Tutti i nostri ieri

Indugio nel cortile, impastoiata dai lacci di un passato lontano che avevo sepolto.

Micaela se ne è andata sulla sua bicicletta cigolante, ma l’alone di risentimento che provo nei suoi confronti permane, assalendomi, come in una reazione a catena, con i ricordi più scottanti.

E il buco allo stomaco. Quella voragine insidiosa che si apriva dentro di me ogni volta che mi sentivo offesa, ferita e che colmavo davanti al frigorifero.

O forse è davvero fame. Guardo l’orologio: quasi le due! Realizzo di aver messo sotto i denti soltanto il tè sciacquabudella che Micaela mi ha propinato per colazione.

Il sole ha squarciato le nuvole e splende, lontano e bianco come sempre in gennaio, ma splende. Decido di lasciare la bicicletta dove si trova e di cercare nei paraggi un posto dove mangiare.

Ci sono momenti in cui è obbligatorio prendersi una pausa, staccare da tutto, anche dagli affetti più cari, e ci sono momenti in cui benedici la tua buona stella solo perché hai trovato, a poche centinaia di metri da casa della zia, questo bistrot accogliente e semideserto che propone una lista di piatti leggeri ma stuzzicanti.

Sono seduta a un tavolo addossato alla finestra, sbocconcello il pane nel cestino in attesa dell’insalata gigante e sfoglio, finalmente rilassata, il giornale di ieri che non ho avuto ancora il tempo di leggere. Nelle prime pagine un elenco di calamità naturali, alluvioni, valanghe, ondate di freddo polare nel Nord del pianeta e di caldo torrido nel Sud. Calcolo egoisticamente quanti anni potrei avere nel 2050, quando gli scienziati prevedono il raddoppiamento della popolazione mondiale, l’aumento drastico della temperatura, l’innalzamento degli oceani, lo scioglimento dei ghiacciai. Scopro con sollievo che per quella data sarò sotto terra.

Decido di passare alla politica interna, altro settore poco rassicurante. Sto cercando senza successo di appassionarmi alle beghe di partito, ai compromessi e agli inadempimenti del governo di larghe intese, quando sento bussare al vetro della finestra. Mi giro e sulla strada vedo un uomo che mi fa dei cenni. Non ho il tempo di stupirmi, perché è già entrato e si dirige senza esitazioni verso il mio tavolo.

«Agnese! Sei proprio tu? Non ci posso credere.»

Sono gli attimi in cui rovisti frenetico nella memoria nel tentativo di evitare una figuraccia. Abbozzo un sorriso di circostanza per prendere tempo, ma lui mi inchioda alla verità.

«Non mi riconosci, eh? Sono Riccardo, Riccardo Perrosi… be’, ne è passato di tempo, ma tu sei la stessa.»

Si materializza ai miei occhi l’immagine di un ragazzo alto e magro con una gran chioma ricciuta, in nulla somigliante al vecchietto con la chierica grigia che ho davanti.

«Riccardo. Come no!» rispondo fingendo grande entusiasmo. Non ce la faccio a dirgli che neanche lui è cambiato.

Ci abbracciamo, poi lui si siede al mio tavolo.

«Stavo andando a pranzo a casa e ti ho vista. Mi sono detto: vuoi vedere che quella è Agnese? Hai già ordinato? Mangiamo insieme.»

Mi domando come sia organizzata la sua vita per permettergli di cambiare programma in modo così estemporaneo.

Riccardo Perrosi bazzicava saltuariamente la compagnia che frequentavo all’università. Aveva qualche anno più di me, era perito tecnico e lavorava al Pignone.

Ho avuto una storia con lui, ma non credo di esserne mai stata innamorata. L’ho trascinata per oltre un anno senza sentirmi mai coinvolta. Di tutto quel tempo ricordo con chiarezza solo il momento in cui l’ho lasciato.

Eravamo dietro il boschetto di San Miniato, seduti nella sua Mini. Indossavo un kilt a quadri rossi e neri, chiuso con una grande spilla da balia. La aprivo e la chiudevo meccanicamente, mentre cercavo le parole giuste.

Lui pose la sua mano sulla mia: «Finirai per pungerti» mi disse con grande dolcezza. «Lascia stare, Agnese, ho capito. In queste cose bisogna essere in due.»

