Z di Zenit

Basandosi sul primo racconto della creazione dell’uomo che dice «maschio e femmina li creò», una tradizione rabbinica vuole che la prima donna sia stata Lilith, non Eva. In questo modo lei sarebbe uguale all’uomo, per esser uscita, come lui, dal fango della terra. La Cabala la fa litigare con Adamo e fuggire. Si sarebbe trasformata in un demonio, succube e istigatrice degli amori illegittimi.

Ma ai redattori della Bibbia non piacque il primo racconto della creazione dell’uomo. Per sottolineare la necessaria sottomissione della donna all’uomo inventarono la figura di Eva, creata da una costola di Adamo e successivamente sedotta dal serpente e diventata quindi la responsabile di tutti i mali della sua stirpe. Questa seconda donna era nata dall’uomo e pertanto doveva dipendere da lui.

Oggigiorno quasi nessuno sa chi era Lilith, mentre tutti conoscono il mito di Eva. I redattori della Bibbia l’hanno spuntata.

Ciononostante e loro malgrado, alcune donne forti si sono intrufolate nelle pagine della Bibbia e hanno dimostrato di non essere le appendici di nessuno. Debora, giudice e profetessa che diresse la campagna contro Sìsara appoggiata da Barak. Atalia, regina di Giudea, unica donna ad aver governato un regno ebraico, anche se per poterlo fare dovette uccidere a uno a uno i suoi sei fratelli. Betsabea, la moglie preferita di David, sua consigliera e appoggio. Ester, la moglie ebrea del re persiano Assuero, che mise a repentaglio vita e prestigio personale per impedire lo sterminio programmato del suo popolo. Giuditta, l’assassina di Oloferne, il generale assiro, che grazie alla sua astuzia e intelligenza, riuscì a metter fine all’assedio della città ebraica…

E ciò dimostra, immagino, che nonostante i tanti impedimenti che le si mettono davanti, per quanto si cerchi strenuamente di coprirne l’esistenza, una donna forte può sempre ottenere quanto si propone. Ed è paradossale che io abbia imparato questa lezione proprio in una scuola di suore, un collegio in cui le religiose mi incoraggiavano a fare i compiti perché «un giorno avrei dovuto aiutare i miei figli a farli a loro volta».

La forza non è quello che pensate. La forza non si misura secondo lo spessore dei muscoli o in base ai chili che una persona riesce a sollevare. La forza è, soprattutto, resistere, non spezzarsi. Ed è una qualità femminile.

A volte odio quei rampolli di famiglie felici, quei pasticcati che vengono al Planeta X, quei bravi ragazzi che vivono a Mirasierra o alla Moraleja e hanno una villetta con giardino, piscina e cane, un padre lavoratore e una madre in forma e abbronzata, e nulla da dimenticare o di cui vergognarsi. Hanno un padre e una madre che si adorano, o che almeno si sopportano a vicenda, genitori che hanno regalato loro la prima macchina subito dopo il test d’ingresso all’università, che hanno pagato loro studi e vacanze, un mese a Marbella d’estate e una settimana a Saint-Lary d’inverno. Hanno amici che sciano e montano a cavallo insieme a loro fin dall’infanzia. Hanno un computer e un videoregistratore in camera, pantaloni di Caroche, giubbotti di Gaulthier e stivali di autentica pelle di serpente (da quarantamila pesetas il paio) e vanno in giro vestiti come tossici, tossici di lusso, copiando il look di Matt Dillon in Drugstore Cowboy, anche se, di sicuro, hanno il frigorifero pieno e non hanno mai dormito per strada.

Uno di questi ragazzi mi ha raccontato al bancone, tra un cuba libre e l’altro, le due grandi tragedie della sua vita: una ragazza che l’aveva lasciato e una rapina di cui era stato vittima sulla Gran Vía. Come facevo io a spiegargli che mio padre, un giorno, se n’era andato senza una ragione apparente, che mia madre non è mai stata in grado di rivolgermi più di cinque parole dietro fila, che quando avevo nove anni me la facevo con mio cugino di venti, che la mia miglior amica passa il tempo a entrare e uscire dall’ospedale, che ho un taglio da sette punti nel braccio destro che mi sono fatta da sola con un coltello e che a sedici anni ho cercato di uccidermi per la prima volta?

Se gli raccontassi qualcuna di queste cose penserebbe che sono una persona molto disgraziata o molto problematica e invece io non mi sento così. Sono sicura che deve aver sofferto molto più lui per la sua fidanzata di quanto abbia sofferto io per Iain. Me lo immagino mentre affoga la sofferenza nell’ecstasy e nell’alcol, mentre fa sforzi erculei per dimenticare il nome e la faccia di lei, evita sistematicamente i bar in cui erano soliti andare e i tavolini all’aperto davanti ai quali passeggiavano, disarmato davanti al primo brutto colpo della sua vita, dal momento che nessuno l’aveva forgiato in una previa schermaglia, dal momento che nessuno si era premurato di insegnargli a resistere alla frustrazione. Nessuno l’aveva informato che nella vita, per una semplice questione di statistica, gli sarebbe toccata almeno una volta l’esperienza di un amore fallito, di un incidente stradale e di un amico sleale, e che tutti i soldi e l’amore dei suoi genitori non gli avrebbero risparmiato l’inevitabile.

