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Roma, Galleria Borghese
Gli stivali di pelle nera martellavano sul pavimento dell’atrio. La scalinata era una spirale di marmo guidata da un corrimano in ferro battuto. Dal primo piano giungevano voci maschili. Mancini uscì nell’atrio, fece un cenno di saluto ai due agenti con il giubbotto antiproiettile e proseguì verso l’ultima stanza.
La Sala di Psiche.
Fuori, attorno alla ghiaia, il nastro bianco e rosso della polizia circondava l’intero edificio tenendo a distanza i turisti, delusi per la chiusura del museo, e i curiosi, attirati dalle volanti di fronte all’ingresso. Il sole era alto sopra il tetto del museo e tra le chiome degli alberi i merli fischiavano striduli.
Benché fossero di schiena, Enrico Mancini riconobbe le sagome del questore e dell’ispettore Comello che parlottavano, mentre sulla sinistra due tecnici della Scientifica in tuta, guanti, copriscarpe bianchi e cuffia posizionavano i cartellini e scattavano foto. I quattro impedivano quasi completamente la vista della statua sul basamento che si trovava dietro di loro.
Sul pavimento giaceva il corpo di un uomo in uniforme. Si fermò a un metro e, senza dire nulla, osservò il cadavere. Era riverso sul fianco sinistro e una pozza di sangue rappreso usciva dalla calotta cranica allargandosi per un diametro di una decina di centimetri. Il viso era cereo.
Gugliotti si voltò, imitato da Walter che si produsse in un saluto composto. Il movimento dei due aprì uno spazio visivo tra loro.
«Mancini, finalmente!» esclamò il questore in un tono autoritario che rimbombò nella sala.
Il commissario alzò lo sguardo dritto davanti a sé. Di colpo nell’aria avvertì un che di stantio, di chiuso. Accanto alla statua del Ritratto di Fanciullo, Mancini si ritrovò a posare gli occhi su una scena del crimine che nella sua memoria di profiler non aveva precedenti.
Tre corpi erano sistemati in un’assurda posa plastica. Un uomo dalla stazza imponente si trovava al centro, era nudo. Ai suoi lati, due ragazzi in ginocchio abbracciavano le gambe possenti dell’uomo, anch’essi privi di vestiti. Nella legnosità del rigor mortis sembravano aver assunto le algide fattezze del marmo. Tra loro correva una grossa fune di canapa, forse una cima, in un viluppo che stringeva le gambe, le ginocchia e i busti.
«Ha aspettato che si irrigidissero e poi li ha messi insieme», disse Gugliotti indicando soddisfatto i buchi rossi all’altezza delle caviglie, delle ginocchia e delle braccia da cui spuntavano le teste di grossi chiodi. Il resto del lavoro di messa in posa lo faceva l’abbraccio delle corde.
«Chi sono?» domandò il commissario.
«Il giardiniere e i suoi figli», rispose Comello.
Al di là della postura innaturale della composizione, l’incubo di carne aveva i lineamenti dei tre cadaveri, sconvolti dalla medesima espressione di pena. Era chiaro che l’autore del crimine aveva atteso le prime fasi del rigor mortis per modellare quei corpi e persino i loro volti. Una vibrazione parve attraversare le stanze. Il brivido del vento o l’impressione delle urla di quei poveretti tesi nello sforzo di liberarsi. Era tutto vivo, spettacolare, con i tre visi tesi, le sopracciglia piegate, le narici ingrossate, le bocche aperte.
«Stiamo compiendo il sopralluogo tecnico.» Fu la voce di Gugliotti a ridestarlo. Mancini staccò gli occhi dal complesso di muscoli e corde e li spostò sul superiore.
«Stanno fissando il quadro materiale», continuò Walter.
Mancini gli si accucciò di fianco, incuriosito. «Scena primaria o secondaria?» chiese guardando dal basso in alto l’ispettore Comello.
