2.
Ho cominciato a parlare a tre anni e chiacchierare non è mai stato il mio forte. Se un estraneo mi rivolgeva la parola rispondevo sí, no, non so. E se insisteva rispondevo quello che voleva sentirsi dire.
Le cose, una volta pensate, che bisogno c’è di dirle?
«Lorenzo tu sei come le piante grasse, cresci senza disturbare, ti basta un goccio d’acqua e un po’ di luce», mi diceva una vecchia tata di Caserta.
Per farmi giocare i miei genitori facevano venire ragazze alla pari. Ma io preferivo giocare da solo. Chiudevo la porta e immaginavo che la mia stanza fosse un cubo che vagava nello spazio desolato.
I problemi sono arrivati alle elementari.
Ho pochi ricordi di quel periodo. Ricordo il nome delle mie maestre, gli oleandri in cortile, le scatole argentate piene di maccheroni fumanti a mensa. E gli altri.
Gli altri erano tutti quelli che non erano mia madre, mio padre e nonna Laura.
Se gli altri non mi lasciavano in pace, se mi stavano troppo addosso, un fluido rosso mi saliva per le gambe, mi inondava lo stomaco e mi si irradiava fino alla punta delle mani, allora chiudevo i pugni e reagivo.
Quando ho spinto Giampaolo Tinari giú dal muretto ed è caduto di testa sul cemento e gli hanno messo i punti in fronte, hanno chiamato a casa.
Nella sala degli insegnanti la maestra diceva a mia madre: – Sembra uno che sta alla stazione e aspetta il treno che lo riporti a casa. Non disturba nessuno, ma se qualche compagno lo infastidisce urla, diventa rosso di rabbia e lancia tutto quello che ha sotto mano –. La maestra aveva guardato a terra imbarazzata. – Alle volte fa paura. Non so... Io le consiglierei di...
Mia madre mi ha portato dal professor Masburger. – Vedrai. Lui aiuta un sacco di bambini.
– Ma quanto ci devo stare?
– Tre quarti d’ora. Due volte a settimana. Ti va?
– Sí. Non è tanto, – le ho detto.
Se mia madre credeva che cosí sarei diventato come gli altri a me andava bene. Tutti dovevano pensare, mia mamma compresa, che ero normale.
Mi accompagnava Nihal. Una segretaria grassa con addosso un profumo di caramelle mi faceva entrare in una stanza con il soffitto basso e che puzzava di umido. La finestra affacciava su un muro grigio. Sulle pareti color nocciola pendevano vecchie foto di Roma in bianco e nero.
– Ma qui ci si mettono tutti quelli che hanno problemi? – ho chiesto al professor Masburger, mentre mi indicava un lettino trapuntato con un tessuto di broccato stinto su cui stendermi.
– Certo. Tutti. Cosí puoi parlare meglio.
Perfetto. Avrei fatto finta di essere un bambino normale con i problemi. Non ci voleva molto a fregarlo. Io sapevo esattamente come gli altri pensavano, cosa gli piaceva e cosa desideravano. E se non bastava quello che sapevo, quel lettino su cui mi stendevo mi avrebbe trasmesso, come un corpo caldo che trasmette calore a un corpo freddo, i pensieri dei bambini che si erano sdraiati prima di me.
E cosí gli raccontavo di un altro Lorenzo. Un Lorenzo che si vergognava a parlare con gli altri ma che voleva essere come gli altri. Mi piaceva fare finta di amare gli altri.
Poche settimane dopo l’inizio della terapia ho sentito i miei parlare sottovoce in salotto. Sono andato nello studio. Ho tolto dei volumi dalla libreria e ho messo l’orecchio contro il muro.
– Allora che ha? – stava dicendo papà.
– Ha detto che ha un disturbo narcisistico.
– In che senso?
– Dice che Lorenzo è incapace di provare empatia per gli altri. Per lui tutto quello che è fuori dalla sua cerchia affettiva non esiste, non gli suscita nulla. Crede di essere speciale e che solo persone speciali come lui lo possano capire.