Pensa a noi, per esempio, le sorelle Gaena. Ci va poi così male come sembra?

Prendiamo atto del fatto che Iain mi ha lasciata e che non tornerà. Forse non l’ho mai amato. Forse ho solo voluto che riempisse il vuoto enorme che ho dentro. È ora che io capisca che non posso perdermi nella vita di un’altra persona senza aver vissuto la mia e che io, e io sola, posso riempire i miei vuoti interiori.

Mia sorella Rosa ha vissuto la sua vita senza intromissioni altrui, nessuno glielo può obiettare, ma ha finito per diventare lei stessa il suo carcere. Come si vive con un hard disk per cervello e un modem al posto del cuore? Immagino che ci sia molta gente convinta che la sua vita sia un deserto senza oasi. Immagino che ci sia molta gente che la compatisce, che mentalmente la considera una zitella nevrotica, che immagina la vita di mia sorella come una corsa contro il tempo, nel tentativo di trovare un senso all’esistenza prima che l’orologio biologico si fermi, prima di essere troppo vecchia per avere dei figli o per continuare a essere sessualmente attraente. Io, invece, so che mia sorella può ottenere qualsiasi cosa desideri.

L’ho vista per anni chiusa in camera sua, davanti a matite e penne ordinate per colore, con le sopracciglia aggrottate e gli occhi sbarrati, decisa a essere la migliore della classe. E se è riuscita a essere la migliore in una facoltà praticamente riservata agli uomini, perché non potrebbe cambiare la propria vita nel momento in cui lo deciderà? Può darsi che non vada granché d’accordo con mia sorella, però, cazzo, devo ammettere, per quanto mi costi, che in certi momenti l’ammiro profondamente. E di sicuro non la compatisco.

Sulla spiaggia di Ana è arrivata un’ondata enorme che ha distrutto il suo castello di sabbia. Non domandatemi quando o come, perché non lo so. So solo che quello che ha non le piace più. La vita le sfugge, lentamente e inesorabilmente, segnando le ore, come la sabbia di una clessidra. E le resta sempre meno tempo. Mia madre mi chiama angosciata, mi dice che la faccenda è grave. D’accordo, ho visto gli occhi vitrei di Ana fissi sullo schermo della tivù e le sue mani languide incapaci di reggere un bicchiere. L’ho vista con le occhiaie e spettinata, incapace di pronunciare una parola, e ciononostante non temo per lei.

Perché ho visto anche lei, per anni, efficiente e laboriosa come una formichina, che sbrigava fatture e metteva ordine negli armadi, si faceva largo in cucina attraverso montagne di piatti sporchi e involucri vuoti, trasformata nella madre che mia madre non sapeva essere, previdente, tranquilla e coerente.

Non ci siamo mai accorte molto della sua presenza finché non si è sposata e abbiamo realizzato in tutta la sua drastica evidenza il fatto che se ne fosse andata. La casa è sprofondata dalla sera alla mattina in un caos incontrollabile. Il bucato passava giorni e giorni a marcire nella lavatrice semplicemente perché noi ci scordavamo di stenderlo; dovevamo sopravvivere a forza di surgelati perché nessuna di noi sapeva cucinare e le nostre rispettive stanze si sono coperte di strati e strati di polvere e sporcizia perché per anni nessuna di noi aveva dovuto passare lo straccio e adesso non c’era verso di farci entrare nella testa che ci toccava farlo.

Ana se n’è andata e le mie discussioni con mamma si sono fatte sempre più frequenti, sempre più rumorose. Mia madre era esasperata dal disordine che la circondava, che avanzava lento ma altrettanto inesorabile come una malattia incurabile, e quando tornava dalla farmacia, sfinita e depressa, e si trovava in quella casa che poteva cadere a pezzi da un momento all’altro, esplodeva. Dava la colpa a noi, naturalmente, ma noi cosa potevamo farci? Io non sapevo neanche friggere un uovo o condire un’insalata, figuriamoci stirare o rifare i letti. Ana non mi aveva insegnato a farlo. Rosa passava le giornate chiusa in camera con i suoi libri e aveva sempre messo ben in chiaro di non essere assolutamente portata per i lavori di casa. Fino ad allora i silenzi gelidi di mia madre mi avevano mandata in bestia. Ma quando Ana se n’è andata, mia madre ha imparato a gridare e a imprecare ad alta voce, e di colpo è venuto a galla tutto il risentimento che aveva accumulato per anni e anni, e allora sì che ho perso le staffe. Lei gridava e io gridavo più forte e ci scambiavamo tutti gli insulti che conoscevamo, e anche qualcuno che inventavamo appositamente per l’occasione. Si diceva pentita di avermi messa al mondo. Io rispondevo che nessuno gliel’aveva chiesto e che non ero propriamente soddisfatta del posto in cui ero finita. Me ne sono andata di casa non appena ho trovato lavoro e Rosa ha fatto la stessa cosa due anni più tardi, anche se dopo aver terminato l’università, che è un vantaggio.

