Ñ di laGNarsi
Tedio e tempo cominciano con la stessa lettera e le ore e i giorni passano senza far niente, come una sequenza interminabile di ore sul calendario. È noiosissimo vivere quando non si ha niente da fare e nessuno a cui appoggiarsi. Ci sono mio marito e mio figlio, lo so, ma non mi bastano più. Sto chiusa in casa tutto il santo giorno… Non so, mi piacerebbe avere delle amiche. Oltre al gruppo di San Sebastiàn, che poi non erano che amicizie di convenienza, cosa ci guadagno a nascondermelo, ormai, è evidente che non ho nessuna vera amica, eccetto mamma, credo, non so.
Mi piacerebbe andare più d’accordo con le mie sorelle ma non è per niente facile. Di cosa potrei parlare con loro? Rosa non fa che pensare alla carriera e al lavoro, Cristina è così moderna… Non che non ci provi, io cerco di essere gentile e via dicendo, ma no, non è per niente facile. Il sangue non è quel legame forte che si crede e quando le persone non hanno affinità, non ce le hanno, e non c’è verso di cambiare questo dato di fatto.
A volte, tuttavia, mi vien voglia di chiamare Cristina perché sono convinta che lei potrebbe capirmi e potrebbe spiegarmi perché negli ultimi tempi non riesco a smettere di piangere. In fin dei conti, davamo per scontato che fosse lei quella con i problemi mentali, no?
Non so, quella dei problemi mentali di Cristina è una storia che io non conosco di prima mano, perché è successo tutto dopo che io mi sono sposata e le sole cose che so sono quelle che mi diceva mia madre quando mi chiamava disperata e sfinita per sfogarsi: «Non ne posso più di quella ragazza, non ne posso proprio più, Ana, ti avverto, un giorno o l’altro farò una sciocchezza». E confidava in me perché l’aiutassi, visto che ero una donna sposata e sensata, e io tra me e me mi chiedevo cosa potevo farci perché ero perfettamente consapevole che non c’era nessuno in grado di fermare Cristina, men che meno io, perché io posso anche essere una bravissima ragazza, sensatissima e tutto il resto, o questo è quel che pensa mamma, ma non ho neanche la metà delle energie della mia sorella più piccola.
Quando Cristina ci fece prendere la prima paura era un’adolescente e io mi ero appena sposata. A lei costò una settimana in terapia intensiva e a tutte noi un lago di lacrime e un gran mal di testa. Nessuna ha mai ben capito perché lo abbia fatto. E la storia che io so non la conosco di prima mano e so solo quello che mi raccontarono Rosa e mamma. Cristina arrivò ubriaca a chissà che ora di mattina e trovò mamma sveglia ad aspettarla. Ebbero una delle loro solite discussioni perché, secondo mamma, chiunque vivesse sotto il suo stesso tetto (e sottolineava il possessivo) doveva adeguarsi a un orario decente, dove per decente si intendeva che a diciassette anni una ragazza dovesse essere a casa alle dieci di sera, come avevamo fatto io e Rosa. Cristina sparì in camera sua sbattendo la porta e la mattina dopo, quando Rosa andò a svegliarla, notò che Cristina non si muoveva, non reagiva, gemeva in un modo strano, e un filo di saliva solidificata le scendeva dalla commessura della bocca fino alla curva della mandibola. Solo in quel momento si accorse che accanto al letto c’erano una scatola di neoride e una bottiglietta di pacharàn, entrambe vuote. E Cristina può ringraziare Dio che Rosa abbia avuto la prontezza di capire immediatamente cos’aveva fatto, perché se l’avessi trovata io, di sicuro, per prima cosa non mi sarei resa conto di quello che stava succedendo e secondariamente, se anche me ne fossi resa conto, non avrei saputo cosa fare. Rosa invece chiamò subito un’ambulanza e Cristina finì in ospedale, e fummo davvero fortunate, dissero i dottori, perché la ragazza era molto forte e non solo era sopravvissuta ma, inoltre, la sciocchezza che aveva fatto non aveva avuto conseguenze peggiori, perché avrebbe anche potuto danneggiarle il cervello e a noi sarebbe rimasta una sorella mezza sorda o cieca o chissà che…
Ricordo che una volta, non molto tempo fa, durante un pranzo in famiglia mamma si lamentava della vita che fa Cristina, perché lavora in un bar e via dicendo quando ha ormai finito l’università e con ottimi voti, per di più, e Cristina le ha detto, lo ricordo perfettamente, che non faceva nessuna differenza cosa facesse della propria vita visto che, in fin dei conti, stava vivendo a scrocco. Immagino volesse dire che, siccome era sopravvissuta per caso, la vita che ha le è stata regalata da Dio, dal caso o dal destino, ma comunque non la considera sua, perché la sua, quella che davvero le toccava, era finita là, nel reparto di terapia intensiva, e si era dissolta nei tre giorni in cui era rimasta priva di conoscenza, presumo.
