.”
“Tante grazie. Potrei nascondermi in uno di quei cespugli tossici o salire su qualche albero velenoso, ma non ho nessuna voglia di perdere la vista o di diventare pazzo.”
“L’abbigliamento ninja vi consentirà una protezione completa. Vi daremo un vestito nero per la notte e un vestito mimetizzato per il giorno. Potrete proteggervi gli occhi con gli occhiali da nuoto.
Inoltre vi consegneremo un sacco di plastica dove potrete riporre tutta quella roba.”
“Mio caro Tigre avete pensato proprio a tutto. Ma francamente preferirei portare con me soltanto una piccola pistola.”
“Sarebbe una pazzia, Bondo-san. Sapete bene che è molto importante agire in silenzio. Anche una pistola fornita di silenziatore non risolverebbe nulla. A parte il fatto del peso supplementare che vi dovreste trascinare dietro, il proiettile di una simile pistola ha una forza di penetrazione molto ridotta. Non riuscireste a perforare la corazza di Shatterhand. No, amico mio, l’unico sistema è il ninjutsu.”
“E va bene,” sospirò Bond rassegnato. “Ora fatemi vedere una fotografia di quel tipo. Il Sovrintendente è riuscito a procurarsela?”
Ve n’era una, presa a grande distanza con un obiettivo telescopico.
Si vedeva una gigantesca figura completamente nascosta da una grande armatura medievale e dall’elmo alato degli antichi guerrieri giapponesi. Bond studiò accuratamente la fotografia, notando i punti vulnerabili del collo e delle giunture. Una maglia metallica gli proteggeva il basso ventre, e una spada da samurai, dalla lama larga, gli pendeva dal fianco. A quanto sembrava, Shatterhand non portava altra arma su di sé. Bond disse pensierosamente: “Non sembra tanto matto quanto dovrebbe essere. Probabilmente a causa dello scenario alla Dracula. Non avete altre fotografie? Forse, a viso scoperto potrebbe sembrare più matto.”
Il Sovrintendente cercò tra i documenti e tirò fuori l’ingrandimento della fotografia del passaporto di Guntram Shatterhand.
Bond la esaminò con indifferenza, sulle prime, ma improvvisamente sobbalzò. Dio onnipotente! Dio onnipotente! Sì. Non c’era dubbio, non c’era affatto dubbio! Si era fatto crescere dei lunghi baffi. Si era fatto sistemare il naso sifilitico. Aveva diversi denti incapsulati, ma non c’era dubbio. Bond alzò lo sguardo. “Avete anche una fotografia della donna?”
Sorpreso per l’espressione di malcelato furore del viso di Bond e del pallore che trapelava sotto la tintura, il Sovrintendente accennò a un rapido inchino e frugò di nuovo tra le sue carte.
Sì, era lei, quella strega , col viso da aguzzina, con gli occhi spenti e i capelli lisci raccolti sulla nuca.
Bond continuò a fissare le fotografie senza vederle. Ernst Stavro Blofeld. Irma Bunt. Ecco dove si erano andati a cacciare! E il destino glieli aveva fatti ritrovare! Era bastato un viaggio in automobile in quel remoto angolo del Giappone. Avevano forse già subodorato il suo arrivo? La spia che lo aveva seguito era forse riuscita a comunicare con loro? Non era molto probabile. Il potere e il prestigio di Tigre lo avevano protetto efficacemente. La discrezione è la caratteristica degli alberghi giapponesi. Ma forse presentivano che un nemico si stava avvicinando a loro. Che il destino aveva predisposto un appuntamento a Samara. Bond risollevò lo sguardo. Ora si sentiva perfettamente padrone di sé. Si trattava ormai di un affare personalissimo. Non c’entrava nulla con Tigre, o col Giappone, o col Magic 44. C’era un vecchio conto personale che andava saldato.
Disse con indifferenza: “Tigre, il Sovrintendente potrebbe dirmi che cosa hanno scoperto i suoi uomini su quell’affiliato del Drago Nero? Vorrei soprattutto sapere se egli può aver telefonato o telegrafato a Shatterhand, per trasmettergli la mia descrizione e gli scopi del mio viaggio.”
Nella stanza ci fu un lungo silenzio pieno di tensione. Tigre esaminò attentamente l’espressione del viso di Bond, prima di rivolgere la domanda al Sovrintendente. Questi afferrò il ricevitore di un apparecchio telefonico di stile antiquato, parlò brevemente, e poi, secondo l’abitudine giapponese, soffiò con forza nel microfono come se volesse sgomberare la linea, e proseguì con un lungo discorso. Ripeté varie volte “Ah, so desu ka!” e poi depose il ricevitore. Quando ebbe terminato di parlare con Tigre, questi rivolse di nuovo il suo sguardo scrutatore verso Bond e spiegò:
“L’uomo proveniva da queste parti. Era un pregiudicato. Per fortuna aveva poca istruzione ed era considerato come un delinquente buono a nulla. Nella prima pagina della sua agenda aveva scritto tutto quello che gli avevano ordinato di fare, che consisteva soltanto nel seguire i miei passi e nel fare un rapporto al suo capo ogni volta che avesse scoperto la mia meta. Non sembra probabile che fosse munito di fondi per effettuare costose comunicazioni a lunga distanza. Ma che cosa vi sta succedendo, Bondo-san? Forse conoscete già quelle due persone?”
James Bond scoppiò a ridere. Era una risata stridente che suonò falsa anche alle sue stesse orecchie. Aveva deciso fin dal primo momento di non rivelare a nessuno il proprio segreto, perché, se lo avesse fatto, tutta la faccenda del dottor Shatterhand sarebbe rientrata nell’orbita ufficiale. Il Servizio Segreto giapponese e la Cia si sarebbero precipitati a Fukuoka. Blofeld e Irma sarebbero stati arrestati e la sua preda gli sarebbe sfuggita di mano. Non avrebbe potuto vendicarsi! Bond rispose: “Santo cielo, no! Ma ho un buon fiuto e quando ho visto la faccia di quell’uomo mi sono venuti i brividi. Ho il presentimento che, qualunque sia il risultato di questa missione, esso sarà decisivo per uno di noi due. Ma ora devo rivolgere un certo numero di domande a voi e al Sovrintendente. Sono piccole questioni di dettaglio, perché voglio mettere a posto ogni cosa prima di cominciare.”
Tigre sembrò più sollevato. L’espressione di ferocia apparsa sul viso di Bond era completamente diversa da quella ironica e cinica del Bondo-san al quale lui si era affezionato. Gli rivolse il più dorato dei suoi sorrisi e disse: “Ma certo, amico mio. E mi fa piacere di vedere che vi preoccupate e che volete essere sicuro di ogni cosa prima di cominciare. Mi scuserete se cito un altro proverbio giapponese che dice: “Il cane ha bisogno delle pulci, perché altrimenti dimenticherebbe di essere un cane”.”
“Bravo vecchio Basho!” disse Bond.
13. Kissy Suzuki
James Bond trascorse il resto della mattinata muovendosi come un automa. Mentre provava l’equipaggiamento ninja e sorvegliava che ogni capo fosse accuratamente collocato nell’involucro galleggiante di plastica, il suo pensiero era costantemente occupato dalla figura del suo nemico, Stavro Blofeld, il gran delinquente che aveva fondato lo Spectre, l’uomo ricercato da tutte le polizie della Nato, l’uomo che soltanto nove mesi prima aveva assassinato Tracy, sua moglie da meno di ventiquattro ore. E in quel breve lasso di tempo, quel genio diabolico aveva inventato un nuovo metodo per far collezione di morti, come aveva detto Tigre. La maschera del botanico svizzero dottor Shatterhand doveva essere una delle tante da lui accuratamente preparate da anni. Non era stato certamente difficile. Qualche donazione di piante rare a dei famosi giardini botanici, il finanziamento di qualche spedizione e, dietro a tutto ciò, il progetto di ritirarsi un giorno o l’altro a coltivare il suo giardino. E che giardino! Un giardino che avrebbe costituito una trappola mortale per esseri umani. Il Giappone, con le sue altissime percentuali di suicidi, con la sua inestinguibile sete per le cose bizzarre, crudeli e terribili, gli avrebbe naturalmente offerto l’ultimo perfetto rifugio. Blofeld doveva essere completamente impazzito, certo, ma la sua pazzia era mostruosa e calcolatrice, degna della sua indubbia genialità. E tutto il diabolico disegno era stato concepito su vasta scala, secondo il solito sistema di Blofeld, la grandezza di un Caligola, di un Nerone, di un Hitler, di ogni grande nemico dell’umanità. La rapidità di esecuzione era sorprendente, la spesa favolosa, lo schema , adattato persino alla base della Società del Drago Nero , meticoloso, e la nuova personalità impeccabile, come lo era stata quella Clinica al Pizzo Gloria, che meno di un anno prima, Bond aveva contribuito a distruggere completamente. E ora, i suoi due nemici erano ancora schierati contro di lui. Ma questa volta, il piccolo Davide non avrebbe attaccato il gigante Golia per un sentimento del dovere, ma per l’irresistibile desiderio di vendetta! E con quali armi? con la forza delle sue stesse mani nude, con il temperino di cinque centimetri e una sottile catena d’acciaio. Anche altre volte Bond se l’era cavata con l’aiuto di simili armi. Il fattore determinante sarebbe stato quello della sorpresa. Bond aggiunse al suo equipaggiamento anche un paio di pinne di gomma, una piccola scorta di carne del tipo pemmican, un flaconcino di pillole di benzedrina e una bottiglia di plastica per l’acqua. Ogni cosa era ormai pronta.
Si recarono in macchina lungo la strada principale fino al molo, dove li attendeva una lancia della Polizia e partirono a tutta velocità, attraverso la pittoresca baia e oltre il capo verso il mare di Genkai. Tigre offrì a tutti una bottiglietta di sakè e dei panini imbottiti e la colazione fu consumata mentre la lancia filava lungo la costa frastagliata. Tigre indicò un punto lontano, sull’orizzonte.
“Ecco l’isola di Kuro,” spiegò. “Su allegro, Bondo-san! Mi sembrate preoccupato. Pensate che potrete nuotare assieme a un mucchio di belle ragazze nude, tra poco! E pensate alla Greta Garbo giapponese con la quale trascorrerete le notti!”
“E agli squali che staranno già rallegrandosi alla notizia della mia nuotata fino al castello!”
“Se non mangiano gli ama, perché mai dovrebbero mangiare un inglese coriaceo? Guardate quelle due aquile pescatrici! E’ un magnifico presagio. Una sola aquila sarebbe stato un presagio meno propizio, quattro addirittura pessimo, dato che per noi il numero quattro corrisponde al vostro tredici. Ma, Bondo-san, non vi diverte pensare a quello stupido drago assopito nel suo castello senza il sospetto che un San Giorgio sta silenziosamente avanzando verso la sua tana?
Sarebbe un magnifico soggetto per una stampa giapponese.”
“Avete uno strano senso dell’umorismo, Tigre.”
“E’ solo diverso dal vostro. Quasi tutte le nostre barzellette parlano di morti e di disgrazie. Non sono un gran narratore di storielle, ma vi racconterò quella che mi piace di più. Si tratta di una ragazza che arriva a un ponte a pedaggio. Getta un sen , una moneta di infimo valore , al guardiano, e continua per la sua strada.
Il guardiano le grida dietro: “Ehi! Per il pedaggio ci vogliono due sen.” La ragazza risponde: “Ma io non ho intenzione di attraversare tutto il ponte. Quando sarò a metà mi butterò nel fiume.”” E Tigre scoppiò in una grassa risata.
Bond sorrise cortesemente. “Bisogna che non la scordi perché voglio raccontarla a Londra. Moriranno tutti dal gran ridere!”
Il punto all’orizzonte continuò a crescere finché non fu possibile distinguere un’isoletta montuosa con delle scogliere scoscese e un piccolo porto verso nord. Pia sinistra si scorgeva la penisola del dottor Shatterhand col muraglione nero che sorgeva dalla bianca spuma delle onde. Oltre al muraglione si vedevano le cime degli alberi e il tetto più alto del castello. La sagoma massiccia della costruzione ricordava a Bond certe fotografie del penitenziario di Alcatraz prese dal mare. Fu percorso da un brivido al pensiero della nuotata notturna attraverso il braccio di mare e del ragno umano che avrebbe dovuto arrampicarsi su quella parete fortificata. Cercò di non pensarci e rivolse la sua attenzione all’isola di Kuro.
Sembrava formata di nera lava vulcanica, ma le rocce erano in parte ricoperte di vegetazione, specie su un piccolo promontorio sul quale si ergeva un tozzo faro di pietra. Il piccolo villaggio e il molo apparvero subito dopo un promontorio che formava uno dei due bracci della baia. Sul mare aperto erano disseminate delle minuscole barche.
Dei bimbi nudi giocavano tra i lucidi sassi neri acquattati sulla spiaggia come ippopotami al sole. Dappertutto si vedevano delle grandi reti verdi stese ad asciugare. Era una scena piacevole, con i delicati colori e la irreale consistenza di tutti i villaggi di pescatori del mondo. Bond si sentì improvvisamente felice, quasi fosse finalmente giunto a un punto di arrivo che lo attendeva da molto tempo e che sarebbe stato accogliente e amichevole.
Un gruppo di anziani del villaggio, seri e compresi, con l’espressione della gente semplice nelle grandi occasioni, era radunata sul molo assieme al sacerdote shinto per dar loro il benvenuto. Il sacerdote indossava i paramenti da cerimonia: il kimono color rosso scuro con grandi maniche pendenti, la sottana color turchese a larghe pieghe e il caratteristico copricapo nero lucido a forma di tronco di cono. Era un uomo imponente e pieno di dignità, dal viso pieno sul quale spiccavano gli occhiali rotondi, e dalle labbra severamente contratte. Il suo sguardo scrutò attentamente i nuovi arrivati ma si soffermò in modo particolare su Bond. Il Sovrintendente Ando fu accolto con rispettosa amicizia. Bond pensò un po’ velenosamente che quell’isola faceva parte del suo distretto e che dal suo supremo beneplacito dipendevano i permessi di pesca, ma tuttavia dovette ammettere che la deferenza degli inchini non era esagerata e che egli aveva avuto fortuna nel suo ambasciatore.
Proseguirono sul sentiero selciato della strada principale fino alla casa del sacerdote, un edificio modesto di pietra e di legno. Si sedettero a semicerchio davanti al prete e il Sovrintendente iniziò un lungo discorso che il sacerdote punteggiava di “Hai” e di “Ah, so desu ka” rivolgendo di tanto in tanto il suo sguardo pieno di saggezza su Bond. Poi il sacerdote pronunziò poche parole, ascoltate con deferenza da tutti gli astanti, quindi Tigre ringraziò brevemente e i cerimoniali ebbero termine con l’inevitabile offerta del tè.
Bond chiese a Tigre come era stata spiegata la sua presenza e la missione che doveva svolgere, e questi gli rispose che non era il caso di mentire al prete, che era un uomo accorto, per cui gli avevano rivelato quasi tutta la verità. Pur deplorando la necessità di misure così estreme, il sacerdote aveva dovuto convenire che il castello era una autentica diavoleria e che il suo padrone aveva stipulato un patto col Maligno. Considerate le circostanze, egli avrebbe data la sua approvazione e James Bond era autorizzato a rimanere sull’isola per tutto il tempo necessario per portare a termine la sua missione.
Il sacerdote avrebbe pregato la famiglia Suzuki di dare allo straniero una onorevole ospitalità. Agli anziani si sarebbe detto che Bond era un famoso antropologo gaijin venuto nell’isola per studiare la vita degli ama. Bond avrebbe quindi dovuto fingere di interessarsi degli usi e costumi degli abitanti dell’isola, ma il prete lo raccomandava di comportarsi onestamente. “Il che significa,” spiegò Tigre con un malizioso sorriso, “che dovrete evitare di andare a letto con le ragazze.”
Verso sera tornarono al molo. Il mare color ardesia era calmissimo e le barchette, ornate di bandierine multicolori per segnalare una pesca eccezionale, stavano rientrando. Tutta la popolazione di Kuro, circa duecento anime, era venuta sulla spiaggia per accogliere le eroine della giornata. I più vecchi portavano scialli e coperte per coprire le ragazze lungo il tragitto fino a casa dove, secondo le informazioni di Tigre, le tuffatrici avrebbero preso un bagno caldissimo per riattivare la circolazione e per togliere dalla pelle ogni traccia di sale. Erano le cinque. Alle otto, le ragazze se ne andavano a dormire per essere pronte a ripartire all’alba. Tigre assunse un tono paternalistico. “Dovrete ridimensionare le vostre abitudini al sistema di vita di questa gente, Bondo-san. Gli ama sono molto frugali e molto modesti, data l’esiguità delle loro entrate. E, per l’amor del cielo, cercate di essere cortese coi genitori della ragazza, in special modo col padre. In quanto a Kissy…” Tigre preferì lasciare la frase a mezz’aria.
Le mani premurose dei parenti in attesa trassero le barche in secco sui ciottoli scuri della spiaggia. I grandi recipienti di legno che contenevano le awabi furono sollevati dal fondo delle imbarcazioni e portati di corsa in un vecchio capannone sgangherato che fungeva da magazzino e da mercato, dove le awabi venivano misurate e valutate.
Intanto, le ragazze, allegre e chiacchierine, erano scese a terra e lanciavano delle rapide occhiate curiose in direzione dei forestieri.
Alla luce del crepuscolo, Bond trovò che tutte le ragazze erano allegre e belle. Avevano il seno eretto e le natiche muscolose e lucenti separate da un cordone che manteneva sul basso ventre un triangolo di cotone nero. Oltre al triangolo, le pescatrici portavano una robusta cintura di cuoio appesantita da grosse palle di piombo, nella quale era infilato un punteruolo di acciaio e uno straccio bianco per avvolgere i capelli. In quel momento, Bond ebbe la sensazione della purezza della vita primordiale e provò una certa vergogna per il suo aspetto di cittadino e ancor più per gli oscuri disegni di vendetta che covava nell’animo.
Una ragazza un po’ più alta delle altre non sembrava prestare molta attenzione ai forestieri e alla lancia della polizia attraccata al molo. Dirigendosi verso la spiaggia, con un gruppetto di pescatrici sorridenti e festose, disse qualcosa che provocò nelle sue compagne una tempesta di risatine soffocate. Il gruppetto si disperse ben presto e la ragazza fu raggiunta da una vecchia che, dopo averle messo una coperta sulle spalle, si mise a parlare concitatamente.
La ragazza e la vecchia si avviarono verso il capannone del magazzino. Il prete le stava aspettando. Le due donne si inchinarono rispettosamente. Egli parlò ed esse ascoltarono umilmente, lanciando di tanto in tanto degli sguardi al gruppetto dei forestieri. La ragazza si strinse addosso la coperta. James Bond, che già lo aveva sospettato, ebbe ora la certezza che quella ragazza era Kissy Suzuki.
Le tre persone , il prete col suo sfarzoso costume, la vecchia pescatrice dal viso abbronzato e incartapecorito, e la ragazza nuda sotto la sudicia coperta , vennero verso il molo. Stranamente, formavano un trio omogeneo. A un certo punto le donne si fermarono e solo il prete venne avanti. Si inchinò a Bond e gli parlò. Tigre tradusse a mano a mano: “Dice che il padre e la madre di Kissy Suzuki saranno molto onorati di ricevervi nella loro umile dimora della cui povertà vi chiedono scusa. Deplorano la loro ignoranza degli usi occidentali, ma la loro figliola conosce l’inglese grazie al suo lavoro in America e cercherà di spiegar loro i vostri desideri. Il prete chiede se sapete remare, perché il padre della ragazza, che finora vogava con la figliola, soffre di un attacco di reumatismi e non può più aiutarla. Sarebbe un grande aiuto per la famiglia, se voi poteste sostituirlo.”
Bond fece un inchino e rispose: “Per favore, dite a sua reverenza che gli sono enormemente grato per aver intercesso a mio favore presso la famiglia Suzuki. Sarò molto onorato di posare il mio capo nella dimora di Suzuki-san. Le mie necessità sono molto modeste e io apprezzo grandemente il sistema di vita dei giapponesi. Sarò molto contento di remare la barca di famiglia e di aiutarli nella misura delle mie forze.” Poi aggiunse, a bassa voce: “Tigre, può darsi che io abbia bisogno dell’aiuto di questa gente e soprattutto della ragazza, al momento opportuno. Quanto le posso rivelare?”
Tigre rispose sommessamente: “Fate voi. Il prete è al corrente e quindi anche la ragazza può essere informata. Certamente saprà essere discreta. E ora fatevi avanti e lasciate che vi presenti al prete.
Non dimenticatevi che qui vi chiamate Taro , significa “primo figlio”, e Todoroki , che vuol dire “tuono”. Al prete non importa come vi chiamate in realtà. Gli ho spiegato che è un’approssimazione del vostro nome inglese. Non ha importanza per nessuno. Ma voi dovrete cercare di assomigliare il più possibile a un giapponese, per quando vi troverete dall’altra parte. Taro Todoroki è il nome che è segnato sulla vostra carta di identità e sulla tessera dei sindacati delle miniere di Fukuoka. Qui non avrete bisogno di queste false identità perché vi trovate tra amici. Quando avrete raggiunto il castello, se vi dovessero catturare mostrate il cartoncino dove è scritto che siete sordomuto. Va bene?”
Tigre si rivolse al prete e Bond fu presentato alle due donne. Fece un inchino alla madre, ricordandosi di non farlo troppo profondo, visto che si trattava di una donna, e poi si voltò verso la ragazza.
Questa si mise a ridere allegramente e disse: “Evitiamo pure gli inchini.” Gli porse la mano. “Come state? Mi chiamo Kissy Suzuki.”