Non ci eravamo rese conto fino ad allora che Ana era la colla che d teneva unite. Senza di lei, la famiglia andava in pezzi.

Per questo d costa tanto accettare che Ana la dolce, Ana che era sempre stata l’emblema della mansuetudine, è piombata nel baratro. È ufficiale.

La cosa è andata più o meno così, da quanto ho potuto dedurre dalle conversazioni con mia madre e con mia sorella Rosa: una mattina mia sorella Ana si era alzata dal letto alle sette, come al solito; aveva preparato la colazione, come al solito, e svegliato il bambino, come al solito; gli aveva cambiato il pannolino, come al solito e, subito dopo, con il bambino ancora in braccio, si era seduta a tavola davanti al marito, con gli occhi sgranati e un’espressione solenne. A quel punto gli aveva annunciato con voce ferma di volere il divorzio. Non gli aveva dato spiegazioni. Non c’era un altro uomo, come Borja si aspettava, perché per un uomo come Borja l’unica ragione per cui può volere il divorzio una donna che ha tutto quello che una donna può desiderare (un bambino bello e sano, un marito amorevole e attento e una casa da cinquanta milioni di pesetas) è un altro uomo (uno che possa darle un altro bambino bello e sano e una casa da cento milioni di pesetas). Ma non c’era un altro uomo, lei gliel’aveva garantito, e Borja non aveva messo in dubbio la sua parola perché aveva sempre pensato, e lo pensava ancora, che sua moglie non sarebbe mai stata capace di tradirlo, ci avrebbe messo la mano sul fuoco, in passato e anche in quel momento, ma lei continuava a insistere e riusciva solo a ripetere che voleva il divorzio, senza dare ulteriori ragioni.

Allora Borja aveva chiamato mia madre e mia madre ne aveva convenuto, non era normale che una ragazza come Ana, sempre così responsabile, si mettesse in testa dalla sera alla mattina una simile sciocchezza, benché negli ultimi tempi non fosse più stata la stessa. No, una ragazza come Ana non divorziava così, dalla sera alla mattina e senza un motivo apparente. E così avevano chiamato il suo medico curante che aveva scrollato per un po’ la testa davanti a mia sorella e poi si era chiuso con lei in una stanza e quando n’era uscito aveva dato loro il numero dello psichiatra privato e costosissimo che il giorno dopo le avrebbe diagnosticato una crisi nervosa. E questo era stato un sollievo per Borja e per mia madre, perché una crisi nervosa è qualcosa su cui non si ha il controllo, e perciò, proprio in virtù di tale diagnosi, era evidente che Ana non sapeva quello che diceva e che tutto sarebbe tornato alla normalità in breve, con l’aiuto di Dio e della medicina moderna. Risultato: Ana era stata ricoverata in quella che mia madre chiamava «casa di riposo», Borja «clinica privata» e Rosa «ospedale psichiatrico» e che era, per intenderci, un manicomio. Per ricchi, questo sì, ma pur sempre un manicomio.

Quando Rosa mi ha raccontato tutto al telefono non riuscivo a crederci perché, benché avessi visto Ana davvero male l'ultima volta che le avevo fatto visita, non avrei mai immaginato che la faccenda sarebbe arrivata a tanto e l’unica cosa che mi è venuta da dire a Rosa è stata che l’ordine degli psichiatri di Madrid avrebbe fatto erigere un monumento alle sorelle Gaena, in segno di riconoscimento per tutti i soldi che si erano fatti a nostre spese. E Rosa mi ha spiegato che la cosa non finiva lì, che a quanto pareva Ana, negli ultimi mesi, si era riempita di tranquillanti e minilip, e quindi, insomma, voi mi capite, Ana non era finita nel manicomio per una semplice depressione, le cose stavano diversamente. Mia sorella, la santerellina, la bambina modello, l’irreprensibile madre e sposa, si stava disintossicando. Roba da non credere.

