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Le imprese, prime ad adattarsi

Che il tema della sostenibilità – nella sua accezione ampia – sia oggi imprescindibile lo hanno capito prima di tutto le imprese. O, almeno, quelle più avanzate. A livello internazionale è ormai evidente che ci sono importanti pezzi del sistema che, per diverse ragioni (comunicative e di marketing ma anche di motivazione e legittimazione), hanno ormai adottato la sostenibilità come parte integrante della propria strategia. Il tempo in cui la sostenibilità era un tema solo per i movimenti alternativi è lontano. Pragmaticamente, oggi sono le imprese a farsene promotrici.

A livello economico, la sostenibilità istituisce un nuovo modello di sviluppo in cui valore economico e valore sociale sono ricongiunti in un’ottica di lungo periodo, fino al punto, nei casi più esemplari, di includere gli interessi delle generazioni future.1 Questa tendenza ha trovato una conferma in una ricerca svolta recentemente sulla popolazione delle imprese italiane di medie dimensioni (tra i 50 e i 500 dipendenti), che costituiscono la spina dorsale del nostro sistema produttivo. Dai dati emerge che le imprese di successo (poco più del 20 per cento del totale, almeno 1500) sono quelle che adottano una strategia centrata su tre obiettivi: qualità integrale della produzione; relazioni basate sulla fiducia e il reciproco riconoscimento sia all’interno (con i dipendenti) sia all’esterno (con la filiera dei fornitori con cui si realizza un interscambio collaborativo); attenzione al territorio e all’ambiente circostante. D’altra parte, il gruppo delle imprese che vanno peggio (anche loro circa il 20 per cento del totale) è caratterizzato dalla strategia opposta, che punta tutte le carte su una logica di sfruttamento: del lavoro, dei fornitori, dell’ambiente e del territorio in una lotta quotidiana centrata sul prezzo (Magatti 2015).

Al di là del caso italiano, oggi per molte imprese “la dimensione sociale non è più relegata a essere un output del processo di ridistribuzione messo in atto dalle istituzioni pubbliche, bensì diventa un meccanismo generativo, un input, all’interno di un modello di sviluppo umano integrale” (Mulgan 2006). Quella che Zamagni chiama “impresa civilmente responsabile” (Zamagni, Bruni 2013) si adopera, con gli strumenti a sua disposizione, per accelerare il passaggio da un assetto istituzionale estrattivo (che favorisce la trasformazione del valore aggiunto creato dall’attività produttiva in rendita parassitaria oppure spinge l’allocazione delle risorse verso le molteplici forme della speculazione finanziaria) a uno di tipo inclusivo (che tende a facilitare l’inclusione nel processo produttivo di tutte le risorse, soprattutto di lavoro, assicurando il rispetto dei diritti umani fondamentali e la riduzione delle disuguaglianze sociali).

Concretamente, ciò significa che, ben oltre il tema classico della responsabilità sociale, vi sono oggi imprese disposte a vincolare il raggiungimento del proprio obiettivo economico al soddisfacimento di determinate condizioni definite in relazione ai vari stakeholder della propria attività. Se l’impresa socialmente responsabile è quella che mira ad attuare la democratizzazione della propria governance, e dunque ad attuare il cosiddetto democratic stakeholding, l’impresa civilmente responsabile si assegna l’obiettivo di concorrere a rendere democratico l’ordine di mercato.

Anche se in modo ancora minoritario, sta avendo un forte successo il movimento delle Benefit Corporations, ovvero imprese che, pur rimanendo strutturalmente orientate al profitto, dichiarano anche qual è il beneficio che intendono produrre alla propria comunità di riferimento. L’idea della b Corp è quella di stare dalla parte delle pratiche positive, e come tali innovative, attraverso le quali trovare soluzioni ai problemi globali. I fondatori di BLab indicano il loro valore fondante nel motto: “We stand for something, not against anything”. Diventare una b Corp consente di entrare all’interno di un movimento imprenditoriale per il quale è venuto il momento di ridefinire il concetto di successo nel fare business. In termini pratici, significa pensare a imprese che operano per alleviare la povertà, per costruire comunità più forti e posti di lavoro migliori e per salvare l’ambiente. Il tutto a favore delle generazioni che verranno. Con l’obiettivo di permettere alla società nel suo insieme di godere e di condividere, il più a lungo possibile, una ritrovata prosperità.