Mentre mi riaccompagnava a casa mi chiesi se non commettevo un grande errore a rinunciare a una persona così.

«Allora, sei tornata?»

«No, solo due giorni per sbrigare alcune faccende.»

«Vivi ad Ancona, vero? Dài, raccontami cosa hai fatto in tutti questi anni.»

Che richiesta insensata: raccontare un’esistenza in venti minuti al tavolo di un bar! Ciò nonostante mi sforzo di fargli una rapida sintesi della mia vita. Gli parlo di Gianfranco, delle ragazze, del lavoro.

«E tu?» gli chiedo a conclusione.

«Vivo da solo.»

Ora comprendo la sua facilità a cambiare programmi.

«Mi sono separato più di trenta anni fa e non ne ho più voluto sapere né di sposarmi né di convivere. Donne parecchie…» Traccia un semicerchio in aria con la mano a indicare una quantità enorme.

Dove le ha trovate? Mi domando.

«…Però ognuno a casa sua. Me la sono cavata alla grande anche da solo. Sai, con mia moglie proprio non andava, abbiamo resistito per più di dieci anni, soprattutto per il bambino. Ho un figlio» precisa con orgoglio «anzi, tra poco sarò nonno. Ma non ci prendevamo, non c’era nulla da fare. Io sono della Vergine, sono di quelli che al campeggio delimitano la piazzola col filo.»

Quel giorno lontano a San Miniato ebbi un’intuizione geniale!

«Lei è dell’Acquario. Ti immagini? Non andavamo d’accordo su nulla.»

«Ti interessi di astrologia?»

«Un poco. Restassi più a lungo ti farei la carta del cielo.»

L’essere umano non smette mai di stupire.

Riccardo addenta con gusto il panino che gli hanno portato: «Insomma» continua a bocca piena «alla fine ci siamo lasciati. Lei si è trasferita a Viareggio col suo nuovo compagno; si può dire che il bambino l’ho tirato su io».

«Deve essere stata dura. E il lavoro?»

«In pensione. Dall’anno scorso.»

Lo sapevo! Ho toccato un altro tasto dolente. Torno all’insalata con espressione contrita.

«Sono finalmente padrone del mio tempo, faccio quello che voglio, quando voglio. Per esempio, se lavorassi, ora non potrei stare qui con te. Poi ho tante passioni. Ho una roulotte a Follonica, intorno ci ho fatto l’orto e lo lavoro.» Mi fissa in attesa di una mia reazione di stupore o di ammirazione.

Che gli dico? Che odio il campeggio e che l’orticoltura mi interessa quanto una conversazione coi testimoni di Geova?

«Chissà che verdura buona!» commento alla fine tanto per dire qualcosa.

«Puoi scommetterci!» Gli brillano gli occhi. «Fagiolini, melanzane, zucchine, sapori di una volta. I miei pomodori, poi, sono famosi in tutto il campeggio. Facciamo delle tavolate, sai, coi vicini di piazzola. Uno spasso!»

«Immagino…» farfuglio ipocritamente.

«Cara mia, si vive una volta sola!»

«E ora, stai con qualcuno?» Che domanda idiota! Ma è troppo tardi per ritirarla.

«Te l’ho detto, di donne ne ho avute parecchie… ma a questo punto… Certe mattine mi metto nudo davanti allo specchio e mi domando: ti metteresti tu con uno così? E mi rispondo di no.»

A questo punto dovrei dirgli che non è vero, che è ancora un uomo interessante, ma mi è rimasto un briciolo di onestà e preferisco tacere.

Sorrido per nascondere l’imbarazzo: «Ora devo proprio andare».

«Certo, ti ho fatto perdere anche troppo tempo. Però è stato bello rivederti.»

«Sì, proprio bello.»

Insiste per pagare il conto, ci abbracciamo di nuovo e ce ne andiamo uno da una parte, uno dall’altra.

Sono andata verso viale Manfredo Fanti solo perché era la direzione opposta a quella in cui andava Riccardo.

