Nostalgie e altri disastri
Zac, zac, ogni pedalata è uno schizzo alla balza dei pantaloni. Procediamo sulla pista ciclabile, io davanti, lei dietro, mentre il traffico di viale Gramsci ci sfreccia di lato.
Non avevo previsto di tornare sui luoghi della mia infanzia e ancor più singolare è arrivarci in bicicletta, come ai vecchi tempi. Quando Micaela me l’ha proposto, indicandomi nella rastrelliera due biciclette arrugginite, ho reagito con una risata incredula: «Non hai l’automobile?».
«Non più. Avevo una vecchia Panda, 250.000 chilometri, pensa, poi è morta e non l’ho sostituita. Cosa vuoi, ci si affeziona.»
«E quando vai a fare i mercati?»
«Ah, allora vado col furgone del mio amico.»
Non riesco proprio a immaginare la principessa Micaela issata su un furgone stracarico di carabattole. Mi sono chiesta quale percorso a ritroso abbia compiuto in tutti questi anni. Di solito col passare del tempo tutti tendono a una vita più stabile e più comoda, una sorta di risarcimento alla fatica di vivere e alla vecchiaia che avanza. Lei invece sembra cristallizzata in una dimensione di eterna adolescente. Eppure le rughe che nella luce del mattino le solcavano il viso ai lati degli occhi e intorno alla bocca dimostravano che gli accadimenti della vita hanno lasciato una traccia anche in lei.
Era una ragazza quando è partita per Londra e da allora, anzi, da prima, si può dire che ne ho perso le notizie. Qualche telefonata di circostanza, qualche incontro fugace, ma non ho mai saputo nulla di come ha vissuto, chi ha incontrato, chi ha amato. Ignoro i sogni, le esperienze, le gioie, i dolori, le delusioni che hanno scolpito la sua materia fino a fare di lei questa sessantenne con la treccia che ora mi sta osservando con le mani appoggiate sul manubrio. Forse anche lei in quel momento si poneva le stesse domande e si chiedeva quanto sangue e quante budella fossero occorsi per trasformare la bambina timida dei suoi ricordi nella signora elegante che scartava con fare di sufficienza l’ipotesi di inforcare una bicicletta.
«Perché no?» ho concesso «In fondo mi va di fare una girata.»
Ma quando mi ha sventolato davanti al viso le chiavi di casa della zia proponendomi di farci un salto, allora mi sono ribellata: «No! Che ci vengo a fare?».
Micaela ci ha pensato su un attimo: «Forse preferisci andare al cimitero a trovare il babbo e la mamma».
«Andiamo a casa della zia.»
Pensavo di passare tutta la mattina dal notaio e poi di comprare qualcosa per Gianfranco e le ragazze. Invece il notaio ci ha liquidate in mezz’ora. Il tempo di sederci davanti alla scrivania con le gambe a zampa di leone, falso Seicento fiorentino, di allungare lo sguardo sulla libreria di legno scuro con le ante a rete per proteggere i libri dalla polvere e lui già ci porgeva con mano tremolante i documenti da firmare. La zia si era trovata un legale della sua età, ho pensato, e ho sollevato automaticamente gli occhi al diploma di laurea appeso al muro: 1958.
Ho firmato senza controllare l’atto di successione e quello di donazione a mia sorella, desiderosa di liberarmi al più presto dell’odore di muffa che aleggiava nella stanza.
Ed eccomi qui, a pedalare veloce, alleggerita di mezzo appartamento e libera da zavorre.
Zac, zac, i raggi cigolano e assecondano i pensieri.
Questa mattina mi sono alzata col cerchio alla testa, più stanca di quando sono andata a letto. Ho raggiunto barcollando il bagno e lei era lì, vestita di tutto punto, che si rifaceva la treccia davanti allo specchio. Le mani si muovevano agili e rapidissime tra i capelli e in quel momento mi sono accorta che il dorso è pieno di macchie color caffellatte, segno inequivocabile della senilità imminente.
Fino a tredici anni Micaela è stata bruttina. A parte gli occhi, enormi, cangianti dal verde al grigio a seconda del cielo e del suo umore, era troppo ossuta, troppo angolosa per attirare complimenti inteneriti. Inoltre, a differenza di me che ero mansueta e sorridente, aveva un carattere ombroso, ribelle, incline a bizze interminabili che facevano impazzire la mamma.
Abbiamo giocato insieme per molti anni. Io, in qualità di sorella minore, la seguivo e la imitavo in tutto, lei, in cambio del potere che esercitava su di me, mi degnava della sua compagnia, pur sottoponendomi a dispetti terribili.
