Capitolo quindici

Nel prendere la scatola dall’armadio, la molla della sedia sotto il piede di Rowan cedette. Senza pensarci, lei si aggrappò al ripiano, ma così si tirò dietro tutto il mobile e gli ometti vuoti presero a sbatacchiare spaventati. L’armadio incombeva su di lei, in bilico, e il tempo si fermò. Per chissà quale miracolo, riuscì a ritrovare l’equilibrio e lo spinse con la spalla con tutta la forza che aveva. L’armadio sbatté contro il muro, barcollò e tornò pesantemente al suo posto, tra il tintinnio degli ometti. Rowan abbassò lo sguardo e notò che il pavimento era visibilmente più alto vicino alla parete rispetto ai piedi davanti dell’armadio. Era un grosso blocco vittoriano di legno massiccio, un balordo di un mobile: avrebbe potuto ucciderla. Di certo si sarebbe rotta qualche osso. Con il sangue che le pulsava nella testa, scese con attenzione dalla sedia e, mentre tornava a poggiare il peso sul pavimento, gli ometti continuarono a tintinnare: la prossima volta, la prossima volta.

Sopra la scatola c’era il sacchetto di velluto con il medaglione d’argento che aveva ereditato dalla nonna e la collana di perle della madre. Non le metteva mai se si vedevano, non era il tipo da perle, ma ogni tanto le indossava sotto un maglione a collo alto per sentirle a contatto con la pelle. Erano troppo preziose per rischiare lasciandole a Londra.

Spostò il sacchetto, appoggiò la scatola sul letto e tolse il coperchio, con il solito rumore di aria aspirata. Aveva buttato la busta con il francobollo, ma aveva conservato il biglietto di Marianne e l’aveva messo insieme ai disegni; le era parso il posto migliore.

“Devo parlarti”.

Lo prese con entrambe le mani e fissò le parole, come se potessero rivelarle qualcosa di nuovo. Proprio come la prima volta che le aveva viste, sembravano vibrare di energia.

Perché, Marianne?, si chiese. Per via di Cory? Che cosa sa?

Mentre si truccava, ripassò a mente le sue risposte, come se si stesse preparando per un’intervista. Ti accingi alla battaglia?, commentò una voce secca e Rowan sorrise allo specchio. Avevano scovato quell’espressione in una vecchia traduzione dell’Eneide.

Se non altro, quel giorno aveva un aspetto migliore. Dopo aver dormito male tante notti era stanchissima e così, per svuotare la mente, la sera prima aveva cercato nell’armadietto del bagno degli antistaminici che la mettessero KO. Invece, tra i contenitori di pillole, ne aveva trovato uno di Ambien, un potente sonnifero, prescritto a Marianne. Stando all’etichetta, in origine c’erano ventotto pastiglie, “una la sera al bisogno per dormire”, ma quando si era rovesciata il contenuto sul palmo della mano ne restavano solo cinque. La data era del mese precedente. Aveva rimesso quattro pillole nel contenitore e ne aveva preso una. Quando, venti minuti dopo, aveva spento la luce, si era addormentata quasi all’istante, sprofondata tra le tenebre da pesanti mani.

Le tre meno dieci. In cucina, si assicurò che sul computer non comparisse nulla che la tradisse in caso avesse dovuto usarlo e poi, per sicurezza, cancellò la cronologia.

Tornò al primo piano e aprì la porta della vecchia camera da letto di Seb e Jacqueline. Ci era già stata quando aveva ispezionato la casa, ma solo per poco; aveva capito subito che Marianne non la usava. Pareva che il tempo si fosse fermato anche lì. Non c’era nulla di nuovo o deperibile, niente riviste né piante, eppure non ricordava un museo come lo studio, non c’era la riverenza implicita nell’ordine e nella pulizia che regnavano là dentro. La stanza era pulita, spolverata regolarmente, ma l’aria era stantia, immobile e, anche se le tende alla grande finestra a golfo erano aperte, la luce era stranamente fioca, come se fosse filtrata da uno strato di mussola.

Il lato destro del comò era vuoto mentre nel sinistro c’erano ancora le cose di Seb: calze, boxer di cotone, magliette bianche, maglioni che lei ricordava. Il cassettino più in alto custodiva i suoi occhiali da lettura e un portafoglio scuro di pelle con vecchie carte di credito, la patente e una fotografia sgualcita dal contorno bianco. Rowan lo aprì e la estrasse.