– Vuoi sapere che penso? Che questo Masburger è un vero coglione. Non ho mai visto un ragazzino piú affettuoso di nostro figlio.
– È vero, ma solo con noi, Francesco. Lorenzo pensa che noi siamo le persone speciali e tutti gli altri li considera non del suo livello.
– È uno snob? Questo ci sta dicendo il professore?
– Ha detto che ha il sé grandioso.
Mio padre è scoppiato a ridere. – Per fortuna. Pensa se avesse il sé micragnoso. Basta, leviamolo dalle mani di questo incapace prima che gli incasini il cervello davvero. Lorenzo è un bambino normale.
– Lorenzo è un bambino normale, – ho ripetuto io.
Piano piano ho capito come comportarmi a scuola. Mi dovevo tenere in disparte, ma non troppo, sennò mi notavano.
Mi confondevo come una sardina in un banco di sardine. Mi mimetizzavo come un insetto stecco tra i rami secchi. E ho imparato a controllare la rabbia. Ho scoperto di avere un serbatoio nello stomaco, e quando si riempiva lo svuotavo attraverso i piedi e la rabbia finiva a terra e penetrava nelle viscere del mondo e si consumava nel fuoco eterno.
Ora nessuno mi rompeva piú.
Alle medie sono stato mandato al St Joseph, una scuola inglese popolata da figli di diplomatici, di artisti stranieri innamorati dell’Italia, manager americani e italiani facoltosi che si potevano permettere la retta. Lí erano tutti fuori posto. Parlavano lingue diverse e sembravano in transito. Le femmine se ne stavano per conto loro e i maschi giocavano a calcio su un grande prato di fronte alla scuola. Mi sono trovato bene.
Ma i miei genitori non erano contenti. Dovevo avere degli amici.
Il calcio era un gioco cretino, tutti a rincorrere una palla, ma era quello che piaceva agli altri. Se imparavo quel gioco era fatta. Avrei avuto degli amici.
Ho preso coraggio e mi sono messo in porta, dove nessuno voleva mai stare e ho scoperto che non era poi cosí schifoso difenderla dagli attacchi nemici. C’era un certo Angelo Stangoni che quando prendeva la palla nessuno riusciva piú a togliergliela. Arrivava come un fulmine davanti alla porta e tirava botte fortissime. Un giorno lo buttano giú con un calcio. Rigore. Io mi metto al centro della porta. Lui prende la rincorsa.
Io non sono un uomo, mi dico, io sono uno Gnuzzo, un animale bruttissimo e agilissimo prodotto in un laboratorio umbro, che ha un unico compito nella vita e poi può morire tranquillo. Difendere la Terra da un meteorite mortale.
E cosí Stangoni ha calciato forte, dritto, alla mia destra e io ho volato come solo uno Gnuzzo sa fare, e ho allungato le braccia e la palla era lí tra le mie mani e ho parato.
Mi ricordo che i miei compagni mi abbracciavano ed era bello perché credevano che ero uno di loro.
Mi hanno messo in squadra. Ora avevo dei compagni che mi chiamavano a casa. Rispondeva mia madre ed era felice di poter dire: «Lorenzo, è per te».
Dicevo di andare dagli amici ma in realtà mi nascondevo da nonna Laura. Abitava in un attico vicino casa nostra con Pericle, un vecchio basset hound, e Olga, la badante russa. Passavamo i pomeriggi a giocare a canasta. Lei beveva Bloody Mary e io succo di pomodoro con il pepe e il sale. Avevamo fatto un patto: lei mi copriva sulla storia degli amici e io non dicevo niente dei Bloody Mary.
Ma le medie sono finite in fretta e mio padre mi ha chiamato nello studio, mi ha fatto sedere su una poltrona e ha detto: – Lorenzo, ho pensato che è ora che vai a un liceo pubblico. Basta con queste scuole private di figli di papà. Dimmi, ti piace di piú la matematica o la storia?