E così sono rimasta d’accordo con Rosa che mi sarebbe venuta a prendere per andare insieme a trovare Ana. Rosa ha specificato che saremmo andate da sole, perché Ana le aveva detto a chiare lettere di non voler vedere la mamma, e questa è stata la ciliegina sulla torta delle sorprese perché, da quando ho l’uso della memoria, Anita è sempre stata la pupilla di mia madre e non ha mai fatto un passo senza consultarla, e non mi entrava nella testa che Ana avesse davvero dato simili istruzioni.

La mattina del giorno che avevamo fissato per la visita sono rimasta per quasi tutto il tempo in casa davanti all’armadio a spremermi le meningi alla ricerca di qualcosa da mettermi, come accade ogni volta che devo vedere un membro della famiglia (dovrei forse dire «membra», al femminile?) perché chiunque abbia avuto un contatto, per minimo che sia, con la famiglia Gaena sa che né a mia madre né alle mie sorelle piacciono i miei look. Ma dopo aver rivoltato per venti minuti l’armadio in cerca di una delle gonne blu a pieghe che indossavo quando lavoravo in ufficio, mi è sembrato piuttosto assurdo che proprio mentre l’universo ci stava crollando addosso io mi tormentassi chiedendomi se sarei piaciuta o meno alle mie sorelle. E così mi sono messa i soliti jeans e la prima maglietta che ho trovato nell’armadio, e casualmente era quella di Nevermind dei Nirvana. Ma poi, siccome mi sembrava che non fosse carino andare in un manicomio con la faccia di un suicida stampata sulle tette, all’ultimo momento me ne sono messa una di Shampoo, solo perché era rosa shocking e ho pensato che, secondo un’elementare logica cromatica, la maglietta avrebbe conferito alla mia immagine l’ottimismo di cui la mia anima era sprovvista.

Il manicomio si trovava a quaranta chilometri da Madrid ed era circondato da un enorme muro bianco. All’interno, i muri di mattoni bianchi che proteggevano la casa erano ornati di gelosie di legno. All’ombra di un grande cedro spiccava la macchia di colore di un’aiuola di petunie e violacciocche. In fondo, a disegnare linee rette tra i grandi alberi, crescevano i cespugli di bosso. C’erano cedri e querce, e altri alberi i cui nomi io, povera cittadina, non immaginavo neanche. Un sentiero di ghiaietto tagliava in due il giardino e portava alla casa. L’erba cresceva tra gli interstizi delle pietre.

La BMW è scivolata silenziosa, come solo le BMW delle pubblicità televisive sanno fare, verso la clinica, che a prima vista sembrava tutto tranne che una clinica, dal momento che era una dimora enorme con una certa aria nostalgica e coloniale, una struttura di altri tempi che stonava con la sua attuale destinazione e funzione. Una quercia faceva ombra all’ingresso della casa, dov’erano state messe due enormi sdraio. Se non fosse stato per quel dettaglio moderno la casa avrebbe ricordato la Tara di Via col vento. Mi aspettavo quasi di veder apparire da un momento all’altro un domestico di colore in livrea che venisse a servirmi un ponce.

Siamo entrate. Ci siamo ritrovate in un atrio enorme e vuoto che puzzava sgradevolmente di candeggina. Da una parte, delle poltrone blu e un tavolino su cui erano disseminate riviste di moda e cronaca rosa. In fondo, una specie di acquario di cristallo all'interno del quale una ragazza dall’aria annoiata, collegata a un computer e a un centralino, ci rivolgeva uno sguardo interrogativo. Mia sorella si è avvicinata all’acquario con la sua solita aria marziale e quando è stata davanti alla ragazza le ha detto chi eravamo e chi stavamo cercando. La ragazza dell’acquario ci ha pregate con voce gentile di attendere un attimo.

Io mi sono lasciata cadere sulla poltrona blu, come una marionetta a cui avessero tagliato i fili. Nel frattempo mia sorella camminava avanti e indietro per l’atrio, le mani nelle tasche del cappotto di pelle di cammello, lasciando fuori solo i pollici minacciosi. Non faceva caso all’occhiata curiosa che le rivolgeva la ragazza pesce, affascinata dalla bionda arroganza di mia sorella che, nel bel mezzo dell’atrio, si imponeva con la verticale solennità del suo metro e ottanta di statura. In preda alla stanchezza ho chiuso gli occhi e l’immagine di mia sorella si è dissolta in frattali colorati. Ascoltavo il calpestio cadenzato dei suoi tacchi sul marmo, il tacchettio ritmico, monotono, assertivo e… sono sprofondata pian piano nel sonno.

Dopo alcuni minuti, quando ormai cominciavo a navigare in sogni sfumati e vaghi, ci è venuta incontro una trentenne dall’aria gentile che indossava il camice bianco di rigore. Nostra sorella, ci ha spiegato, riposava, al momento, nella sua stanza perché ancora (non le avevano concesso di ricevere visite, ho pensato io) non avevano elaborato la diagnosi adeguata e stabilito i previ colloqui con i diversi dottori che ogni nuovo arrivato (paziente, ho puntualizzato io mentalmente) doveva superare affinché i medici potessero valutare le sue condizioni.

