Capitolo tredici

La sera prima, mentre si preparava per il viaggio a Londra, aveva cercato online Cory. Si era scontrata con un silenzio quasi assoluto. Nonostante le centinaia di articoli su di lui, non c’era quasi nulla scritto o detto da lui. In totale aveva trovato tre citazioni, di cui due sull’uso del colore da parte di Picasso nei ritratti di Dora Maar.

La terza faceva parte di un testo d’archivio sulla sua seconda mostra, una serie di ritratti di giovani attori che aveva incontrato andando di persona a diverse audizioni. Il titolo della mostra era Ambizione. «Quello che mi interessa di queste persone», aveva affermato, «è la loro fiducia, la speranza, la volontà di fare un buon lavoro e avere successo, ma anche, sotto la superficie, non troppo in profondità, la loro vanità, l’arroganza, la paura di esporsi, di fallire pubblicamente. La recitazione è affascinante perché si tratta di una professione egotistica, o perlomeno ha questa reputazione, ma per riuscirci bene bisogna cancellare sé stessi e diventare una tela umana su cui ritrarre qualcun altro».

All’epoca aveva ventisei anni e, a quanto pareva, dopo quella dichiarazione aveva smesso di spiegare le proprie idee. Poco prima di mezzanotte però, era incappata nel rimando a un libro dal titolo L’estraneo allo specchio: gli artisti e l’arte della ritrattistica, pubblicato nel settembre precedente. Con suo enorme stupore, Cory vi aveva contribuito.

Dal treno aveva telefonato a Blackwell’s per sapere se ne avessero una copia in magazzino e ci andò direttamente dalla stazione. Appena varcata la porta, inspirò a fondo per riempirsi i polmoni dell’odore chimico di carta fotografica, come se fosse l’aroma del pane appena sfornato. Nel corso degli anni, lei e Marianne avevano passato settimane là dentro, a guardare poster e cartoline al piano inferiore o a girare tra gli scaffali sullo stretto mezzanino.

Considerato il prezzo, si aspettava un bel libro dalla copertina rigida, invece, quando lo trovò, le parve quasi una rivista, o addirittura un’antologia per studenti, dalla copertina sottile con l’immagine sfocata di uno specchio dalla cornice dorata. Le interviste all’interno, stampate parola per parola in Courier e una semplice impaginazione domanda-riposta, parevano le trascrizioni di un interrogatorio della polizia. Tuttavia, si trattava di un progetto di un certo prestigio: l’indice comprendeva altri due nomi famosissimi.

L’autrice, Elizabeth Rees-Hamilton, forniva una breve introduzione biografica per ogni artista e poi li intervistava nel dettaglio sul loro processo creativo, su come selezionavano i soggetti e organizzavano le sedute, chiedeva se lavorassero o meno a partire da fotografie, quali influenze e preoccupazioni avessero. Gran parte delle interviste era lunga una ventina di pagine, ma un paio superavano le trenta.

Quella di Cory arrivava a sette e l’introduzione occupava quasi tutta la prima. Era ovvio che fosse stato un soggetto difficile. Altri artisti amavano parlare del proprio mestiere; spesso le loro risposte si protraevano per tutta una pagina o anche di più, sfruttando la domanda come punto di partenza per poi spaziare in una discussione più ampia. Cory, al contrario, dava risposte dirette e nulla di più. Nessuna era più lunga di un paragrafo e quella concisione dava un’impressione di impenetrabilità. Di controllo. Alla domanda se volesse spiegare in che modo fosse diverso ritrarre una donna con cui avesse avuto una relazione la sua risposta era stata semplicemente «No».

A tratti, dalla pagina trapelava una certa impazienza. «Io lavoro esclusivamente dal vivo», aveva affermato. «Non uso mai fotografie. Sono pericolose, immortalano una persona in una frazione di secondo ed enfatizzano un solo aspetto rispetto a tutti gli altri: l’aspetto di quel secondo, che magari non è nemmeno veritiero. Le persone si muovono, cambiano… sono mutevoli. Quando dipingo, è questo che voglio cogliere».