Ho dato un’occhiata a tutti i suoi libroni sugli antichi egizi, sui babilonesi, disposti in ordine nella libreria. – La storia.
Mi ha dato una pacca soddisfatta. – Ottimo, vecchio mio, abbiamo gli stessi gusti. Vedrai, il liceo classico ti piacerà.
Quando, il primo giorno di scuola, sono arrivato davanti al liceo pubblico per poco non sono svenuto.
Quello era l’inferno in terra. C’erano centinaia di ragazzi. Sembrava di stare all’entrata di un concerto. Alcuni erano molto piú grandi di me. Pure con la barba. Le ragazze con le tette. Tutti sui motorini, con gli skate. Chi correva. Chi rideva. Chi urlava. Chi entrava e usciva dal bar. Uno si è arrampicato sopra un albero e ha appeso lo zaino di una ragazza su un ramo e quella gli tirava le pietre.
L’ansia mi toglieva il respiro. Mi sono appoggiato contro un muro coperto di scritte e disegni.
Perché dovevo andare a scuola? Perché il mondo funzionava cosí? Nasci, vai a scuola, lavori e muori. Chi aveva deciso che quello era il modo giusto? Non si poteva vivere diversamente? Come gli uomini primitivi? Come mia nonna Laura, che quando era piccola aveva fatto la scuola a casa e le insegnanti andavano da lei. Perché non potevo fare cosí pure io? Perché non mi lasciavano in pace? Perché dovevo essere uguale agli altri? Perché non potevo vivere per conto mio in una foresta canadese?
– Io non sono come loro. Io ho il sé grandioso, – ho sussurrato, mentre tre bestioni che si tenevano a braccetto mi spingevano via come fossi un birillo: – Sparisci, microbo.
In trance ho visto le mie gambe rigide come tronchi che mi portavano in classe. Mi sono seduto al penultimo banco, vicino alla finestra, e ho cercato di rendermi invisibile.
Ma ho scoperto che la tecnica mimetica in quel pianeta ostile non funzionava. I predatori in quella scuola erano molto piú evoluti e aggressivi e si muovevano in branco. Qualsiasi stasi, qualsiasi comportamento anomalo, era immediatamente notato e punito.
Mi hanno messo in mezzo. Mi hanno preso in giro per come mi vestivo, perché non parlavo. E poi mi hanno lapidato a colpi di cancellino.
Imploravo i miei genitori di farmi cambiare scuola, una per disadattati o sordomuti sarebbe stata perfetta. Trovavo ogni scusa per rimanere a casa. Non studiavo piú. In classe passavo il tempo a contare i minuti che mi restavano per uscire da quel carcere.
Una mattina ero a casa per un mal di testa finto e ho visto in televisione un documentario sugli insetti imitatori.
Da qualche parte, ai tropici, vive una mosca che imita le vespe. Ha quattro ali come tutte quelle della sua specie, ma le tiene una sull’altra, cosí sembrano due. Ha l’addome a strisce gialle e nere, le antenne e gli occhi sporgenti e ha anche un pungiglione finto. Non fa niente, è buona. Ma, vestita come una vespa, gli uccelli, le lucertole, persino gli uomini la temono. Può entrare tranquilla nei vespai, uno dei luoghi piú pericolosi e vigilati del mondo, e nessuno la riconosce.
Avevo sbagliato tutto.
Ecco cosa dovevo fare.
Imitare i piú pericolosi.
Mi sono messo le stesse cose che si mettevano gli altri. Le scarpe da ginnastica Adidas, i jeans con i buchi, la felpa nera con il cappuccio. Mi sono tolto la riga e mi sono fatto crescere i capelli. Volevo anche l’orecchino ma mia madre me lo ha proibito. In cambio, per Natale, mi hanno regalato il motorino. Quello piú comune.