In estate la domenica andavamo a Tirrenia. Ci strizzavamo nell’Anglia di seconda mano, di cui credo possedessimo in tutta Italia l’unico esemplare, tra le borse degli asciugamani, le sedie pieghevoli e il cesto da picnic. Andavamo al bagno L’Approdo, che aveva un arco di cemento all’ingresso con i delfini blu dipinti sul muro.
Sguazzavamo in mare, mentre la mamma, allungata sull’asciugamano, prendeva il sole. Poi mangiavamo l’insalata di riso sotto l’ombrellone e dopo rimanevano quelle tremende tre ore in cui era vietato fare il bagno. La mamma sonnecchiava, il babbo leggeva il giornale sulla sdraio.
Per diversi anni io e Micaela in quelle ore giocammo insieme. Costruivamo castelli di sabbia oppure strisciavamo sotto i patini arenati, pronte all’arrembaggio.
Ma una domenica non volle più giocare. Si distese a pancia in giù a sfogliare un giornalino, mentre io, imbronciata, mi costruivo un letto di sabbia. Mi ci ero rotolata a lungo nella speranza che mi raggiungesse. La rena nelle mutandine mi irritava la pelle. A tratti sbirciavo mia sorella, a tratti il mare, immobile nella calura estiva, che rimandava bagliori d’acciaio. Si sentiva solo lo sciabordio debole della risacca.
Improvvisamente Micaela lasciò l’ombrellone e attraversò il tratto incandescente di spiaggia che la separava dalle cabine. Camminava a balzelli, in punta di piedi, e i glutei ancora infantili si irrigidivano ad ogni passo. Era in quell’età ingrata, tra l’infanzia e la pubertà, in cui il corpo risponde a regole capricciose e disarmoniche. Indossava mutandine a fiori bianchi e blu con le alette e un reggipetto a fascia che copriva due piccoli seni appuntiti.
Il babbo alzò gli occhi dal giornale: «Dove vai?».
«A cambiarmi il costume.»
Seduta sulla sabbia, non perdevo un movimento di mia sorella. La vidi scomparire dentro la cabina e uscire poco dopo con un costume a pallini rossi. Percorse la passerella di legno che costeggiava le cabine e scomparve dentro il bar del bagno.
«Vado anch’io» annunciai alzandomi.
«Nell’acqua no» intimò la mamma senza aprire gli occhi.
«Voglio un gelato.»
Rimasi in piedi davanti a lei, facendo il broncio.
La mamma sbuffò, si sollevò a sedere sull’asciugamano e si mise a rovistare nel borsone accanto a lei. Poi mi porse cento lire. Attraversai di corsa la spiaggia, scuotendo dagli zoccoli i granelli roventi.
Micaela era davanti al juke box, le mani poggiate sul vetro e dondolava ritmicamente a suon di musica. Cantava assorta, seguendo le parole della canzone: La pioggia cade su di noi, guardiamo un mondo vecchio che non ci piace più, ma che colpa abbiamo noi. Io mi misi al suo fianco assumendo la sua posa e cantando insieme a lei.
«Hai soldi?» mi chiese al termine della canzone.
Aprii la mano e mostrai la moneta: «Però scelgo io».
«Che strazio!»
Alla fine trovammo un compromesso. Una canzone la sceglieva lei, una io e per la terza facevamo a pari e dispari. Vinsi io e imposi Tu sei quello di Orietta Berti.
«Dio, che barba!»
Restammo a guardare il braccio meccanico alzato sulla rastrelliera che girava fino a fermarsi sul 45 giri selezionato. Poi lo afferrava, lo sollevava e lo deponeva sul piatto. A quel punto entrava in funzione la leva con la puntina e iniziava la musica.
Malgrado gli accordi Micaela cercava di condizionare le mie scelte: «Invece di Orietta Berti ci sarebbe Ma che colpa abbiamo noi».
«Non mi piace.»
«Come non ti piace, è fortissima!»
«Non mi piace. E poi l’hai già sentita.»
«Sei una cretina.»
«Tu sei cretina.»
«Allora sei una bucaiola.»
Diventai rossa dalla rabbia: «Non è vero!»
«È vero.»
«E tu sei sensuale!»
Non so dove avessimo sentito il termine “bucaiolo”. Ovviamente ne ignoravamo il significato, non mi è del tutto chiaro neanche oggi, ma eravamo assolutamente certe che si trattasse di un’offesa infamante. Quanto a “sensuale”, rientrava nelle parole che i grandi per una pruriginosa censura dell’epoca pronunciavano abbassando la voce, e questo bastava.
«Io non sono sensuale. Tu sei sensuale. E bucaiola!»
«Buone, bambine!» ammoniva pigramente il padrone da dietro il banco «Sennò chiamo i vostri genitori.»