La mano era gelida. Bond sorrise: “Mi chiamo Taro Todoroki e mi spiace di avervi trattenuta così a lungo. Avrete freddo e bisogna che andiate a fare il vostro bagno. Siete molto gentile ad avermi voluto come ospite in casa vostra, ma non vorrei disturbare. Siete sicura che non vi siano inconvenienti?”
“Quello che dice il kannushi-san, il prete, va bene. E se io ho freddo non importa molto. Quando avrete finito di parlare con i vostri amici, mia madre e io saremo felici di accompagnarvi a casa.
Spero che siate capace di pelare le patate.”
Bond era soddisfatto. Finalmente una ragazza semplice e schietta!
Niente più inchini e sibili! Rispose: “E’ la mia specialità. E sono forte e pieno di buona volontà, senza contare che non russo. A che ora si parte con la barca?”
“Verso le cinque e mezzo. Non appena sorge il sole. Forse mi porterete fortuna. Non è molto facile pescare le awabi. Oggi è stata una giornata fortunata e sono riuscita a guadagnare una trentina di dollari, ma non è sempre così.”
“Non so fare i conti in dollari. Pressappoco devono essere dieci sterline.”
“Gli inglesi e gli americani non sono la stessa cosa? Non hanno la stessa moneta?”
“Gli inglesi e gli americani sono molto simili ma sono completamente diversi.”
“Davvero?”
“Volete dire: “Ah, so desu ka?””
La ragazza si mise a ridere. “Il vostro amico è senza dubbio un ottimo istruttore. E ora, se volete salutarlo, possiamo andare a casa. Abitiamo all’altro estremo del villaggio.”
Il sacerdote, il Sovrintendente e Tigre si erano messi a discorrere senza badare a Bond e alla ragazza. La madre era rimasta umilmente in disparte ma aveva continuato a seguire con lo sguardo acuto le mosse dei presenti. Bond si inchinò nuovamente verso la vecchia e tornò da Tigre.
Il commiato fu breve. L’oscurità cominciava a cadere e il sole aveva perso parecchio del suo fulgore nella foschia della sera. Il motore della lancia era stato avviato e lo scappamento brontolava sommessamente. Bond ringraziò il Sovrintendente che gli augurò buona fortuna nei suoi onorevoli tentativi. Tigre aveva assunto un’espressione più grave. Strinse la mano di Bond tra le sue, con un gesto molto strano per un giapponese, e gli disse: “Bondo-san, sono certo che avrete successo e quindi non vi auguro buona fortuna. E
nemmeno vi dirò sayonara, arrivederci. Dirò semplicemente banzai! e vi farò questo piccolo regalo nel caso in cui le cose non dovessero andare per il verso giusto, anche se non per colpa vostra.” E porse a Bond una scatoletta.
Bond l’aprì e vide una pillola oblunga di color marrone. Si mise a ridere e restituì il dono a Tigre, dicendo: “No, grazie, Tigre. Come ha detto Basho , o come potrebbe aver detto , “Si vive solo due volte”. Nel caso che dovessi affrontare la mia seconda vita, preferisco guardarla in faccia, e non voltarle le spalle. Comunque vi ringrazio, vi ringrazio per ogni cosa. Quelle aragoste vive erano deliziose. E ora, mi preparo a fare una scorpacciata di alghe.
Arrivederci! Ci rivedremo tra una settimana circa!”
Tigre scese nella lancia che si allontanò velocemente. Quando l’imbarcazione giunse all’entrata del porto, Tigre agitò un’ultima volta la mano in segno di saluto.
Bond si voltò. Il prete era scomparso e Kissy gli disse con impazienza: “Andiamo, Todoroki-san. Il kannushi-san ha detto di trattarvi come un camerata, come uno di noi. Datemi una delle vostre valigie. E, a beneficio degli abitanti del villaggio che ci terranno gli occhi addosso, in pubblico indosseremo le nostre maschere da orientali.”
L’uomo alto dal viso abbronzato e dai capelli rapati, la ragazza slanciata e la vecchia si avviarono lungo la spiaggia preceduti dalle loro lunghe ombre che si proiettavano sulle rocce levigate.
14. Una giornata d’oro
L’alba era avvolta in una delicata foschia color azzurro e oro.
Bond uscì all’aperto per consumare la sua ciotola di riso e fagioli e per bere il tè, seduto sui gradini puliti della casupola di pietra e di legno, mentre all’interno le donne intente alle faccende domestiche cinguettavano come allegri passerotti.
A Bond era stata assegnata la stanza d’onore, una piccola sala con i tatami, qualche mobile, un altarino votivo e un grillo in una gabbietta “per farvi compagnia”, come aveva spiegato Kissy. Si era dovuto accontentare di dormire nel futon per terra e per la prima volta aveva dovuto tentare di dormire col tradizionale cuscino di legno sotto la testa. La sera prima, il padre, un vecchietto rinsecchito con la barbetta grigia, con le giunture deformate e gli occhietti da scoiattolo, si era divertito un mondo quando Kissy gli aveva tradotto alcune delle avventure di Bond con Tigre. Fin dal primo momento si era creata un’atmosfera di cordialità e di comprensione. Il sacerdote aveva detto che Bond doveva essere trattato come un membro della famiglia e, benché il suo aspetto e certi suoi modi di fare fossero molto strani, Kissy aveva apparentemente espresso la sua incondizionata approvazione e i suoi genitori ne avevano seguito l’esempio. Alle nove, alla luce della luna crescente, il padre aveva fatto un cenno a Bond e gli aveva mostrato uno sgabuzzino nella parte posteriore della casa, con un buco nel pavimento e le pagine ritagliate dell’Asashi Shimbun infilate a un chiodo, cosicché l’ultima preoccupazione di Bond sulla vita nell’isola era stata rimossa. La tremula luce di una candela gli permise di constatare che il luogo era pulito, come il resto della casa, e, apparentemente, abbastanza igienico. Non appena i lievi movimenti nelle altre camere cessarono, Bond si addormentò placidamente.
Kissy uscì dalla casa. Indossava una specie di camicia da notte di cotone e aveva avvolto i folti capelli ondulati in un fazzoletto bianco. Aveva assicurato il suo equipaggiamento , cintura, pesi e punteruolo , sulla camicia, e solo le braccia e le gambe erano nude.
Forse, l’espressione di Bond dimostrò una certa delusione, perché Kissy scoppiò a ridere e gli spiegò maliziosamente: “Questo è l’abito da cerimonia. Lo indossiamo quando ci dobbiamo tuffare alla presenza di uno straniero importante. Il kannushi-san mi ha ordinato di metterlo, quando sono con voi. Come segno di rispetto, beninteso.”
“Kissy, ho idea che questa sia una bugia. In realtà, voi credete che le vostre nudità possano suscitare dei pensieri disonorevoli nella mia empia mente occidentale. Comunque, accetto la delicatezza del vostro rispetto per la mia suscettibilità. E ora smettiamola di chiacchierare e diamoci da fare. Oggi dobbiamo battere tutti i record di awabi. Che numero dobbiamo raggiungere?”
“Cinquanta sarebbe un bel numero. Cento sarebbe meraviglioso. Ma voi dovete pensare a remare bene e a non lasciarmi affogare. E poi dovrete essere gentile con David.”
“Chi è David?” chiese Bond, improvvisamente ingelosito dalla prospettiva di non poter avere la ragazza tutta per sé.
“Aspettate e vedrete.” Kissy tornò in casa e uscì con la tinozza per le awabi e un grosso rotolo di corda sottile. Porse la corda a Bond e, dopo essersi appoggiata il recipiente sul fianco, si avviò lungo un sentiero che si allontanava dal villaggio. Arrivarono a una piccola insenatura dove c’era una barchetta coperta di frasche, tirata in secco sui ciottoli neri. Bond tirò da parte le frasche e trascinò in mare l’imbarcazione, poi caricò a bordo la corda e la tinozza. Dal canto suo, Kissy era andata dall’altra parte della piccola insenatura e aveva sciolto il nodo di una corda legata alle rocce. Cominciò ad arrotolarla e nello stesso tempo si mise a fischiare sommessamente. Con grande sorpresa di Bond l’acqua si agitò e dal mare schizzò come un proiettile un grosso cormorano nero che, dopo aver starnazzato per qualche attimo, si avvicinò ai piedi di Kissy muovendo il collo in su e in giù sibilando, apparentemente irritato. Kissy si chinò a carezzare il collo e il capo dell’uccello e gli parlò affettuosamente, poi tirò la corda, si avvicinò alla barca e il cormorano la seguì con andatura goffa. L’uccello non prestò alcuna attenzione a Bond, ma fece un salto e andò ad appollaiarsi maestosamente a prua, dove cominciò subito a lisciarsi le penne col lungo becco, spalancando e sbattendo di tanto in tanto le grandi ali.
Kissy saltò nella barca e si collocò con le ginocchia decorosamente piegate tra le gambe stese di Bond, il quale aveva già infilato negli scalmi i pesanti remi dalle pale sottili. Seguendo le istruzioni di Kissy, prese a vogare con ritmo forte e regolare verso nord.
Bond aveva notato che la corda a cui era legato il cormorano terminava in un anello di ottone saldato attorno al collo dell’animale. Si trattava senza dubbio di un esemplare dei famosi cormorani pescatori del Giappone. Bond lo chiese a Kissy che gli spiegò: “L’ho trovato tre anni fa. Era molto piccolo e aveva le ali inzuppate di petrolio. L’ho ripulito, ne ho preso cura e gli ho fatto fare un anello che a mano a mano ha dovuto essere sempre più ingrandito. Ora può inghiottire i pesci piccoli, ma ha imparato a portare alla superficie quelli grossi e me li consegna senza arrabbiarsi troppo. Ogni tanto ne riceve un pezzo in premio. Nuota spesso vicino a me e mi fa compagnia. Ci si sente molto soli, laggiù in fondo, specialmente quando il mare è scuro. Voi dovrete tenere un capo della corda e prendervi cura di lui, quando verrà a galla. Oggi deve essere particolarmente affamato. Non è uscito da tre giorni perché mio padre non era in grado di remare e io ho dovuto andare a pescare con le mie compagne. E’ una vera fortuna, per lui, che voi siate arrivato.”
“E dunque, David è lui!?”
“Sì. L’ho chiamato così per ricordare l’unico uomo che mi è piaciuto a Hollywood. Era un inglese, tra parentesi. Si chiamava David Niven. E’ un famoso attore e produttore. Ne avete sentito parlare?”
“Certo. Sarò felicissimo di dargli qualche buon boccone in cambio del piacere che mi ha dato nella sua precedente incarnazione.”
Il sudore cominciò a scorrere sul viso e sul petto di Bond. Kissy si tolse il fazzoletto dai capelli e lo asciugò delicatamente. Bond le sorrise e, guardandola più attentamente, poté apprezzare gli occhi a mandorla, il nasino all’inse la bocca carnosa. Era senza trucco, e del resto non ne aveva bisogno perché la sua pelle aveva quel tono di colore roseo su sfondo dorato , i colori di una pesca , che è molto frequente tra le donne giapponesi. I capelli, ora non più protetti dal fazzoletto, erano neri con riflessi marrone scuro, molto ondulati e con una frangetta che copriva la fronte lasciandone scoperta solo un dito sopra le sottili sopracciglia. I denti erano regolari e non sporgevano dalle labbra e perciò, guardandole la bocca, non si aveva quella sensazione di superdentizione che è uno dei punti deboli dei visi giapponesi. Le gambe e le braccia di Kissy erano più lunghe e meno mascoline di quanto non fosse normale per le ragazze giapponesi, e il giorno prima Bond si era potuto rendere conto che tanto il seno quanto le natiche erano sode e che il ventre era muscoloso e piatto. Se non fosse stato per le mani e piedi ruvidi e danneggiati dal lavoro, Kissy avrebbe potuto stare alla pari con una delle migliori ballerine dei locali notturni di Tokyo. Bond trovò molto commoventi quei difetti. Ama vuol dire “donna del mare”, e Kissy portava su di sé con indifferenza i segni della sua lotta col mare. La sua pelle, che avrebbe potuto risentire del continuo contatto con l’acqua salata, era invece perfettamente pura e lucente di salute. Ma furono soprattutto la grazia e la franchezza degli occhi di Kissy e il suo sorriso aperto a suscitare in Bond una grande tenerezza. In quel momento egli pensò che non ci sarebbe stato nulla di più bello al mondo che trascorrere il resto della vita remando per lei durante il giorno e facendo ritorno con lei alla casetta, all’imbrunire.
Si riscosse dalle sue fantasie. Mancavano soltanto due giorni alla luna piena ed egli doveva far ritorno alla realtà, alla buia e sporca vita che si era scelto. Cercò di non pensarci, per il momento. Oggi e il giorno dopo avrebbero rappresentato un intermezzo, due giorni solo con Kissy, con la barca, col cormorano e col mare. Ed egli doveva far sì che quei due giorni fossero felici e fortunati soprattutto per Kissy.
La ragazza osservò: “Siamo quasi arrivati e avete remato molto bene.” Indicò verso destra, dove il resto delle ama stava cominciando a tuffarsi. “Tra di noi, chi arriva prima sceglie il posto. Oggi andremo fino a certi bassifondi pieni di vegetazione. Spero di fare una buona pesca. Bisognerà calarsi fino a dieci o dodici metri, ma io posso resistere sul fondo per circa un minuto, il tempo sufficiente per staccare due o tre awabi, se riesco a trovarle. Si cercano a tentoni con le mani tra le alghe, ed è una pura questione di fortuna, perché non si possono vedere. Quando si trovano, si staccano dalla roccia con questo,” e mostrò il punteruolo. “Dopo un po’, bisognerà che mi conceda qualche minuto di riposo, e forse allora voi potrete tentare. Sì? Mi hanno detto che siete un buon nuotatore e io ho portato un paio di occhiali di mio padre. Quando sarete sotto, premete questi bulbi laterali,” e glieli mostrò, “per uguagliare la pressione tra le lenti e gli occhi. Forse dapprincipio non riuscirete a star sotto molto tempo. Ma imparerete presto. Quanto tempo vi fermerete qui a Kuro?”
“Due o tre giorni soltanto, temo.”
“Oh, questo mi spiace. Che cosa faremo David e io senza un rematore?”
“Forse vostro padre si rimetterà.”
“E’ vero. Devo portarlo a curarsi in una di quelle terme di terraferma. Oppure, mi vedrò costretta a sposare uno degli uomini di Kuro. Non è una cosa molto facile. Non c’è molta scelta e, dato che da Hollywood mi sono portata un po’ di soldi , una somma rilevante, considerate le condizioni di vita di Kuro , temo proprio che il mio sarà un matrimonio di interesse. Sarebbe molto triste, ma non ho altra scelta.”
“Perché non tornate a fare del cinema?”
Kissy assunse un’espressione seria. “Mai piE’ . stato orribile. A Hollywood sono stata trattata molto male. Il solo fatto che io fossi una giapponese dava a ogni uomo il diritto di pensare che il mio corpo dovesse essere a completa disposizione di tutti. Nessuno mi ha trattata con gentilezza, ad eccezione di Niven.” Kissy scosse la testa, come per scacciare dei brutti ricordi. “No, io rimarrò per sempre a Kuro. Gli dei risolveranno il mio problema,” disse sorridendo. “Come hanno fatto oggi, del resto.” Kissy osservò il mare davanti a loro. “Ancora un centinaio di metri.” Si alzò e, mantenendosi in perfetto equilibrio, malgrado il movimento della barca, si legò un estremo della lunga corda ai fianchi e si mise gli occhiali sulla fronte. “Ora ricordatevi di tenere la corda sempre tesa. Quando sentirete uno strappo, tirate su rapidamente. Sarà un lavoro duro, per voi, ma quando torneremo a casa vi farò un massaggio alla schiena. E’ una mia specialità e mi sono molto esercitata con mio padre. Eccoci arrivati!”
Bond tirò i remi in barca, con un sospiro di sollievo. Dietro di lui, David cominciò ad agitarsi, muovendo il collo e sibilando con impazienza. Kissy legò la tinozza alla barca e la buttò in mare. Poi scivolò in acqua a sua volta, stringendosi l’abito bianco tra le ginocchia perché non le si gonfiasse tutto attorno. Immediatamente, anche David si tuffò e sparì senza quasi increspare la superficie del mare. La corda, legata al sedile di Bond, cominciò a scorrere rapidamente. L’agente afferrò il rotolo della corda che legava Kissy e si alzò in piedi, con le giunture indolenzite. Kissy abbassò gli occhiali sugli occhi, tuffò per un attimo la testa sott’acqua e poi la rialzò: “Sì, non sembra un brutto posto.” Galleggiò sull’acqua e cominciò a emettere un sibilo impercettibile, tenendo le labbra contratte , per riempire al massimo i polmoni, pensò Bond. Poi fece un saluto con la mano e si spiegò a testa in giù; Bond poté scorgere per un attimo il cordone nero che le separava le natiche sotto la trasparenza della stoffa. Di colpo, Kissy sparì verso il fondo, agitando rapidamente i piedi per aiutare la spinta dei pesi.
Bond filò la corda in fretta, pur continuando ad osservare l’orologio. In quell’istante, David salì a galla con un pesce nel becco. Maledetto uccellaccio! Non era questo il momento di occuparsi di lui e del suo pesce! Il cormorano gli rivolse un’occhiataccia, si avvicinò starnazzando alla tinozza che galleggiava sul mare e vi gettò il frutto della sua pesca, scomparendo subito dopo.
Cinquanta secondi! Bond sussultò quando sentì lo strappo alla corda. Cominciò a tirare rapidamente. La bianca visione cominciò ad intravvedersi sul fondo e risalì lentamente alla superficie tenendo le braccia allungate e strette ai fianchi per offrire la minima resistenza. Kissy apparve alla superficie accanto alla barca e gli mostrò due grosse awabi prima di lasciarle cadere nella tinozza. La ragazza si aggrappò all’orlo della barca per riprendere fiato e Bond poté notare il suo magnifico seno sotto la stoffa aderente. Gli rivolse un rapido sorriso, cominciò a riempirsi i polmoni e poi si tuffò nuovamente.
Dopo un’ora, Bond si era abituato al suo lavoro e aveva trovato il tempo per guardarsi attorno e osservare le altre barche della flottiglia che copriva circa un miglio di mare e da cui veniva lo strano sibilo, simile allo stridio di un uccello marino, delle ragazze. La barca più vicina si dondolava a un centinaio di metri di distanza, e Bond poteva osservare il giovane che tendeva la corda e udire di tanto in tanto un vivace cicaleccio. Sperava di non fare una brutta figura, quando si sarebbe tuffato a sua volta. Sakè e sigarette! Non era certo un regime adatto per un tuffatore!
Il mucchio delle awabi aumentava gradatamente nella tinozza e fra queste guizzava almeno una dozzina di pesci. Ogni tanto Bond si chinava a toglierli dal becco di David. Quando un pesce gli scappò di mano e il cormorano dovette tuffarsi di nuovo per riprenderlo, Bond ricevette una occhiataccia ancora più sprezzante delle altre.
Poi Kissy terminò il suo lavoro, si arrampicò sulla barca con meno esibizioni di pudore di qualche tempo prima, si tolse gli occhiali e il fazzoletto e rimase seduta a prua, un po’ ansante. Lo guardò ridendo. “Ne ho pescate ventuno. Molto bene. E adesso prendete i miei pesi e il punteruolo e andate a fare una passeggiata laggiù. In ogni modo, io tirerò dopo trenta secondi. Datemi il vostro orologio e, per favore, non lasciatevi sfuggire il mio tegane, il punteruolo, perché altrimenti per oggi dovremmo dire addio alla pesca.”
Il primo tuffo di Bond non ebbe troppo successo. Era sceso troppo lentamente, e aveva avuto appena il tempo di guardarsi attorno e di osservare il fondo erboso cosparso di rocce scure con cespugli di posidonia, le comuni alghe di tutti i mari, quando si sentì tirare su. Dovette riconoscere che i suoi polmoni erano ridotti in uno stato pietoso ma, avendo visto una promettente roccia semisepolta tra le alghe, al tuffo seguente vi si diresse e affondò la mano nella folta vegetazione alla ricerca del guscio della conchiglia. L’aveva appena trovata quando uno strappo della corda lo ricondusse alla superficie.
Fu più fortunato al terzo tentativo e Kissy rise quando Bond, trionfante, buttò la sua prima conchiglia nella tinozza. Riuscì a continuare per mezz’ora, ma poi i polmoni cominciarono a fargli male e la pelle a rabbrividire al freddo della giornata di ottobre. La sua ultima risalita alla superficie fu accompagnata da David, che lo superò con un balzo e, come segno di approvazione, gli sfiorò leggermente il capo col becco mentre Bond lasciava cadere la sua quinta conchiglia nella tinozza.
Kissy era soddisfatta. Nella barca c’era un ruvido kimono marrone e la ragazza lo mise sulle spalle di Bond che si era seduto ansante e a capo chino al suo posto di voga. Poi, mentre Bond riposava, Kissy tirò in barca la tinozza e la vuotò. Prese un coltello, tagliò a metà uno dei pesci e porse i due pezzi a David che attendeva pieno di speranza. Il cormorano inghiottì rapidamente il cibo e poi si accovacciò in un angolo, visibilmente soddisfatto, a lisciarsi le penne col becco.
Più tardi, Kissy e Bond fecero colazione con una ciotola di riso e pesce condito con delle alghe secche che avevano il sapore di spinaci salati. Dopo un breve riposo, il lavoro ricominciò fino alle quattro, quando una leggera brezza spuntata chissà da dove si interpose tra i loro corpi e il calore del sole, e venne il momento di cominciare la lunga vogata verso casa.
Kissy risalì a bordo e diede diversi strappi alla corda di David.