Come un Virgilio in camice bianco la dottoressa ci ha guidate attraverso un labirinto di passaggi. Alcuni pazienti deambulavano per i corridoi: bei ragazzi dall’espressione smarrita che ho immaginato essere tossici di buona famiglia, signore agghindate con collane di perle e i capelli raccolti in uno chignon che probabilmente erano state alcolizzate dalla nascita o drogate di bingo e qualche vecchietto disorientato che sbirciava maliziosamente con la coda dell’occhio la mia maglietta rosa.

Ho ripensato a quando andavo a trovare Line in ospedale. Il letto di ferro, le lastre alle pareti, la flebo di fisiologica, i tubi, le apparecchiature, l’odore di disinfettante che impregnava le conversazioni. Mezz’ora di visita asettica e deprimente. La parola «ospedaliero» perdeva il suo riferimento originario all’ospitalità. Ma la camera di Ana non aveva niente a che vedere con le altre camere d’ospedale. Era più grande del mio appartamento, e con questo ho detto tutto. Le pareti erano dipinte di un sedante verde pallido. Qualcuno aveva abbassato le tapparelle, ma non tanto da non lasciar intravedere dalla finestra (senza sbarre) un quadratino dell’erba splendente del giardino. In un vaso, sul comodino, un enorme mazzo di rose bianche, elegantemente composto, presiedeva la stanza; il modo in cui Borja aveva segnato il suo territorio, ho immaginato. Ana riposava a letto e appoggiava la testolina bionda, i riccioli da cherubino, su un mucchio di cuscini.

Rosa si è seduta accanto al letto e, con fare altero, ha consegnato alla paziente il regalo che le aveva portato: un libro di Marina Mayoral. Ana l’ha posato sul tavolino senza riservargli la benché minima attenzione e si è messa immediatamente a parlare, in modo precipitoso, ma devo ammettere che, nonostante le circostanze, mi è sembrato di non averla mai vista così padrona di sé come in quel momento. Prima ci ha spiegato, con tono tranquillo e pacato, quasi pedagogico, la sua storia con le pastiglie e, ha tenuto a chiarirci, non aveva avuto la minima idea di cosa stava facendo; aveva cominciato a prendere anfetamine per dimagrire e tranquillanti per combattere il nervosismo delle anfetamine e alla fine, ecco, la cosa le era sfuggita di mano. Non sembrava intenzionata a cercare giustificazioni, dava l’impressione, semplicemente, di volerci fornire i dati giusti e necessari che noi, nella nostra condizione di sorelle, dovevamo sapere. Né più né meno. Ci ha detto che dal suo arrivo in ospedale aveva avuto conversazioni molto serie con diversi dottori i quali le avevano assicurato che la cosa non era così grave, o almeno non come avrebbe potuto diventare se avesse continuato una simile dieta per qualche altra settimana. Insomma, per il momento Ana pensava di restare in clinica e risolvere il suo problema.

Dopo averci dato queste informazioni, ha girato la testa verso Rosa, l’ha guardata fissa negli occhi e si è messa a parlarle come se io non esistessi neanche.

«Ti ho chiamata» ha detto, «perché credo che tu sia la donna più intelligente che conosco. E l’unica che mi può aiutare in queste circostanze, credo. E poi, naturalmente, sei mia sorella. Ma questo adesso non c’entra. Ci sto pensando da diversi giorni, a quanto sei intelligente, intendo, e al fatto che non te l’ho mai detto. Ho anche pensato che benché ti ammiri tanto, in fondo, quasi non ti conosco. Non so, in altre parole, non sono sicura di poter contare su di te. Quel che voglio dire è che non so cosa starai pensando di me adesso…»

«Certo che puoi contare su di me» l’ha interrotta Rosa con l’aria stanca e deferente di una maestrina. «Non dire sciocchezze per favore.»