«Un compito quasi impossibile?», aveva suggerito Rees-Hamilton.

«Se vuole», aveva risposto Cory, e Rowan se lo immaginò con un’altezzosa alzata di spalle. «Per me», aveva ribattuto, «un ritratto riuscito è multistrato, rivela i segreti nel tempo, proprio come una persona. Chi osserva impara a riconoscere un bel quadro, vi instaura un rapporto. Gli strati di quella conoscenza sono leggeri, fini, proprio come la pittura stessa. Sono sottili. Quando realizzo un ritratto, il mio compito è prendere quella conoscenza, ciò che so della persona, ed esprimerla. Arrivo a conoscere il soggetto in maniera intima, a comprenderlo in un modo in cui forse non veniva più capito, e conosciuto, dall’infanzia».

«Che cosa replica», aveva domandato l’autrice, «a chi la accusa, letteralmente, di smontare a livello psicologico i suoi soggetti, di rimuovere gli “strati” di cui parla fino a lasciarli esposti, smascherati? Nudi».

«Rispondo che è vero, significa che ho realizzato ciò che mi proponevo. Che ci sono riuscito».

Quando Rowan uscì da Blackwell’s, il campanile di St Mary suonava le sei e il marciapiede brulicava di studenti che rientravano dopo una giornata di studio in biblioteca o nei laboratori in Long Wall Street. Attraversando la strada, con gli occhi abbassati, per poco non fu investita da un uomo in bicicletta. «Guarda dove vai, cazzo!», le urlò dietro.

Superato il Wadham, la strada si fece più tranquilla. Oltre gli elaborati cancelli di ferro battuto del Trinity, si estendeva il prato, vuoto e buio, verso le finestre dalla calda luce gialla che pareva remotissima. Senza più il sole, c’era stato un drastico calo della temperatura.

Lei però stava sudando. Greenwood doveva conoscere i metodi di Cory, le sue indagini forensi sul piano psicologico. Non si era preoccupato? Perché le aveva permesso di farlo?

Permesso? D’un tratto udì la voce di Marianne, che rideva incredula. Permesso? Credi che lascerei che fosse il mio ragazzo, o chiunque altro, a decidere quello che posso o non posso fare? Ma per favore.

Sì, perché te l’ha permesso? Sa di Hanna Ferrara, lo sanno tutti. Ma sapeva anche di Greta Mulraine? Un crollo nervoso e un suicidio, e lui ti ha permesso comunque di farlo? Con il tuo passato?

Forse sapeva che lo volevo. Ci hai pensato? Che si possa amare qualcuno abbastanza da permettergli di prendere le sue decisioni?

E lui sapeva quello che volevi? Sul serio? Perché gli ho parlato oggi, Marianne, e secondo me non ti conosceva affatto. Non sapeva quello che contava davvero.

Quando Rowan aprì la porta, Adam era sul gradino illuminato dal lampioncino. Indossava dei jeans e una giacca scura, senza cappotto, ma, quando si chinò per darle un bacio sulla guancia, era caldo, come se in auto da Birmingham si fosse creata una piacevole aria viziata che ancora lo circondava. Rowan provò il solito vecchio fremito, che non passava mai.

«Non c’era bisogno che suonassi», gli disse, facendolo entrare. «Com’era la conferenza?»

«Una stanza senza finestre, un pessimo caffè… Insomma, nella media. Com’è andata a Londra?»

«Oh, bene. Ti va di bere qualcosa? Una birra?»

«Mi piacerebbe, ma è meglio di no».

«Un caffè? Non è di classe come quello di Peter Turk, ma è buono».

«No, grazie. La strada per Cambridge è terribile, tutta in mezzo ai paesi, mai in autostrada. È meglio che mi metta in marcia; probabilmente sarà tutta gelata più tardi». Spostò lo sguardo sul tavolo. «C’è della posta?»

«Qualcosina. È lì dentro».