Jacqueline, che dimostrava al massimo venticinque anni, era in piedi su una spiaggia in inverno, con gli stivali ben piantati tra i ciottoli e, sullo sfondo, una massa di alberi spogli e un cielo torbido reso ancor più realistico dalla pellicola e dalla rifinitura lucida della stampa. Indossava un pesante cappotto di lana, con le mani infilate nelle tasche, e i capelli le svolazzavano da un lato del viso mossi dal vento mentre lei guardava il fotografo, con espressione piena d’amore. Venticinque anni: prima di Adam e Marianne, prima di sposarsi. Rowan la osservò in preda a un groviglio di emozioni: nostalgia, amore, orgoglio. Ecco la sua Jacqueline, una donna di sostanza già allora; tuttavia, consapevole di cosa le avrebbe riservato il futuro, avvertì un gran dolore, il fortissimo impulso di proteggerla, tanto che le venne voglia di allungare una mano nella foto e afferrarla, come King Kong, e sottrarla alla storia già scritta per lei. Rowan si sentì ancor più determinata: avrebbe fatto il possibile. L’avrebbe protetta adesso.

Rimise la foto nel portafoglio, richiuse il cassetto e andò alla finestra, nascosta dietro la tenda.

La strada era deserta, la gente era al lavoro e i bambini ancora a scuola. C’erano cinque o sei auto parcheggiate, tra cui la sua vecchia Golf grigio metallizzato, ma nessuna di passaggio. Le spesse tende in cotone lucido sapevano di polvere. Trattenne il fiato e l’unico rumore che sentì fu un uccellino solitario che cantava nell’intrico di rami del salice.

Tuttavia, quando le campane di St Giles suonarono le tre, da Crick Road giunse un’elegante Mercedes grigio metallizzato, che si fermò all’incrocio, svoltò senza esitazione e parcheggiò. Pochi secondi dopo, la portiera del guidatore si aprì e Rowan vide un paio di jeans, un cappotto scuro e una testa rasata. L’uomo chiuse la macchina con il telecomando e, dopo aver visto lampeggiare le luci, si voltò e attraversò la strada. Sul marciapiede, si bloccò per osservare la casa, proprio come lei il giorno del funerale. Chissà che cosa pensava. Il suo viso rivolto verso l’alto non lasciava trapelare nulla.

Ancora nascosta alla vista, Rowan si allontanò dalla finestra e scese silenziosamente al piano di sotto.

Dietro ai vetri colorati si intravedeva la sua sagoma, con la testa tonda e le spalle squadrate. La punta delle orecchie sporgeva appena, come se le avesse tese per ascoltare. Rowan aveva il vantaggio del gradino, ma lui la superava comunque di diversi centimetri. Inspirò per ricomporsi e aprì la porta. La prima impressione: camicia grigia di velluto a coste, cappotto scuro. Occhi grigi.

«Michael? Salve, sono Rowan».

Le porse una mano secca e callosa, ma era ovvio, visto che lavorava con le mani, con matite, pittura e pennelli. Con coltelli.

Lui fece un minuscolo movimento in avanti, invadendo il suo spazio. La cosa più naturale sarebbe stata farsi da parte e lasciarlo andare, ma lei rimase dov’era, costringendolo a farsi indietro e aspettare.

«Ci siamo già visti, vero?», le disse, guardandola negli occhi. «Alla veglia».

«Già». Aprì ancora un po’ la porta e fece un passo indietro. «Prego».

«Grazie». Contrasse il sopracciglio, come a dire che aveva memorizzato quello scambio di battute, che ne aveva preso nota.

Una volta nell’ingresso, si tolse il cappotto. Rowan aspettò per vedere se glielo avrebbe porto o se, senza pensarci, l’avrebbe appeso da sé. Quanto conosceva la casa? Tuttavia, diversamente da quanto pensava lei, Cory non fece nessuna delle due cose e se lo mise sul braccio. Lanciò un’occhiata in salotto e poi su per le scale, come se si aspettasse di veder comparire Marianne.

«Le va un caffè?»

«Certo».