Ma quello fu solo il primo spavento che ci diede, anche se mamma la mandò da uno dei migliori psicologi di Madrid, uno che ci aveva consigliato mio suocero e che le costava un occhio della testa, ma non servì a niente perché in seguito Cristina se ne uscì con i suoi numeri, una catena di bestialità con le quali ci sorprendeva periodicamente, brillanti e prevedibili come la luna piena, anche se non sapevamo mai, questo no, quale sarebbe stata la sorpresina successiva che la ragazzina ci avrebbe riservato. Una volta sparì per cinque giorni e quando finalmente ci dissero dove potevamo trovarla dovemmo andare a prenderla in un centro d’accoglienza della Comunità di Madrid, emaciata, coperta di lividi e incapace di ricordare dove fosse stata. Un’altra, Rosa la trovò priva di sensi, lunga distesa nel garage di casa. In un primo tempo Rosa aveva pensato che fosse morta perché si era messa a pizzicarla e stuzzicarla e Cristina non dava segni di vita. E così richiamammo l’ambulanza e la riportammo all’ospedale, e venimmo a sapere che la ragazza si era fatta di eroina, sì, eroina, e mamma non riusciva a crederci e neanch’io, perché fino ad allora avevo sempre associato l’eroina a quei ragazzi famelici, spettinati e sporchi che cercano di venderti pacchetti di kleenex ai semafori, e non a una ragazza adolescente, sana e bella, e di buona famiglia, che all’epoca per di più andava ancora a scuola. E Cristina litigava con la mamma un giorno sì e uno no e si metteva a urlare tanto che la sentivano tutti i vicini dicendo di non capire perché l’avesse messa al mondo, e mamma mi chiamava disperata e diceva che era un demonio e che di sicuro aveva preso dal padre perché tutte noialtre donne di famiglia eravamo sempre state molto calme e controllate.
Così, come lo racconto, sembrerebbe che Cristina sia completamente pazza e per di più insopportabile, ma non è affatto così. Quando Cristina era in buona, non c’era al mondo una ragazza più adorabile di lei, e siccome per di più era bellissima, e lo è ancora, nessuno poteva resisterle. Aveva così tanti fidanzati, o amici o quel che erano, che non riuscivamo a tenerne il conto e quando ormai ci eravamo affezionate a qualcuno dovevamo scordarcelo e abituarci al successivo, e la povera Rosa faceva sempre una gran confusione scambiandone i nomi. Si assomigliavano sempre, tutti più o meno carini, con la moto, lo stesso aspetto, giubbotto di pelle e capelli cortissimi, all’epoca così di moda, e pronti a sbavare dietro a mia sorella. Mamma per poco non prendeva un colpo ogni volta che vedeva uno di quei ceffi in attesa sul portone di casa, perché capiva subito che doveva per forza trattarsi di una delle ultime conquiste di Cristina, conquiste che a lei non piacevano affatto, naturalmente. Così come non le piaceva la mania di Cristina di ascoltare i dischi a tutto volume, quei dischi che sembravano stazioni della Settimana Santa, con dei cantanti che non si poteva certo dire che cantassero, sulle cui copertine erano tutti vestiti di nero e coperti di crocifissi, o la sua fissazione di passare intere giornate senza mangiare, o di ostinarsi a portare le calze con i buchi. Per non parlare della volta in cui arrivò con i capelli a spazzola, che sembrava appena uscita da un campo di concentramento, e i vicini se lo devono ricordare ancora perché gli strilli che fece mia madre quando la vide entrare in casa devono essersi sentiti fino a casa del Signore, stando a quanto mi raccontò Rosa.