Non avevo ben capito se c’entravo qualcosa con quella scena ma, dal momento che nessuno mi aveva chiesto di uscire, sono rimasta lì, ad ascoltare come Ana sgranava lamentele e argomenti con la sua vocina acuta. Il fatto è che Ana era decisa a divorziare e voleva sapere se c’era qualche possibilità che il marito usasse i suoi problemi con le pasticche e il ricovero in clinica come argomenti per esigere davanti a un giudice la custodia del figlio. Io non ci capivo niente, perché ai miei occhi, come a quelli di mia madre, non c’era nessuna ragione logica perché Anita divorziasse così su due piedi, dalla sera alla mattina. Per questo mi ha sorpreso tanto che Rosa sembrasse prendere la cosa così sul serio e cominciasse a parlarle di casi che conosceva e delle colleghe di lavoro che avevano divorziato e conservato la custodia dei figli nonostante le risapute infedeltà e i problemi di pubblico dominio con l’alcol, e si offrisse addirittura di parlare con lo studio di avvocati che gestiva le sue questioni legali, in cui sicuramente c’era anche un buon avvocato divorzista. Non credevo alle mie orecchie perché non mi sembrava ragionevole che mia sorella Rosa, quella sensatissima, razionalissima, formalissima, saggissima, si mettesse automaticamente dalla parte di Ana senza neanche chiederle quello che chiunque le avrebbe chiesto, e cioè se suo marito la picchiava o se beveva, o se l’aveva sorpreso a scopare con un’altra, o se c’era chissà quale altro fottuto motivo per cui Ana aveva deciso così, da un momento all’altro, di mandare all’aria il suo matrimonio. A quel punto Ana mi ha guardata intensamente, gli enormi occhi acquosi aperti in un’espressione da angelo supplice che mi restituiva un’immagine liquida di me.

«E tu, Cristina, cosa ne pensi?» mi ha domandato.

E siccome mi ha presa alla sprovvista e con la guardia abbassata, non ho saputo dirle che ciò che sul momento mi è venuto dal cuore: che la vita è una lotta che non ammette sconfitte. E lei deve aver trovato la spiegazione soddisfacente perché non mi ha chiesto altro.

Quindi ci ha spiegato che non pensava di restare in quel posto (questo posto, diceva, evitando così di definire il tipo di struttura in cui era finita) più di un mese, il tempo necessario, ha aggiunto, perché il suo corpo si abituasse a funzionare senza pastiglie. E io annuivo in silenzio e osservavo con occhi attoniti l’inedita trasformazione di mia sorella.

Poco dopo è apparsa la stessa dottoressa di prima per comunicarci che il tempo della visita era terminato. E così abbiamo stampato sulle guance di Ana i baci sororali di rigore, siamo uscite dalla stanza e abbiamo fatto tutto il cammino a ritroso fino alla macchina.

Siamo tornate a Madrid senza scambiarci una parola. Rosa guidava con lo sguardo fisso sulla strada. Ho trattenuto la curiosità per i primi trenta minuti ma, alla fine, non sono riuscita a resistere oltre e ho dovuto chiedere a Rosa perché mai aveva concesso ad Ana tanta attenzione e aveva preso così sul serio quello che non sembrava altro che un impulso da bambina ricca e viziata che si impasticcava solo per noia. Allora lei ha ridotto la velocità e ha distolto gli occhi dal parabrezza per posarli sulla mia umile e sgarbata persona.

«Sai quanti anni ho, Cristina?» ha detto. «Trenta. E sai cosa ne ho fatto, in questi trent’anni, della mia vita? Niente. Niente di niente.»

«Io non direi proprio. Hai fatto una camera che poche altre donne della tua età possono vantare.»

«Non capisci. È questo che intendo con niente. Non ho fatto niente. Non mi sono ubriacata fino a cadere come una pera cotta per terra, non ho avuto un’amica con cui litigare o da invidiare, non mi sono messa in ridicolo chiamando un ragazzo a casa quando era evidente che lui non mi voleva più, non ho desiderato in segreto nessun collega d’ufficio… Insomma, non ho vissuto nessuna di queste piccole tragedie banali che rappresentano il pane quotidiano dei comuni mortali, quelle che fanno sì che amino l’aria che respirano e la terra che calpestano, quelle che permettono loro di alzarsi ogni mattina con la speranza che il giorno che comincia sia diverso dal precedente e da quello che seguirà. Negli ultimi anni sono stata un automa. Questo è quanto. Sono stata come un replicante di me stessa, un replicante che in fondo non ero io, perché io non sono, non posso essere, una persona che non sente assolutamente niente. Niente.»

«Ti capisco» ho sussurrato. E la capivo davvero perché stava descrivendo esattamente la situazione che vivo io al bar tutte le notti, quando raccolgo i bicchieri e schivo corpi sudati, un androide cibernetico che porta in giro le mie sembianze, le mie curve e le mie espressioni, tra le ombre, con la mente vuota, per riuscire a reggere le sei ore del turno di notte senza pensarci.

«E quel che è peggio è che non lo sapevo neppure» ha proseguito Rosa, «non ero neanche consapevole di quello che mi stava succedendo. Ho preso coscienza della cosa solo da un mese a questa parte, quando ho cominciato a ricevere le telefonate.»

«Che telefonate?»

«Senti, Cristina, qualcuno ha cominciato a telefonarmi tutte le sere, tutte, più o meno alla stessa ora. Non diceva niente, mai. Si limitava a farmi ascoltare una canzone. The fatal hour di Purcell. Non so se la conosci.»

«Non credo. Io a parte la tecno…»

«Ricordi quelle orribili feste di fine anno che facevamo a scuola?»