Camminavo come loro. A gambe larghe. Buttavo lo zaino a terra e lo prendevo a calci.
Li imitavo con discrezione. Da imitazione a caricatura è un attimo.
Durante le lezioni me ne stavo al banco facendo finta di ascoltare, ma in realtà pensavo alle cose mie, mi inventavo storie di fantascienza. Andavo pure a ginnastica, ridevo alle battute degli altri, facevo scherzi idioti alle ragazze. Un paio di volte ho anche risposto male ai professori. E ho consegnato il compito in classe in bianco.
La mosca era riuscita a fregare tutti, perfettamente integrata nella società delle vespe. Credevano che fossi uno di loro. Uno giusto.
Quando tornavo a casa raccontavo ai miei che a scuola tutti dicevano che ero simpatico e inventavo storie divertenti che mi erano successe.
Ma piú inscenavo questa farsa piú mi sentivo diverso. Il solco che mi divideva dagli altri si faceva piú profondo. Da solo ero felice, con gli altri dovevo recitare.
Questa cosa, alle volte, mi impauriva. Avrei dovuto imitarli per tutto il resto della vita?
Era come se dentro di me la mosca mi dicesse le cose vere. Mi spiegava che gli amici ci mettono un attimo a dimenticarsi di te, che le ragazze sono cattive e ti prendono in giro, che il mondo fuori di casa è solo competizione, sopraffazione e violenza.
Una notte ho avuto un incubo da cui mi sono svegliato urlando. Scoprivo che la maglietta e i jeans erano la mia pelle e le Adidas i miei piedi. E sotto la giacca dura come un esoscheletro si agitavano cento zampette da insetto.
Tutto è filato piú o meno dritto fino a quando, una mattina, ho desiderato per un istante di non essere piú una mosca travestita da vespa, ma una vespa vera.
Durante la ricreazione di solito vagavo per i corridoi affollati di studenti come se avessi qualcosa da fare, cosí nessuno s’insospettiva. Poi poco prima che suonasse la campanella mi rimettevo al mio banco e mi mangiavo la pizza bianca con il prosciutto, la stessa che compravano tutti dal bidello. In classe c’era la solita battaglia del cancellino. Due schiere che si fronteggiavano tirandoselo contro. Se mi avessero colpito, avrei risposto cercando, se possibile, di non beccare nessuno per non scatenare rappresaglie.
Dietro di me era seduta Alessia Roncato. Parlava fitto fitto con Oscar Tommasi e scrivevano una lista di nomi su un foglietto.
Cos’era quella lista?
A me non doveva fregarmene niente, proprio niente, eppure quella maledetta curiosità, che ogni tanto appariva senza ragione, mi ha spinto a farmi indietro con la sedia per riuscire a sentire qualcosa.
– Ma lo fanno venire, secondo te? – stava dicendo Oscar Tommasi.
– Se ci parla mia madre, – ha risposto Alessia Roncato.
– Ma possiamo andare tutti?
– Certo, è grande... – Qualcuno ha preso a strillare e non sono riuscito a sentire piú niente.
Probabilmente stavano decidendo chi invitare a una festa.
All’uscita mi sono messo le cuffie ma non ho acceso la musica. Alessia Roncato e Oscar Tommasi avevano fatto gruppetto vicino al muro della scuola con il Sumero e Riccardo Dobosz. Erano tutti eccitati. Il Sumero faceva finta di sciare. Si piegava come se facesse lo slalom. Dobosz gli è saltato sulla schiena e fingeva di strozzarlo. Non potevo sapere cosa stesse dicendo Alessia a Oscar Tommasi. Ma gli occhi le brillavano mentre guardava il Sumero e Dobosz.
Mi sono avvicinato a pochi metri dal capannello e alla fine è stato facile capire.
Alessia li aveva invitati a casa sua a Cortina per la settimana bianca.
Quei quattro erano diversi dagli altri. Si facevano gli affari loro e si capiva che erano amici per la pelle. Sembrava che avessero intorno una bolla invisibile nella quale nessuno poteva entrare a meno che non lo volessero loro.