Il cormorano venne a galla a una certa distanza dalla barca e, seguendo quella che doveva essere una consuetudine, si librò in aria descrivendo vari circoli sulla barca prima di tornare a bordo. Alla fine si accomodò al suo solito posto e rimase immobile con le ali spalancate, per asciugarle, attendendo maestosamente che il suo battelliere lo riconducesse a casa.
Kissy, con estremo pudore, si denudò tenendosi addosso il kimono, e si asciugò senza mostrare un centimetro quadrato di pelle. Annunciò che il loro bottino era di sessantacinque awabi. Una cosa meravigliosa. Bond ne aveva pescate dieci, e, per essere la prima volta, era davvero un’impresa onorevole. Ridicolmente soddisfatto di se stesso, Bond si mise a remare lentamente, dirigendosi verso il puntino lontano dell’isola di Kuro.
Le mani gli facevano male, la schiena era indolenzita come se lo avessero bastonato, e le spalle cominciavano a bruciargli, ma Bond si consolò pensando che in ogni modo aveva compiuto il suo dovere, che era quello di allenarsi per la nuotata, per la scalata all’isola e per quello che sarebbe seguito poi. Come premio, si concesse di tanto in tanto un sorriso di Kissy, i cui occhi non lo abbandonarono mai mentre il sole calante li illuminava trasformandoli in due pepite di oro scuro. Il puntino dell’isola si fece a mano a mano più grande e finalmente la barca giunse alla riva.
15. I sei guardiani
Anche la giornata seguente fu d’oro e, alla fine della pesca, nella tinozza c’erano sessantotto awabi, grazie anche ai progressi fatti da Bond.
La sera prima, Kissy, tornando dal mercato dove era andata a vendere le sue conchiglie, aveva trovato Bond che si contorceva sul pavimento della sua stanza in preda a un attacco di crampi ai muscoli dello stomaco, e sua madre che ciangottava impotente al suo fianco.
Kissy aveva fatto uscire sua madre e, dopo aver steso il soffice futon sul pavimento, si era seduta accanto a Bond, gli aveva tolto i calzoncini da bagno e lo aveva fatto sdraiare a ventre in giù. Poi era salita in piedi sulla sua schiena, aveva cominciato a camminare in su e in giù sulla spina dorsale e il dolore era lentamente scomparso. Gli aveva raccomandato di restare tranquillo e gli aveva portato una tazza di latte caldo. Dopo quello strano massaggio, lo aveva accompagnato nel minuscolo bagno e lo aveva irrorato prima di acqua calda e poi di acqua tiepida, finché il sale fu eliminato completamente dai capelli e dalla pelle di Bond. Finalmente, Bond fu ricondotto nella sua stanza con l’ordine di dormire e di chiamarla, se durante la notte avesse avuto bisogno di qualcosa. L’agente si addormentò ben presto, profondamente, cullato dal canto del grillo.
Il mattino dopo, non gli rimaneva alcun ricordo del dolore, ad eccezione di un certo indolenzimento alle mani. Kissy gli preparò un piatto straordinario: un uovo sbattuto nella ciotola di riso e fagioli. Bond si scusò per il suo comportamento, ma Kissy gli rispose: “Todoroki-san, voi avete il coraggio di dieci samurai, ma possedete un solo corpo. E’ stato il piacere della giornata a farmi dimenticare ogni altra cosa. E perciò sono io che vi debbo chiedere scusa. Oggi non andremo tanto lontano. Ci limiteremo alle scogliere dell’isola e vedremo che cosa si potrà trovare. Io remerò, poiché si tratta di una breve distanza, ma voi sarete in grado di tuffarvi meglio perché il posto che conosco, e dove non vado da parecchie settimane, è vicino a terra ed è profondo al massimo otto metri.”
E così avevano fatto. Bond aveva messo una camicia per proteggersi dai raggi del sole, e il suo raccolto di conchiglie era salito a ventuno. L’unica ombra della giornata era stata la visione chiarissima della fortezza nera oltre lo stretto e del grosso pallone ammonitore da cui pendevano degli striscioni pieni di ideogrammi neri.
Durante una delle soste, Bond chiese senza parere a Kissy che cosa sapesse del castello e fu sorpreso quando la vide rabbuiarsi.
“Todoroki-san, generalmente evitiamo di parlare di quel luogo. E’
quasi un tema proibito, a Kuro. E come se l’inferno avesse spalancato le sue fauci a mezzo miglio dalla nostra isola. La mia gente, gli ama, somigliano molto ai vostri zingari, di cui ho letto qualcosa.
Noi siamo molto superstiziosi e crediamo che il diavolo in persona sia andato a vivere in quel castello.” Senza guardare la fortezza, la indicò con un cenno della testa. “Anche il kannushi-san non può disconoscere i nostri timori, e i nostri vecchi dicono che i gaijin sono sempre stati nefasti al Giappone e che questo in particolare è l’incarnazione di tutta la malvagità dell’Occidente. E’ persino nata una leggenda, nell’isola. Dicono che i nostri sei guardiani Jizo manderanno un uomo attraverso il mare a uccidere quel “re della morte”, come noi lo chiamiamo.”
“E chi sono questi guardiani?”
“Jizo è il dio che protegge i bambini. Credo che si tratti di un dio buddista. Dall’altra parte dell’isola, sulla costa, ci sono cinque statue. La sesta è quasi del tutto distrutta dal mare. Sono piuttosto impressionanti, accoccolati lì tutti in fila. Hanno il corpo fatto di dura pietra e le teste sono dei sassi rotondi.
Indossano delle camicie bianche che la gente del villaggio va a cambiare ogni mese. Sono stati messi là dai nostri antenati, chissà da quanti secoli. Durante la bassa marea se ne stanno seduti in fila, e quando la marea cresce l’acqua del mare li copre completamente e loro vigilano sott’acqua e proteggono noi ama, perché siamo chiamati
“i figli del mare”. Ai primi di giugno, quando il mare diventa tiepido dopo l’inverno, e comincia la stagione della pesca, noi dell’isola andiamo in processione dai sei guardiani e cantiamo delle canzoni per farli contenti e renderceli propizi.”
“E la storia di quell’uomo che verrà da Kuro, da dove è saltata fuori?”
“Chi lo sa? Può essere venuta dal mare o dal vento, ed essersi radicata nel cervello della gente. Da dove vengono le storie del genere? Il fatto è che tutti ci credono.”
“Ah, so desu ka!” disse Bond, e i due giovani si misero a ridere e ripresero a lavorare.
Il terzo giorno, mentre Bond, come al solito, stava consumando la sua ciotola di riso e fagioli seduto sui gradini della casupola, Kissy si affacciò sulla soglia e a bassa voce gli disse: “Venite dentro un momento, Todoroki-san.” Sorpreso, egli entrò in casa e si chiuse la porta alle spalle.
Kissy continuò a parlare sottovoce: “Ho saputo ora da un messo del kannushi-san che ieri ci sono stati dei visitatori nell’isola. Hanno portato dei regali , sigarette e dolci , e hanno chiesto perché qualche giorno fa c’era qui la lancia della polizia. Sapevano che era arrivata con tre uomini a bordo e che ne era ripartita con due e volevano sapere che ne era stato del terzo. Hanno detto di essere delle guardie del castello e che era loro dovere impedire l’entrata a persone non autorizzate. Gli anziani hanno accettato i regali, ma hanno fatto la faccia del shiran-kao, cioè di chi non sa nulla, e hanno mandato gli uomini dal kannushi-san, il quale ha spiegato che il terzo visitatore era l’incaricato delle licenze di pesca, che arrivando all’isola si era sentito poco bene e che probabilmente si era sdraiato sul fondo della lancia al ritorno. Poi, non appena gli uomini se ne sono andati, il kannushi-san ha mandato un ragazzo sull’altura dell’isola per vedere dove si dirigeva l’imbarcazione, e il ragazzo ha riferito che la barca aveva attraccato vicino al castello ed era stata rinchiusa nell’imbarcadero. Il kannushi-san ha pensato di informarvi di tutta questa faccenda.” Kissy lo fissò con uno sguardo allarmato. “Todoroki-san, provo una grande amicizia, per voi. Ho la sensazione che tra voi e il kannushi-san ci siano delle cose segrete e che queste riguardino il castello. Penso che dovreste dirmi almeno quel tanto che basterà a far cessare la mia inquietudine.”
Bond sorrise e, avvicinandosi alla ragazza le prese il viso tra le mani e la baciò sulla bocca. “Sei molto bella e cara, Kissy. Oggi non usciremo con la barca perché devo riposare un po’. Portami sull’altura, da dove io possa vedere il castello, e ti dirò quello che posso. Avevo intenzione di farlo in ogni caso, perché avrò bisogno del tuo aiuto. E poi, vorrei andare a vedere i sei guardiani.
Mi interessano… come antropologo.”
Kissy mise in un cesto la loro solita colazione, indossò il kimono marrone e un paio di scarpe dalle suole di corda e precedette Bond su per un sentiero che raggiungeva a zigzag la vetta del piccolo monticello dietro le casupole del villaggio. La stagione delle camelie era quasi finita, ma di tanto in tanto se ne scorgeva qualche cespuglio, picchiettato di fiori bianchi e rossi, specialmente attorno a un boschetto di aceri nani, alcuni dei quali fiammeggiavano già di tinte autunnali. Il boschetto si trovava proprio al di sopra della casa di Kissy. Ella continuò a fargli strada e gli mostrò il piccolo santuario shinto dietro a un torii di rozza pietra. “Dietro al santuario c’è una bella grotta. La gente di Kuro non vi entra mai perché dice che è popolata dai fantasmi. Io però ci sono andata una volta e se vi sono dei fantasmi non sono affatto ostili.” Kissy batté le mani davanti al santuario, chinò il capo per un momento, e poi batté di nuovo le mani. Poi continuarono per il sentiero fino a raggiungere la cima del piccolo monte alto circa trecento metri. Al loro avvicinarsi, una coppia di magnifici fagiani dalle code dorate si alzò in volo, spaventata, e si diresse verso un gruppo di cespugli sulla scogliera meridionale. Bond disse a Kissy di tenersi in disparte per non farsi scorgere e, dopo essersi nascosto dietro un mucchio di pietre, osservò con circospezione i dintorni e la penisola che si allungava sul mare al di là dello stretto.
Al di là del muraglione della fortezza e oltre il parco, Bond poteva scorgere la mole nera e oro del torrione del castello. Erano le dieci. Nel parco si vedevano degli uomini vestiti di azzurro, come i contadini giapponesi, con degli alti stivali e dei lunghi bastoni.
Di tanto in tanto, spingevano i bastoni nei cespugli. Tutti gli uomini avevano la bocca protetta da masko neri. Bond pensò che probabilmente stavano facendo la ronda mattutina alla ricerca delle eventuali vittime notturne. Che cosa facevano, quando trovavano qualche essere semiaccecato, oppure un mucchietto di vestiti accanto a una delle fumarole le cui nuvolette di vapore si alzavano qua e là nel parco? Li portavano dal dottore? E se trovavano degli individui ancora in vita, che cosa succedeva? E quando egli fosse riuscito a superare quel muraglione, dove avrebbe potuto rifugiarsi? Be’, per oggi era abbastanza! Per lo meno, il mare era calmo e il tempo sereno. Apparentemente, la traversata dello stretto non presentava nessuna difficoltà. Bond tornò vicino a Kissy e si sedette sull’erba rada. Guardò verso il porto e più in là, dove le barche degli ama erano disseminate sul mare.
“Kissy, questa notte devo attraversare lo stretto e entrare nel castello.”
Kissy annuì. “Lo so. E poi cercherai di uccidere quell’uomo e forse anche sua moglie. Tu sei l’uomo che aspettavamo, sei l’uomo che sarebbe venuto dal mare per liberarci.” Kissy continuò a guardare verso il mare e poi mormorò: “Ma perché hanno scelto proprio te?
Perché non potrebbe essere un altro, un giapponese, per esempio.”
“Il proprietario del castello e sua moglie sono dei gaijin e io pure lo sono. Sarà meno preoccupante per lo Stato se la faccenda potrà essere prospettata come un regolamento di conti tra stranieri.”
“Capisco. E il kannushi-san ha dato la sua approvazione?”
“Sì.”
“E se… E dopo? Tornerai e sarai ancora il mio barcaiolo?”
“Per un po’. Ma poi dovrò tornare in Inghilterra.”
“No. Ho il presentimento che ti fermerai a Kuro per molto tempo.”
“Perché lo pensi?”
“Perché l’ho chiesto poco fa, nelle mie preghiere al santuario. E
non ho mai chiesto una grazia così grande, prima d’ora. Sono sicura che mi sarà concessa.” Fece una pausa. “E questa notte nuoterò con te.” Alzò una mano. “Avrai bisogno di compagnia, nell’oscurità, e io conosco bene le correnti. Senza il mio aiuto non arriveresti mai.”
Bond prese tra le sue la piccola mano bruna dalle unghie infantili spezzate. Poi, con voce roca, disse: “No. Questo è un lavoro da uomo.”
Kissy lo guardò coi suoi occhi bruni e seri. “Taro-san, il tuo cognome può significare tuono, ma il tuono non mi fa paura. Ho deciso, e ogni notte, esattamente a mezzanotte, aspetterò tra le rocce ai piedi della muraglia. Aspetterò per un’ora, nel caso in cui tu abbia bisogno del mio aiuto per tornare indietro. Quella gente ti può fare del male e noi donne siamo molto più forti degli uomini, nell’acqua. E’ questa la ragione perché siamo noi che ci tuffiamo, e non i nostri uomini. Io conosco le acque attorno a Kuro così come il contadino conosce i campi attorno alla sua fattoria. Non ho paura. E, in ogni modo, non riuscirei a prendere sonno finché tu non sarai di ritorno. L’idea di potermi sentire vicino a te per un po’ e che tu possa aver bisogno di me mi rende tranquilla. Dimmi di sì, Taro-san.”
“Va bene, Kissy,” rispose Bond con un tono burbero. “Io avevo soltanto intenzione di chiederti di portarmi con la barca a un punto di partenza da questa parte.” E indicò lo stretto. “Ma se tu insisti per essere una preda supplementare per gli squali…”
“Gli squali non ci hanno mai dato fastidio. Ci pensano i sei guardiani, a proteggerci. A noi non è accaduto mai nulla di male.
L’unico incidente che ancora si ricorda è avvenuto molti anni fa, quando la fune di un’ama si è impigliata nelle rocce del fondo. Gli squali credono che noi siamo dei grossi pesci come loro.” Kissy rise contenta. “Adesso che tutto è stato combinato, possiamo mangiare qualcosa e poi ti porto giù a vedere i sei guardiani. C’è bassa marea, e anche loro vorranno conoscerti.”
Dalla vetta continuarono per un altro sentiero che scendeva verso una piccola baia riparata, a est del villaggio. La marea era molto bassa e i due giovani riuscirono ad oltrepassare il promontorio camminando sulle grosse pietre piatte e sulle rocce. Su una spiaggia cosparsa di ciottoli c’erano cinque rozze statue accoccolate su una base di grosse pietre. Non si trattava di vere e proprie figure, ma, come Kissy aveva detto, di corpi di pietra che il tempo e l’acqua avevano levigato e che al posto della testa avevano dei grossi ciottoli quasi sferici. I sei guardiani, col busto avvolto in rozze camicie bianche, avevano un aspetto terribilmente umano, seduti a guardia del mare e degli abissi. Del sesto guardiano era rimasto soltanto il corpo; la testa era stata forse distrutta da una tempesta.
I due giovani si portarono di fronte ai massi di pietra e guardarono quelle effigi lisce, senza espressione. Per la prima volta in vita sua, Bond provò una sensazione di rispettosa riverenza. Tanta fede, tanta autorità sembrava fosse stata inculcata dagli scultori di quei primitivi idoli senza volto, protettori delle vivaci ragazze ama, che Bond sentì il ridicolo istinto di inginocchiarsi e di chiedere la loro benedizione così come i Crociati facevano davanti al loro Dio. Resistette a quell’impulso, ma chinò il capo e chiese brevemente che la fortuna accompagnasse la sua impresa. Poi si ritrasse leggermente e, con una stretta al cuore, osservò Kissy che, col bel viso implorante e l’espressione tesa, batteva le mani per attirare l’attenzione degli dei e pronunciava un lungo e appassionato discorso nel quale il suo nome ricorreva molto spesso. Quando alla fine Kissy batté di nuovo le mani, Bond ebbe l’assurda impressione che le teste rotonde annuissero brevemente. Che sciocchezza!
Tuttavia, quando Bond prese la mano di Kissy e si allontanò con lei, la ragazza gli rivolse uno sguardo felice e gli disse: “Va tutto bene, Todoroki-san. Hai visto che hanno detto di sì con la testa?”
“No,” rispose Bond con fermezza. “Non ho visto niente.”
Remarono lungo la costa orientale di Kuro e penetrarono con la barca in un anfratto profondo tra le rocce nere. Erano trascorse da poco le undici di sera e la gigantesca luna, alta nel cielo, era ombreggiata di tanto in tanto da banchi di leggere nuvolette. I due giovani parlavano a bassa voce, malgrado la fortezza si trovasse a mezzo miglio da loro. Kissy si tolse il kimono, lo ripiegò accuratamente e lo depose sul fondo della barca. Il suo corpo nudo riluceva nel chiarore lunare. Il triangolo di stoffa nera tra le sue gambe attraeva irresistibilmente lo sguardo di Bond. Kissy fece una risatina provocante. “Smettila di guardare il mio Gatto Nero.”
“Perché lo chiamano così?”
“Indovina!”
Bond indossò accuratamente l’abito ninja di cotone nero. Era abbastanza comodo e lo avrebbe riparato dal freddo dell’acqua. Non calzò il cappuccio e si mise sulla fronte gli occhiali del padre di Kissy. Il grosso fagotto che egli doveva rimorchiare galleggiava sulla superficie dell’acqua della cala; Bond se ne legò saldamente la corda al polso destro, poi rivolse un sorriso a Kissy e le fece un cenno col capo.
Kissy si avvicinò a lui, gli allacciò il collo con le braccia e lo baciò lungamente sulle labbra.
Prima che lui potesse reagire, la ragazza aveva già abbassato gli occhiali sugli occhi e si era tuffata nel mare tranquillo, color d’argento.
16. Un posticino delizioso
Le bracciate di Kissy erano ritmiche e regolari e Bond non ebbe difficoltà a seguire i piedini che si agitavano nell’acqua e le natiche bianche e rotonde divise dall’eccitante cordone nero. Fu contento di aver messo le pinne perché la resistenza del fagotto legato al polso era un freno non irrilevante. Nella prima parte della nuotata, attraversarono lo stretto diagonalmente, per combattere la corrente dell’est, ma a un certo punto Kissy virò leggermente e Bond, continuando a seguirla, poté nuotare con meno fatica verso il muraglione che ben presto divenne il loro unico orizzonte.
Alla sua base c’era un largo orlo roccioso, ma Kissy rimase in acqua, aggrappata a un ciuffo di alghe, temendo che la luna potesse illuminare il suo corpo e che qualche sentinella potesse accorgersi di lei, benché Bond fosse convinto che le guardie si ritirassero durante la notte per lasciare libero accesso ai candidati suicidi.
Bond si arrampicò sulle rocce e, dopo aver aperto la cerniera lampo del fagotto, tirò fuori gli uncini di ferro. Poi salì ancora qualche metro, nascose le pinne di gomma in un crepaccio al di sopra della linea segnata dall’alta marea, e si preparò alla scalata. Mandò un bacio alla ragazza e questa rispose con un gesto della mano, prima di riprendere la strada del ritorno, simile a una bianca torpedine che ben presto si confuse col riflesso della luna.
Bond la scartò dai suoi pensieri. Cominciava a sentir freddo, nel vestito inzuppato, ed era tempo di mettersi in moto. Esaminati gli interstizi tra i giganteschi blocchi di pietra, si rese conto che questi erano abbastanza ampi da offrire un valido appoggio ai piedi, come nel caso del castello dove si allenavano gli uomini di Tigre; e quindi, dopo essersi infilato il cappuccio e assicurato il fagotto alla schiena, cominciò ad arrampicarsi.
Gli occorsero venti minuti per arrampicarsi lungo i sessanta metri del muraglione lievemente inclinato, e dovette far ricorso agli uncini soltanto un paio di volte, quando si trovò alle prese con delle fessure troppo strette per fornire un appiglio ai suoi piedi doloranti. Alla fine raggiunse una delle feritoie dei cannoni e, dopo aver superato silenziosamente altri due metri di parete liscia, poté affacciarsi cautamente sul parco. Come si era aspettato, nella nicchia che un tempo ospitava il cannone c’erano dei gradini di pietra che scendevano fino all’altezza del giardino; li percorse silenziosamente e si fermò al riparo del muro, cercando di soffocare il respiro affannoso. Riposò qualche attimo, poi si tolse il cappuccio e si mise in ascolto. Non un soffio di vento muoveva le fronde, ma da qualche parte giungeva fino a lui il tranquillo mormorio di un ruscello e un lontano gorgoglio glutinoso e regolare.
Le fumarole! Bond, ombra nera tra le altre ombre nere, strisciò verso destra, mantenendosi contro il muro. Per prima cosa doveva cercare un nascondiglio, un punto di appoggio dove poter eventualmente bivaccare e dove lasciare il suo fagotto. Esplorò senza successo vari boschetti e cespugli, tenuti meticolosamente in ordine e scarsamente protettivi. Molti arbusti emanavano un profumo dolciastro e pericolosamente inebriante. Continuando a seguire il percorso del muro, Bond trovò un ripostiglio dalla porta sgangherata semichiusa.