Nel gergo tecnico esisteva una sequenza di siti coinvolti nell’omicidio: la scena primaria rappresentava il luogo dell’uccisione, mentre la secondaria quello della deposizione, nei crimini in cui l’omicida preparava una sorta di messa in scena. In alcuni casi le due coincidevano. Stavolta non era così.
«Secondaria. Li ha trascinati attraverso il giardino, poi dentro dalla porta e su per le scale. La scena primaria è nell’Uccelliera, a poche centinaia di metri dalla Galleria. Deve averli colpiti con un’arma contundente perché hanno tutti e tre il cranio intaccato.»
«Tutti e tre più uno», precisò il questore indicando il cadavere dell’uomo in uniforme sul pavimento.
«Ma a questi tre ha tagliato la gola con una lama molto sottile. Deve averli dissanguati da qualche parte e poi portati qui e messi in scena», fece Comello.
«Per il rilievo delle impronte latenti, immagino sia un bel casino», disse Mancini. «Dato che siamo in un museo frequentato ogni giorno da migliaia di persone.»
Si rialzò. Sul pavimento c’erano dei cartellini gialli che riportavano numeri neri. Il numero 1 segnalava il punto in cui c’era una ciocca di capelli castani. Il 2 indicava con una freccia nera la fila di impronte che partiva dall’entrata e raggiungeva il punto 1. Un fotorilevatore stava annotando qualcosa sulla forma e sulla natura delle orme. Il numero 3 mostrava un gruppo di gocce di sangue alle spalle del corpo centrale.
«Chi coordina le indagini, dottore? Perché non è qui?» chiese Mancini a Gugliotti.
«Se ne occuperà Giulia Foderà», rispose il questore secco, «ma stamattina era irreperibile.»
Mancini strinse le labbra e fece finta di niente tornando a osservare la scena. L’altro fotografo era Caterina De Marchi. Lo dedusse dal rosso dei capelli che spuntavano dalla cuffia, dalla statura e dagli occhi da gatta che spiccavano sopra la mascherina. E, certo, dalla sua Nikon. Scattava vicino ai corpi, prendendo particolari delle funi, poi scendeva in basso, seguendo le funi che stringevano le gambe dei due ragazzi. Le mani delle tre vittime erano già state imbustate per conservare eventuali tracce rimaste sotto le unghie.
«E questo è il custode», disse il commissario indicando il corpo sul pavimento.
«Lo era», precisò Gugliotti.
Mancini si sollevò e si voltò verso la statua di canapa e carne. «Caterina, hai scattato anche dentro?»
Per «dentro» il commissario intendeva le orecchie, le narici, la bocca e tutto il resto.
«Ho tutto, dottore. Mi pare non ci sia nulla di strano.»
«Quindi possiamo andare», disse Gugliotti.
«Prima dovrebbe vedere questo», disse l’altro fotografo che si trovava alle spalle dell’uomo posato sul basamento. Si spostarono tutti sul retro del corpo centrale. Sulla pelle all’altezza della nuca c’era qualcosa. Un segno.
«È un’incisione, operata con qualcosa di molto affilato, sottile ma irregolare», disse Comello.
«Sembra una elle», aggiunse Gugliotti scrutando i lembi della pelle separati dai pochi millimetri del taglio. Erano bianchi e la pelle gli ricordò la soffice cotenna di un suino. L’incisione era di due centimetri in verticale e uno in orizzontale.
«Chiamiamo Rocchi», propose Walter.
In quel frangente, Caterina si scostò indicando qualcosa in basso, dietro alla composizione di carne: «Oddio».
Gli uomini si scostarono seguendo l’arco del braccio della donna. Dietro di loro, per terra, nella pozza rossa, in corrispondenza della bocca e del naso del custode si era formata un’area chiara. Le sue labbra si stavano muovendo. In cerca d’aria, l’uomo strisciava la mandibola sul pavimento. Boccheggiava come un pesce allo stremo, gli occhi opachi e incavati.
Ancora spalancati nel terrore dell’ultima visione.