3.

Nella cantina faceva un bel caldo. C’era un bagnetto con le pareti macchiate d’umidità. Lo sciacquone non funzionava, ma riempiendo il secchio nel lavandino potevo svuotare il gabinetto.

Ho passato il resto della mattina sul letto leggendo Le notti di Salem di Stephen King e dormendo. A pranzo mi sono fatto fuori mezza tavoletta di cioccolata.

Ero un sopravvissuto a una invasione aliena. La razza umana era stata sterminata e solo in pochi erano riusciti a salvarsi nascondendosi nelle cantine, o nei sotterranei dei palazzi. Io ero l’unico ancora vivo a Roma. Per poter uscire dovevo aspettare che gli alieni se ne ritornassero sul loro pianeta. E questo, per una ragione a me ignota, sarebbe avvenuto tra una settimana.

Ho tirato fuori dallo zaino i vestiti e due confezioni di spray autoabbronzante. Mi sono infilato gli occhiali da sole e il cappello e mi sono spruzzato quella roba in faccia e sulle mani.

Poi, tutto unto, mi sono arrampicato su un comò e ho poggiato il cellulare sulla finestra, dove arrivava a due tacche.

Ho aperto un barattolo di carciofini e me ne sono fatti fuori cinque.

Questa sí che era una vacanza, altro che Cortina.

Lo squillo del telefono mi ha risvegliato da un sonno senza sogni.

La cantina era buia. A tastoni ho raggiunto il cellulare e in bilico su uno scatolone ho cercato di avere la voce squillante. – Mamma!

– Allora come va?

– Benissimo!

– Dove sei?

Che ore erano? Ho guardato lo schermo del cellulare. Le otto e mezzo. Avevo dormito un sacco.

– Sono in pizzeria.

– Ah... Dove?

– Sul corso... – Non ricordavo il nome della pizzeria dove andavamo sempre a mangiare con la nonna.

– La Pedavena?

– Esatto.

– Com’è andato il viaggio?

– Perfetto.

– E il tempo com’è?

– Ottimo... – Forse stavo esagerando. – Buono. Non c’è male.

– Neve?

Quanta neve ci poteva essere? – Ce n’è un po’.

– Tutto bene? Hai una voce strana.

– No. No. Tutto bene.

– Passami la mamma di Alessia cosí la saluto.

– Non c’è. Siamo solo noi. La mamma di Alessia è a casa.

Silenzio. – Ah... Domani però ti chiamo e mi ci fai parlare. Sennò fammi chiamare tu.

– Va bene. Adesso però ti devo lasciare che sono arrivate le pizze –. E poi rivolgendomi a un cameriere immaginario: – A me... A me quella con il prosciutto.

– D’accordo. Ci sentiamo domani. Lavati, mi raccomando.

– Ciao.

– Ciao tesoro. Divertiti.

Non era andata male, me l’ero cavata. Soddisfatto ho acceso la playstation per giocare un po’ a Soul Reaver. Ma continuavo a riflettere sulla telefonata. Mamma non avrebbe mollato, la conoscevo troppo bene. Quella se non parlava con la madre di Alessia poteva pure partire per Cortina. E se le raccontavo che la signora Roncato sciando si era rotta una gamba e stava all’ospedale? No, dovevo trovare qualcosa di meglio. Ora però non mi veniva.

L’odore d’umidità cominciava a darmi fastidio. Ho aperto la finestra. La testa mi passava giusta giusta attraverso le sbarre.

Il giardino della Barattieri era coperto da un tappeto di foglie marce. Un lampione spandeva una luce fredda che cadeva sul cancello nascosto dall’edera. Attraverso il verde riuscivo a intravvedere il cortile. La Mercedes di mio padre non c’era. Doveva essere andato a cena fuori o a giocare a bridge.

Sono tornato a letto.

Mamma era tre piani sopra di me e sicuro stava stesa sul divano con i bassotti arrotolati sui piedi. Sul tavolino il vassoio con il latte e il ciambellone. Si sarebbe addormentata lí, davanti a un film in bianco e nero. E mio padre, tornando, l’avrebbe svegliata e portata a letto.

Mi sono messo le cuffie e Lucio Battisti ha cominciato a cantare Ancora tu. Me le sono tolte.

Odiavo quella canzone.