Si mise di nuovo in ascolto e poi spinse lentamente la porta della piccola capanna. Nell’interno c’era un ammasso informe di utensili da giardiniere, carriole, sacchi, vasi e roba del genere, e l’odore di muffa tipico di quei ripostigli. Si mosse con cautela e, aiutato dal chiarore lunare che penetrava tra gli interstizi delle pareti, raggiunse una pila di sacchi in fondo alla capanna. Rifletté per un attimo e alla fine decise che, per quanto quel luogo fosse certamente frequentato, per il momento poteva andare bene. Prese il fagotto, lo nascose dietro i sacchi e poi scivolò di nuovo nel parco per continuare la prima esplorazione.
Cercando di non perdere il punto di riferimento rappresentato dal muro di cinta, Bond superava rapido come un pipistrello gli spazi aperti tra alberi e cespugli. Benché avesse le mani riparate dalle lunghe maniche del vestito ninja, cercava di evitare ogni contatto con la vegetazione che emanava una varietà di forti odori e di profumi tra i quali, grazie alle sue avventure nei Caraibi, riuscì a riconoscere il profumo zuccherino del corniolo. Giunse di fronte a un lago, ampio e silenzioso, sul quale si librava la leggera nube di vapore che egli aveva potuto osservare anche nella fotografia aerea.
Mentre osservava la distesa d’acqua, una grande foglia cadde da un albero al suo fianco e si posò sulla superficie del lago. Subito l’acqua fu sconvolta da un rapido incresparsi che cessò quasi subito.
C’erano pesci, in quel lago, e quasi certamente erano carnivori. Solo pesci carnivori si agitano a quel modo all’idea di una possibile preda. Bond costeggiò il lago e giunse a una delle prime fumarole, uno stagno fangoso e solforoso che ribolliva e lanciava dei piccoli schizzi. Bond ne aveva notato il calore da vari metri di distanza.
Spruzzi di vapore maleodorante uscivano di tanto in tanto dalla superficie agitata della pozza e sparivano, come fantasmi, verso il cielo. Ora, al di sopra delle cime degli alberi, apparve la sagoma buia del castello; Bond scivolò in avanti con maggiore cautela, in attesa di raggiungere la ghiaia traditrice che circondava l’edificio.
E a un tratto se lo trovò davanti, dopo aver superato una cortina di alberi.
Vista da vicino, la gigantesca mole oro e nero lo sovrastava mostruosamente, e la serie dei tetti curvi, che salivano in ordine decrescente verso la sommità, dava l’impressione di una fuga di giganteschi pipistrelli contro il cielo stellato. Il palazzo era ancora più grande di quanto Bond avesse immaginato, e i muri maestri erano composti da blocchi di granito nero ancor più formidabili. A prima vista, la fortezza sembrava imprendibile. Dall’altra parte c’era probabilmente l’entrata principale, il muro basso e l’aperta campagna. Continuando a riflettere, Bond si ricordò che i castelli antichi erano quasi sempre provvisti di un’uscita posteriore di sicurezza; avanzò con cautela, appoggiando i piedi a terra in modo da non far scricchiolare la ghiaia e riuscì a raggiungere ben presto la base del muro. I molteplici occhi del castello, su cui rifletteva la luce della luna, sembravano seguire indifferentemente le sue mosse.
Da un momento all’altro, Bond si aspettava di essere colpito dalla lama di luce di un riflettore o di veder sgorgare da una delle tante feritoie i lampi giallo-azzurrognoli degli spari delle pistole.
Continuò ad avanzare sulla sinistra, ricordando dai vecchi tempi di scuola che la maggioranza dei castelli aveva un’uscita a livello del fossato sotto il ponte levatoio.
E così era anche per il castello del dottor Shatterhand , una porticina guarnita di chiodi, semisgangherata e mal ridotta dalle intemperie. I cardini e la serratura erano rotti e arrugginiti, ma una catena di ferro munita di un lucchetto era stata recentemente affrancata alla cornice di pietra della porta. Il luogo, che un tempo era stato un fossato e che ora era stato trasformato in prato, era perfettamente buio. Bond tentò cautamente la solidità della catena e della porta, e ritenne che la protezione avrebbe ceduto facilmente all’attacco della lima nascosta nelle sue tasche da prestigiatore. Ma forse, nell’interno c’erano degli altri catenacci. Probabilmente non doveva essere così, perché in tal caso il lucchetto non sarebbe stato necessario. Bond tornò sui propri passi, usando le stesse precauzioni per non fare scricchiolare la ghiaia del viale, e cercando di ricalcare meticolosamente le orme che aveva lasciato poco prima.
Quella porticina sarebbe stata la sua meta del giorno dopo!
Si diresse verso destra, sfiorando sempre il muro di cinta, per continuare l’esplorazione. A un certo punto qualcosa gli scivolò fulmineamente tra i piedi e sparì frusciando tra le foglie che ricoprivano le radici di un albero. Quali erano i serpenti che attaccavano l’uomo? Il cobra, il mamba nero, la vipera dalle squame a sega, il serpente a sonagli e il “fer de lance”. Quali altri? Gli altri scappavano, generalmente, quando venivano disturbati. I rettili cacciavano di notte o di giorno? Bond lo ignorava. Tra tanti rischi, non gli rimanevano nemmeno le probabilità offerte da una roulette russa. Se nel tamburo della pistola non mancava nemmeno un proiettile, non esisteva neanche una probabilità su sei, sulla quale poter fare affidamento.
Ora Bond si trovava nelle vicinanze del lago, dalla parte del castello. Improvvisamente udì un rumore e si nascose nella fitta ombra di un albero. Era un rumore di cespugli agitati, e sembrava prodotto da un animale ferito. Ma d’un tratto, sul sentiero apparve un uomo, o meglio, qualcosa che un tempo era stato un uomo. La vivida luce della luna illuminò un volto gonfio come un pallone, con strette fessure al posto degli occhi e della bocca. Mentre avanzava barcollando, l’uomo gemeva e, con le mani mostruosamente gonfie, cercava di divaricare la carne enfiata attorno agli occhi per tentare di vedere. Ogni tanto si fermava e con un urlo straziante ululava qualche cosa alla luna. Non sembrava un grido di paura o di dolore, ma una terribile invocazione. A un tratto l’uomo si arrestò. Sembrava che avesse visto il lago per la prima volta. Con un ultimo urlo lacerante, e tendendo le braccia in avanti come se andasse incontro alla liberazione, l’uomo fece una breve corsa fino alla riva e si gettò in acqua. Subito ci fu il ribollire che Bond aveva notato qualche istante prima, ma questa volta la superficie era ben più vasta e il brulichio molto più violento, attorno al corpo umano che si agitava debolmente. Un’enorme massa di minuscoli pesci lottava per attaccare l’uomo e in particolare le parti scoperte del suo corpo: le mani e la faccia. A un certo momento, l’uomo sollevò il capo ed emise un gemito strozzato e angosciato. Bond riuscì a notare il suo viso letteralmente incrostato di piccoli pesci penduli, che facevano pensare a ciocche di capelli argentei. Poi la testa ricadde nel lago e l’uomo cominciò ad agitarsi in un vano tentativo di liberarsi dal morso dei terribili pesci, mentre una larga macchia scura andava allargandosi sulla superficie dell’acqua. Alla fine, forse perché i piranha erano riusciti a raggiungere la giugulare, l’uomo rimase immobile con la faccia in giù. Il suo corpo, ormai senza vita, sussultava ancora di tanto in tanto mosso unicamente dall’incessante forza d’attacco dei voraci carnivori.
James Bond si asciugò il sudore gelido che gli imperlava il viso. I piranha! Il pesce carnivoro di acqua dolce, le cui mascelle robuste fornite di denti affilati come rasoi hanno il potere di ridurre un cavallo al puro scheletro in meno di un’ora! E quell’uomo era uno degli aspiranti al suicidio che aveva sentito parlare della terribile morte! Era venuto in cerca del lago ma ancor prima di raggiungerlo era stato avvelenato da qualche affascinante arbusto. Herr Doktor aveva preparato un buon banchetto per le sue vittime. Un’infinità di manicaretti per la loro gioia! Un vero pranzo di morte!
James Bond si sentì percorrere da un brivido ma si riscosse e continuò per la sua strada. Benissimo, Blofeld, pensò, la mannaia sta calando sempre di più sul tuo collo! Bond proseguì, non perdendo mai di vista il muro di cinta. L’orizzonte cominciava a illuminarsi di un chiarore indistinto.
Ma il Giardino della Morte non aveva ancora finito di esibire le sue attrazioni.
In tutto il parco era soffuso un lieve odore di zolfo e molte volte Bond era stato costretto a compiere un lungo giro per evitare i crepacci fumanti e il fango bollente delle fumarole contraddistinte da ripari di rocce dipinte di bianco. Il dottore dimostrava molta cura nel voler evitare che le sue vittime cadessero per sbaglio in quelle fornaci liquide! Ma ora Bond giunse a una fumarola delle dimensioni di un campo da tennis circolare. In una grotta che si trovava dalla parte opposta a quella dove egli si era fermato, c’era un piccolo santuario e , tocco gentile , un grande vaso di crisantemi. I fiori erano sistemati con cura e secondo una disposizione che senza dubbio doveva avere un significato per gli iniziati. Davanti alla grotta un gentiluomo giapponese stava contemplando estaticamente il fango che ribolliva ed erompeva dal cratere fumante. L’idea che quell’uomo doveva essere un gentiluomo era derivata a Bond dal fatto che egli indossava un vestito da cerimonia, col cilindro, i calzoni a righe, il colletto duro e le ghette tipiche degli alti funzionari di governo… o del padre della sposa. Il gentiluomo teneva le mani incrociate sul manico curvo di un ombrello sul quale aveva chinato la testa come in atto di preghiera o di raccoglimento. Bond distingueva il mormorio confuso della sua voce e poteva notare come l’uomo rimanesse perfettamente immobile e in atteggiamento umile, come se stesse confessandosi o come se chiedesse qualcosa a una delle sue divinità.
Bond provava un desiderio irresistibile di intervenire, ma dovette accontentarsi di fare da testimonio muto e invisibile al riparo dell’oscurità. E infatti, come avrebbe potuto intervenire, senza sapere una sola parola di giapponese e senza aver altro da mostrare che un cartoncino con la scritta “sordomuto”? D’altra parte era essenziale che egli continuasse ad essere un “fantasma” nel giardino e non poteva neppur lontanamente pensare di complicare le cose perdendosi in una assurda discussione con uno sconosciuto su qualche antica colpa che egli non sarebbe mai riuscito a capire. E così, Bond rimase immobile, mentre gli alberi proiettavano lunghe e nere ombre sulla scena, e attese, con l’espressione chiusa e impietrita, che la morte entrasse in azione.
L’uomo smise di parlare. Alzò la testa, guardò la luna e cortesemente alzò il cilindro. Poi se lo calcò di nuovo in capo, si mise l’ombrello sotto il braccio e batté rumorosamente le mani.
Quindi, muovendosi in fretta, come se si dovesse recare a un appuntamento di affari, fece qualche passo verso il bordo della fumarola ribollente, superò con cura il bordo di rocce bianche e continuò ad avanzare. I suoi piedi cominciarono ad affondare lentamente nella melma vischiosa, ma non un lamento gli sfuggì dalle labbra, fino a quando il tremendo calore non gli raggiunse l’inguine.
Soltanto allora emise un rauco lamento, e, mentre il corpo affondava sempre più giù, piegò il capo all’indietro e scoprì i denti d’oro nel rictus della morte. E poi scomparve, e rimase soltanto il cilindro che un intermittente getto di fango faceva saltellare. Poi anche il cilindro si accartocciò per il calore intenso, e scomparve, mentre una profonda eruttazione sgorgava dalle viscere della fumarola e alle nari di Bond giungeva un orribile puzzo di carne bruciata che per un attimo ebbe il sopravvento sul persistente odore di zolfo.
Bond riuscì a controllare a fatica un urto di vomito. L’onorevole impiegato aveva raggiunto i suoi onorevoli antenati; la sua ignota colpa era stata espiata e le sue ossa calcinate affondavano lentamente nelle viscere della terra. E così, un altro numero si sarebbe aggiunto alle statistiche mortali a cui collaborava Blofeld.
Ma perché l’aviazione giapponese non veniva a bombardare quel luogo, perché non incendiava il castello e il parco avvelenato con una bella manciata di bombe al napalm? Come era possibile che quell’uomo continuasse a vivere protetto da uno sparuto gruppo di botanici e di uomini di scienza? Ora Bond si trovava da solo in quell’inferno e doveva portare a termine la missione senza altro aiuto che le sue mani nude. Non c’era alcuna speranza! Non aveva che una probabilità su un milione. Tigre e il suo Primo Ministro volevano ad ogni costo una vittima umana, in cambio del loro inestimabile Magic 44, ma forse, quella vittima umana sarebbe stato lui stesso.
Bond maledisse la sua sorte, maledisse Tigre e tutto il Giappone, e continuò a camminare, mentre una voce interna gli sussurrava: “Non vuoi forse uccidere Blofeld? Non vuoi vendicare Tracy? Non è forse una occasione unica, quella che ti si presenta? Fino a questo momento tutto è andato bene. Sei riuscito a entrare nel parco e hai esplorato il terreno. Hai anche trovato il modo di entrare nel castello e forse di arrivare nella sua stanza da letto. Uccidilo nel sonno, domani! E
uccidi anche lei, visto che ne hai l’occasione! E poi torna nelle braccia di Kissy e tra un paio di settimane sarai di nuovo a Londra a ricevere le congratulazioni del tuo Capo. Forza! In Giappone avviene un suicidio ogni trenta minuti. Non devi fare lo schizzinoso solo perché hai visto coi tuoi occhi come si spuntano un paio di numeri da una scheda del Ministero della Sanità e come si aggiungono un paio di punti a un grafico. Coraggio! Scuotiti e procedi col tuo lavoro!”
E Bond diede retta alla voce interna e superò i pochi metri che ancora lo separavano dal capanno degli attrezzi.
Prima di entrare, dette un’ultima occhiata attorno e riuscì a scorgere un lembo del lago che, alle prime luci dell’alba, assumeva dei riflessi color acciaio. Dei grossi insetti svolazzavano tra il vapore che saliva lentamente nell’aria. Erano libellule rosa. Rosa.
Danzavano e volteggiavano. Già! Lo haiku dell’agente di Tigre! Era l’ultimo tocco di incubo a quel posto schifoso. Bond entrò nel capanno, scavalcò con precauzione le carriole e gli altri attrezzi e, dopo essersi coperto con qualche sacco, si addormentò di un sonno agitato pieno di fantasmi, di demoni e di urla.
17. Si avvicina qualcosa di diabolico
Gli urli del sogno diventarono una realtà quando Bond si svegliò, quattro ore dopo. Nel capanno c’era silenzio. Bond si sollevò prudentemente e spiò attraverso una fessura della parete di legno. Un uomo che urlava , dal cencioso abito azzurro sembrava un contadino giapponese , stava scappando verso le rive del lago. Quattro sorveglianti lo rincorrevano, ridendo e gridando come se stessero giocando a rimpiattino. Avevano in mano lunghi bastoni che manovravano cercando di far cadere il poveraccio. Finalmente, una delle guardie riuscì a lanciare il bastone tra le gambe del contadino che cadde a terra con un tonfo. L’uomo si rialzò sulle ginocchia e tese le braccia in un gesto di supplica verso i suoi inseguitori.
Sempre ridendo, i quattro uomini robusti, che portavano degli alti stivali di gomma, lo circondarono. I loro visi erano resi terrificanti dai masko neri che coprivano la bocca, dalle protezioni di cuoio nero per il naso, e dai cappellacci di cuoio simili a quello che portava l’agente del treno. Cominciarono a stuzzicare l’uomo coi bastoni, beffandolo e lanciando degli urli striduli, e poi, come a un comando, lo afferrarono per le gambe e per le braccia e, dopo averlo dondolato in aria un paio di volte, lo lanciarono nel lago. L’acqua si agitò attorno al suo corpo nell’orribile brulichio già noto a Bond e l’uomo, che aveva ricominciato a urlare, si portò le mani al viso e si divincolò forsennatamente, cercando di raggiungere la riva. A poco a poco le sue grida si affievolirono fino a cessare completamente quando la testa si piegò nell’acqua e la macchia scura cominciò ad allargarsi sulla superficie agitata del lago.
Le guardie assistevano allo spettacolo dalla riva, ridendo sguaiatamente. Poi, non appena il divertimento ebbe fine, si diressero verso il capanno degli attrezzi, asciugandosi le lacrime di ilarità dagli occhi.
Bond tornò a nascondersi dietro il mucchio di sacchi e, quando gli uomini entrarono a prendere gli attrezzi, poté sentire a poca distanza le loro voci rumorose e le risate. Poi i quattro sorveglianti se ne andarono e Bond udì le loro voci disperdersi nel parco. Dopo qualche momento, dal castello venne il suono di una campana, e gli uomini fecero silenzio. Bond consultò l’orologio giapponese di cui lo aveva munito Tigre. Erano le nove. Era forse l’ora ufficiale dell’inizio del lavoro? Probabilmente. In genere, i giapponesi vanno al lavoro mezz’ora prima e terminano mezz’ora dopo l’orario ufficiale, per guadagnare la stima dei loro capi e per dimostrare interesse per il lavoro e gratitudine verso coloro che li comandano. Più tardi, pensò Bond, ci sarebbe stata una pausa di un’ora per la colazione. E l’attività sarebbe probabilmente cessata verso le sei. Per cui, solo a partire dalle sei e mezzo egli avrebbe avuto il terreno libero. Nel frattempo, egli doveva stare in ascolto e vigilare per scoprire quanto più possibile sulle abitudini delle guardie, di cui aveva presumibilmente osservato le prime fasi: la caccia e la liquidazione finale dei suicidi che avevano cambiato parere o che durante la notte erano stati colti dalla paura. Bond aprì cautamente il fagotto e fece una rapida colazione con un pezzo di pemmican e qualche sorso d’acqua. Che cosa avrebbe dato per una sigaretta!
Un’ora dopo, Bond udì un rumore di passi strascicati sull’altro lato del lago e spiò dalla fessura. Le quattro guardie erano in fila, rigide sull’attenti. Il cuore gli batté più forte. Gli uomini sull’attenti facevano pensare a una ispezione. Forse era Blofeld in persona che veniva a chiedere ai suoi guardiani il rapporto sugli avvenimenti della notte trascorsa?
Bond cercò di sbirciare sulla destra, verso il castello, ma la vista gli era impedita da un cespuglio di oleandri bianchi, di quelle piante apparentemente innocue dalle quali, in varie parti dei tropici, si estrae un veleno per i pesci. Caro e simpatico cespuglio!, pensò Bond, bisogna che mi ricordi di starne alla larga, questa notte.
Poi, provenienti dal sentiero oltre il lago, nel suo campo visivo apparvero due figure che si avvicinavano camminando tranquillamente.
Bond strinse i pugni per l’emozione, alla vista della sua preda.
Blofeld, rivestito di un’armatura scintillante e con un grottesco elmo di acciaio ornato di ali e di spuntoni, con la visiera abbassata, somigliava a un personaggio di Wagner, o meglio, dato lo stile orientale di quella mascherata, di un dramma Kabuki giapponese.
La mano destra, coperta da una manopola, era appoggiata all’elsa di una lunga spada da samurai, e l’altra stringeva il braccio della sua compagna, una donna massiccia dai modi e dall’andatura di una carceriera. Il viso della donna era completamente celato da un grande cappello da apicultore munito di un pesante velo nero che le copriva le spalle. Ma non c’era il minimo dubbio! Nei suoi sogni, Bond aveva visto troppe volte quella sagoma tozza, ora celata da un impermeabile di plastica e da un paio di stivaloni di gomma. Era proprio lei! Era Irma Bunt!
Bond trattenne il fiato. Se quei due avessero fatto il giro del lago e fossero venuti dalla sua parte, gli sarebbe stato facile dare uno spintone all’uomo corazzato e farlo cadere in acqua. Ma i piranhas avrebbero potuto attaccarlo attraverso le fessure dell’armatura? Difficilmente! E poi, come avrebbe fatto, per darsela a gambe? No, non gli pareva un buon sistema.
Le due figure avevano quasi raggiunto la fila dei quattro uomini, e in quel momento le guardie caddero a terra in ginocchio e toccarono il suolo con la fronte in un inchino profondo. Poi si rialzarono rapidamente e si misero di nuovo sull’attenti.
Blofeld alzò la visiera e rivolse qualche parola a uno degli uomini il quale gli rispose con deferenza. Bond notò per la prima volta che quella guardia portava al fianco una pistola. Bond non poteva sentire in che lingua si esprimeva Blofeld. Era impossibile che egli avesse imparato il giapponese. Inglese o tedesco? Probabilmente parlavano in tedesco, come risultato di qualche attività in comune durante la guerra. L’uomo rise, indicando il lago dove il fagotto di stracci azzurri era agitato lievemente dall’attività delle orde di pesci che stavano banchettando. Blofeld espresse la propria approvazione con un cenno del capo e gli uomini caddero nuovamente in ginocchio. Blofeld fece un cenno con la mano, abbassò la visiera e la coppia riprese a incedere maestosamente lungo il viale.
Bond rimase a guardare con attenzione per scoprire se le guardie, una volta passato il padrone, si sarebbero rialzate recando sul viso una espressione ironica o di scherno. Ma non ci fu alcun segno di mancanza di rispetto. Gli uomini tornarono disciplinatamente al loro lavoro e Bond si ricordò la descrizione fatta da Dikko Henderson della automatica sottomissione alla disciplina e all’autorità dei giapponesi, grazie alla quale era stato possibile commettere uno dei più terribili delitti del secolo. Se quel caro Dikko avesse potuto trovarsi al suo fianco, in quell’istante! Quale enorme aiuto avrebbe potuto fornire in quella pazzesca operazione, con la forza dei suoi pugni e con la sua vitalità!