Scendendo in cucina, Rowan si sentì gli occhi dell’uomo sulla nuca, quasi come se il suo sguardo avesse avuto un peso. Mentre lei preparava il caffè, lui gironzolò per la stanza e, con la coda dell’occhio, Rowan lo vide inclinare la testa per sbirciare i libri impilati vicino al divano. Poi si fermò a un’estremità del tavolo, dove c’erano il computer e dei fogli, prese in mano il libro su cui lei stava lavorando, lo girò e lesse la quarta di copertina. La sua sicurezza era impressionante: altra gente avrebbe esitato, avrebbe intavolato una goffa conversazione, invece pareva che lui non sentisse il bisogno di nessuna carineria.

«Lei studia?»

«Per un dottorato. In storia».

«Dove? Non qui».

Rowan non era certa che l’ultima parte fosse una domanda. «No. Non qui», spiegò. «A Londra».

«In quale università?»

«Lei è ben informato. La gente non pensa per forza a Londra come a una città universitaria».

Alzò le spalle. «Ho un’amica che insegna all’Imperial. È americana, una vecchia conoscenza della California, ma adesso vive qui».

Stava per dire che era bello avere vicino qualche vecchio amico, vivendo oltreoceano, ma ci ripensò. Sicuro di sé com’era lui, di certo sarebbe rimasto perplesso all’idea di aver bisogno di qualche volto conosciuto. Il bollitore fischiò e lei riempì la caffettiera. Cory scostò una sedia e appoggiò il cappotto sullo schienale.

Quando gli portò il caffè, lui sollevò un lato soltanto della bocca in un sorriso sghembo. La fissava di nuovo in viso. «Grazie per aver accettato di farlo», le disse. «Lo apprezzo molto».

«Spero di poterla aiutare. A che punto è con il ritratto?»

«A breve comincerò a dipingere». Si avvicinò la tazza e osservò il motivo in rilievo sulla porcellana. «Ho fatto tanti lavori preparatori, molti disegni. Anche Marianne lavorava sodo, per la mostra, quindi non aveva tutto il tempo che avrei voluto, ma mi andava bene così. Se vuoi dipingere persone interessanti, devi mettere in conto che abbiano da fare».

Davvero ragionevole da parte sua, era quasi tentata di dire Rowan.

«Il mio metodo, quel che cerco di fare, è di costruirmi un’immagine il più completa possibile del soggetto. Il punto d’incontro tra personalità, storia individuale e apparenza, quanto la prima influenzi l’ultima. Ecco quello che mi interessa». Bevve un sorso di caffè e rimise la tazza sul tavolo con un gesto misurato. Aveva l’unghia del pollice destro più lunga delle altre, probabilmente di proposito; a giudicare dalla mezzaluna di pittura grigio metallico sotto l’unghia, la usava come strumento.

«Marianne mi affascinava», riprese lui, «più di chiunque altro abbia mai ritratto prima».

«Sul serio?»

«Era così… complessa. Abbiamo parlato molto, per ore e ore, ma più la conoscevo, più mi convincevo che ci fosse dell’altro, un ulteriore strato, qualcosa di fondamentale per capirla, mi segue?».

Rowan sentì una morsa allo stomaco. «Che tipo di cosa?»

«È quello che sto cercando di scoprire».

Mise giù anche lei la tazza. «Scusi se le sembro scortese, ma è sicuro di dover fare il suo ritratto? Adesso, intendo».

«Assolutamente».

«Non sono un’esperta, ma è difficile non conoscere la sua reputazione».

«Hanna Ferrara».

«Sì, ma, da quello che ho sentito, anche per altri suoi lavori. La famiglia di Marianne è in lutto, sta…».

«Marianne voleva che lo facessi».

«Ne ha parlato con sua madre?»

«Ci siamo incontrati al funerale, ci ha presentati James. Lei lo sa».

«Vuole parlare con lei di Marianne?»

«Lo spero. Voglio parlare con tutti quelli che la conoscevano bene». Cory la guardò dritto negli occhi e, da quella distanza, separati soltanto dallo stretto tavolo, Rowan notò che il contorno delle sue pupille era di un blu molto scuro, quasi navy, con filamenti sottili che si snodavano nelle iridi. Il giorno del funerale non gli era sembrato attraente, ma adesso capiva come mai potesse piacere. C’era qualcosa di molto mascolino nel suo viso largo e nel naso grosso, un po’ più lungo alla fine così da assomigliare, visto dal davanti, alla punta di una freccia. Era adunco più che aquilino e, con la testa rasata e le spalle larghe, la faceva pensare agli antichi Romani. Aveva l’aria di un gladiatore. E, sotto al naso, la bocca morbida e piena era particolarmente sensuale. Forza e sensibilità; una combinazione potente. Chissà se Marianne l’avrebbe pensata allo stesso modo. Sì, Rowan ne era certa.

