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Roma, Villa Angelini
«Mia figlia era una ragazza infelice.»
La voce tremolava assieme al petto abbondante di Francesca Angelini, la madre della cantante trovata cadavere nella vasca degli orsi polari al Giardino zoologico.
La casa dei genitori si trovava a poche centinaia di metri da quella della figlia e dallo zoo. Era una villa hollywoodiana in via dei Tre Orologi, con una piscina a goccia incastonata su un prato all’inglese.
«Da quando era bambina ha sempre avuto problemi di peso, come tutti noi, d’altronde. Ma a me non è mai importato niente, l’unica cosa che avevo in testa era cantare, arrivare lassù. Esibirmi alla Scala. Lo stesso vale per mio marito.»
L’uomo, seduto di fianco alla moglie sul prezioso divano di broccato, la faceva sembrare una silfide tanto era enorme. La barba da Figaro e l’ampia camicia a sbuffi gli conferivano un’aria da personaggio d’opera. Mentre i due parlavano con l’ispettore Comello, Mancini li studiava prendendo nota di tutto, dalle parole ai gesti, e osservava attento gli oggetti che abbellivano il salotto, che sembrava avvolto da una bizzarra aura teatrale. Nella stanza aleggiava un aroma di resina. Il camino incorniciato nel marmo di Carrara scoppiettava allegro. Sulla mensola una dozzina di foto mostrava i due impegnati nell’esecuzione di qualche aria operistica. L’ultima ritraeva la figlia, terza di una fila di ragazzini di fronte a un microfono, probabilmente a un concorso canoro. In quell’immagine Cristina aveva al massimo sette, otto anni, e già la faccia deformata dall’adipe. In fondo agli occhi si leggeva una tiepida rassegnazione e nessun entusiasmo.
La donna lanciò un’occhiata al marito ed entrambi guardarono la cornice sulla mensola del camino con un’espressione contrita. «Ma per lei non era così necessario cantare. Non lo è mai stato.»
«Quand’è stata l’ultima volta che vi siete sentiti?»
«Io ero a New York la settimana scorsa e mercoledì l’ho cercata sul cellulare come faccio sempre quando sono fuori», disse l’uomo. «Volevo sapere come stava. Cristina ultimamente soffriva di una lieve forma di depressione ed ero preoccupato.»
La moglie lo fulminò con lo sguardo, poi si accorse che la cosa non era passata inosservata. «Io ero a Milano e l’ho chiamata dopo aver sentito mio marito. E nemmeno a casa mi ha risposto.»
«Potreste essere più precisi sugli orari?» L’ispettore prendeva nota come faceva di solito su un piccolo taccuino. Appuntava poche parole, schematizzando.
«Io l’ho chiamata verso le diciotto. Ero in albergo, avevo una mezz’ora libera prima che arrivasse la limousine per portarmi al MET, così ho pensato di sentirla.» La parte finale della frase gli uscì incerta, forse per l’imbarazzo.
«Perciò qui a Roma era all’incirca mezzanotte», scrisse Comello.
L’uomo annuì mentre la moglie pensava. «Vediamo, io credo di averla chiamata subito dopo perché lui mi ha avvertita che non era riuscito a sentirla.»
La donna intercettò lo sguardo di Mario Angelini, allungò una mano verso la sua e la strinse forte. «La prima cosa che abbiamo pensato tutti e due è stato un brutto gesto. Perché purtroppo è vero, Cristina non stava bene con se stessa. Era anche in analisi ma senza risultati, evidentemente.»
Le lacrime inumidirono gli occhi del tenore. Si allungò a prendere una manciata di fazzoletti dal tavolo che divideva i coniugi dai poliziotti. Da quasi mezz’ora Mancini li osservava senza intervenire, ma adesso il suo silenzio cominciava a pesare. Sui loro volti aleggiava l’ombra del cerone, ma di occhiaie nemmeno una traccia. Quei due sembravano tutto tranne che sinceri, eppure non avevano nulla da nascondere. No, non era questo. Era stata la finzione che erano abituati a vivere a corromperli, riducendoli a due interpreti delle loro stesse esistenze.