Dikko gli aveva raccontato che il delitto era avvenuto in una modesta filiale suburbana della Banca Imperiale. Durante un normale giorno di lavoro, un uomo che portava un bracciale dall’aspetto ufficiale, si era presentato al direttore della Banca dichiarando di essere stato inviato dal Ministero della Sanità. Si temeva un’epidemia di tifo ed egli pregava il direttore di riunire nel cortile tutto il personale per consentirgli di somministrare l’antidoto ufficiale. Il direttore si inchinò e si affrettò a ubbidire. Ogni cosa fu chiusa sotto chiave e i quattordici impiegati si riunirono nel cortile e ascoltarono il discorsetto sulla salute pubblica rivolto loro dall’uomo col bracciale. Quando tutti si furono inchinati per rendere omaggio alla previdenza del Ministero della Sanità, l’uomo tolse da una valigetta quindici bicchieri e vi versò il contenuto di una bottiglia. Consegnando un bicchiere a ognuno dei presenti li aveva consigliati di bere la mistura in un sol fiato per evitare di danneggiare la dentatura. “Adesso,” egli ordinò, secondo la versione di Dikko, “tutti insieme! Uno, due e tre!” Non appena bevuta la medicina, il direttore e gli impiegati della Banca Imperiale del Giappone caddero esanimi al suolo. La medicina non era altro che acido cianidrico puro.
Il “funzionario del Ministero della Sanità” prese le chiavi dalle tasche del direttore, prelevò dalla cassa della banca duecentocinquanta milioni di yen e se ne andò tranquillamente dalla scena di quello che in seguito sarebbe stato chiamato il “Caso Teigin” dal nome del rione.
Anche in questo luogo, pensava Bond, vi era la medesima totale ubbidienza alle autorità, pur non dovendosi disconoscere l’importanza dell’approvazione tacita e della simpatia alla filosofia del Drago Nero. Blofeld aveva impartito gli ordini che Bond aveva visto eseguire pochi istanti prima. Egli era stato investito del potere da un certo dipartimento di Stato e si era vestito per recitare quella parte. I suoi comandi venivano eseguiti. Del resto, c’era un onorevole lavoro da svolgere, un lavoro onorevole il cui risultato era una abbondante pubblicità sui giornali. Si trattava di un gaijin molto potente che godeva di forti appoggi in alto loco e di una grande considerazione. Perché dovevano preoccuparsi, se la gente voleva uccidersi? Se i suicidi non avessero avuto a loro disposizione il Castello della Morte, e l’aiuto di qualche spinta supplementare, avrebbero dovuto scegliere le ferrovie o i tram. In fondo, si trattava di un servizio pubblico. Era quasi una filiale del Ministero della Sanità! Finché i masko e le protezioni nasali li avessero difesi dai veleni del giardino, non restava loro altro da fare che lavorare coscienziosamente, e un giorno la Dieta li avrebbe incaricati di far parte di un Ministero creato apposta per ricompensarli: il Ministero dell’Autodistruzione! E allora sarebbero tornati i giorni gloriosi del Drago Nero Koan, per salvare il paese del Sol Levante dalla sempre più invadente minaccia della demokorasu!
Ora le due figure erano apparse ancora nel suo campo visivo, provenienti da sinistra. Avevano fatto il giro del lago e forse si erano intrattenuti con altri gruppi di guardie. Tigre aveva detto che vi erano almeno venti guardie e che la proprietà si estendeva su una superficie di cinquecento acri. Cinque gruppi di quattro guardie?
Blofeld aveva rialzato la visiera e stava parlando con la donna. Si trovavano a soli venti metri di distanza, e si erano fermati vicino al lago per osservare il fantoccio vestito di azzurro che l’orda di pesci non aveva ancora finito di divorare. Parlavano in tedesco. Bond tese le orecchie.
Blofeld disse: “I piranha e le fumarole sono degli ottimi servitori. Servono a tenere il luogo perfettamente pulito.”
“Anche il mare e gli squali servono molto bene per lo stesso scopo.”
“Ma spesso gli squali non terminano la loro opera. Quella spia che abbiamo fatto passare nella stanza dell’interrogatorio è stata trovata quasi intatta lungo la costa. Anche allora avremmo dovuto ricorrere al lago. Sarebbe stato più sicuro. Non vogliamo che quel poliziotto di Fukuoka ci venga a disturbare troppo spesso. I contadini potrebbero finire col rivelargli quante persone varcano il muro, e si verrebbe a sapere che il numero delle vittime è molto maggiore, quasi il doppio, di quello che le ambulanze raccolgono. Se la media dei decessi continua ad aumentare a questa stregua, avremo delle noie. Da ciò che Kono mi ha tradotto dai giornali, ho saputo che l’opinione pubblica protesta e chiede una inchiesta ufficiale.”
“E allora che cosa faremo, lieber Ernst?”
“Ci faremo risarcire lautamente i danni e ce ne andremo. Lo stesso progetto può essere attuato anche in altri paesi. Dappertutto c’è della gente che sente il desiderio di uccidersi. Può darsi che sia necessario cambiare le attrazioni delle opportunità che offriamo loro. Gli altri popoli non hanno il profondo amore dell’orrore e della violenza come i giapponesi. Una bella cascata, un ponte facilmente praticabile, uno strapiombo vertiginoso. Queste possono essere le alternative. Potremmo trovare un posto adatto in Brasile o in qualche altra parte dell’America Meridionale.”
“Ma non raggiungeremo mai queste cifre.”
“Quello che importa è il concetto basilare, liebe Irma. E’ molto difficile inventare qualcosa che sia completamente nuovo nella storia del mondo. E io ci sono riuscito. Se il mio ponte o la mia cascata provocheranno anche soltanto una decina di incidenti all’anno, sarà una semplice questione di statistiche. L’idea basilare rimarrebbe sempre viva.”
“E’ giusto. Sei veramente un genio, lieber Ernst. Sei comunque riuscito a fare di questo luogo un santuario di morte per sempre. La gente ha letto cose simili nei racconti fantastici di Poe, di Lautréamont, di Sade, ma mai nessuno è riuscito a tradurre in pratica una simile fantasia. E’ come se una grande favola fosse diventata realtà. Un Disneyland della morte. Naturalmente,” si affrettò ad aggiungere la donna, “su una scala ben maggiore e molto più poetica.”
“Un giorno o l’altro scriverò tutta la storia. Allora, forse, il mondo capirà che tipo di uomo sono stato io. Un uomo non soltanto ignorato ma,” la voce di Blofeld divenne improvvisamente stridula,
“che tutti perseguitano e vogliono uccidere come un cane rabbioso. Un uomo che deve far uso di ogni astuzia per rimanere in vita! Se io non avessi celato così bene le nostre tracce, a quest’ora saremmo perseguitati da un nugolo di spie incaricate di ucciderci o di consegnarci alle autorità per rispondere dell’accusa di assassinio secondo le loro stupide leggi! In conclusione, liebe Irma,” la voce si era calmata, “viviamo in un mondo di pazzi per i quali la vera grandezza è un delitto. Andiamo! E’ ora di passare in rivista gli altri distaccamenti.”
Stavano già per andarsene quando Blofeld si fermò e fece un cenno proprio in direzione di Bond. “Quel capanno tra i cespugli. La porta è aperta! Ho detto migliaia di volte agli uomini che simili posti devono essere tenuti chiusi a chiave. Sono dei rifugi ideali per le spie e per i fuggiaschi. Vado a sincerarmi.”
Bond rabbrividì. Si rannicchiò nel suo rifugio coprendosi di altri sacchi per avere maggiore protezione. I passi pesanti si avvicinarono, entrarono nel capanno. Bond avvertì la presenza dell’uomo a brevissima distanza e ne indovinò l’espressione rabbiosa e scrutatrice. Poi ci fu un rumore metallico e il riparo di sacchi fu scosso dagli energici fendenti della spada di Blofeld. Bond trasalì e si morse le labbra quando una piattonata lo colpì in mezzo alla schiena. Alla fine, Blofeld parve soddisfatto e i suoi passi si allontanarono. Bond riprese a respirare. Sentì che Blofeld diceva:
“Non c’è nulla, ma ricordami di rimproverare Kono durante il giro di ispezione di domani. Quel capanno deve essere sgomberato e munito di una buona serratura.” Il rumore dei passi svanì verso il cespuglio di oleandri e Bond si palpò la schiena, con un gemito. Molti dei sacchi che lo coprivano erano stati tagliati, ma Bond non aveva la minima scalfittura.
Bond si mise in ginocchio, e tornò a sistemare il suo nascondiglio, massaggiandosi di tanto in tanto la schiena indolenzita. Poi sputò la polvere che gli riempiva la bocca, bevve un po’ d’acqua e, dopo essersi assicurato che fuori del capanno non era rimasto nessuno, tornò a sdraiarsi e si mise a pensare alle parole di Blofeld.
Indubbiamente, quell’uomo era pazzo. Un anno prima, il tono di voce generalmente pacato che Bond ricordava così bene non si sarebbe mai convertito nell’urlo stridulo che faceva pensare ai discorsi di Hitler. E la freddezza, la suprema fiducia che era stata la base di tutti i suoi progetti? Gli sembrava che quelle qualità fossero in gran parte svanite, forse a causa del fallimento di due dei più grandiosi piani di Blofeld, provocato dallo stesso Bond. Una cosa era certa: quel nascondiglio non serviva piLa . prossima notte doveva essere quella decisiva.
Bond ripassò di nuovo le vaghe linee del suo piano. Se fosse riuscito a entrare nel castello, le probabilità di trovare un mezzo per uccidere Blofeld sarebbero aumentate di molto, malgrado fosse convinto che quasi sicuramente egli stesso non sarebbe uscito vivo da quelle mura. Dulce et decorum est… con le storie che seguono! Ma poi pensò a Kissy e non si sentì più tanto sicuro di voler affrontare la morte con indifferenza. Kissy aveva riportato nella sua vita una dolcezza che egli credeva di aver perduto per sempre.
Bond ripiombò in un sonno inquieto, nuovamente popolato di incubi.
18. Trabocchetto
Alle sei del pomeriggio la campana del castello rintoccò brevemente e il crepuscolo scese ad avvolgere ogni cosa in un velo violaceo. I grilli cominciarono a stridere in coro e i geconi a lanciare delle grida gutturali dai cespugli. Le libellule rosa erano sparite, ed erano invece comparsi dei veri stuoli di grossi rospi cornuti, usciti dalle tane in riva al lago per cacciare, da quel che poteva vedere Bond dalla fessura, le zanzare attratte dai globi lucenti dei loro occhi. Riapparvero le quattro guardie e alle nari di Bond giunse l’acre odore che emanava da un falò acceso probabilmente per distruggere i rifiuti raccolti durante la giornata. Un uomo trasse a riva con l’aiuto di un bastone i poveri stracci di cotonina azzurra, e, tra le più matte risate degli altri, ributtò nel lago le lunghe ossa che erano rimaste impigliate nella stoffa. Un altro sorvegliante portò via gli stracci, probabilmente per gettarli nel fuoco, e Bond si rintanò quando gli altri uomini entrarono nel capanno per deporre gli attrezzi. I guardiani rimasero a chiacchierare allegramente finché non furono raggiunti dal quarto e poi, senza aver notato nell’oscurità i sacchi tagliuzzati e in disordine, si avviarono verso il castello.
Dopo qualche attimo, Bond si sollevò, si stirò e scosse via la polvere dai capelli e dai vestiti. La schiena gli faceva ancora male, ma la sensazione predominante era il disperato desiderio di una sigaretta. Alla fine si decise. Poteva anche essere la sua ultima. Si sedette, bevve un sorso d’acqua, ingoiò un grosso pezzo di pemmican e lo innaffiò con un’altra sorsata d’acqua. Poi tirò fuori uno sgualcito pacchetto di Shinsei, accese una sigaretta tenendo le mani attorno alla fiamma e spense subito il fiammifero. Il fumo, aspirato profondamente, gli dette un godimento ineffabile. Un’altra boccata, e la notte che gli si prospettava non gli parve più così paurosa. Era sicuro che tutto sarebbe andato per il meglio! Pensò a Kissy che in quel momento stava senza dubbio consumando la sua cena a base di pesce e fagioli e meditando sulla nuotata notturna. Ancora qualche ora e Kissy si sarebbe trovata vicino a lui. Ma nel frattempo che cosa sarebbe successo? Bond fumò finché la brace della sigaretta non gli bruciò le dita, poi schiacciò il mozzicone e lo fece sparire in una fessura del pavimento. Erano le sette e mezzo e già la voce di qualche insetto del tramonto era cessata. Bond cominciò a prepararsi meticolosamente.
Alle nove uscì dal capanno. La luna brillava di nuovo e il silenzio era completo, rotto di tanto in tanto dal sommesso gorgoglio delle fumarole e dalla rauca voce di qualche gecone. Bond rifece la stessa strada della notte innanzi, ritrovò lo stesso boschetto e rimase a osservare la costruzione dai tetti simili a pipistrelli che si ergeva contro il cielo. Per la prima volta si accorse che il pallone da cui pendevano gli striscioni di avvertimento era legato a un palo all’angolo della balaustrata che doveva correre attorno a tutto il piano principale, cioè il terzo. Sullo stesso piano, dietro a qualche finestra, splendeva una luce giallastra. Bond decise di puntare su quella meta. Emise un profondo respiro, si avviò cautamente sulla ghiaia e raggiunse senza difficoltà la porticina sotto il ponte di legno.
L’abito nero ninja aveva tante tasche quante ne ha la marsina di un prestigiatore. Bond prese una piccola torcia e una lima e cominciò ad attaccare un anello della catena. Ogni tanto si fermava e sputava nel solco per attutire lo stridio del metallo contro il metallo.
Finalmente l’anello si spezzò e Bond, facendo leva con la lima, lo aprì e, silenziosamente, tolse il lucchetto e la catena dai loro sostegni. Spinse leggermente e la porta cedette verso l’interno.
Accese la torcia ed esplorò l’oscurità con il sottile raggio di luce.
Fece bene a usare quell’accorgimento. Sul gradino di pietra dove avrebbe posato il piede subito dopo aver oltrepassata la porta c’erano le mandibole arrugginite e spalancate di una grossa tagliola seminascosta da un sottile strato di paglia. Bond trasalì, immaginando il morso d’acciaio di quei denti attorno alla sua gamba.
Ci dovevano essere senza dubbio altre trappole, ed era meglio stare all’erta!
Bond chiuse silenziosamente la porta dietro di sé, girò attorno alla tagliola ed esplorò davanti a sé col raggio della torcia.
Null’altro che una profonda oscurità. Si trovava in un enorme scantinato che in altri tempi era senza dubbio servito da magazzino di provviste per un piccolo esercito. Il raggio della torcia snidò delle ombre nere svolazzanti e la volta del locale riecheggiò di squittii acutissimi. Bond non temeva i pipistrelli e non credeva alla leggenda che quelle schifose bestiole si impigliassero nei capelli della gente. Erano dotate di un ottimo radar. Avanzò lentamente, dirigendo la luce sulle rozze piastrelle di pietra. Superò un paio di arcate e a un certo punto si accorse che lo scantinato si restringeva perché egli poteva scorgere solo le pareti a destra e a sinistra e il tetto a volta pieno di ragnatele. Sì, ecco una gradinata che saliva!
Procedette con cautela e contò venti scalini prima di trovarsi di fronte a una porta priva di serratura dalla sua parte. La spinse leggermente e poté notare e udire la resistenza di una serratura apparentemente sgangherata. Tolse di tasca una leva, la introdusse nella fessura della porta e fece pressione sulla sinistra finché udì uno schianto e il tintinnio delle viti che cadevano sul pavimento.
Spinse più forte e il resto della serratura cadde al suolo rumorosamente. La porta si spalancò tra uno sgradevole stridio di vecchi cardini. Più avanti, c’era ancora buio. Bond spense la torcia e rimase in ascolto. Si doveva trovare ancora nelle viscere del castello, perché non udiva alcun rumore. Accese di nuovo la torcia e illuminò un’altra serie di gradini di pietra che conduceva a una porta moderna di legno lucido. Percorse la breve scalinata e tentò prudentemente la maniglia. Questa volta non c’erano serrature! Aprì silenziosamente l’uscio e si trovò in un lungo corridoio di pietra leggermente in salita, alla cui estremità c’era un’altra porta moderna che lasciava filtrare un debole raggio di luce!
Bond superò la rampa senza far rumore e, trattenendo il fiato, appoggiò l’orecchio al buco della serratura. Silenzio profondo!
Afferrò la maniglia, socchiuse l’uscio e poi, soddisfatto, lo superò e lo chiuse dietro di sé. Aveva raggiunto l’atrio principale del castello. Il grande portone d’ingresso si trovava alla sua sinistra e una consunta striscia di tappeto attraversava il locale e si perdeva nelle ombre che l’unica lampada a olio dell’atrio non riusciva a fugare. Oltre alla striscia di tappeto e alla grande lampada, l’enorme sala era completamente spoglia.
Bond avanzò evitando il tappeto e mantenendosi nell’ombra delle pareti. Ora doveva trovarsi sul piano principale ed era sicuro che da qualche parte sarebbe riuscito a scovare la sua preda. Era penetrato nel cuore della fortezza e fino a quel momento tutto era andato bene!
La porta seguente, senza dubbio l’ingresso a una delle sale, era chiusa da un semplice catenaccio. Bond si chinò e origliò dal buco della serratura. Un altro locale debolmente illuminato. Nessun rumore! Fece scorrere dolcemente il catenaccio, socchiuse la porta e poi entrò. Era un’altra grandissima stanza, ma questa volta splendidamente decorata. Bond pensò che doveva trattarsi della sala principale dove Blofeld riceveva le sue visite. Sulle pareti imbiancate a calce, tra pesanti tendaggi rossi orlati d’oro, erano appese delle magnifiche armature e degli stupendi esemplari di armi antiche. Sparsi un po’ dappertutto c’erano dei massicci mobili preziosi. Il pavimento era parzialmente coperto da un enorme tappeto azzurro cupo; il resto dell’impiantito era lucidissimo e rifletteva la luce di due grandi lanterne ad olio che pendevano dalle travi del soffitto decorato con un motivo color rosso scuro. Bond scelse le tende come nascondiglio e, scivolando silenziosamente dall’una all’altra, riuscì a raggiungere la porticina che si apriva a un estremo del salone e che l’agente pensò dovesse condurre alle abitazioni private.
Si chinò per ascoltare e subito fece un balzo all’indietro, riparandosi dietro la tenda più vicina. Aveva udito un rumore di passi che si stavano avvicinando! Bond tolse dalla cintura la sottile catena d’acciaio, la arrotolò al polso sinistro e rimase in attesa dietro la tenda con la piccola ma robusta leva alzata nella mano destra.
Si azzardò a scostare leggermente il pesante tessuto pieno di polvere e vide che la porticina si era aperta, rivelando la schiena di una delle guardie armate di pistola. Probabilmente si trattava di Kono, il giapponese che fungeva da interprete a Blofeld! Forse aveva lavorato coi tedeschi in tempo di guerra, nel Kempeitai, probabilmente. Che cosa stava facendo? Sembrava armeggiare con qualcosa dietro la porta. Un interruttore? No, nel castello non c’era luce elettrica. Apparentemente soddisfatto, il giapponese indietreggiò e, dopo essersi inchinato profondamente verso l’interno, chiuse la porta. Non portava il masko e Bond riuscì a notare di sfuggita un viso abbronzato e arcigno nel quale brillavano due crudeli occhi a mandorla. Bond udì lo scatto della serratura della prima porta e poi nel salone tornò a regnare il silenzio. Attese ancora cinque minuti prima di lasciare il suo nascondiglio, ma quando si decise a uscire si rese conto che nel salone non c’era nessuno.
E ora, eccolo di fronte al traguardo!
Tenendo in mano le armi di cui disponeva, Bond si avvicinò di nuovo all’uscio da cui non proveniva alcun suono. Perché la guardia aveva fatto quell’inchino? Bah! Forse per rispetto allo spirito del padrone. Bond spinse decisamente la porta e ne oltrepassò la soglia con un salto, pronto a qualsiasi sorpresa.
Un corridoio completamente deserto accolse freddamente il suo slancio. Si stendeva davanti a lui per una decina di metri ed era scarsamente illuminato da una lampada a olio. Il pavimento era di legno lucido. Un “pavimento usignolo”? No. I passi della guardia non era stati traditi da scricchiolii di sorta. Ma dalla porta in fondo giungeva una musica nota. La Cavalcata delle Walchirie di Wagner, suonata in sordina. Grazie, Blofeld! pensò Bond. Una protezione inaspettata! E avanzò lentamente verso il centro del corridoio.
Non ci fu il minimo preavviso. Un passo in avanti e il pavimento del corridoio oscillò su un perno centrale e si aprì sotto i piedi di Bond. Agitando disperatamente le braccia e le gambe, e tentando vanamente di aggrapparsi a qualche sporgenza, l’agente precipitò nel vuoto. La guardia! L’armeggio dietro la porta! Aveva azionato la leva per far funzionare la trappola, il solito trabocchetto degli antichi castelli! E Bond non ci aveva pensato! Mentre il suo corpo scivolava nel buio, un campanello d’allarme, messo in moto dal meccanismo della trappola, cominciò a suonare istericamente. Bond ebbe la rapida visione della piattaforma che liberata dal suo peso stava risollevandosi, e poi precipitò perdendo i sensi.
Bond nuotava a fatica lungo il tunnel buio verso un accecante puntino di luce. Ma perché non la smettevano di picchiarlo? Che cosa aveva fatto per meritarsi quella punizione? Era riuscito a prendere due awabi, ne sentiva il ruvido guscio nella palma delle mani. Kissy non poteva aspettarsi di più, da lui. “Kissy,” mormorò, “Basta!