«Come mai avete litigato voi due?», le chiese d’un tratto.

«Perché sono stata un’idiota».

«Com’è schietta».

«Ormai non ha più senso non esserlo. Gliel’ha raccontato?».

Lui scosse la testa.

«È stato subito dopo la morte di suo padre. Lei aveva bisogno di spazio e io non gliel’ho lasciato. È stata una stupidata, lei era così fragile e io troppo egoista per lasciarla in pace». Rowan si sentì arrossire.

«Che peccato. James ha detto che Jacqueline gli ha raccontato che lei era praticamente di famiglia. Per questo è qui adesso, presumo».

Rowan non distolse lo sguardo dal suo. «Se posso aiutarla con la casa, tenendo al sicuro qui i lavori di Marianne, allora è una cosa in meno di cui debba preoccuparsi. Tanto posso lavorare ovunque». Accennò ai fogli. «Sempre che a un certo punto mi torni la motivazione per lavorare. Dovrei fare delle ricerche in un paio di archivi alla Biblioteca Bodleiana, ma non ci sono ancora andata».

Aveva appena assaggiato il caffè, mentre la tazza di Cory era vuota. «Ha visto i suoi nuovi lavori», disse lui. Di nuovo, Rowan non capì se fosse una domanda o una semplice constatazione. «Che cosa ne pensa?».

A disagio nel dare la sua sciocca opinione da dilettante, Rowan si concesse un attimo. «Credo che siano di una potenza incredibile», disse. «La prima volta che li ho visti, soprattutto gli ultimi, mi sono sentita… turbata. Inquieta. Sono arrabbiati, politici. Come ho detto, non sono un’esperta, ma penso che siano splendidi».

Aspettò che ribattesse, che si dicesse d’accordo o meno, invece lui spinse indietro la sedia e si alzò. «Andiamo a guardarli. Sono ancora nello studio, giusto?».

Rowan si attardò per vedere se lui le avrebbe fatto strada ma, ai piedi delle scale, le fece segno di precederlo. Questione di gentilezza o aveva capito le sue intenzioni? Era impossibile dirlo; era così difficile decifrare quell’uomo. Si sentì di nuovo addosso il suo sguardo e, arrivati sul pianerottolo del primo piano, si voltò, ma lui le sorrise, senza il minimo imbarazzo.

«Dove lavorava con lei?», gli chiese.

«Qui, soprattutto, per ottimizzare il tempo. Lavoravamo in base ai suoi orari. Lei faceva le sue cose e poi, quando le serviva una pausa, parlavamo e io disegnavo».

Pur famosissima, ricordò Rowan, Hanna Ferrara si era tenuta dei momenti liberi per le sedute con lui. Considerato quanto la pagavano per ogni film prima che lui le distruggesse la carriera, doveva esserle costato diversi milioni. Al contrario, Marianne aveva costretto Cory, di gran lunga più acclamato di lei, a adattarsi ai suoi orari. Rowan represse un sorrisetto. Ecco la mia amica. Poi però, le venne un pensiero molto più allarmante: se lui era disposto a farlo, allora doveva essere convinto di avere per le mani qualcosa di buono.

«Lavoravate quassù?». Si voltò e vide il suo viso illuminato dalla fredda luce di gennaio che inondava lo studio.

«Sì. È il posto in cui era maggiormente sé stessa».

Rowan emise un verso come a dire “interessante”, ma lui aveva ragione. Da quelle parole però, aveva dedotto anche un’altra cosa: Marianne gli aveva permesso di passare del tempo lassù. Era sempre stata molto protettiva nei confronti del suo studio, anche di quello in Bethnal Green; certo, lasciava entrare la gente, non faceva la preziosa e non era superstiziosa ma, quando erano amiche, lei e Turk erano le uniche persone a cui Mazz permettesse di passare più di pochi minuti nel luogo in cui lavorava.