Non si vuole dare qui un’immagine irenica della questione. Per le imprese, questo cambio di paradigma è molto complesso e richiede uno sforzo notevolissimo. La concorrenza è agguerrita, i mercati molto frammentati e incerti, il contesto politico-istituzionale contraddittorio. Ma quello che si può affermare è che, tra mille difficoltà e fallimenti, molte delle imprese più innovative – a livello italiano e internazionale – si stanno muovendo in questa direzione.

Dietro questi movimenti che per il momento rimangono ancora tellurici c’è la consapevolezza che il valore sociale e il valore economico sono sempre più difficilmente separabili in una società avanzata. In un citatissimo articolo apparso nel 2011 sulla “Harvard Business Review”, significativamente intitolato Reinventing Capitalism, due autori del calibro di M.E. Porter e M.R. Kramer hanno introdotto l’idea di “valore condiviso”, che mira esplicitamente all’integrazione delle tematiche della responsabilità sociale d’impresa direttamente nei modelli di business aziendali. I due autori propongono di ripensare la catena del valore nei termini di un rapporto più armonico con le comunità in cui queste organizzazioni operano: “In ambiti cruciali […] la catena del valore di un’impresa influenza inevitabilmente – e viene influenzata da – numerose dimensioni sociali, quali l’utilizzo delle risorse naturali e dell’acqua, l’igiene e la sicurezza, le condizioni di lavoro e le parità di trattamento. […] Molte delle esternalità impongono dei costi interni all’azienda anche in assenza di una regolamentazione o di imposte sulle risorse. […] Il nuovo pensiero rivela la congruità tra progresso sociale e produttività della catena del valore” (Porter, Kramer 2011).

Si tratta di una metamorfosi significativa rispetto ai tradizionali programmi di responsabilità sociale di impresa, che si focalizzavano principalmente sulla reputazione e perciò sono sempre rimasti periferici rispetto alla strategia aziendale.2 Secondo Porter e Kramer, il valore condiviso non è responsabilità sociale o mera filantropia, ma un nuovo approccio al perseguimento del successo economico mirante a stabilire relazioni mutuamente vantaggiose tra l’impresa e i contesti di riferimento. Nel quadro di una visione strategica che comporta nuove competenze, nuove conoscenze, nuove soluzioni organizzative e nuovi modelli di governance, allo scopo di arrivare alla comprensione dei bisogni della società, a una maggiore conoscenza delle basi effettive su cui si fonda la produttività aziendale e a una più spiccata capacità di collaborare con organizzazioni senza fini di lucro.

È particolarmente interessante notare che M. Porter è lo stesso autore che nel 1985 scrisse l’articolo già citato nel quale lanciò l’idea di “catena globale del valore”, divenuta fondamentale nelle strategie aziendali dei decenni successivi. Oggi, a venticinque anni di distanza, è lo stesso autore che segnala la necessità di un cambio di paradigma, a partire dalla consapevolezza che, mutate ormai le condizioni storiche di contesto, la sfida per le imprese sia quella di “produrre valore” per e con gli stakeholder così da legittimarsi agli occhi della comunità come soggetto in grado di risolvere, in modo intelligente e non rapace, i problemi della vita insieme.

Un cambio di paradigma che consegue, secondo Porter, non da un comando morale – che sarebbe molto difficile da far accettare – ma da un’analisi realistica della situazione. Per un’impresa che si orienta in questa direzione l’aspettativa è quella di riuscire a ottenere risultati migliori basati su elevata qualità, capacità innovativa e migliore reputazione.

Che il tema lanciato da Porter colga nel segno lo dimostra anche quello che sta accadendo nel mondo della finanza, dove c’è chi si sta rendendo conto di come il rischio di nuovi disastri finanziari metta in discussione i guadagni futuri. Per questo, da qualche tempo ci sono persino fondi speculativi che hanno deciso di orientare almeno una parte dei propri impieghi verso investimenti di più lungo periodo, imparando a includere la sostenibilità ambientale/sociale/economica come criterio di valutazione delle proprie scelte.