Finiscila, Kissy!”
Il puntino di luce si era dilatato e si era trasformato in un pavimento coperto di paglia dove egli stava rannicchiato mentre una robusta mano lo colpiva al viso. A ogni ceffone, il dolore lancinante nella sua testa sembrava suddividersi in mille sofferenze. Bond scorse il bordo della barca che lo sovrastava e cercò disperatamente di afferrarvisi, alzando le mani per far vedere le awabi e dimostrare di aver compiuto il suo dovere. Cercò di lasciar cadere le conchiglie nella tinozza e aprì le mani, ma in quel momento riprese parzialmente i sensi e vide due manciate di paglia cadere al suolo. I colpi erano cessati e ora riuscì a scorgere qualcosa attraverso una nebbia di dolore. Quella faccia abbronzata! Quegli occhietti a mandorla! Kono, la guardia. E c’era un altro che tendeva una torcia per far luce.
Bond si ricordò improvvisamente ogni cosa. Niente awabi! Niente Kissy! Era accaduto qualcosa di terribile! Tutto sbagliato! Shimata!
Ho commesso un errore! Tigre! Il nome fu come un lampo e nella mente di Bond tutto fu chiaro. Attento, adesso. Sei sordomuto, sei un minatore di Fukuoka. Ricordatelo bene, e al diavolo il mal di testa.
Non c’è nulla di rotto. Stai tranquillo. Bond si lasciò scivolare le mani sui fianchi e solo allora si accorse di essere completamente nudo ad eccezione di un paio di mutadine nere appartenenti all’equipaggiamento ninja. Si inchinò profondamente e poi si raddrizzò. Kono, con la mano appoggiata al calcio della pistola, lo investì furiosamente in giapponese. Bond si leccò il sangue che gli usciva da un labbro e assunse una espressione vacua, stupida. Kono prese la pistola e fece un gesto. Bond si inchinò di nuovo, si alzò in piedi, e dopo aver dato una rapida occhiata al trabocchetto nel quale era caduto, seguì fuori dalla cella l’invisibile guardia munita della torcia.
Qualche gradino, un corridoio e poi una porta. Kono si fece avanti e bussò.
Bond si trovò in un piccolo studio con le pareti rivestite di libri. La seconda guardia posò sul pavimento l’abito ninja e il compromettente contenuto delle sue tasche. Blofeld, avvolto in uno sfarzoso kimono di seta nera sul quale serpeggiava un drago d’oro, era appoggiato al caminetto dove rosseggiava un braciere giapponese.
Era proprio lui. La fronte alta, le labbra rosse e sottili, ora seminascoste da un paio di lunghi baffi grigiastri lasciati crescere senza dubbio per cercare di somigliare a un mandarino, il ciuffo di capelli bianchi che lo avevano caratterizzato quando recitava la parte di Monsieur le Comte de Bleuville, e gli occhietti simili a fori di proiettili. Seduta accanto a lui, per completare il quadro di una pacifica coppia di sposi che ha appena terminato di cenare, c’era Irma Bunt, che indossava il costume delle dame aristocratiche giapponesi. La donna aveva temporaneamente lasciato il telaio del ricamo ed era in evidente attesa di riprendere l’ago con le sue mani grassocce, non appena si fosse chiarita la causa di quell’increscioso contrattempo. Quella faccia tumefatta e angolosa, quei capelli color topo tirati in su e annodati in uno stretto nodo, gli occhi quasi gialli! Per Dio, pensò Bond quasi annichilito, eccoli qui tutti e due! A portata di mano! Sarebbero già morti, a quest’ora, se egli non avesse commesso un errore imperdonabile! Non c’era una via di scampo?
Cielo, se la testa avesse smesso di fargli male!
La lunga spada di Blofeld era appoggiata alla parete. Egli la afferrò, fece qualche passo in avanti e, giunto vicino al mucchio dei vestiti di Bond, sollevò un capo con la punta della spada e chiese, parlando in tedesco: “E questo che cosa è, Kono?”
Il guardiano rispose nella stessa lingua. La sua voce era turbata e per un attimo il suo sguardo si posò su Bond con un certo rispetto. “E’
un abito ninja, Herr Doktor. I ninja praticano le arti segrete del ninjutsu. I loro segreti risalgono all’antichità e io non ne sono molto al corrente. Consistono nell’arte di muoversi furtivamente, nel rendersi invisibili e nell’uccidere senza far uso di armi. Un tempo, questa gente era assai temuta, in Giappone. Non sapevo che esistesse ancora. Quest’uomo è stato certamente mandato per uccidervi, mio signore. Se non fosse stato per la magia del corridoio, ci sarebbe forse riuscito.”
“E chi è?” Blofeld scrutò attentamente Bond. “Mi sembra alto, per essere un giapponese.”
“Molto spesso gli uomini delle miniere sono alti, mio signore.
Portava addosso un cartoncino con la scritta “Sordomuto”, e altri documenti che sembrano autentici. Dovrebbe essere un minatore di Fukuoka, ma non lo credo. Ha le unghie spezzate ma le mani non sono da minatore.”
“Nemmeno io ci credo. Ma lo chiariremo ben presto.” Blofeld si rivolse alla donna. “Che cosa ne pensi, cara? Tu hai un buon naso per queste cose… l’intuito femminile.”
Irma Bunt si alzò e si avvicinò. Scrutò attentamente Bond e gli girò attorno, mantenendosi a prudente distanza. Quando giunse dalla parte sinistra, si fermò di colpo ed esclamò: “Du lieber Gott!” si avvicinò a Blofeld e mormorò con voce rauca, pur non distogliendo lo sguardo terrorizzato da Bond: “Non può essere! Ma invece è proprio così! La cicatrice sulla guancia destra! Il profilo! Le sopracciglia sono state rasate per dare agli occhi una inclinazione orientale!” Si rivolse a Blofeld e la sua voce si fece più ferma: “E’ l’agente inglese. E’ l’uomo che si faceva passare per Sir Hilary Bray.” E
aggiunse con ferocia: “Lo giuro! Mi devi credere, lieber Ernst!”
Blofeld aveva aggrottato le sopracciglia. “Noto una certa somiglianza. Ma come ha potuto arrivare fin qui? Come ha fatto a scoprirmi? Chi lo ha mandato?”
“La Geheimdienst giapponese. Sono certamente in stretti rapporti col Servizio Segreto britannico.”
“Non posso crederlo! Se così fosse sarebbero già venuti ad arrestarmi con dei mandati di cattura. Ci sono troppi fattori misteriosi, in questo affare. Dobbiamo procedere con grande cautela e farci dire tutta la verità da quest’uomo. Per prima cosa scopriremo se è davvero un sordomuto. La stanza degli interrogatori ci aiuterà a risolvere questo problema. Ma prima di tutto bisogna ammorbidirlo un po’.” Si rivolse a Kono: “Di’ a Kazama di prepararsi.”
19. La stanza degli interrogatori
Nella sala erano entrate dieci guardie che si stavano allineando contro il muro, dietro a Kono. Tutti erano muniti di lunghi bastoni.
Kono impartì un ordine e uno degli uomini appoggiò il bastone in un angolo e si fece avanti. Era un individuo alto e muscoloso, con la testa completamente calva e lucente simile a un frutto maturo e con mani grosse come prosciutti. Si mise di fronte a Bond con le gambe divaricate e le labbra contratte in un ghigno crudele che mostrava i denti rotti e neri. Alzò la destra e colpì Bond con un ceffone proprio sulla contusione che la caduta gli aveva provocato. La testa di Bond esplose in una vampata di dolore. Poi fu la volta della mano sinistra, e l’agente barcollò. Attraverso una nebbia sanguigna poteva scorgere Blofeld e la sua donna. Blofeld assisteva alla scena col distacco disinteressato dell’uomo di scienza, ma le labbra semiaperte della donna erano umide di saliva.
Bond sopportò dieci ceffoni e si rese conto che, se voleva agire, doveva farlo mentre gli rimaneva un po’ di forza. Le gambe divaricate dell’uomo offrivano un perfetto bersaglio. C’era da sperare che il giapponese non avesse imparato e messo in pratica il trucco dei Sumo!
Barcollando, Bond prese la mira e, mentre un altro formidabile colpo stava piombando su di lui, tirò un calcio con tutta la forza che gli rimaneva. Il piede colpì in pieno e l’uomo cadde a terra con un urlo bestiale e si rotolò gemendo e stringendo le mani sul basso ventre.
Le guardie si precipitarono su Bond con i bastoni alzati e Kono trasse la pistola dalla fondina. Bond saltò da una parte, afferrò una sedia dall’alta spalliera, la roteò in aria e la abbatté sul gruppo delle guardie ringhiose. Una delle gambe colpì in pieno la bocca di uno degli uomini e si udì un rumore di ossa rotte. Il guardiano cadde al suolo urlando e portandosi le mani al viso.
“Fermi!” Bond udì la voce stridula che aveva notato qualche ora prima. Gli uomini ubbidirono e abbassarono i bastoni. “Kono. Porta via quegli uomini,” e accennò alle guardie che si contorcevano sul pavimento. “Castigherai Kazama per la sua incompetenza e procurerai una dentiera a quell’altro. Basta, per ora. L’uomo non parlerà, coi soliti sistemi. Se non è sordo, non riuscirà a sopportare la pressione della stanza degli interrogatori. Portatelo lì. Le altre guardie possono aspettare nel salone delle udienze. Also! Marsch!”
Kono impartì alcuni ordini e le guardie se ne andarono. Poi fece un gesto con la pistola in direzione di Bond, aprì una porticina accanto a uno scaffale di libri e gli indicò uno stretto passaggio di pietra.
Bond si leccò il sangue agli angoli delle labbra. Che cosa lo stava aspettando? Si sentiva sfinito. Pressione? Non sarebbe riuscito a sopportarne molta! Che cosa era la stanza degli interrogatori? Cercò di reagire e di farsi coraggio. Forse avrebbe trovato una occasione per saltare alla gola di Blofeld. Che cosa avrebbe dato per trascinarlo all’inferno con sé! Avanzò nel corridoio e fece naturalmente il sordo all’ordine di Kono di aprire una rozza porta sul fondo. La porta fu spalancata da una guardia e Bond dovette avanzare costretto dalla spinta della pistola sulla sua schiena.
Entrò in una strana stanza dalle pareti di ruvida pietra; l’ambiente era caldissimo e puzzava terribilmente di zolfo.
Blofeld e la donna entrarono a loro volta e presero posto su due poltrone di legno sotto una lampada a olio e a un grande orologio da cucina la cui unica caratteristica consisteva nei quarti d’ora sottolineati di rosso. La lancetta segnava poco più delle undici e proprio in quel momento, con uno scatto rumoroso, avanzò di un minuto. Kono accennò a Bond di avanzare di una dozzina di passi fino all’estremo della stanza dove si ergeva una specie di trono di pietra imbrattato di fango. Anche il suolo attorno al trono era sporco di fango per un raggio considerevole. Nel soffitto, sopra il sedile, c’era un largo foro attraverso il quale Bond scorse un lembo di cielo stellato. Kono gli fece segno di sedersi e Bond si accorse che anche nel centro del sedile era stato praticato un grosso buco simile a quello del soffitto. Bond ubbidì, provando una sensazione sgradevole al contatto del fango ancor caldo e vischioso. Appoggiò stancamente le mani ai braccioli di pietra e attese angosciato, perché già subodorava che cosa sarebbe successo.
Blofeld, dall’altro estremo della stanza, cominciò a parlare in inglese e la sua voce stentorea riecheggiò sulle pareti di pietra:
“Comandante Bond, ovvero numero 007 del Servizio Segreto britannico, se lo preferite, eccoci nella stanza degli interrogatori. E’ una mia trovata che ha il potere di far parlare anche i muti. Come voi sapete, questo terreno ha una conformazione altamente vulcanica. In questo momento, voi siete seduto su un geyser che lancia fango, alla temperatura di circa mille gradi centigradi, a una altezza di oltre trenta metri. Il vostro corpo si trova a una quindicina di metri di distanza dalla sorgente. Ho avuto la bizzarria di incanalare il geyser in un tubo, l’orifizio del quale corrisponde al buco su cui siete seduto ora. Questo è un tipo di geyser del genere periodico e in questo caso particolare lo abbiamo regolato in modo che l’eruzione avvenga esattamente ogni quindici minuti.” Blofeld diede un’occhiata all’orologio e poi si rivolse di nuovo a Bond. “Come potete notare, mancano esattamente undici minuti alla prossima eruzione. Se non mi potete sentire e se non udrete la traduzione che seguirà alle mie parole , se siete veramente un giapponese sordomuto, quindi , non vi muoverete da quel sedile e alle undici e un quarto morirete atrocemente bruciato. Se invece vi alzerete prima del momento fatale, avrete provato chiaramente che siete in grado di sentire e di capire e sarete sottoposto ad ulteriori torture che vi costringeranno a rispondere alle mie domande. Voglio sapere chi siete, come avete fatto ad arrivare fin qui, chi vi ha mandato, che scopo avete e quante persone partecipano al complotto. Avete capito? Non sarebbe meglio smettere di fingere? Come volete. Nella remota eventualità che le vostre carte siano parzialmente in regola, il capo delle mie guardie vi spiegherà brevemente in lingua giapponese gli scopi di questa stanza.” Si rivolse a Kono e disse: “Kono, sag’ ihm auf japanisch den Zweck dieses Zimmer.”
Kono, che era rimasto in piedi accanto alla porta, rivolse a Bond un energico discorso in giapponese a cui Bond non prestò la minima attenzione. Era concentrato nel tentativo di ricuperare ciò che rimaneva delle sue forze. Si rilassò sul sedile e si guardò attorno con indifferenza. Si era ricordato dell’ultimo “inferno” di Beppu e stava cercando una cosa. Ah, eccola! Una cassetta di legno nell’angolo alla destra del suo trono. Non vi era alcun segno di serratura. Nell’interno della cassetta c’era senza dubbio la valvola regolatrice del geyser. Era possibile trarre partito da quella cognizione? Per il momento Bond la scartò e continuò a riflettere alla ricerca di qualche piano. Se quelle dolorose pulsazioni al cervello lo avessero lasciato in pace! Appoggiò i gomiti alle ginocchia e si prese la testa tra le mani. Se non altro, gli restava la consolazione di sapere che la guardia che egli aveva colpito stava in quel momento soffrendo molto più di lui!
Kono smise di parlare e l’orologio scattò di nuovo in avanti.
Gli scatti si ripeterono nove volte. Bond guardò il quadrante.
Erano le undici e quattordici. Un brontolio rabbioso e profondo si fece sentire sotto di lui e fu seguito da un soffio di aria caldissima. Bond si alzò in piedi e si allontanò lentamente fino a raggiungere la parte del pavimento non macchiata di fango. Il brontolio si trasformò in un rombo lontano e poi in un profondo ululato. La stanza rintronò come un tunnel percorso dal treno. Ci fu una potente esplosione e una colonna di fango grigio e solido, simile a un lungo pistone lucente, schizzò fuori dal buco del sedile e infilò con esattezza il foro del soffitto. L’eruzione non durò che mezzo minuto, ma la stanza fu subito invasa da un calore asfissiante, tanto che Bond fu costretto ad asciugarsi il sudore che gli colava dalla fronte. Poi la colonna grigia ripiombò nel buco e il fango schizzò tutto attorno. Un profondo gorgoglio salì dal tubo e la stanza si riempì di vapore. La puzza di zolfo era insopportabile. Nel silenzio assoluto che seguì, lo scatto della lancetta sulle undici e sedici sembrò un colpo di gong.
Bond si voltò e si mise di fronte alla coppia. Esclamò allegramente: “Be’, Blofeld, pazzo bastardo. Devo riconoscere che i vostri trucchi sono originali. E adesso fate saltar fuori le Dodici-Diavolesse-Dodici. Se sono tutte affascinanti come Fr”ulein Bunt, diremo a Nol Coward di scrivere la musica e per Natale potremo dare una rappresentazione a Broadway. Che ve ne pare?”
Blofeld si girò verso Irma Bunt. “Mia cara ragazza, avevate ragione! E’ proprio quell’inglese. Ricordami di comperarti un’altra collana di perle grigie del bravo signor Mikimoto. E ora facciamola finita una volta per sempre, con quest’uomo. E’ tardi e dovremmo essere già a letto.”
“Certo, lieber Ernst. Ma prima bisogna farlo parlare.”
“Naturalmente, Irmchen. Ma sarà presto fatto. Siamo già riusciti ad aprire una prima breccia nella sua difesa. Tutto il resto crollerà facilmente. Andiamo!”
Di nuovo nel passaggio di pietra! Di ritorno nella libreria! Irma Bunt di nuovo col telaio del ricamo in mano e Blofeld appoggiato al caminetto, con la mano sull’elsa dello spadone da samurai. Era proprio come se fossero reduci da qualche ameno passatempo del dopo cena: una partita a biliardo, un’occhiata all’album dei francobolli, un noioso quarto d’ora di filmetti casalinghi. Bond si decise: al diavolo il minatore di Fukuoka! Accanto agli scaffali di libri c’era una scrivania con una poltroncina. Bond vi si accomodò. Sul piano dello scrittoio trovò dei fiammiferi e delle sigarette. Ne accese una e si mise a fumare beatamente. Per lo meno, poteva concedersi quell’ultimo lusso, prima di essere spedito al Creatore! Scosse la cenere sul tappeto e incrociò le gambe.
Blofeld, indicando gli abiti ninja che erano rimasti sul pavimento, ordinò: “Kono, porta via quella roba. La esaminerò più tardi. Puoi aspettare con le guardie nell’atrio esterno. Prepara gli attrezzi necessari per un ulteriore interrogatorio, nel caso in cui sia necessario.” Poi si rivolse a Bond: “E ora, parlate e riceverete una rapida e onorevole morte con la spada. Non abbiate timore. Sono un esperto e la lama è affilata come un rasoio. Se vi ostinate a non voler parlare, vi sottoporremo a una tortura lenta e atroce e alla fine vi assicuro che confesserete ogni cosa. Sapete bene che succederà così. Vi è un limite di sofferenza che nessun uomo può superare! E allora?”
Bond rispose con calma: “Blofeld, voi non siete uno stupido. A Londra e a Tokyo ci sono parecchie persone che sanno perfettamente dove mi trovo questa notte. Se vi arrendete potreste ancora sfuggire a una condanna a morte. Avete un mucchio di quattrini e potreste valervi dell’aiuto dei migliori avvocati del mondo. Ma, se mi uccidete, morirete certamente.”
“Mister Bond, voi non dite la verità. Conosco molto bene i sistemi del Servizio Segreto e perciò respingo senza esitazione la vostra storiella. Se veramente si sapesse della mia presenza qui, avrebbero già mandato un piccolo esercito di poliziotti ad arrestarmi. E
assieme ai poliziotti sarebbe venuto qualche alto funzionario della Cia, sulle cui liste di ricercati io mi trovo senza dubbio. Qui ci troviamo nell’area dell’influenza americana. Forse vi avrebbero permesso di intervistarmi, dopo il mio arresto, ma un inglese non potrebbe mai avere una parte di primo piano nell’azione di polizia iniziale.”
“E chi ha detto che si tratta di un’azione di polizia? A Londra, quando ho sentito parlare di questo luogo, ho pensato che l’intera faccenda puzzava di Blofeld. Mi hanno dato il permesso di venire a dare un’occhiata. Ma tutti sanno dove mi trovo e se non torno potete immaginare i provvedimenti che verranno presi.”
“Vi sbagliate, Mister Bond. Nessuno saprà mai che voi mi avete visto né che siete entrato qui. Ho avuto una certa informazione che spiega la vostra presenza tra noi. Uno dei miei agenti mi ha riferito recentemente che il Capo del Servizio Segreto giapponese, il Koan-Chosa-Kyoku, un certo Tanaka, è arrivato da queste parti accompagnato da uno straniero travestito da giapponese. Ora mi rendo conto che il vostro aspetto corrisponde alla descrizione fatta dal mio agente.”
“Dove si trova quell’uomo? Vorrei rivolgergli alcune domande.”
“Non è disponibile.”
“Molto comodo.”
Una luce rossa cominciò a brillare negli occhi cupi di Blofeld. “Vi dimenticate che non sono io l’interrogato, ma voi. E si dà il caso che conosco ogni cosa di quel Tanaka. E’ un uomo spietato, e dalle vostre risposte ingenuamente evasive posso giungere a formulare un’ipotesi che si adatta perfettamente ai fatti. Tanaka ha già perso un agente, che aveva mandato qui a compiere delle indagini sul mio conto. Poi siete arrivato voi, per qualche affare inerente alla vostra professione, e Tanaka vi ha convinto a tentare di uccidermi in cambio di danaro o di qualche favore. Se voi foste riuscito, avreste risolto una situazione che sta provocando dei seri imbarazzi al Governo giapponese. Non so, e non mi importa di saperlo, come avete fatto a scoprire che il dottor Shatterhand è in realtà Ernst Stavro Blofeld. Voi avete le vostre ragioni private per desiderare la mia morte, e sono perfettamente sicuro che non avete rivelato a nessuno la vostra scoperta per timore che l’azione ufficiale potesse sostituirsi ai vostri progetti di vendetta.” Blofeld fece una pausa e poi continuò, più calmo: “Sono uno degli uomini più geniali del mondo, Mister Bond. Potete forse rispondere qualcosa? Sono certo di no, ma se avete qualcosa da dire, rispettate l’antico detto che raccomanda di “non menare il can per l’aia”.”
Bond accese un’altra sigaretta e rispose tranquillamente: “Mantengo ciò che ho detto. Ho detto la verità, Blofeld. Se mi dovesse succedere qualcosa, prima di Natale voi e la vostra complice sarete morti.”