E aveva anche milioni di amiche, compagne di classe fuori di testa come lei che si ostinavano a portare le unghie dipinte di verde e i capelli tagliati a mo’ di palma, e tutte vestite di nero, come una confraternita di prefiche e che si infilavano in camera di Cristina silenziose e rapide come un esercito di scarafaggi, perché mamma, naturalmente, non le poteva vedere. E tra i ragazzi che la perseguitavano e le amiche che le telefonavano per raccontarle le loro pene fatto sta che nei fine settimana il telefono della casa di mamma era occupato a tutte le ore e mamma, chiaramente, andava su tutte le furie.
Un giorno mi chiamò isterica e mi supplicò di correre da lei perché Cristina aveva avuto uno dei suoi attacchi in seguito alla loro lite furibonda e si era chiusa in bagno con un coltello e non intendeva ragioni, e conoscendola sapevamo tutti cosa poteva passarle per la testa.
Così presi la borsa e in un batter d’occhi arrivai a casa, più che altro perché me lo aveva chiesto mamma perché cosa mai avrei potuto fare io con Cristina, proprio io, che sono un soldo di cacio e che non ho mai capito la mia sorella minore? Ma, come ho già detto, mamma mi considerava la più sensata e matura e deve aver pensato che forse con me mia sorella sarebbe scesa a ragioni, perché con mamma non parlava neanche più e Rosa sembrava disinteressarsene; Rosa se ne stava sempre chiusa in camera sua, a sgobbare, indifferente a tutto fuorché ai suoi libri.
Quando arrivai a casa mamma e Rosa mi stavano aspettando con un’espressione preoccupata. Mamma fumava una sigaretta dopo l’altra e Rosa, sempre così concreta, insisteva che dovevamo affrontare la situazione con calma perché non saremmo arrivate da nessuna parte se ci fossimo messe sullo stesso piano di Cristina.
Lei era chiusa in bagno da diverse ore e si rifiutava di aprire la porta. Rosa si ostinava a volerla abbattere temendo che nostra sorella avesse trangugiato un’altra boccetta di pastiglie perché sapevamo tutte che alla minima distrazione di mamma Cristina riusciva a mettere le grinfie sulle pastiglie della farmacia. Ma mamma, sempre così preoccupata per quello che la gente poteva dire, insisteva che era meglio di no, perché con il casino che avremmo fatto per buttar giù la porta i vicini avrebbero capito la situazione. A me, sinceramente, l’ossessione di mamma per i vicini sembrava un po’ assurda, come se, a quel punto, non fossero già abbondantemente al corrente dei numeri di nostra sorella!
Mi avvicinai alla porta del bagno e benché non molto convinta le sussurrai: Cristina, sono io, Ana, stai bene? Inizialmente non ottenni risposta, ma dopo un po’ si aprì la porta, solo uno spiraglio, e intravidi la testolina scarmigliata di mia sorella che, quando ebbe verificato che né mia madre né Rosa erano nei paraggi, aprì un po’ di più la porta e mi lasciò passare. Entrai in bagno e Cristina si chiuse di nuovo a chiave alle mie spalle.