È la cosiddetta finanza a impatto sociale (impact investing), un settore che investe in progetti che, oltre a dare un ritorno al capitale investito, generano benefici sociali misurabili. Regno Unito, Usa, Australia e Canada sono i paesi all’avanguardia nell’impact investing. E gli investimenti a impatto si stanno rivelando particolarmente adatti alla costruzione di partnership innovative pubblico-privato, dove il risparmio ottenuto dal settore pubblico nel conseguimento dell’obiettivo sociale viene ripartito tra i diversi partner (privati e pubblici), costituendo di fatto una fonte fondamentale di remunerazione dell’investitore.3

Gli spazi di crescita in questo settore sono molto promettenti, se teniamo conto delle trasformazioni della nostra società. Si pensi, per fare un esempio italiano, al settore della protezione sociale, nel quale lo stato spende 432 miliardi di euro all’anno, pari al 56 per cento della spesa pubblica corrente complessiva. Il problema è che – al netto della spesa per pensioni e per la sanità (rispettivamente il 61 per cento e il 24 per cento) – solo 63 miliardi di euro (pari al 15 per cento della spesa per protezione sociale), sono dedicati a settori come invalidità, sostegno alle famiglie, housing ed esclusione sociale,4 nonostante si tratti di ambiti in forte evoluzione. Come conferma il Rapporto della Social Impact Investment Task Force che, per il periodo 2014-2020, ha stimato in 150 miliardi di euro il gap tra bisogni sociali e spesa pubblica. Secondo Fondazione Sodalitas, nel solo caso italiano il mercato della finanza sociale potrebbe raggiungere, entro il 2020, i 250 miliardi di euro.5 Visto in questa prospettiva, il “valore condiviso” di cui parla Porter non è un wishful thinking che fa appello ai buoni sentimenti, ma un discorso realista che prova a fare i conti con il livello di sviluppo raggiunto dalle società avanzate, le sue sfide e le sue opportunità.

Note

1 Proprio le generazioni future, un soggetto non a caso emerso negli ultimi anni come riferimento nella letteratura economica e sociale internazionale, potrebbero costituire il quarto polo di interessi considerato nel nuovo scambio, il cui vocabolario emerge nel discorso internazionale riguardante la sostenibilità e lo sviluppo in contesti democratici.

2 Una delle maggiori critiche alla Rsi e a quelle imprese che si ergono come paladine di questo paradigma ma, in realtà, lo utilizzano solo ed esclusivamente come strategia di marketing per accrescere i loro profitti, è quella dell’adozione di pratiche di greenwashing. Con il termine ci si riferisce alla volontà di ingannare il pubblico, sottolineando credenziali ambientali di un’impresa o di un prodotto quando queste sono in realtà infondate o irrilevanti. Tale pratica è piuttosto diffusa e i maggiori pericoli sono presenti nelle campagne ambientali. Molto spesso vengono sottolineate caratteristiche del prodotto irrilevanti o superficiali oppure ne vengono evidenziate qualità ingannevoli: giocare sul fatto che l’imballaggio sia riciclabile quando il prodotto stesso è ad alto impatto ambientale non è sicuramente una mossa etica. Il green­washing è un problema molto sentito nell’ambito della comunicazione, difatti un’agenzia di comunicazione del Regno Unito ha creato una Guida al greenwashing per allertare il consumatore e aiutarlo a capire quando una campagna è classificabile sotto tale nome. La guida presenta dieci indicatori da tenere presenti per scovare una campagna ingannevole: 1) Linguaggio fluffy e cioè l’uso di parole con un significato non chiaro. 2) Green products realizzati da dirty companies come per esempio lampadine per il risparmio energetico realizzate però in una fabbrica che inquina i fiumi. 3) Immagini suggestive che danno un ingiustificato significato ecologico al messaggio. 4) Claims irrilevanti, come enfatizzare una piccola caratteristica “verde” quando tutto il resto non lo è. 5) Dichiarare di essere più ecologici degli altri quando gli altri non lo sono affatto. 6) Essere semplicemente non credibili, dicendo che un prodotto dannoso può essere ecologico. 7) Usare termini troppo complicati che solo un esperto può capire. 8) Valorizzare una certificazione apparentemente proveniente da un soggetto terzo ma, in realtà, costruita ad arte. 9) Non fornire prove di ciò che si comunica. 10) Fabbricare totalmente il messaggio o i dati e quindi mentire. (Sobrero, Renna, Ferrari 2009, p. 220).