Fu una delle ultime volte in cui, pur fra mille bisticci, comunicai con Micaela.
Poco tempo dopo le spuntarono i peli sotto le ascelle e cominciò a rifiutarsi di dividere il bagno con me. Passava il tempo libero con una compagna di classe, tale Letizia da me odiata selvaggiamente, eletta di punto in bianco sua confidente e amica del cuore.
Restavano in camera sua a pomeriggi interi a parlottare fitto fitto e a ridacchiare e se mi affacciavo mandava gli occhi al cielo e mi sbatteva la porta in faccia.
Contemporaneamente avveniva la sua metamorfosi fisica che me la rendeva ancora più dolorosamente estranea: mentre le sue coetanee si riempivano di brufoli, lei, che era già molto alta, cominciò ad arrotondarsi, a mettere su il seno, fianchi stretti ma torniti, ad addolcire i lineamenti del viso, fino a trasformarsi in un’adolescente radiosa, che suscitava l’ammirazione generale. Nemmeno il trucco pesante e maldestro con cui prese l’abitudine di imbrattarsi gli occhi riusciva a scalfire la sua bellezza.
«Da chi avrà preso?» dicevano compiaciuti i miei genitori. In realtà sapevamo bene tutti da chi aveva preso: dalla nonna Agnese, quella morta prima che nascessi, come dimostrava una foto incorniciata sul comodino della mamma. Da questa nonna dal carattere impossibile, come dicevano tutti, ma dalla bellezza folgorante, che aveva lasciato a me un brutto nome e a mia sorella tratti perfetti.
Io intanto ingrassavo, mi allargavo nel viso, nella pancia, nelle cosce.
«Sembri un maiale» mi diceva lei con disprezzo e più me lo diceva più mi ingozzavo di dolci e di pastasciutta.
Poi andai alle medie e presto mi feci anch’io un’amica del cuore, anzi, due. I maschi qualche volta mi prendevano in giro, mi chiamavano “Ciccio bomba” e scimmiottavano il mio modo di correre, ma io li mettevo al loro posto a suon di sberle e loro mi temevano e mi rispettavano. Inoltre andavo benino in tutte le materie ed ero generosa nel passare la brutta copia nei compiti in classe, il che mi procurò una certa popolarità.
Pedalo, portata dai miei pensieri, la strada scorre liscia come l’olio, non mi accorgo dei quartieri che si susseguono, non mi accorgo nemmeno di essere davanti al cancello di ferro al numero 6. È aperto, come una volta, come è sempre stato. Percorriamo il breve vialetto in silenzio e sbuchiamo nel cortile interno delimitato da diverse palazzine a due piani.
Da bambina quel cortile mi pareva immenso e così era rimasto nei miei ricordi. Ora invece realizzo che è piuttosto piccolo. Ha forma rettangolare e tutto intorno si affacciano i portoni e le finestre delle case. Quando venivamo a giocarci era sterrato e completamente sgombro, ora invece è asfaltato e occupato da alcune automobili parcheggiate a pettine. Dalle finestre sbarrate deduco che molti appartamenti sono disabitati. Le facciate sono scrostate, in stato di trasandatezza e si capisce che tutto il complesso, che aveva alimentato in me tante fantasie infantili, attende solo un’impresa edile per essere demolito e rimpiazzato da un centro commerciale.
Ci guardiamo intorno come ipnotizzate, con le biciclette appoggiate al fianco.
Questo cortile più di ogni altro luogo è legato ai ricordi della mia prima infanzia, quando due bambine potevano ancora percorrere da sole il tratto di strada da via Cento Stelle a via Marconi senza rischiare di essere travolte da un’auto.
In questo cortile noi bambine abbiamo trascorso interminabili pomeriggi estivi.
Venivamo spedite qui per vari motivi: o perché i nostri genitori dovevano uscire o perché volevano riposarsi dopo pranzo e ogni volta che in casa c’era aria di burrasca.
Qui trovavamo sempre altri ragazzi, quelli delle case intorno, dieci, a volte anche quindici di età variabile dai cinque ai dieci anni. E Sergio, naturalmente. Micaela e io eravamo le uniche femmine, così ci adattavamo di buon grado ai giochi dei maschi. Di solito ci dividevamo in due squadre nemiche: indiani e cowboy, ladri e poliziotti, russi e americani, nazisti e partigiani, anche se queste due ultime definizioni non mi erano chiare. Quello che mi era chiaro era che dovevo menare le mani senza esclusione di colpi. Ne buscavo sempre, ma nel momento di maggiore pericolo, quando mordevo la polvere con un ragazzotto a cavalcioni sulla schiena, immancabilmente Micaela accorreva in mio aiuto. «Lasciala stare, le fai male, bucaiolo!» E menava grandi colpi con quelle sue mani ossute come mestoli.