«Bene». La passò in rassegna e si mise in tasca la lettera della banca e la bolletta della Thames Water. «La pagherò prima che ci taglino l’acqua». Lanciò un’occhiata di sopra. «Bene, faccio una corsa alla scrivania di papà e poi vado. Domattina presto devo incontrare uno studente che sta facendo tutto il lavoro». Sbirciò il libro che lei aveva in mano. «La piccola nobiltà cattolica nella società inglese

«Non immagini quanto sia avvincente».

Sorrise. «Be, allora non ti trattengo».

Accoccolata in un angolo del divano, Rowan rimase in ascolto mentre lui si muoveva nello studio, suonando le vecchie assi del pavimento come i tasti di un pianoforte da accordare. Seb camminava sempre mentre parlava al telefono, tanto che lei se lo immaginava simile a un leone, massiccio e muscoloso, intento a misurare la superficie del tappeto come se fosse una gabbia da cui potesse saltar fuori all’improvviso.

Dopo un paio di minuti, la porta dello studio si richiuse e si udirono dei passi sulle scale. Sulla soglia comparve Adam, con una spessa busta gialla in mano.

«Hai trovato quello che ti serviva?».

Sollevò la busta. «Degli atti di proprietà. Quando le acque si calmeranno, venderemo la casa».

«La venderete?». Lo disse senza pensare; le parole le uscirono da sole di bocca.

«Lo so. Ma dopo quello che è successo…». La luce nei suoi occhi si spense, come se gli fosse appena tornato in mente. «Non riusciamo più a immaginare di vivere qui, io e la mamma. Ogni volta che guardavamo il giardino, pensavamo…».

«No, ma certo». Scosse la testa. «Scusami, solo che è stato uno shock. Non ci avevo pensato. E non riesco a immaginare questo posto senza tutti voi». Non appena lo disse, avrebbe voluto prendersi a calci da sola, ma Adam annuì.

«Esatto».

La sua presenza, seppur breve, aveva reso la casa meno aliena e, rimasta sola, Rowan si trattenne in salotto a guardare la TV. Era troppo turbata per leggere. Pensò di fare una passeggiata per smaltire il nervosismo, ma non le andava di rientrare in una casa vuota. Già prima, alle sei, si era girata due volte in Norham Road, convinta che qualcuno la seguisse.

Cominciava a essere un po’ paranoica riguardo alla casa, come se al calare del sole venisse avvolta da un alone tenebroso, carico di minacce. Non le era mai piaciuto stare sola di notte. Da ragazzina, quando suo padre viaggiava, lei restava alzata fino all’alba, irrigidendosi al minimo rumore all’esterno. Diverse volte negli anni si era appostata vicino alla porta sul retro, con le nocche bianche strette intorno a un coltello in attesa che la maniglia si abbassasse. Poi andava a scuola esausta. Ora, in quella casa se la sarebbe cavata, ma in Fyfield Road era diverso.

La finestra sopra al lavandino non aveva tende e, a fine serata, lavò i piatti con gli occhi bassi. Quando però allungò una mano per chiudere il rubinetto, colse il proprio sguardo riflesso e pensò a Cory alla veglia.

Ti vedo, pareva averle detto con gli occhi. Ti vedo e non ho paura di guardarti.

Si voltò di scatto, con i capelli svolazzanti sulle spalle e, nel farlo, vide un movimento dall’altra parte del vetro. Si sentì raggelare.

Senza esitare, prese la chiave dal piattino a forma di coccinella e la ficcò nella serratura. Con un unico movimento, fece scattare la serratura, spalancò la porta e corse nel patio.

Nulla. Il patio era vuoto. Scrutò il resto del giardino fin dove riusciva a vedere, fin dove avrebbe potuto scappare qualcuno in quel lasso di tempo, ma non c’era nessuno. I rami spogli delle betulle tintinnavano al vento, in un applauso ironico. Doveva aver visto qualcosa sospinto dalla brezza, forse proprio le foglie morte che in quel momento turbinavano ai suoi piedi.