«Quelle in cui tu andavi sempre a suonare il piano e io a recitare poesie?»

«Sì, eravamo un po’ le attrazioni della fiera.»

«Altro che un po’» quella definizione così azzeccata mi ha fatto sorridere.

«Be’, un anno, avrò avuto undici o dodici anni, mi sono ostinata a cantare quella canzone alla festa di fine anno, The fatal hour, insomma, la stessa che il mio anonimo interlocutore mi fa ascoltare al telefono. All’epoca, quando avevo undici anni, non credo che tu te lo possa ricordare, studiavo solfeggio e piano, ma non canto. E la professoressa si era impuntata a dire che non potevo cantare Purcell, che avrei potuto interpretare la partitura ma che non sarei riuscita a rendere le sfumature, che per poterlo fare era necessario studiare canto con un conoscitore del repertorio del compositore inglese che mi aiutasse a capire cosa voleva dire Purcell con quella canzone. E io le rispondevo che mi bastava ascoltare quel brano per capire perfettamente cosa voleva dire Purcell, che non avevo bisogno di nessun conoscitore, che sapevo benissimo cosa voleva comunicare.» Guardava verso la strada con l’espressione sognante e, per un momento, ho temuto che andassimo a sbattere. «Litigammo memorabilmente per quella faccenda; lei mi dava della bambinetta cocciuta e io ribadivo che avrei cantato quello che volevo. Comunque, alla fine, l’ho spuntata io e ho cantato Purcell, sai? È stato un trionfo della mia volontà.»

«… avrebbe detto Nietzsche.»

«E la cosa strana» ha proseguito, senza far caso alla mia interruzione, il viso pallido e teso, gli occhi lucidi per colpa delle lacrime che non versava «è che mi ero completamente dimenticata della storia, erano anni che non ci pensavo più, finché quella persona che mi ha chiamata, chiunque sia, non l’ha messa su. Ecco perché sapevo che chi mi telefonava doveva conoscermi a fondo. Ho pensato e ripensato a chi potesse essere, ho fatto ogni genere di calcolo e analisi delle probabilità finché non mi sono resa conto che l’importante non era tanto il mittente quanto il messaggio.»

«Il messaggio?»

«Mi sono resa conto che non importava chi fosse a chiamare, bensì il messaggio che mi faceva pervenire. E questo mi ha fatto ricordare che c’è stato un momento in cui io ero ancora capace di appassionarmi alle cose, in cui ero stata capace di imparare nota dopo nota una canzone che nessun’altra alunna della mia età si sarebbe azzardata a solfeggiare e men che meno a cantare. Che c’è stato un tempo in cui lottavo per quello che volevo davvero. Che c’è stato un tempo in cui io piangevo ascoltando Purcell.» L’ombra di una lacrima sul punto di cadere scintillava nei suoi occhi. «Piangevo di pura felicità, di pura empatia con le note. E negli ultimi anni ho vissuto talmente anestetizzata, inibita, che non l’avrei mai ricordato se non fosse stato per quelle telefonate. Ti rendi conto? Chiunque fosse a chiamare mi stava facendo vedere come avevo rinnegato me stessa, come mi ero rovinata la vita. Perché, cosa ci faccio io chiusa in un ufficio, a obbedire agli ordini di incapaci che non rispetto e a servire gli interessi che nel profondo del mio cuore rinnego? Non importava chi fosse, era il meno, perché in definitiva quelle telefonate venivano dal fondo della mia anima.»

Bevevo le parole di mia sorella con la sete di un beduino perché, se una mattina al mio risveglio avessi trovato che il cielo splendeva di un bel verde muschio e le foglie degli alberi ondeggiavano al vento tinte di blu puffo, sicuramente mi sarei stupita meno che quando ho sentito la mia sorella più grande dire che riceveva telefonate dalla propria anima.

«Una settimana fa ho finalmente preso una decisione. Sai che prendevo il prozac da quindici mesi, vero?»

«Me l’avevi detto» ho annuito sollecita e veloce, desiderando che procedesse con la sua storia.