“Va bene, Mister Bond. Ma io sono così sicuro delle mie affermazioni che ora vi ucciderò con le mie mani e disporrò del vostro corpo senza altri indugi. Ripensandoci, preferisco uccidervi personalmente piuttosto che lasciare questo compito alle mie guardie.
Per troppo tempo siete stato una spina nel mio fianco. I conti che debbo saldare con voi sono strettamente personali. Avete mai sentito la frase giapponese “kirisute gomen”?”
Bond gemette. “Risparmiatemi il Lafcadio Hearn, Blofeld!”
“E’ una frase che risale ai tempi dei samurai. Significa letteralmente “uccidere e passare oltre”. Se una persona di bassa condizione intralciava il cammino di un samurai, o non gli dimostrava il dovuto rispetto, il samurai aveva il pieno diritto di tagliargli la testa. Io mi considero un samurai di quei tempi. La mia spada non ha ancora avuto il battesimo del sangue e la vostra testa rappresenterà una magnifica occasione.” Poi, rivolgendosi a Irma Bunt, chiese: “Sei d’accordo, mein Liebchen?”
La faccia angolosa dell’aguzzina si sollevò dal ricamo. “Certo, lieber Ernst. Tutto quello che tu decidi va bene. Ma stai attento, perché questo è un animale pericoloso.”
“Hai dimenticato, mein Liebchen. Dallo scorso gennaio, questo non è più un animale. Con un semplice intervento chirurgico sulla donna che amava, sono riuscito a ridurlo a dimensioni umane.”
La figura dominante e orribile si allontanò dal caminetto e alzò la spada.
“Te lo dimostrerò.”
20. Sangue e tuoni
Bond lasciò cadere la sigaretta che continuò a ardere sul tappeto.
Si preparò, coi nervi tesi, e disse: “Suppongo che vi renderete conto che siete ambedue pazzi da legare.”
“Lo era anche Federico il Grande, Nietzsche e Van Gogh. Siamo in buona e illustre compagnia, Mister Bond. D’altra parte, voi che cosa siete? Un delinquente comune, uno strumento contundente maneggiato da stupidi individui altolocati. Per due volte, il vostro Capo vi ha mandato a darmi battaglia, e per una combinazione di fortuna e di forza bruta, siete riuscito a distruggere due progetti del mio genio.
Voi e il vostro Governo avete classificato i miei progetti come dei delitti contro l’umanità, e ci sono diverse organizzazioni statali che ancora mi cercano per chiedermene ragione. Ma fate uno sforzo per concentrare la scarsa intelligenza di cui siete dotato, Mister Bond, ed esaminateli sotto una luce realista e nell’ambito più elevato del mio stesso pensiero.”
Blofeld era un uomo robusto e alto quasi due metri. Mise la punta della spada da samurai, che aveva la lama simile a quella di una scimitarra, tra i piedi divaricati e appoggiò le mani muscolose sull’elsa. Osservandolo dall’altro lato della stanza, Bond dovette ammettere che vi era qualcosa di più grande della realtà, nella figura prepotente, nello sguardo ipnotico diretto verso i suoi occhi, nella fronte bianca e spaziosa, e nella smorfia crudele della sua bocca sottile. Il kimono ampio e pesante, ideato per ingigantire una razza di uomini generalmente piccoli, rendeva più possente la sua figura; il drago d’oro ricamato sulla seta nera si attorcigliava minacciosamente attorno a quelle membra muscolose e sembrava lanciare delle vere lingue di fuoco. Blofeld aveva smesso di parlare. Mentre aspettava che riprendesse il discorso, Bond cercava di misurare le forze del nemico. Sapeva ciò che sarebbe seguito: la giustificazione.
Succede sempre così. Quando pensa di avervi alla sua mercé, quando si sente sicuro di avere il sopravvento, il boia prova il bisogno di pronunciare la propria apologia, di purgarsi del delitto che sta per commettere, anche se voi che lo ascoltate siete prossimi alle soglie dell’eternità. E’ una sensazione piacevole e rassicurante , per il boia, beninteso. Tenendo le mani appoggiate all’elsa della spada, Blofeld continuò, con un tono di voce pacato, sicuro di sé, logico.
“Ora, Mister Bond, consideriamo l’operazione Tuono, come l’ha battezzata il vostro Governo. Il mio progetto consisteva nel chiedere un riscatto al mondo occidentale una volta che io fossi venuto in possesso di due armi atomiche. Dove risiedeva il crimine, se non nelle alte sfere della politica internazionale? I bimbi ricchi si trastullano con giocattoli costosi. Arriva un bimbo povero e se ne impadronisce, promettendo di restituirli in cambio di danaro. Se il bambino povero fosse riuscito nel suo intento ne sarebbe derivato un vantaggio per tutta l’umanità. Si trattava di giocattoli pericolosi che nelle mani di altri bambini poveri, ovvero, lasciando da parte l’allegoria, nelle mani di un Castro, potevano portare all’estinzione dell’intera umanità. Agendo così come ho fatto, ho dato un drammatico esempio a tutti. Se io avessi avuto successo e se mi fosse stato consegnato il danaro, non era forse probabile che la minaccia di un altro tentativo del genere da parte mia avrebbe indotto a serie conversazioni per il disarmo, a un abbandono di quei giocattoli pericolosi che così facilmente potevano cadere in cattive mani?
Seguite il mio ragionamento? Consideriamo ora il fatto recente dell’attacco batteriologico all’Inghilterra. Mio caro Mister Bond, l’Inghilterra è una nazione malata sotto tutti i punti di vista.
Spingendo le malattie fino all’orlo del decesso, poteva darsi che il vostro paese uscisse dal suo letargo abituale producendo quello sforzo collettivo di cui siamo stati testimoni nell’ultima guerra. La crudeltà come mezzo per ottenere il bene, Mister Bond. Dove vedete il crimine? E adesso veniamo al mio cosiddetto “Castello della Morte”.”
Blofeld fece una pausa e il suo sguardo si perse nel vuoto. “Vi farò una confessione, Mister Bond. Sto attualmente soffrendo di una certa stanchezza mentale alla quale ho deciso di reagire. Questo è avvenuto in parte perché sono un genio unico, solo al mondo, che non soltanto non è onorato ma, al contrario, è misconosciuto. Senza dubbio, una delle cause di questa accidia è di natura fisiologica: fegato, reni, cuore, i soliti punti deboli della mezza età. Ma si è sviluppata in me una specie di debolezza mentale, un disinteresse per l’umanità e per il suo futuro, un tedio assoluto per gli affari degli uomini. E
così come un buongustaio dal palato assuefatto alle droghe comuni, vado in cerca di sapori molto acuti, che consentano la massima soddisfazione degli organi del gusto, sia mentale che fisico, del piacere realmente squisito. Quindi, Mister Bond, ho ideato questo progetto utile e nello stesso tempo umanitario: offro la morte gratuita a coloro che desiderano liberarsi dal peso dell’esistenza.
Così facendo, non solo ho fornito all’uomo della strada la soluzione al problema dell’essere o del non essere, ma ho anche fornito al Governo giapponese, che apparentemente non si rende conto della mia generosità, un ben congegnato cimitero fuori mano che lo libera da un costante flusso di luridi avvenimenti che compromettono i tram, i treni, i vulcani e altri veicoli di suicidio. Dovete ammettere che non si tratta di un crimine ma di un servizio pubblico unico nella storia del mondo.”
“Ieri ho visto uccidere un uomo in un modo disgustoso.”
“Pulizia, Mister Bond. Pulizia. L’uomo era giunto qui con il desiderio di morire. La scena a cui voi avete assistito non è stata altro che un aiuto dato a un uomo debole per incoraggiarlo a prendere il suo posto nella barca che solca lo Stige. Ma mi accorgo che non ci intendiamo. Non riesco a penetrare in ciò che in voi ha la funzione di un cervello. Da parte vostra, non potete vedere più in là del piacere della vostra ultima sigaretta, per cui smettiamola con le chiacchiere. Ci avete tenuti svegli fin troppo. Volete essere tagliuzzato nel corso di una volgare rissa, o volete offrirmi il vostro collo in modo onorevole?” Blofeld fece un passo in avanti e alzò lo spadone con le due mani, tenendolo sollevato sopra la testa.
La luce della lampada a olio si rifletté sulla lama facendo risaltare il damaschinato d’oro.
Bond sapeva che cosa doveva fare. Lo sapeva fin dal momento in cui era ritornato in quella stanza e aveva scorto il bastone della guardia ferita appoggiato in un angolo buio. Ma accanto alla donna c’era il cordone di un campanello. Prima di tutto bisognava liquidare lei! Ricordava ancora qualcosa dei colpi e delle finte del bojutsu a cui aveva assistito nel campo di addestramento ninja? Bond si gettò sulla sinistra, afferrò il bastone e saltò sulla donna che già stava per allungare la mano.
Il randello la colpì alla testa e la donna stramazzò al suolo. La spada di Blofeld passò sibilando a qualche centimetro dalla spalla di Bond. L’agente si voltò di scatto e, tenendo l’estremità del bastone appoggiata al cavo della mano, come una stecca di biliardo, si gettò a fondo colpendo con forza lo sterno di Blofeld e proiettando l’avversario contro il muro. Blofeld reagì subito e cominciò ad avanzare minacciosamente roteando la spada come se fosse stata una falce. Bond mirò al braccio destro ma fallì il bersaglio e dovette battere in ritirata. Era preoccupato di mantenere tanto la sua arma quanto il proprio corpo il più lontano possibile dalla spada. Un fendente avrebbe spezzato il bastone con estrema facilità e la sola speranza di salvezza consisteva appunto nella lunghezza del randello.
Improvvisamente, Blofeld si allungò a fondo abilmente, piegandosi sul ginocchio destro. Bond fece una finta a sinistra, ma la sua reazione fu lenta e la punta della spada gli sfiorò il petto, lacerandogli la pelle. Ma prima che Blofeld potesse ritirarsi, Bond riuscì a portargli un colpo laterale sulla gamba. Blofeld bestemmiò e fece un vano tentativo di colpire l’arma di Bond. Poi avanzò di nuovo e Bond non poté che schivarlo con una serie di finte e con brevi colpi allungati per tenerlo a bada. Tuttavia, stava perdendo terreno di fronte all’arma che roteava e Blofeld, ormai convinto di avere la partita vinta, avanzò rapidamente e scattò a fondo come un serpente.
Bond fece un salto di fianco, non si lasciò sfuggire l’occasione e menò una forte bastonata alla spalla destra del suo nemico. Blofeld proruppe in una nuova sequela di bestemmie. Bond avanzò, continuando a schermare con la sua arma, ma una delle parate di Blofeld riuscì a tagliare dal bastone quel tanto che rappresentava la relativa sicurezza per Bond. Blofeld, accortosi del vantaggio, cominciò ad attaccare con dei colpi furiosi che Bond poteva parare solo colpendo il piatto della lama per spostarla da sé. Si accorse che il bastone gli stava scivolando di mano per il sudore, e per la prima volta sentì il freddo alito della disfatta soffiargli addosso. E Blofeld parve rendersene conto perché d’un tratto eseguì un affondo a tutta velocità, tentando di penetrare la guardia di Bond. Questi, ignaro della distanza a cui si trovava la parete alle sue spalle, fece un salto indietro. La punta della spada gli strisciò sullo stomaco.
Respinto dal muro, Bond si gettò in avanti, distolse la spada col mozzicone del randello e poi, dopo aver buttato via il legno, saltò addosso a Blofeld e lo afferrò per la gola. Per un attimo le due facce sudate furono a breve distanza l’una dall’altra. L’impugnatura della spada lo colpiva al fianco, ma Bond non se ne accorgeva nemmeno. Premette con i pollici e continuò a premere con tutte le sue forze. Sentì la spada cadere al suolo e subito dopo vide le dita contratte di Blofeld che cercavano di raggiungerlo agli occhi.
Stringendo i denti, Bond ruggiva: “Muori, Blofeld! Muori!” E a un tratto la lingua venne fuori, gli occhi strabuzzarono e il corpo scivolò giù senza vita. Ma Bond non lo lasciò andare e continuò a stringere quel collo poderoso, senza vedere nulla, senza sentire nulla, totalmente concentrato nel suo terribile desiderio di sangue.
Bond si riprese a poco a poco. Il drago d’oro sul kimono di seta eruttava fiamme contro di lui. Staccò le mani indolenzite dal collo di Blofeld, e senza più volgere uno sguardo a quel viso paonazzo, si alzò in piedi barcollando. Dio come gli doleva la testa! Che cosa gli restava da fare? Cercò di ricordarsi un’idea geniale che gli era venuta poco prima. Di che cosa si trattava? Ah, sì! Raccolse la spada di Blofeld e camminando come un sonnambulo percorse il corridoio di pietra fino alla stanza della tortura. Consultò l’orologio. Mancavano ancora cinque minuti alla mezzanotte, e lì c’era la cassetta di legno, sporca di fango, accanto al trono dove egli si era seduto, giorni, anni prima. Con un colpo di spada fece saltare il coperchio.
Sì, ecco la ruota! Si inginocchiò, la girò fino a chiuderla completamente… E ora che cosa sarebbe accaduto? La fine del mondo?
Bond tornò di corsa nel passaggio. Ora bisognava andarsene, scappare da quel luogo! Ma la sua ritirata era sbarrata dalle guardie! Aprì una tenda e con la spada forzò la finestra e la aprì. Fuori c’era una balconata che probabilmente circondava tutto quel piano del castello.
Bond cercò in giro qualcosa per coprire la sua nudità. C’era soltanto il sontuoso kimono di Blofeld. Con indifferenza, lo tolse al cadavere, se lo mise addosso e annodò la cintura. L’interno del kimono era freddo come la pelle di un serpente. Guardò Irma Bunt che respirava faticosamente emettendo un rantolo da ubriaco. Poi saltò sul balcone evitando di calpestare le schegge di vetro.
Si era sbagliato! La balconata era lunga appena un paio di metri ed era chiusa alle due estremità. Non c’era altra via d’uscita. Guardò giù e si accorse che la ghiaia era a una trentina di metri sotto di lui. Poi sentì un fruscio serico sulla sua testa e voltò lo sguardo in su. Era soltanto l’alitare del vento tra le corde di quel maledetto pallone! E a un tratto gli venne un’idea pazzesca, forse ispirata dal ricordo subcosciente di un vecchio film di Douglas Fairbanks, nel quale il protagonista attraversa un grande atrio tenendosi appeso a un lampadario. Il pallone gonfio di elio aveva abbastanza forza da sostenere una ventina di metri di strisce di stoffa con le scritte ammonitrici. Perché non avrebbe dovuto sostenere il peso di un uomo?
Bond corse all’estremità del balcone dove era attaccata la corda di ormeggio. La provò e si accorse che era tesa come un filo di ferro.
Dall’interno del castello sorse un grande clamore. La donna era forse riuscita a riprendersi? Bond si afferrò alla fune, salì sul parapetto, si tagliò un appoggio per i piedi in una delle strisce di cotone e, presa la fune di ormeggio con la destra, la tagliò sotto di sé con un colpo di spada e si gettò nello spazio.
Funzionava! C’era una leggera brezza notturna che lo trasportò lievemente nel parco illuminato dalla luna, sul luccicante lago fumoso, verso il mare. Stava salendo sempre più in alto. La sfera gonfia di elio non risentiva affatto del suo peso! Poi, delle fiammate gialle e azzurre partirono dal castello e ogni tanto un ronzio di vespa inferocita lo sfiorava. Le mani e i piedi cominciavano a dolergli per lo sforzo. Qualcosa lo colpì alla testa, nello stesso punto che già gli trasmetteva delle ondate di dolore.
Questa fu la fine, ed egli se ne rese conto. Ora, la nera sagoma del castello cominciava a fremere nella luce lunare, sembrò salire e scendere poi si scosse di lato e alla fine si disgregò lentamente, come un enorme gelato sotto la sferza del sole. Cominciò a crollare il piano più alto, poi quello sotto, poi l’altro, e infine, dopo un attimo, un formidabile getto di fuoco si innalzò verso la luna e un soffio di aria calda, seguito da un tuono spaventoso, colpì Bond e fece ondeggiare violentemente il pallone.
Che cosa stava succedendo? Bond non lo sapeva e non gliene importava nulla. Il dolore alla testa era il suo unico universo. Il pallone, colpito da un proiettile, stava perdendo rapidamente quota.
Sotto di lui, il mare lievemente ondulato gli si presentava come un letto. Bond abbandonò la presa e precipitò verso la pace, verso le piume di qualche sogno infantile di morbidezza e di fuga dal dolore.
21. Necrologio
The Times
Comandante James Bond,
Cmg, Rnvr
M scrive:
Come i vostri lettori avranno saputo da precedenti comunicazioni, un alto ufficiale del Ministero della Difesa, il Comandante James Bond, Cmg, Rnvr, è stato dichiarato disperso ed è probabilmente morto nell’adempimento di una missione ufficiale in Giappone. Sono dolente di dichiarare che ogni speranza che egli sia sopravvissuto deve essere abbandonata. Come Capo del Dipartimento che egli ha servito con tanta fedeltà, ho il dovere di fare una breve relazione su questo ufficiale e sugli eminenti servigi da lui resi al Paese.
James Bond era figlio di padre scozzese, Andrew Bond di Glencoe, e di madre svizzera, Monique Delacroix, del Cantone di Vaud. Essendo suo padre rappresentante all’estero della ditta Vickers, la sua prima educazione, dalla quale egli conseguì la perfetta conoscenza del francese e del tedesco, si svolse sempre all’estero. James Bond aveva undici anni quando i suoi genitori rimasero uccisi in un incidente alpinistico sulle Aiguilles Rouges sopra Chamonix. Il ragazzo fu allevato da una zia, ora defunta, Miss Charmian Bond, e visse con lei in un villaggio dallo strano nome di Pett Bottom, nei pressi di Canterbury (Kent). La zia, che deve essere stata una signora di grande erudizione e cultura, curò personalmente l’educazione del nipote il quale, all’età di dodici anni o poco più poté felicemente entrare a Eton, dove suo padre lo aveva iscritto fin dalla nascita.
Bisogna riconoscere che James Bond non si distinse in modo particolare in quel collegio. Dopo solo due anni, e mi duole doverlo dire, a causa di una storia con una cameriera, il ragazzo fu espulso.
La zia riuscì a farlo iscrivere a Fettes, l’antica scuola del padre, dove l’atmosfera era molto calvinista e dove agli allievi si richiedeva il massimo del rendimento sia nel campo scolastico che in quello atletico. Benché James Bond fosse per natura incline alla solitudine, ben presto riuscì a crearsi delle solide amicizie nei circoli sportivi tradizionali della scuola. Quando terminò gli studi, all’età di diciassette anni, egli aveva rappresentato per due volte i colori della sua scuola come peso leggero e aveva fondato il primo corso di judo in una scuola privata britannica. Si era allora nel 1941. James Bond dichiarò di avere diciannove anni e, con l’aiuto di un vecchio collega di lavoro del padre, entrò a far parte di quello che poi sarebbe stato conosciuto come il Ministero della Difesa. Gli fu accordato il grado di tenente del Servizio Speciale della Rnvr e a prova dei suoi servizi soddisfacenti, terminò la guerra col grado di Comandante. Chi scrive, iniziò a quell’epoca la sua attività in certi particolari settori del Ministero. A guerra finita accettai di buon grado la richiesta del Comandante Bond di continuare a lavorare per il Ministero. Al momento della sua deplorata sparizione, il Comandante Bond aveva raggiunto il grado di Ufficiale Principale.
La natura delle mansioni del Comandante Bond, che fra parentesi fu premiato col Cmg nel 1954, non può essere rivelata; ma i suoi colleghi al Ministero sono unanimi nel riconoscere che egli risolse sempre le sue missioni con straordinario coraggio e distinzione, anche se a volte con una vena di temerarietà, dovuta al suo carattere impetuoso, che lo mise in urto con le autorità superiori. Egli possedeva una specie di potere occulto che gli veniva in aiuto nei momenti più critici e che lo faceva scampare, pio meno indenne, alle avventure più pericolose. L’inevitabile pubblicità concessa ad alcune di tali avventure, soprattutto dalla stampa straniera, aveva fatto di lui, sia pure controvoglia, un autentico personaggio da romanzo. Fu quindi inevitabile la pubblicazione di una serie di libri molto popolari scritti sul Comandante Bond da un suo amico e ex collega. Se la qualità di quei libri, o il loro grado di veridicità, si fosse avvicinato alla realtà, l’autore sarebbe stato certamente processato per profanazione della Legge sui Segreti Ufficiali. Il fatto che non si sia ancora preso alcun provvedimento contro l’autore e l’editore di queste fantasticherie e delle romantiche contraffazioni degli episodi della carriera di un valoroso impiegato del Governo, è la prova dello spregio in cui sono tenuti tali romanzi.
Per concludere questo breve in memoriam non ci rimane che assicurare gli amici del Comandante Bond che l’ultima sua missione rivestiva un supremo interesse per lo Stato. Sebbene a quanto sembra, egli debba ormai essere considerato come caduto nell’adempimento del suo dovere, sono stato autorizzato a confermare che la missione ha avuto un esito completamente felice. Non è esagerazione il dichiarare esplicitamente che, grazie ai coraggiosi sforzi di questo solo uomo, la Sicurezza del Regno è stata grandemente rinforzata.
James Bond si sposò nel 1962 con Teresa, unica figlia di Marc-Ange Draco, di Marsiglia. Il suo matrimonio ebbe termine in tragiche circostanze che furono a suo tempo riferite dalla stampa. Dal matrimonio non nacquero figli e James Bond, da quanto mi risulta, non lascia eredi.