Alessia Roncato era il capo ed era la ragazza piú bella della scuola. Ma non faceva la bona, non cercava di assomigliare a qualcuno, era lei e basta.
Oscar Tommasi era magrissimo e si muoveva come una femmina. Appena parlava tutti ridevano.
Riccardo Dobosz era silenzioso e sempre accigliato come un samurai.
Ma quello che mi piaceva di piú era il Sumero. Non sapevo perché lo chiamavano cosí. Aveva la moto da cross ed era bravo in tutti gli sport, e si diceva che nel rugby sarebbe diventato un campione. Grosso come un frigorifero, le mani che sembravano di pongo, i capelli a spazzola, il naso piatto. Secondo me se il Sumero dava un cazzotto a un alano poteva pure stroncarlo sul colpo. Era in seconda, però non faceva mai lo stronzo con i piú piccoli. Per lui quelli delle classi inferiori erano un po’ come gli acari dei materassi. Esistono ma non li vedi.
Loro erano i Fantastici Quattro e io Silver Surfer.
Il Sumero è montato sulla moto, si è caricato Alessia che lo ha abbracciato come avesse paura di perderselo e sono partiti sgommando. Anche gli altri studenti, piano piano, sono tornati a casa svuotando la strada. Il negozio di dischi e quello di elettrodomestici avevano abbassato la saracinesca per la pausa pranzo.
Ero rimasto solo io.
Dovevo andare a casa, tra una decina di minuti mia madre, non vedendomi, mi avrebbe chiamato. Ho spento il cellulare. Guardavo fisso le scritte fatte con lo spray fino a quando si sono sfocate. Macchie di colore sul muro di un palazzo.
Se Alessia avesse invitato anche me avrebbero visto come sciavo bene. Gli avrei fatto scoprire dei fuoripista segreti.
Io a Cortina ci andavo da quando ero nato. Conoscevo tutte le piste e sapevo un sacco di fuoripista. Il mio preferito partiva dal monte Cristallo e arrivava fino al centro del paese. Si passava nel bosco, c’erano salti incredibili, una volta avevo visto due camosci proprio dietro una casa. Poi potevamo andare al cinema e prenderci una cioccolata calda da Lovat.
Avevo troppe cose in comune con loro. Che Alessia avesse una casa a Cortina non poteva essere una semplice coincidenza. E poi ho capito. Anche loro erano mosche che facevano finta di essere vespe. Solo che erano molto piú bravi di me a imitare gli altri. Se fossi andato anch’io a Cortina avrebbero capito che ero uguale a loro.
Quando sono tornato a casa, mia madre stava insegnando a Nihal la ricetta dell’ossobuco. Mi sono seduto, ho aperto e chiuso il cassetto delle posate e ho detto: – Alessia Roncato mi ha invitato a sciare a Cortina.
Mia madre mi ha guardato come se le avessi detto che mi era cresciuta la coda. Ha cercato una sedia, ha preso un respiro e ha balbettato: – Tesoro, come sono felice –. E mi ha abbracciato forte forte. – Sarà bellissimo. Scusami un attimo –. Si è alzata, mi ha sorriso e si è chiusa in bagno.
Che le era preso?
Ho poggiato un orecchio sulla porta. Piangeva e ogni tanto tirava su con il naso. Poi ho sentito che apriva il rubinetto e si lavava la faccia.
Non capivo.
Si è messa a parlare al cellulare. – Francesco, ti devo dire una cosa. Nostro figlio è stato invitato in settimana bianca... Sí, a Cortina. Vedi che non ci dobbiamo preoccupare... Pensa che dalla gioia mi sono messa a piangere come una cretina. Mi sono chiusa in bagno per non farmi vedere da lui...