«Un’ultima cosa. Conoscete le frequentazioni di vostra figlia?»
«Purtroppo siamo sempre fuori e...»
«Perché?» intervenne la moglie. «Sospettate qualcuno con cui si vedeva?»
«Al momento non sono state avanzate ipotesi, signora», disse Comello con tono rispettoso. «Ma abbiamo trovato il cellulare di Cristina nella sua camera da letto.»
Francesca Angelini s’irrigidì e le dita si mossero nella morsa del marito.
«Conoscete un certo Andrew Brianson?» La voce era quella di Mancini che per la prima volta prendeva la parola.
«No», rispose il tenore.
«Mai sentito nominare», lo seguì la moglie.
«Sua figlia ha ricevuto un sms poco prima di...» Walter titubò, non era facile dirlo, anche se i genitori già sapevano tutto. «Prima di essere assassinata.»
«Era un sms d’addio. Diceva solo: ’È finita’», aggiunse Mancini.
«Non ne sappiamo niente e, vede, noi vorremmo che di questa cosa se ne parlasse il meno possibile, se capite cosa intendo.»
Il commissario e l’ispettore annuirono trattenendo una smorfia di disgusto. Per rompere il silenzio che si era creato, Walter domandò: «Comportamenti strani nell’ultimo periodo?»
«Mia figlia era una brava ragazza, nonostante qualche brutto sbalzo d’umore. Purtroppo non si è mai confidata con me come fanno le figlie con le madri. Io ero sempre in giro e lei è stata tanto con le colf a cui l’abbiamo affidata negli anni. Cantare a certi livelli è un lavoro enorme e noi eravamo all’apice. Immagino che possiate capire.»
«Aveva un profilo su Facebook, lo sapevate?» chiese il commissario.
«Sì, certo», si sbrigò a confermare l’uomo, tamponandosi gli occhi.
«Sapevate anche che aveva contattato un venditore illegale di antidepressivi?»
«Può essere lui che...?»
Mancini e Comello sapevano che la ragazza era finita nelle mani dello stesso assassino che aveva costruito una copia umana del Laocoonte e sapevano che Andrew Brianson, il mittente dell’sms, era stato già interrogato per diverse ore nel commissariato Salario-Parioli. Figlio di una famiglia di gioiellieri romani, aveva un alibi grosso come una casa perché all’epoca presunta della morte di Cristina Angelini si trovava in un ristorante della zona. Stavano battendo varie piste tentando di incrociare gli indizi di quell’indagine con gli elementi a disposizione del caso del Laocoonte. A questo proposito, Comello aveva condotto la sua ricerca scoprendo che il giardiniere, cinquant’anni, lavorava alla Galleria Borghese da trenta, era vedovo da cinque anni e i figli andavano a scuola nel quartiere. Nessun precedente, nessuna segnalazione da parte dell’Ente giardini pubblici che lo stipendiava. Il custode invece era stato preso dal museo della Galleria Borghese da poco e stava facendo i mesi di prova prima dell’assunzione.
Comello si limitò a rispondere con la solita formula interlocutoria: «Sul fornitore di psicofarmaci non possiamo ancora pronunciarci, signora, la polizia postale sta conducendo le indagini web».
«Dobbiamo chiedervi di restare in città per qualche giorno. Potremmo aver bisogno di una deposizione circostanziata o di altri particolari», aggiunse Mancini alzandosi in piedi. La conversazione era finita.
«Commissario...» La donna sembrava in ansia, la voce insicura. «All’inizio volevamo solo ritrovare la nostra ragazza viva, ma adesso che sappiamo che è... Adesso desideriamo una sola cosa.»
Il marito terminò: «Vogliamo solo la verità. Per favore».