Micaela adorava quei giochi violenti. Anche se non era la più grande di età, sovrastava tutti in altezza e un po’ per questo, un po’ per il suo temperamento volitivo rivestiva quasi sempre il ruolo di comandante. Io, in quanto la più piccola, avevo sempre un ruolo di gregario: facevo il palo coi ladri, Rin Tin Tin coi cowboy. Accettavo senza protestare, sognando in cuor mio un tranquillo gioco di bambole. Però mi battevo con onore e questo apprendistato mi tornò poi comodo alle medie per difendermi dai dileggi dei compagni di classe.
Alcune volte ero in squadra con Sergio, altre in quella avversaria, ma sempre avrei dato la vita per lui. Aveva due anni più di me, era esile, con due occhioni azzurri e un caschetto biondo che ondeggiava ad ogni movimento. Per questa pettinatura lo chiamavano “femminuccia” e lui difendeva la sua reputazione a suon di pedate.
Lo vedevo sferrare colpi disperati, più spesso soccombere, disteso per terra, sotto il peso dei ragazzi più forti, sempre indomito, e lo credevo l’incarnazione della piccola vedetta lombarda che tanto mi aveva commosso e affascinato quando mia madre mi leggeva il libro Cuore.
Credo di essermi innamorata di lui già allora, quando non sapevo nulla dell’amore e mi era poco chiara anche la distinzione tra maschi e femmine.
Siamo cresciute così io e mia sorella, come due maschiacci, quando il cielo era di un azzurro che non ho mai più visto e un bicchiere d’acqua del rubinetto, di cannella si diceva a Firenze, con un po’ di zucchero pareva la più squisita delle leccornie.
«Siete due selvagge» ci diceva la zia, ma quando gli altri se ne erano andati ci dava la merenda.
Seduti sul gradino, con le ginocchia sporche di terra e una fetta di pane con l’olio in mano, Micaela, Sergio e io ci abbandonavamo alle confidenze.
«Cosa vuoi fare da grande?»
Micaela era certa che sarebbe diventata una grande pittrice e che i suoi quadri sarebbero stati esposti agli Uffizi, accanto alla Primavera del Botticelli che il babbo ci aveva portato a vedere. Sergio avrebbe fatto l’astronauta come Gagarin, io ero incerta tra il pompiere e la ballerina di varietà.
«Come le gemelle Kessler?» chiedeva lui.
«Come loro.»
«Tu vuoi essere Alice o Helen?»
«Mah, ancora devo decidere.»
Sentivo mia sorella canticchiare tra i denti «Ciccio bomba ballerina».
«Però mi sa che faccio il pompiere.»
L’ingresso della palazzina è in penombra, solo un fascio di luce proveniente dalla finestra in alto disegna un cono sul vecchio pavimento a losanghe. Mentre Micaela armeggia con le chiavi alla porta di casa della zia, i sensi si dilatano, mi investono, come se le vivessi in questo momento, percezioni remote. Mi sembra perfino di sentire l’odore di cavolo stagnante al piano di sopra. Schegge di ricordi: il profumo delle castagne arrostite sulla stufa a legna, i richiami squillanti dell’arrotino, le fughe precipitose mentre la zia ci inseguiva con la scopa in mano «I bambini cattivi diventano ciechi» e le verifiche successive. Chiudi un occhio, chiudi l’altro. «Ci vedi?»
Entriamo nell’appartamento. Nel buio totale ci aggredisce un tanfo di medicinali e di urina. Corriamo ad aprire i vetri e le imposte.
La luce del giorno, che penetra obliqua come in tutti i piani terreni, illumina il corridoio. Sul lato destro si aprono in fila la porta a vetri opachi del bagno, la camera di Sergio, la camera della zia, il salotto. In fondo, sulla parete opposta alla porta d’ingresso, la cucina, la stanza più grande. Anche questa volta soffro lo sfasamento tra passato e presente: il corridoio non è così lungo come nei miei ricordi e tutto l’appartamento mi pare molto più angusto.
Ci guardiamo intorno, cautamente, nel tentativo di trovare un segno familiare. Il corridoio è spoglio, spariti i quadri e il grande orologio a pendolo. In quella che era stata la camera di Sergio, solo una branda, un comodino e un piccolo armadio. Nessuna traccia dei suoi libri, dei suoi manifesti alle pareti, dei trofei vinti a tennis.
«La camera della badante» spiega Micaela in un sussurro.