Per qualche giorno ho tentato di dire a mamma che era una bugia, che avevo detto quella balla per scherzare, ma ogni volta che la vedevo cosí felice ed entusiasta, mi ritiravo sconfitto e con la sensazione di aver commesso un omicidio.
Il problema non era dirle che mi ero inventato tutto e che nessuno mi aveva invitato da nessuna parte. Era umiliante, ma avrei potuto sopportarlo. Quello che non riuscivo a sopportare era la domanda che di sicuro sarebbe seguita.
«Lorenzo, ma perché mi hai raccontato questa bugia?»
E a questa domanda non c’erano risposte.
In camera, la notte, provavo a trovarne una.
«Perché...»
Ma era come se il cervello mi s’impuntasse contro un gradino.
«Perché sono un coglione». Questa era l’unica risposta che riuscivo a darmi. Ma sapevo che non bastava, sotto c’era qualcosa che non avevo voglia di sapere.
E quindi, alla fine, mi sono lasciato trasportare dalla corrente e ho cominciato a crederci. Ho raccontato della settimana bianca pure al Cercopiteco. Riuscendo ad essere sempre piú convincente. Ho arricchito la storia di particolari. Saremmo andati in un rifugio in alta montagna e avremmo preso l’elicottero.
Ho fatto un capriccio per farmi comprare gli sci, gli scarponi e la giacca nuova. E con il passare dei giorni ho cominciato a credere che Alessia mi avesse invitato davvero.
Se chiudevo gli occhi la vedevo avvicinarsi. Io stavo togliendo la catena dal motorino e lei mi guardava con i suoi occhi blu, si passava le dita nella frangetta bionda, poggiava una Nike sull’altra e mi diceva: «Senti Lorenzo, ho organizzato una settimana bianca, vuoi venire?»
Ci pensavo un po’ e rispondevo tranquillo: «Va bene vengo».
Poi, un giorno, mentre stavo in camera con gli scarponi nuovi ai piedi, lo sguardo mi è finito sullo specchio attaccato all’anta dell’armadio e ho visto riflesso un ragazzino in mutande, bianchiccio come un verme, con le gambe che sembravano ramoscelli, con quattro peli addosso, con un toracetto e quei ridicoli cosi rossi ai piedi, e dopo mezzo minuto in cui lo osservavo con la bocca semiaperta gli ho detto: – Ma dove vai?
E il ragazzino nello specchio mi ha risposto con una voce stranamente adulta: – Da nessuna parte.
Mi sono buttato sul letto con tutti gli scarponi e con la sensazione che qualcuno mi avesse scaricato addosso una tonnellata di calcinacci e mi sono detto che non avevo nessuna idea di come uscire da quel casino che avevo combinato e che se avessi ancora, anche solo una volta, provato a credere che Alessia mi aveva invitato, mi sarei gettato dalla finestra e amen e bye bye e arrivederci e grazie tante.
Era la via piú semplice. Tanto avevo una vita di merda.
– Basta! Devo dirle che non posso andare perché nonna Laura sta in ospedale e sta morendo di cancro –. Ho tirato fuori una voce seria seria e guardando il soffitto ho detto: – Mamma, ho deciso di non andare a sciare perché nonna sta male e se muore quando io non ci sono?
Era un’idea buonissima... Mi sono tolto gli scarponi e mi sono messo a ballare per la stanza come se il pavimento fosse arroventato. Saltavo sul letto e da lí sulla scrivania piroettando tra computer, libri, la vaschetta delle tartarughine e cantando: – Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta –. Uno slancio ed ero appeso alla libreria. – Dell’elmo di Scipio...
Ma che facevo?
– S’è cinta la te...sta.
Usavo la morte di nonna per salvarmi?
Solo un mostro come me poteva pensare una cosa cosí brutta.
– Vergognati! – ho urlato e mi sono gettato sul letto con la faccia contro il cuscino.
Come potevo liberarmi da quella bugia che mi stava facendo impazzire?
E improvvisamente ho visto la cantina.
Buia. Accogliente.
E dimenticata.