C’era un’enorme macchia rossa sulle piastrelle bianche. Splendeva evidentissima e sembrava palpitare, come se fosse viva, perché era in perenne movimento; era una macchia di sangue ancora fresco, rosso, splendente, liquido, non coagulato. C’era sangue ovunque. Le piastrelle bianche sembravano schizzate di puntini cremisi e la carta igienica era intrisa di scarlatto. Quando la misi ben a fuoco notai che Cristina, che era in camicia da notte, era coperta di sangue dalla vita in giù e la prima cosa che pensai fu che avesse il ciclo, perché immagino che questa sia una delle cose che d distinguono dagli uomini e cioè il fatto che gli uomini quando vedono il sangue pensano alla violenza, e noi invece pensiamo a ovuli sprecati o a bambini non nati. Ma non era niente del genere, perché quella fuori di testa della mia sorellina più piccola per tutto quel tempo si era stagliuzzata le gambe con un rasoio. Non me ne resi conto finché non le vidi in mano il rasoio e non le guardai le gambe, piene di graffi, lungo le quali scorreva il sangue come se fosse stato salsa di pomodoro che colava da un barattolo rotto. Dio santo, Dio santo, ma perché hai fatto una simile follia?, le domandai. Non potevo spiegarmi come ne fosse stata capace e la cosa strana è che il mio primo pensiero quando la vidi in quelle condizioni non fu che mia sorella fosse pazza o roba del genere, ma che d volesse un gran coraggio per riuscire a ignorare il proprio dolore in quel modo. Intanto mia sorella si sedette sull’orlo della vasca da bagno e si asciugò le lacrime dalla faccia e così facendo ottenne solo di impiastricciarsela di rosso, perché aveva le mani insanguinate. Mi ricordava la favola di Biancaneve, quando la regina sta ricamando alla finestra e una goccia di sangue le cade sul davanzale d’ebano e lei esprime un desiderio: avere una bambina con le guance rosse come il sangue, la pelle bianca come la neve e i capelli neri come l’ebano. Mia sorella avrebbe potuto essere una Biancaneve pallida, con gli occhi splendenti come calici di cristallo di Boemia appena lavati e i capelli corti e neri che le ricadevano sul viso, con una bellezza tragica e convulsa, come un’eroina di un romanzo di Barbara Cartland (solo con i capelli corti, certo). Allora Cristina cominciò a sussurrare, come se ripetesse una litania, proprio come se stesse recitando il rosario. Cercò di spiegarmi che si faceva del male perché non si poteva reggere, perché si odiava e non faceva altro che lamentarsi di mamma. Secondo lei, mamma non la sopportava e non la lasciava vivere in pace, non le rivolgeva mai una parola gentile ed era incapace di trovare qualcosa di buono in qualsiasi cosa lei dicesse o facesse. E io, lì, seduta sull’orlo della vasca, in preda a un timore reverenziale che non avevo più provato dalle mattine fredde in cui le suore ci facevano recitare le lodi nella cappella gelata della scuola, quando noi eravamo ancora mezze addormentate e fuori era ancora buio. Io borbottavo sciocchezze insensate di pura convenienza e cercavo di convincerla che mamma era una brava donna e che non la odiava, ma la verità è che erano sempre state ai ferri corti, e avevo come l’impressione di non avere a mia volta molti argomenti per incoraggiare Cristina. E a quel punto lei cominciò a singhiozzare e a ripetere che nessuno le voleva bene, che papà se n’era andato, e Gonzalo anche e che nessuno le voleva bene. E mi era difficile capirla perché parlava a voce bassa e si interrompeva di continuo con singulti e singhiozzi e alla fine non faceva che ripetere in modo incoerente il nome di Gonzalo e io non capivo da dove le venisse una simile fissazione per Gonzalo, o magari semplicemente non volevo capirlo.
Dopo un po’, quando Cristinita si calmò e smise di singhiozzare, andai a chiamare mamma e Rosa e quando entrarono nel bagno e lo trovarono trasformato nelle prigioni del castello di Dracula non diedero credito a quello che videro. Rosa prese immediatamente in pugno la situazione, come un sergente in caserma; fece salire Cristina in macchina e la portò all’ospedale e mamma dopo cinque minuti apparve in bagno, con secchio e spazzolone, decisa a cancellare quell’episodio dalla nostra memoria a forza di Vim Clorex e Cristasol.