La stanza della zia è ancora più triste. Resistono solo il grande armadio con lo specchio lungo e il comò. Nel mezzo, un letto di metallo con i cancelletti ai lati e le tracce di una lunga, dolorosa invalidità: il treppiede metallico della flebo, una padella che spunta da sotto.
Mia sorella legge l’orrore nei miei occhi e per non risparmiarmi nulla mi racconta per filo e per segno le tappe di quel calvario: un ictus che aveva costretto la zia in carrozzina, poi la perdita progressiva di coscienza, infine tre anni a letto in stato semivegetativo.
I nostri genitori sono morti relativamente giovani, in tre mesi se ne sono andati entrambi. Meglio così, penso, se l’alternativa è questa.
Salotto e cucina sono gli stessi, ma ridotti all’essenziale. Eliminate le piante, i soprammobili, tutti gli orpelli superflui che fanno di un alloggio una casa. Rimasto solo l’indispensabile a superare il lasso di tempo prima del trasloco definitivo.
«Come sai queste cose?» chiedo a Micaela.
«Qualche volta venivo a trovarla.»
Legge lo stupore nei miei occhi: «Qualche volta, finché è stata cosciente».
«Non ti cacciava?»
«Con l’ictus si era parecchio ammorbidita. Pareva le facesse piacere.»
«Vedi,» ribatto acida «è giusto che questa casa la prenda tu. Lei avrebbe voluto così. Non mi ha mai potuto sopportare.»
In realtà mi chiedo chi avesse sopportato mia zia, ad eccezione di suo figlio. E anche su di lui aveva riversato un amore tirannico che lo aveva indotto a squagliarsela. Anche con mia madre, malgrado si frequentassero regolarmente, non andava d’accordo. Erano troppo diverse: la mamma era solare, aperta, incline all’ottimismo, lei era rancorosa, diffidente, tendenzialmente maligna. Raramente l’ho vista sorridere o indulgere ad affettuosità. Si scioglieva solo con Sergio, unico figlio di madre prematuramente vedova.
Malgrado fossero quasi coetanee, aveva con mia madre l’atteggiamento supponente della sorella maggiore: spesso sentivo rimproverarla di essere troppo indulgente con noi e che il preside, così chiamava mio padre, fuori dai suoi libri era uno smidollato buono a nulla.
Così va in quelle dinastie su cui pesa la condanna di generare solo figlie femmine. Per la verità loro avevano avuto anche un fratello, di diversi anni più grande, spedito in Grecia e mai più tornato. Morto in guerra, era la versione ufficiale; punito per avere interrotto una catena genetica al femminile, è la mia versione.
La zia era nata vecchia, la mamma è sempre rimasta una ragazza. Era nata troppo presto per pretendere una realizzazione personale fuori dal matrimonio e troppo tardi per accontentarsi di fare la casalinga. Era l’ultima di tre fratelli e i nonni avevano fatto grandi sacrifici per farla diplomare al conservatorio in pianoforte. Forse da questo derivava l’acredine della zia, che era andata a imparare il mestiere di sarta quasi bambina e poi aveva sposato un ferroviere che sorrideva sotto i baffoni biondi da una cornice sul comò. Il ferroviere era morto quasi subito, lasciandole un figlio di pochi mesi e una modesta pensione che insieme ai lavoretti di cucito le aveva permesso di andare avanti.
Mia madre sognava di fare la concertista, ma si accontentò dopo anni di dare lezioni private alla scuola di musica di Fiesole. «Tanti sacrifici sprecati» le ricordava di continuo la zia.
In salotto avevamo un pianoforte verticale, un catafalco nero che splendeva di granelli di polvere per quanto venisse lucidato. Micaela e io ci ritiravamo inorridite quando la mamma tentava di insegnarci, ma mentre lei suonava restavo incantata a guardarla. Non era la musica a rapirmi, ma il fluttuare delle mani che si sollevavano in volo sulla tastiera per poi sfiorarla leggere o gettarcisi sopra in picchiata come due tortore nella stagione degli amori.
Come tutti gli artisti viveva momenti di assenza contemplativa che potevano essere scambiati per abulia. Inoltre, aveva un’indole tollerante e libertaria che rifuggiva da qualsiasi atteggiamento sospettoso o repressivo. Ce ne avvantaggiavamo noi figlie, che non abbiamo mai subìto i moniti, i terrorismi, i divieti delle nostre coetanee. Al mare potevamo restare in acqua quanto ci pareva, con i polpastrelli raggrinziti, compatendo gli amici costretti a uscire dai richiami assillanti delle mamme che li aspettavano a riva con gli asciugamani sventolanti. Potevamo arrampicarci sull’armadio e tuffarci sul letto o infilarci in bagno e tirarci secchiate d’acqua, mentre la mamma in salotto suonava Chopin.