3 Nel libro La finanza sociale. Pubblico, Privato, Non Profit: le prospettive comuni in Europa e in Italia a cura di P. Galeone e M. Meneguzzo edito da Rubbettino vengono elencati i principali strumenti finanziari usati nella finanza a impatto sociale: “1. Social Impact Bond: un prodotto già sperimentato con successo nel Regno Unito, assimilabile ai titoli obbligazionari. Il meccanismo utilizzato, nell’esperienza britannica, prevede che l’ente locale si impegni a supportare economicamente la realizzazione di un progetto di interesse generale, a fronte del raggiungimento di un risultato; per il finanziamento dell’iniziativa, vengono emessi dei bond, sottoscritti dai soggetti interessati a supportarne la realizzazione. Una volta raggiunto il risultato stabilito – e conclusasi quindi con successo l’iniziativa – l’ente locale erogherà le risorse necessarie a ripagare gli investitori, che deriveranno principalmente dal risparmio economico ottenuto dalla realizzazione del progetto; 2. Social Bonds: si tratta di obbligazioni tradizionali che servono a sostenere finanziariamente le iniziative non profit nel sociale, che oggi soffrono per la drastica riduzione degli investimenti della pubblica amministrazione e per il calo delle donazioni. Sono sociali perché le banche devolvono una quota dell’ammontare sottoscritto ad associazioni ed enti non profit o, semplicemente, perché l’importo raccolto è esclusivamente dedicato ad organizzazioni del terzo settore; 3. Mini Bonds: sono obbligazioni, che possono essere emesse da un’impresa non quotata, il cui principale obiettivo è quello di raccogliere nuove risorse finanziarie, realizzando una diversificazione delle proprie fonti di finanziamento con conseguente attenuazione dei rischi connessi alla forte dipendenza dai canali bancari […]; 4. Borse sociali: si tratta di ‘mercati di capitali’ per le imprese che operano nel settore della social innovation, quali ad esempio la Borsa di Valori Sociali a Lisbona, la London Social Stock Exchange, la Social Investment Business (già ‘Future Builders’), o l’iniziativa della ‘Borsa Sociale’ in Italia; 5. Social Venture Capital and Social Entrepreneurship/Investment Funds: per mezzo di questi strumenti si attiva un nuovo rapporto tra capitali privati, enti locali, organizzazioni non profit ed imprese, anche for profit, ad impatto sociale; 6. Fondazioni comunitarie: l’obiettivo primario delle fondazioni di comunità consiste nella creazione di condizioni che incoraggino la donazione, permettano di democratizzare la filantropia, favoriscano il perseguimento del bene comune all’interno di una data comunità; 7. Microcredito: è a tutt’oggi la parte prevalente della microfinanza. Si basa sulla fiducia che viene data alle persone prive di garanzie materiali per la restituzione del credito concesso. Consiste nella fornitura di servizi di credito ai piccoli imprenditori a basso reddito per l’avviamento e lo sviluppo di impresa; 8. Crowdfunding: una forma di finanziamento/raccolta fondi (di piccoli importi) realizzata tramite piattaforme online, generalmente in favore di iniziative in fase di start-up. Anche in questo caso, la vera sfida è indirizzare le risorse verso forme di finanziamento e non più mere donazioni, accompagnata dall’introduzione di meccanismi di tutela dell’investitore e dei beneficiari […]; 9. Piattaforme di social lending: strumenti che potrebbero sicuramente agevolare il reperimento di nuove risorse per le imprese socialmente innovative – attraverso canali alternativi – ma che attualmente non fanno registrare volumi tali da ritenere che possano sostituirsi alle fonti di finanziamento tradizionali.”

4 Istat, Conti ed aggregati economici delle amministrazioni pubbliche, 2013.

5 Fondazione Sodalitas, Finanza Sociale. Vita, 25 marzo 2015.