Quel giorno, sulle assi riecheggiarono due serie di passi. I quadri erano dietro la vecchia parete del bagno, nascosti alla vista, ma Cory andò dritto verso di loro. Rowan rimase indietro per osservarlo. Ecco di nuovo l’apparente mancanza di consapevolezza sociale: non appena aveva visto i quadri, era come se lei avesse smesso di esistere.

Li studiava in modo fisico. Si muoveva di frequente, si allontanava da un quadro e poi si riavvicinava concentrato su un dettaglio. A un certo punto, mise il viso così vicino alla quarta ragazza che Rowan pensò volesse baciarla. Inclinava la testa da un lato e dall’altro, la ritraeva, strizzava gli occhi, portava le dita a pochi centimetri dalle tele e seguiva il movimento dei colori come se li accarezzasse.

Per un paio di minuti, nessuno dei due disse nulla. Il silenzio nella stanza si trasformò in una bolla che li racchiuse entrambi, come se fossero parte del mondo ma al tempo stesso fossero separati da esso. Rowan ripensò al pomeriggio in cui Marianne l’aveva ritratta nuda, a come il tempo le era parso scorrere simile ad acqua.

«Ha ragione». Si girò verso di lei.

La bolla esplose e il mondo tornò di colpo. «Come?»

«Sono splendidi».

Rowan sorrise, orgogliosa di Marianne e sollevata di non essersi messa in ridicolo.

«Ovviamente sono un autoritratto, ma lei lo sapeva».

«Che cosa intende?».

Se lo stava immaginando o Cory pareva deluso da lei?

«Gliel’ha detto lei?», gli chiese.

«Non ce n’era bisogno».

«Che cosa vuol dire? Che soffriva di un disordine alimentare?».

La guardò come se fosse lo scemo del villaggio. «Assolutamente. La conosceva bene?».

Punta sul vivo, Rowan represse la risposta tagliente che aveva sulla punta della lingua.

«Sta esprimendo come si sente», spiegò lui. «Consumata, distrutta dall’interno. Non si tratta di mangiare o non mangiare. Qui tratta di essere mangiata».

Con la faccia ancora in fiamme, Rowan lo seguì di sotto. Era furiosa con sé stessa: l’idea non le era neanche passata per la mente. Non necessariamente lui aveva ragione, ma lei avrebbe almeno dovuto pensarci. E adesso la riteneva una stupida. Ovviamente Marianne non era anoressica, Rowan non l’aveva pensato nemmeno per un secondo. L’aveva detto solo perché lui l’aveva colta in contropiede.

«Era popolare a scuola?», le chiese voltando appena la testa.

«Popolare?». Imbarazzata e arrabbiata, dovette zittire la voce acida che le diceva che in realtà le aveva chiesto se Marianne non avesse potuto fare di meglio in termini di amici. «Be’, non se intende che stava nelle compagnie più quotate», rispose. «Dato che la conosceva bene», non riuscì a resistere, «saprà che non aveva una mentalità di gruppo, però sì, lo era. Era divertente e interessante e alla gente piaceva averla intorno. La invitavano sempre alle feste».

«Ha senso», ribatté lui. Pareva l’inizio di un interrogatorio ma, arrivati nell’ingresso, si bloccò di colpo e si voltò. «Il mio cappotto è in cucina. Lo prendo e poi vado».

Rowan fremeva. Di certo era una differenza culturale, il modo di parlare, ma quell’annuncio la irritò, perché sottintendeva che fosse lui a decidere come funzionavano le cose. Lo sentì scendere le scale della cucina e cercò di immaginare i suoi movimenti, per calcolare quanto gli ci volesse per fare il giro del tavolo e recuperare il cappotto dalla sedia. I secondi passavano. Forse sarebbe dovuta andare con lui. Che cosa stava facendo? Stava per seguirlo quando udì dei passi sulle piastrelle e una serie di rapidi scricchiolii mentre risaliva le scale.

Andò dritto al tavolo con il telefono, prese con naturalezza una penna dal barattolo e scrisse qualcosa sul taccuino. Staccò il foglio e glielo passò, come un medico con una ricetta. «È il mio cellulare. Io ho già il suo, ovviamente. Resterò a Oxford per qualche giorno, quindi…».

«Ah, davvero?»

«Ho prenotato in albergo. Sono appena arrivato in auto da Londra e sono venuto direttamente qui, per cui andrò adesso a fare il check-in, ma tornerò domani. Abbiamo molto di cui parlare».