Da questo permissivismo Micaela sviluppò una vena ribelle e trasgressiva, io un’assennatezza precoce.
Siedo al tavolo di cucina, distendo le mani sul legno rigato. Scissione di atomi nella memoria. Rivedo, sì, rivedo il vassoio col servito buono e la zuccheriera d’argento. La mamma e la zia sedute e proprio di fronte a me due donne che non conoscevo e la cui presenza mi intimidiva.
Mentre invano cercavo di nascondermi dietro il braccio di mia madre, quelle parlavano. Erano state vicine della zia, poi trasferitesi a Messina, loro città natale.
La signora Immacolata e sua figlia Roberta, così si chiamavano, si somigliavano come la matrice e il suo clone. Basse, tozze, dai lineamenti grossolani e irregolari, non possedevano nulla dell’intensità mediterranea o della delicatezza normanna tipiche delle donne di quei luoghi. Inoltre la vecchia aveva un enorme porro scuro sul mento con peli irsuti come quelli del cinghiale.
Malgrado la timidezza, noi bambini non riuscivamo a toglierle gli occhi di dosso. La zia dovette accorgersene, perché per distrarci cominciò a scartare un vassoio di pasticceria: «Guardate che ci ha portato la signora Immacolata dalla Sicilia!».
Sul vassoio di cartone dorato apparvero dolci mai visti. Meravigliosi pasticcini colorati che riproducevano frutti di ogni stagione: fragole di un rosso spudorato, delicate pesche gialle e rosa, fichi dalla buccia nera con tanto di picciolo e polposi frutti irsuti che scoprii chiamarsi fichi d’India.
«Coraggio, assaggiateli» ci incoraggiò l’ospite ridendo dei nostri occhi spalancati.
«Si mangiano?» azzardò Sergio con un filo di voce.
«Eccome se si mangiano! Sentirete che delizia!»
Micaela, che diffidava di ogni tipo di cibo, si rifiutò categoricamente, invece io e Sergio allungammo una mano e ci portammo esitanti quegli strani dolci alle labbra. Affondai i denti in una pasta morbida, granulosa, mentre il palato si riempiva di uno squisito sapore dolcissimo eppure amaro.
La signora Immacolata ci guardava: «Allora, sono buoni?». Annuimmo a bocca piena. «Pasta di mandorle, fatta come in casa.»
La mamma e la zia lodarono a lungo i pasticcini mentre veniva servito il caffè.
Micaela chiese un foglio e una matita e si sedette a disegnare all’altro capo del tavolo. Intanto gli adulti parlavano. Specialmente la signora Immacolata, che descrisse minuziosamente Messina e lodò le bellezze della Sicilia e l’affabilità dei suoi abitanti.
Capivo poco di quello che diceva, molte di queste informazioni vengono dai racconti della mamma. Del resto ascoltavo con un orecchio solo, impegnata com’ero a fare a gara con Sergio a chi mangiava più dolci.
«Io prendo una fragola» annunciavo.
«E io una fica.»
Ceffone.
Mia sorella se ne stava china sul foglio, apparentemente estranea a tutto ciò che aveva intorno.
«Quando ho saputo di dover tornare a Messina mi sono disperata» diceva l’ex vicina della zia. «Ero a Firenze da dodici anni, ormai era la mia città. Chi conoscevo là? Nessuno… Ma poi mi sono ambientata benissimo, là fai amicizia subito. Solo per il clima… non mettiamo il cappotto neanche d’inverno, sapete? E che bella gioventù! Ragazze che fanno girare la testa!»
La mamma assentiva, evitando di guardare la povera Roberta che, con gli orecchini di corallo a pendente, pareva King Kong bardato per la festa. Lanciò invece una lunga, amorevole occhiata alla figlia scontrosa che riempiva con foga la sua pagina di figure.
«Ha una grande predisposizione per il disegno» disse a voce bassa indicandola col mento. «Le dai un foglio e una matita e ti scordi della sua esistenza.»
«Solo in questo caso» tenne a precisare la zia.
La mamma ignorò il commento malevolo: «È incredibile come una bambina così piccola sappia cogliere l’espressione, rendere il movimento. Disegna sempre figure femminili, tutte belle. Sembrano bozzetti di moda».
La signora Immacolata si girò verso Micaela con un sorriso colmo di tenerezza: «Se ha questo talento dovete coltivarlo».
«Vediamo, ancora è presto.»
Ma l’orgoglio materno ebbe la meglio sulla modestia: «Tesoro, fai vedere a queste signore cosa hai disegnato» e Micaela, che non ubbidiva mai, quella volta saltò su dalla sedia come un soldatino e senza dire una parola depose il foglio in mezzo al tavolo.