M’G’ scrive:
Sono stata lieta e orgogliosa di collaborare strettamente col Comandante Bond negli ultimi tre anni, al Ministero della Difesa. Se realmente i nostri timori sono giustificati, vorrei suggerire le seguenti parole per il suo epitaffio. Molti dei nostri giovani impiegati ritengono che esse corrispondano al suo spirito: “Non sciuperò i miei giorni cercando di prolungarli. Approfitterò del mio tempo”.
22. Lacrime di passero
Quando Kissy vide precipitare dall’alto quella figura a cui il kimono sembrava prestare ali nere, ebbe la netta sensazione che dovesse trattarsi di Bond, e percorse i duecento metri dalla base del muraglione fino al luogo in cui il suo uomo era caduto in un tempo incredibilmente breve. Il tremendo urto con la superficie dell’acqua lasciò Bond senza fiato, ma la voglia di vivere, quasi estinta dall’insopportabile dolore al capo, tornò ad avere il sopravvento quando l’agente si trovò a dover affrontare il suo nuovo nemico: il mare. Quando Kissy lo raggiunse, Bond stava già cercando di spogliarsi dal kimono.
Sulle prime lui credette di trovarsi nuovamente di fronte a Blofeld e tentò di colpirla.
“Sono Kissy,” disse subito la ragazza. “Kissy Suzuki! Non ti ricordi?”
Non ricordava. Non rammentava niente del mondo ad eccezione della faccia del suo nemico e dell’istinto disperato di distruggerla. Ma le sue forze stavano cedendo e alla fine, bestemmiando debolmente, si lasciò spogliare e diede retta alla voce che lo supplicava.
“Taro-san, seguimi per favore. Se ti stanchi io ti rimorchierò.
Siamo allenate, per questo genere di salvataggio.”
Ma quando la ragazza si avviò, Bond, invece di seguirla, cominciò a nuotare fiaccamente come un animale ferito, compiendo interminabili circoli su se stesso. Kissy si mise quasi a piangere. Che cosa gli avevano fatto nel Castello della Morte? Finalmente riuscì a fermarlo e, parlandogli dolcemente, gli infilò le braccia sotto le ascelle e prese a nuotare all’indietro, tenendo la testa di Bond appoggiata al petto.
Fu una nuotata ardua , mezzo miglio in continua lotta contro le correnti, senza altro orientamento che la luna e un’occhiata di tanto in tanto dietro le spalle , ma Kissy ce la fece e riuscì a trascinare Bond fuori dall’acqua, nella piccola insenatura. Poi si lasciò cadere accanto a lui sulle pietre levigate.
Dopo qualche tempo, un gemito di Bond la riscosse. L’agente era seduto e fissava il mare con uno sguardo da sonnambulo. Quando Kissy gli passò una mano sulle spalle, Bond la guardò con aria stupita.
“Chi siete? Come sono arrivato qui? Dove mi trovo?” La esaminò con più attenzione. “Siete molto carina.”
Kissy lo scrutò fissamente, sentendosi invadere da una subitanea felicità, e disse: “Davvero non ricordi nulla? Non sai qual è il tuo nome né da dove vieni?”
Bond si passò una mano sulla fronte e socchiuse gli occhi:
“Niente,” rispose con un tono stanco. “Nulla, ad eccezione del viso di un uomo. Penso che fosse morto. Penso che fosse un uomo cattivo.
Come vi chiamate? Mi dovete dire tutto.”
“Mi chiamo Kissy Suzuki e tu sei il mio amante. Ti chiami Taro Todoroki. Viviamo in un’isola e siamo pescatori. E’ una vita molto felice. Pensi di riuscire a camminare? Ti dovrei portare a casa per darti da mangiare. Poi dovrei chiamare un dottore perché ti visiti.
Hai una brutta ferita sulla testa e un taglio sul petto. Devi essere caduto mentre ti arrampicavi sulla scogliera in cerca di nidi di gabbiani,” Kissy si alzò in piedi e gli tese le mani.
Bond vi si afferrò e si alzò barcollando. Tenendolo per mano, Kissy lo condusse con cautela verso il sentiero che portava a casa sua, ma invece di proseguire verso il villaggio si avviò verso il boschetto di aceri nani. Lo guidò fino alla grotta, dietro al santuario shinto.
La caverna era vasta e perfettamente asciutta. “Qui viviamo noi,”
disse la ragazza. “Ho portato via i nostri giacigli, ma ora li andrò a riprendere. Ti porterò anche qualcosa da mangiare. Ora, amor mio, stenditi e riposa un poco. Io mi occuperò di te. Sei malato, ma il dottore ti farà star bene.”
Bond ubbidì e si addormentò subito, con la testa dolorante appoggiata a un braccio.
Kissy scese di corsa verso il villaggio, con il cuore pieno di speranza. C’erano tante cose da fare, tante cose da sistemare, ma ora che il suo uomo era tornato, era disperatamente decisa a non lasciarlo piEra .
quasi l’alba e i suoi genitori erano svegli. Kissy diede loro qualche spiegazione affrettata, mentre faceva scaldare del latte e riuniva in un fagotto i futon, il miglior kimono di suo padre e qualche oggetto di toletta di Bond , badando a non prendere con sé nulla che gli potesse ricordare il passato. I genitori di Kissy erano abituati ai suoi capricci e alla sua indipendenza. Suo padre si accontentò di suggerire pacatamente che forse sarebbe stato opportuno ottenere la benedizione del kannushi-san. Alla fine, Kissy si alzò, indossò il kimono marrone e tornò in fretta alla caverna.
Più tardi si era recata dal prete shinto. Sembrava che il sant’uomo la stesse aspettando. Alzò una mano e disse alla ragazza, che si era inginocchiata: “Kissy-chan, io so quello che so. Il figlio del diavolo è morto. E così pure sua moglie. Il Castello della Morte è stato completamente distrutto. Tutto ciò è accaduto, come avevano predetto i sei guardiani, grazie all’uomo che è venuto dal mare. Dove si trova quell’uomo, adesso?”
“E’ nella caverna dietro il santuario, kannushi-san. E’ ferito gravemente. Io lo amo. Desidero non lasciarlo andar via e prendermi cura di lui. Non ricorda nulla del passato e io desidero che continui così, in modo che mi possa sposare e diventare per sempre un figlio di Kuro.”
“Non sarà possibile, figlia mia. Col tempo egli si rimetterà e tornerà da dove è venuto. La polizia di Fukuoka farà indagini ufficiali, e forse giungeranno delle disposizioni perfino da Tokyo, perché lo straniero è certamente una persona importante, nel suo paese.”
“Kannushi-san, se voi istruite opportunamente gli anziani di Kuro, essi faranno la faccia shiran-kao, e diranno di non sapere nulla.
Poi, quella gente se ne andrà via. Io voglio soltanto prendermi cura di lui e tenerlo per me il pia lungo possibile. Se un giorno lui vorrà andarsene, io non mi opporrò. Lo aiuterò. Quando pescava con me e con l’uccello David, egli era felice. Me l’ha detto lui. Quando sarà guarito, io farò di tutto perché continui a essere felice. Non credete che Kuro abbia l’obbligo di amare e di onorare l’eroe che è stato mandato qui dagli dei? Non credete che i sei guardiani vorranno averlo qui per qualche tempo? E io, non ho forse meritato un premio per aver aiutato Todoroki-san e per avergli salvato la vita?”
Il sacerdote rimase qualche tempo in silenzio e con gli occhi chiusi, poi rivolse lo sguardo verso la ragazza supplicante, prostrata ai suoi piedi, e sorrise: “Farò ciò che posso, Kissy-chan.
E ora portami il dottore e poi accompagnalo alla grotta perché curi le ferite di quell’uomo. Io parlerò con gli anziani. Ma per parecchie settimane tu devi essere molto prudente e il gaijin non deve farsi vedere. Quando le cose si saranno calmate, egli potrà tornare nella casa dei tuoi genitori.”
Il dottore si inginocchiò accanto a Bond e sciorinò per terra una grande mappa della testa umana, piena di numeri e di ideogrammi. Poi sfiorò leggermente con le dita la ferita di Bond per constatare se vi fossero fratture, mentre Kissy, in ginocchio vicino a lui, teneva la mano sudata dell’agente tra le sue. Il dottore si chinò in avanti, sollevò le palpebre del ferito e gli esaminò gli occhi vitrei con l’aiuto di una lente. A un suo ordine, Kissy corse a prendere acqua bollente e il dottore cominciò a pulire la ferita prodotta dal proiettile nel punto dove Bond aveva ricevuto un colpo terribile cadendo nel trabocchetto. Poi cosparse la piaga di polveri sulfamidiche, fasciò abilmente la testa di Bond, gli applicò un cerotto sul taglio delle costole e pregò Kissy di seguirlo fuori dalla grotta. “Vivrà,” le disse. “Ma ci vorranno mesi e forse anche anni prima che riacquisti la memoria. Il lobo temporale del cervello, dove ha sede la memoria, è stato particolarmente leso. Sarà necessario rieducarlo. Voi cercherete sempre di ricordargli i fatti del suo passato o i luoghi dove è stato. A poco a poco, i fatti isolati che gli torneranno alla memoria si convertiranno in una catena di associazioni. Sarebbe bene portarlo a Fukuoka per una radiografia, ma non credo che ci sia una frattura, e in ogni caso il kannushi-san ha dato ordine che lo straniero rimanga affidato alle vostre cure e che la sua presenza nell’isola rimanga segreta.
Naturalmente io seguirò le istruzioni del kannushi-san e verrò a visitarlo ogni notte e arrivando qui per strade sempre diverse. Ma voi avrete molto da fare perché lui non può essere rimosso almeno per una settimana. E ora ascoltatemi attentamente,” e il dottore le impartì precise istruzioni sul come alimentarlo e usargli le cure necessarie.
I giorni divennero settimane, e la polizia venne diverse volte da Fukuoka. Da Tokyo venne anche l’alto funzionario di nome Tanaka, e più tardi anche un uomo alto che diceva di essere australiano e che Kissy fece fatica a togliersi di torno. La faccia shiran-kao ebbe molto successo e l’isola di Kuro conservò il suo segreto. James Bond migliorò lentamente e Kissy cominciò a farlo uscire di notte per qualche passeggiata. A volte, i due andavano nell’insenatura a nuotare e a giocare con David. Kissy gli raccontò tutta la storia degli ama di Kuro, ma evitò accuratamente di rispondere alle sue domande sul resto del mondo.
Venne l’inverno, e gli ama rimasero a terra, a rammendare le reti, a riassestare le barche, a coltivare i piccoli appezzamenti di terra sulle falde della montagna. Bond era tornato a vivere nella casa dei genitori di Kissy e si occupava di piccoli lavori di falegnameria o altro, cercando di imparare dalla ragazza la lingua giapponese. Lo sguardo vitreo scomparve dai suoi occhi che tuttavia conservarono una fissità anormale. I suoi sogni notturni erano popolati da visioni di grandi città e da volti di uomini bianchi che gli risultavano completamente sconosciuti. Ma Kissy lo rassicurava dicendogli che si trattava di incubi come tutti potevano averne. A poco a poco, Bond finì per adattarsi alla minuscola casa di pietra e di legno e all’infinito orizzonte del mare. Kissy aveva cura di tenerlo lontano dalla costa meridionale dell’isola, e pensava con terrore all’avvicinarsi della stagione della pesca. Allora le sarebbe stato impossibile evitare a Bond la visione dell’alto muraglione nero attraverso lo stretto. Forse, allora la memoria gli sarebbe tornata.
Il dottore era sorpreso dalla lentezza di ricupero di Bond e si era rassegnato alla conclusione che l’amnesia doveva essere totale. Ma ben presto non ci fu bisogno di altre visite, perché la perfetta salute fisica dello straniero e il suo completo adattamento alla vita di Kuro dimostravano che egli si era del tutto rimesso.
Tuttavia, Kissy era fortemente afflitta da un fatto assai strano.
Fin dalla prima notte, ella aveva diviso il suo futon con Bond e, quando egli si era rimesso e avevano fatto ritorno alla casetta, Kissy aveva vanamente atteso ogni notte che l’agente si decidesse a fare l’amore con lei. Bond la baciava, di tanto in tanto, spesso le prendeva la mano, ma il suo corpo sembrava completamente ignaro di lei, per quanto ella lo accarezzasse e gli si stringesse contro.
Forse, la ferita lo aveva reso impotente. Si consigliò col dottore ma questi disse che non c’era alcuna relazione tra la ferita e la capacità sessuale di Bond. Era però possibile che questi si fosse dimenticato come si fa all’amore.
E così, Kissy Suzuki si decise a partire per Fukuoka. Una volta in città cercò un particolare negozio, chiamato “Il negozio felice”, che si può trovare in ogni agglomerato giapponese che si rispetti. Espose il suo caso al vecchio barbuto dall’espressione astuta seduto dietro a un banco sul quale erano esposti innocui ricostituenti e prodotti antifecondativi. Il vecchio chiese a Kissy se poteva disporre di cinquemila yen, una somma rispettabile, e, alla risposta affermativa, chiuse la porta del negozio e pregò la ragazza di seguirlo nel retrobottega.
Il vecchio si chinò e prese una gabbia da sotto il banco. In essa erano contenuti quattro grossi rospi accovacciati su un letto di muschio. Poi, il ciarlatano prese un aggeggio metallico dall’aspetto di uno scaldavivande elettrico, con una piccola gabbia fissata al centro, afferrò delicatamente uno dei rospi e lo introdusse nella gabbietta dove il ventre dell’animale aderì alla piastra metallica del fondo. Quindi, il vecchio collegò la spina dello scaldavivande a un vecchio accumulatore da automobile e, dopo aver rivolto al rospo delle parole di incoraggiamento, rimase in attesa.
L’animale cominciò a tremare leggermente; i suoi occhietti sembravano fissare minacciosamente Kissy quasi per farle intendere tutta la sua indignazione. Il ciarlatano, col viso chino sulla gabbietta, vigilava ansiosamente e alla fine si fregò le mani soddisfatto vedendo che delle grosse gocce di sudore cominciavano a imperlare la pelle rugosa del rospo. Prese un cucchiaio di ferro e una fialetta, alzò la gabbia e raccolse con cura le gocce, versandole subito dopo nel recipiente. Poi chiuse la fiala con un tappo e la consegnò a Kissy che la prese in mano col rispetto e la trepidazione riservabili a un gioiello dal valore inestimabile. Il vecchio staccò i fili dall’accumulatore, e ripose nella gabbia il rospo che sembrava non aver sofferto affatto dell’esperimento.
“Quando un cliente mi richiede questo pregiato prodotto, io lo prego sempre di assistere al processo di distillazione. Non voglio che si nutra l’ingiusto sospetto che la fiala contenga dell’acqua di rubinetto. Ora voi avete visto che questo preparato è autentico sudore di rospo, ottenuto sottoponendo l’animale a una leggera scossa elettrica. Il rospo ha sofferto soltanto un momentaneo malessere e questa sera verrà premiato con una razione supplementare di grilli o di mosche. E ora,” continuò il vecchio togliendo da un armadio una scatoletta, “vi darò della polvere di lucertola disseccata. Mescolate i due prodotti nella cena del vostro amante e il risultato sarà infallibile. Tuttavia, allo scopo di eccitare la sua mente oltre ai suoi sensi, per altri mille yen vi posso fornire anche un eccellente libro da guanciale.”
“Di che cosa si tratta?”
Il mercante tornò all’armadio e ne tolse un libro dalla copertina di cartone. Kissy lo aprì e si portò una mano al viso che era violentemente arrossito. Si fece coraggio, ed essendo una ragazza assennata che non voleva subire una truffa, sfogliò ancora qualche pagina. Il libro conteneva illustrazioni pornografiche molto particolareggiate, incise con somma cura, che riproducevano l’atto sessuale in ogni suo possibile aspetto. “Bene,” mormorò la ragazza rendendo il libro al vecchio. “Fatemi un pacchetto”, e cominciò a contare le banconote.
Kissy se ne andò di corsa, come se avesse concluso un patto col diavolo. Ma quando si ritrovò sul postale che la riportava a Kuro, si sentì tutta eccitata e felice e si mise ad escogitare una spiegazione per giustificare l’acquisto del libro.
Bond la stava aspettando sul molo. Era la prima volta che Kissy lo lasciava, e lui ne aveva sentito dolorosamente la mancanza. Si tennero per mano, chiacchierando animatamente e passarono sulla spiaggia tra reti e barche. Vedendoli, la gente sorrideva, ma non salutava perché il kannushi-san aveva decretato che il loro eroe gaijin non esisteva, e il pensiero del sacerdote era decisivo.
Quando fu a casa, Kissy cominciò a preparare un piatto molto speziato di sukiyaki; una specie di brasato di manzo. Ignorando il sapore dei suoi filtri, la ragazza non voleva correre rischi. Non appena la cena fu pronta, Kissy versò con mano tremante la polvere scura e il liquido della fiala nel piatto di Bond e mescolò accuratamente ogni cosa. Poi servì la cena alla famiglia che attendeva accovacciata sul tatami davanti al basso tavolino.
Bond divorò il manicaretto con appetito, fece i complimenti a Kissy per la sua abilità culinaria, bevve il tè e poi si ritirò nella sua stanza. Generalmente, dopo cena egli si metteva a rammendare le reti o ad aggiustare gli attrezzi della pesca, prima di andare a letto.
Kissy, mentre aiutava sua madre a rigovernare le stoviglie, si chiedeva se anche quella sera Bond avrebbe agito come sempre.
La ragazza indugiò parecchio a pettinarsi e ad acconciarsi, prima di raggiungerlo col cuore che le batteva forte.
Bond era seduto sul tatami e stava sfogliando il libro da guanciale! “Kissy, in nome del cielo, dove hai trovato questo libro?”
Kissy fece una risatina. “Già! Mi sono dimenticata di dirtelo. Un orribile tipo ha cercato di farmi la corte, in un negozio. Mi ha dato un appuntamento per questa sera e mi ha messo in mano quel libro. Ho dovuto accettarlo per potermi liberare di lui. E’ quello che noi chiamiamo un libro da guanciale. Gli amanti ne fanno uso. Le illustrazioni sono eccitanti, non trovi?”
Bond si tolse in fretta il kimono e, indicando il soffice futon steso per terra, le disse imperiosamente: “Kissy, spogliati e mettiti lì. Cominceremo dalla illustrazione numero uno.”
L’inverno scivolò nella primavera e la stagione della pesca ricominciò. Ora Kissy si tuffava nuda come le altre ragazze e Bond e il cormorano si tuffavano con lei. C’erano giorni buoni e giorni cattivi, ma il sole brillava, il mare era azzurro, gli iris selvatici coprivano le falde della montagna, e quando i ciliegi si ricoprirono di fiori tutti si sentirono felici. Kissy si chiedeva quando avrebbe dovuto dire a Bond che aspettava un bambino e se Bond allora le avrebbe proposto di sposarla.
Ma un giorno, mentre scendevano assieme verso l’insenatura, Kissy si accorse che Bond aveva un aspetto preoccupato. Giunti sulla spiaggia, Bond la pregò di aspettare a mettere la barca in mare perché aveva qualcosa di importante da dirle. Kissy presagì una brutta notizia e si strinse al suo amante.
Bond tolse di tasca un pezzetto di carta spiegazzata e glielo porse. La ragazza rabbrividì di paura, sapendo ciò che sarebbe accaduto. Sciolse le braccia dal corpo dell’amante e esaminò il pezzo di carta. Era uno dei ritagli di giornale tolti dal chiodo del gabinetto. Li preparava sempre lei e distruggeva i frammenti che portavano delle parole scritte in inglese, per prudenza.
“Kissy, che cos’è questa parola? Vladivostok? Che cosa significa?
Credo abbia qualche rapporto con un paese molto grande. Si chiama forse Russia?”
Kissy ricordò la promessa che aveva fatto al sacerdote. Si prese il viso tra le mani. “Sì, Taro-san. E’ così.”
Bond si premette i pugni sugli occhi e mormorò: “Ho la sensazione di aver avuto qualcosa a che fare con la Russia. Sono certo che molto del mio passato può essere messo in rapporto con quel paese. Sarà possibile? Ho tanta voglia di sapere dove sono vissuto prima di arrivare a Kuro! Mi vuoi aiutare, Kissy?”
Kissy si tolse le mani dal viso, lo guardò e gli disse dolcemente:
“Sì, ti aiuterò, amor mio.”
“Bisogna allora che vada in quella città che si chiama Vladivostok.
Forse troverò qualcosa che mi è noto e che mi può aiutare a risalire nel mio passato.”
“Come vuoi, amor mio. Domani puoi andare a Fukuoka col postale. Ti metterò su un treno e ti darò danaro e istruzioni. Sembra che si possa entrare in Russia partendo dall’isola Hokkaido verso Sakhalin.
Arrivato a Sakhalin riuscirai certamente a raggiungere Vladivostok, che è un grande porto pia sud. Ma devi fare molta attenzione, perché i russi non sono un popolo amico.”
“Non faranno certamente del male a un pescatore di Kuro.”
Kissy sentì un nodo alla gola. Si alzò e si avviò lentamente verso la barca. La spinse in mare, si sedette al suo solito posto e attese che Bond, dopo essere salito a sua volta, la stringesse tra le ginocchia, come faceva sempre.
James Bond mise i remi in acqua e cominciò a remare. David svolazzò in giro e poi si posò maestosamente a prua. Bond valutò la posizione del resto della flottiglia e vogò con più forza.
Kissy gli sorrideva, il sole bruciava sulla sua schiena, e, per ciò che gli riguardava, quella era una splendida giornata simile a tante altre, senza una nuvola in cielo.
Ma naturalmente, James Bond ignorava di chiamarsi James Bond. E, in confronto allo splendido significato che aveva per lui la parola russa letta su un frammento di giornale, la sua esistenza a Kuro, il suo amore per Kissy Suzuki, non valevano più secondo la frase di Tigre , delle lacrime di un passero.
Fine