Dopo il fatto mamma decise di mandare Cristina da una psicologa, una più giovane e moderna del precedente, che Cristinita mandò a farsi friggere nel giro di due mesi. E così cominciò una sequela di psichiatri, psicologi e terapeuti che a turno ci propinavano una sfilza di diagnosi che né io né mamma capivamo granché. Mamma non riusciva a fidarsi fino in fondo di quei signori e delle loro teorie, ma avrebbe dato qualsiasi cosa, avrebbe pagato quello che c’era da pagare perché uno di loro potesse cambiarle la figlia e restituirgliela tranquilla e come si deve, trasformata nella versione depurata di Cristina, sempre carina e affascinante come solo lei sapeva essere, ma senza i suoi attacchi di caratteraccio e le sue eccentricità.
La mia sorellina cresceva e i suoi numeri non finivano; comunque, la mia sorellina non era matta. No, non lo era. O non del tutto. C’erano due Cristine. C’era quella che gridava e ci minacciava con i coltelli e tornava a casa alle sette di mattina in uno stato pietoso e litigava con mamma un giorno sì e l’altro anche, e c’era la Cristinita affascinante i cui pretendenti tenevano occupata la linea telefonica. Doveva pur avere qualcosa, immagino, per abbagliare in quel modo i ragazzi e addirittura mio marito, che immancabilmente, quando mia madre telefonava preoccupatissima, si riferiva a lei come alla «tua povera sorellina, pensare che è così dolce e bella, povera», come se la mia povera sorellina fosse una suorina della carità, dimenticando che mia madre aveva ricevuto una lettera dalla scuola in cui la informavano che la mia povera sorellina smerciava anfetamine tra le compagne, anfetamine che rubava dal retrobottega della farmacia e che aiutavano le sue compagne di classe a star sveglie alla vigilia degli esami, e che per di più le vendeva a prezzo d’oro, perché una confezione di dicel costava all’epoca duecento pesetas e quello era appunto il prezzo che la mia povera sorellina chiedeva per una sola pasticca, una sola, di una confezione da venti, perché la mia povera sorellina non era stupida, no, neanche un po’, e sapeva perfettamente come racimolare i soldi per le sue bevute da quando mamma aveva deciso di non darle più neanche una moneta da cinque pesetas, né la paghetta o altro. E mio marito dimenticava anche che una sera, mettendo a posto in un armadio, mamma aveva trovato nel cassetto delle calze di Cristina una scatola con dentro hascisc e preservativi, oltre a delle lettere di uno dei suoi ragazzi il cui contenuto mamma avrebbe definito più tardi, nella sua telefonata di quel giorno, pornografico. E il mio Borja dimenticava anche che la Cristinita che gli era così simpatica era la stessa che aveva fatto quel numero al nostro matrimonio, ubriaca persa al collo di Gonzalo, balbuziente a causa di tutto quello che aveva bevuto, e all’epoca aveva solo quattordici anni, era ancora una bambina.
A volte mi vien voglia di chiamare mia sorella perché penso che lei potrebbe capirmi, che sia l’unica persona che potrebbe farlo, perché dev’essere passata per così tante cose che niente di quello che le posso dire la sorprenderebbe. O magari invece sì, la sorprenderebbe. Immagino che la sorprenderebbe sapere che io non ho mai fumato uno spinello e che non ho mai usato preservativi, per quanto possa sembrare incredibile, perché Borja mi diceva che era scomodo mettersi quella roba di gomma e, inoltre, assicurava, le sensazioni non erano le stesse, e se lo diceva lui, a me stava bene, perché in fin dei conti era lui quello con dell’esperienza. Immagino che la sorprenderebbe sapere che quando leggo i consigli di «Mia» sulla vita sessuale e sento le cretinate che scrivono sull’orgasmo mi chiedo se ne abbia mai avuto uno, e arrivo alla conclusione che non devo averne fatto esperienza perché se avessi avuto un orgasmo lo saprei, dico io. E il fatto è che le ore e i giorni passano senza che io faccia niente, come una sequenza interminabile di fogli sul calendario, e io non smetto di piangere, e chi può più dire con sicurezza che la vita di mia sorella, sia migliore o peggiore della mia?, chi può dire con sicurezza che mia sorella, la fuori di testa, mia sorella che è passata da uno psicologo all’altro da quando aveva quindici anni non sarebbe in grado di capirmi e magari anche di darmi dei consigli?