Effettivamente era brava a disegnare. Le “donnine”, come le chiamava lei, erano tutte giovani, con chiome fluenti, occhi immensi e nasini all’insù e somigliavano a Biancaneve di Walt Disney, solo portavano tacchi alti e vestiti alla moda. Ma quella volta le donnine non somigliavano né a Biancaneve né ai figurini della moda. Avevano corpi grossi, quadrati, dai quali spuntavano braccia e gambe filiformi come quelle degli spaventapasseri e sopra, una testa enorme in cima alla quale spuntava una matassa arruffata.
«Sembrano scarabocchi di un bambino di tre anni» ghignò la zia. Ma la mamma non riusciva a farsene una ragione: «Perché così brutte? Di solito le fai tanto belle!».
Micaela, impettita accanto a lei, con grande diligenza e grande precisione chiarì: «Queste sono donnine siciliane».
Nel silenzio che seguì tutti abbassammo lo sguardo sulle figurine e constatammo che tutte, ma proprio tutte, avevano gli orecchini a pendente e un porro sul mento con tanto di peli sparati intorno.
«È vero! È vero!» confermai io con la bocca piena di pasta di mandorle, saltando su e giù sulla sedia.
La signora Immacolata e la figlia ci lasciarono presto. Salutarono frettolosamente e sparirono dietro la porta di casa. Tornando in cucina la zia aggredì la mamma che era rimasta seduta, un po’ mortificata, un po’ con una gran voglia di ridere.
«Quando vi deciderete, tu e quel babbeo, a insegnare un po’ di educazione alle vostre figlie?»
«È una bambina, è la voce dell’innocenza…»
«È la voce di Belzebù, altro che innocenza!»
Intanto Micaela passa in rassegna la casa, rovista nei cassetti e negli armadi, guidata dal fiuto di cacciatore di paccottiglia. Ha trovato una scatola di cartone e ci ripone gli oggetti che ritiene di poter vendere al mercato.
«Guarda questo» dice raggiungendomi.
Tiene in mano un portagioie a noi ben noto in quanto oggetto di desideri frustrati: una scatolina di legno lucido con i bordi dorati. Apre il coperchio ed esce una ballerina che ruota a scatti su se stessa, mentre si diffondono le note del Valzer delle Candele. La guardiamo affascinate come tanti anni prima, quando la zia ci concedeva un paio di giri, ma senza toccare.
«Non se ne trovano più così» afferma Micaela con tono competente. «Da questa ci prendo un bel po’ di soldi.» Poi ci ripensa: «La vuoi tu?» propone in un impeto di generosità.
Scuoto la testa e il carillon va nella scatola a raggiungere le altre cianfrusaglie.
Siede di fronte a me, la scatola aperta nel mezzo, e valuta con lo sguardo un’orrenda pastorella falso Capo di Monte. Appare pensierosa. Poi mi chiede a bruciapelo: «Pensi mai alla morte?». Con la mano si arriccia i capelli.
Io devo difendermi dal pensiero della morte, lo faccio con accanita determinazione da quando ad Ancona mi svegliavo nel cuore della notte madida di sudore. «Cerco di farlo il meno possibile» rispondo evasiva.
«Sai, non è la fine a spaventarmi, ma il percorso.»
So bene a cosa si riferisce: la strada alle spalle sempre più lunga, quella davanti una salita breve e sempre più ripida, la mente prigioniera di un involucro che non le risponde, le energie e le attese che si sbriciolano come castelli di sabbia quando ci premi sopra col piede.
Evito di ribattere, nella speranza che consideri chiuso l’argomento.
Invece lei continua: «Quando è morto Stefano sono stata un anno in analisi. Abbiamo affrontato a lungo questo tema».
Ometto di chiederle con quali soldi abbia pagato lo psicoterapeuta.
«Lo aspettavo per pranzo. Anche se era sposato ci frequentavamo regolarmente. Veniva a mangiare e a dormire da me, abbiamo anche fatto una vacanza insieme.»
«E la moglie?»
«Che ne so. Evidentemente le andava bene. Quella volta non è venuto. Ho aspettato un’ora, poi ho cominciato a telefonare, al lavoro, al cellulare. Niente. Finalmente la sera mi ha risposto una voce di donna: “Lei chi è?”. Le ho imbastito una bugia, la prima che mi è venuta in mente. “Stefano è morto ieri sera” mi ha risposto “la prego di non chiamare più.” E ha riattaccato. Sono rimasta come una statua di sale. Era tutto così assurdo. C’era ancora la tavola apparecchiata. Ho tirato fuori dal forno le lasagne che avevo preparato per lui e mi sono messa a mangiarle, fredde, finché non ho finito la teglia. Poi sono andata in bagno e ho vomitato.»