«Be’, mi avevano detto che non potevo smettere dall’oggi al domani. Dovevo inserirci un periodo di transizione durante il quale ridurre le dosi a poco a poco. Ma io sapevo che mi serviva un cambiamento brusco. E così, un giorno ho deciso di disfarmi di tutte le mie scorte di fluoxicetina. Quattro scatole, Cristina, due nel cassetto del comodino e due in quello dell’ufficio. Tutte e quattro sono finite nella pattumiera. E poi mi sono preparata ad accettarne le conseguenze, la crisi o qualsiasi cosa fosse, tranquilla. All’inizio non succedeva niente, sai? Mi avevano detto che era pericolosissimo smettere il prozac di botto, soprattutto se lo si sta prendendo da anni, come nel mio caso, e che poteva sopraggiungere una crisi seria, un episodio depressivo, che poteva insorgere un attacco schizzoide, o che so. Ma non succedeva niente. Finché ieri l’altro, esattamente due notti fa, ho cercato tra i vecchi dischi quella canzone di Purcell, cantata da James Bowan, ho staccato il telefono, mi sono seduta tranquillamente in poltrona e mi sono messa ad ascoltare la stessa canzone, una volta dopo l’altra, ricordando a ogni nuovo ascolto le note a una a una, le parole, gli accordi, gli arpeggi…» Dipanava le parole in un mormorio ritmato e costante. «Ogni nota era come un pugno dentro e quei pugni trasmettevano tanto calore al mio cuore da farlo scoppiare e sgretolare in frammenti dispersi. La musica ribolliva dentro di me, galoppava nelle mie vene, racchiudeva il mondo, e dentro il mondo me stessa, il mio vero io, rimasto lì dentro in letargo per tanti anni e appena risvegliatosi furioso, ubriaco di entusiasmo. Cristina, riesci a capirlo?»

Annuii lentamente, incapace di dire una parola. Sì, avevo avuto spesso la stessa sensazione ascoltando la musica ma non riuscivo a immaginare che mia sorella potesse averla provata a sua volta, e ancor meno che fosse in grado di descriverla in quel modo.

«E mi sono ritrovata a piangere» ha proseguito lei, con gli occhi grigi fìssi sulla strada, improvvisamente appannati, «come non piangevo da anni, con singhiozzi che minacciavano di squarciarmi il petto. Non riuscivo a smettere di piangere, e quel che conta, Cristina, la cosa più importante è che mi sono resa conto che era la prima volta che piangevo in quel modo da quando papà se n’era andato, credo. E adesso vedo le cose in un modo completamente diverso, Cristina, perché so che l’importante nella vita è quel che hai dentro, si tratta dell’unica cosa che possiedi e che ti porterai alla tomba, e allora, cosa vuoi che ti dica, se Ana ha deciso di lasciare suo marito, se questa è la prima volta che ha il coraggio di essere se stessa, indifferente alle imposizioni degli altri, puoi essere sicura che non sarò certo io a cercare di dissuaderla e che anzi potrà contare sulla mia benedizione per tutto quello che desidera. Mi capisci?»

«Certo» ho sussurrato con un fil di voce. Lo stupore quasi mi impediva di parlare.

«Perché adesso è arrivato anche il mio momento, e credo che mi toccherà ammettere cose che ho continuato a negare a me stessa, credo di dover fare la stessa cosa che ha fatto Ana, e ritrovarmi. Ammettere davanti al mondo che il mio lavoro non mi piace, che non mi piacciono gli uomini, che so… qualsiasi cosa decida di dover ammettere. Ritrovare la bambina coraggiosa che ero e che ho smesso di essere quando sono cresciuta.»

Ascoltavo mia sorella che diceva queste cose, la mia sorella cartesiana, razionalista, empirista, repentinamente trasformata in una mistica, dopo aver visto la mia sorella santarellina, modello di tutte le virtù, irreprensibile madre e sposa, decisa a fregarsene delle conseguenze e a mollare il suo insipido marito, e di colpo ho avuto una sorta di rivelazione. Da bambina qualcuno (mia madre, o Gonzalo, o le suore, o tutti, il mondo intero) aveva deciso che fossimo diverse, che la bambina moderna della pubblicità dell’aranciata Kas non fosse la casalinga che fa il bucato con candeggina Neutrex, e non avesse niente a che vedere con la manager che investe in buoni del tesoro, e invece mia sorella si era rifugiata nel suo ufficio di cristallo nello stesso modo in cui io mi ero rintanata nel mio bar cyber-chic, e Anita si era trincerata nella sua casa di Gastón e Daniela, e Ana si era aggrappata ai minilip come io all’ecstasy e Rosa al prozac, e se per le nostre vene scorre lo stesso sangue dello stesso padre e della stessa madre, chi ci garantisce che siamo poi così diverse? Chi ci dice che, in fondo, non siamo la stessa persona?

La strada serpeggiava attraverso campi ocra e la sera cadeva sul polline dorato. Il grano si agitava al vento in dolci onde gialle. In lontananza, Madrid si stagliava orgogliosa, una mostruosa struttura di cemento, enorme e grigia, all’orizzonte; e la macchina, puntando verso quell’inquietante mole, sembrava una navicella di ricognizione che, dopo un volo tranquillo, tornava alla sua astronave. Madrid, da lontano, sembrava la Stella della Morte. Darth Vader, ho pensato, ecco che arrivano le tue guerriere, aprici la porta.

Non ve l’ho ancora detto: mia madre si chiama Eva. Ma io spero che noi siamo figlie di Lilith.