«Mi dispiace, davvero, ma ora basta.»
«Ho saputo il giorno dopo da amici comuni che era morto d’infarto. Dopo cena aveva detto di non aver digerito bene ed era andato subito a letto. Venti minuti dopo sua moglie l’ha trovato appoggiato al cuscino con gli occhiali inforcati e il libro rovesciato da una parte. Morto stecchito.»
Mi alzo, le mani poggiate sul tavolo: «Ho capito. Andiamo via?».
Ma Micaela non mi sente nemmeno: «Capisci? Hai una famiglia, un lavoro, un’amante. Hai comprato l’automobile nuova, ti siedi la sera sul divano di velluto a guardare la televisione, forse hai già prenotato la casa al mare e puff! Tutto sparito».
«Smettila! Non voglio sentire questi discorsi.»
«Perché?»
Penso alla tomba dei miei genitori che non ho voluto visitare, alla lapide stretta che a stento contiene due fotografie e un vaso di bronzo coi fiori di plastica, al loculo che ospita le loro ceneri, troppo piccolo per condensare il ricordo di due persone che un tempo hanno vissuto, amato, sofferto.
«Più di tutto mi preoccupa non avere il tempo di guardarsi intorno e fare l’inventario di cosa lasci» continua a filosofeggiare mia sorella.
«È per questo che vivi così?» sbotto «Senza un compagno, una casa, un lavoro? È per questo che dopo Merlino non hai voluto neanche un gatto?»
«Forse. Anche. Ma prima di andarsene c’è comunque un inventario da fare.» Mi spara in faccia un’occhiata color granito.
«Allora è meglio morire come il tuo amico, senza avere il tempo di pensare. E sarà un problema di chi rimane.»
Lo dico provocatoriamente, piena di rancore. Sono arrabbiata per essermi lasciata trascinare in questa conversazione senza costrutto. Come potrei, proprio io, non preoccuparmi per le mie figlie, per mio marito? Micaela può affrontare questi argomenti, lei che ha sparso sale sul suo cammino e lascia una scatola di paccottiglia e una bicicletta arrugginita. Ma io, che ho tessuto una tela di affetti, di relazioni, di responsabilità, io mai e poi mai potrei andarmene con tanta incosciente indifferenza.
Le strappo di mano la statuina: «Non vorrai vendere questa schifezza!».
Ma lei continua imperterrita, inconsapevole del mio turbamento. Come sempre.
«Sono andata anche al funerale. In chiesa non ho osato. Sono rimasta dentro il bar di fronte e dalla vetrina ho visto caricare il feretro sul carro funebre. Ecco, l’ho salutato così.»
«La fai finita? Non mi coinvolgere nelle tue storie, non le voglio sapere. Vengo qui per due giorni, ti cedo l’eredità della zia e tu mi scassi con questi discorsi! Aspettavi me per vomitarmi addosso le tue malinconie del cazzo?»
«Questo linguaggio scurrile non si addice a una signora come te.»
«Appunto. Riesci sempre a tirar fuori la parte peggiore di me.»
«Scusa» risponde gelida «credevo volessi sapere. Evidentemente mi ero sbagliata.»
E a te interessa sapere qualcosa della sottoscritta? Grido dentro di me. Ti interessa parlare di qualcosa che non sia il tuo ombelico? Del tuo ombelico del cazzo?
Le parolacce non fanno più parte del mio bagaglio lessicale, ma questa regressione al passato si porta dietro anche le reminiscenze linguistiche dell’adolescenza. Con Micaela, poi, è inevitabile.
Non parliamo più. Lei resta in cucina, io esco in cortile a respirare una boccata di aria fresca.
Poco dopo mi raggiunge: «Senti, mi ha chiamato il mio amico dei mercati, devo andare da lui. Vieni con me?».
«No, vai tu. Vado a mangiare qualcosa.»
Sembra sollevata della mia risposta. «Ne avrò per un paio d’ore. Vengo a prenderti…»
«No, non occorre. Conosco la strada. Ci vediamo stasera a casa.»
Annuisce, inforca la bicicletta e scompare dietro al cancello.
Non so nemmeno se questo impegno improvviso sia reale o se se lo sia inventato per mettere un po’ di distanza tra noi dopo il bisticcio, comunque sia le sono grata di avermi alleggerito della sua presenza.
Estraggo subito il cellulare dalla borsa e digito il numero di Laura. La solita voce metallica risponde che il cliente non è raggiungibile. Provo con Matilde, ma ottengo lo stesso risultato. Mi maledico per non aver resistito, per questa ansia che mi attanaglia, questo presentimento malefico e ingiustificato che non mi abbandona mai.