Non sono io, sono i miei piedi a portarmi sotto lo stadio comunale, teatro di tante mie scorribande d’infanzia. In questo punto, sotto la torre di Maratona, ora c’è un parcheggio, ma quando ero bambina c’era uno spiazzo sterrato che d’inverno si riempiva di fango e d’estate di ciuffi di erbaccia. Sosto fra due strisce blu come un’auto parcheggiata e da un luogo remoto mi giunge un’eco, prendono corpo grida di pagliacci, suoni di trombette, rumore di risate infantili.

A giugno, atteso con trepidazione da tutti i bambini del quartiere, arrivava il circo Pizzica e ci restava due mesi. È azzardato definirlo così, a meno che per circo s’intenda un’arena circolare delimitata da una palizzata di legno con un’asta nel mezzo addobbata di bandierine. Di giorno aveva l’aria triste di un canile abbandonato, ma quando calava la sera si trasformava nel luogo delle mille meraviglie.

Il Pizzica aveva una parrucca gialla, una pallina rossa sul naso e buffi pantaloni a scacchi. Si esibiva in sberleffi e capriole, assecondando a suon di trombetta le risate dei piccoli spettatori. Poi c’era la figlia maggiore, la bella della compagnia, che in gonnellino di lustrini camminava in equilibrio su un’asse a mezzo metro da terra, tenendoci tutti col fiato sospeso. Ma quello che più di tutto suscitava il mio entusiasmo era la cagnetta Polly che percorreva l’intero perimetro dell’arena ritta sulle zampe posteriori.

Non si pagava il biglietto, bastava raggiungere un posto in prima fila per godersi lo spettacolo. Io e Micaela ci intrufolavamo tra la folla, ci arrampicavamo sulla palizzata e restavamo ipnotizzate. Al termine il Pizzica passava con un secchiello per raccogliere le offerte.

Ho sempre cercato di evitare i ricordi. Troppo dolorosi. Ho messo trecento chilometri tra me e loro e mi sono sforzata di non percorrerli, specialmente dopo la morte dei miei genitori. Ma ora che Micaela mi ha costretta a tornare, ora che ho incontrato Riccardo e mi trovo nel quartiere in cui sono nata e cresciuta non resisto alla tentazione di rivedere la mia vecchia casa.

Fingo con me stessa di voler fare una passeggiata per ingannare il tempo, ma so già che arriverò in via Cento Stelle.

C’erano stati un paio di traslochi prima che il babbo e la mamma potessero comprare quella casa, ma io non ne ho memoria. Quando andammo ad abitare in quella via non avevo più di quattro anni, dunque i miei ricordi cominciano da lì.

Davanti al portone chiuso scruto i campanelli; sulla targhetta a destra leggo un cognome sconosciuto. Altre vite, altre storie che si sovrappongono a quelle già vissute.

Uno scatto e il portone si apre. Una signora molto anziana mi guarda con una punta di sospetto, poi, forse rassicurata dal mio abbigliamento, si scosta lasciando il portone aperto per farmi passare.

Penetro nel grande ingresso in penombra, osservo il pavimento tirato a lucido, la gabbia dell’ascensore, la scala di marmo, pretenziosa, con il corrimano teatro di tanti miei scivoli.

Questo edificio, allora, era l’ultimo avamposto cementificato del quartiere. Al di là la strada si perdeva nei campi. Bastava percorrere pochi metri per trovarsi in riva all’Affrico, il torrente cantato da Boccaccio prima che i topi e le rane se ne appropriassero. Nei quindici anni successivi l’avamposto arretrò sempre di più fino a quando i campi non scomparvero del tutto.

L’Affrico fu interrato, i topi e le rane traslocarono altrove e sorsero una scuola, un supermercato, numerosi condomini.

Salgo la prima rampa di scale e mi fermo davanti alla porta a destra. Mi tengo un po’ discosta, pronta a continuare la salita qualora qualcuno dovesse aprirla.

Dietro quella porta c’è l’appartamento in cui ho vissuto gli anni che contano, quelli in cui si dice si formi la personalità. Appena varcata la soglia c’è un ingresso grande, quadrato, in cui Micaela e io giocavamo “alle signore”.

Fingevamo di incontrarci casualmente, ognuna con la sua bambola in braccio.

«Che bella bambina che ha, signora.»

«Sì, proprio bella. Però è cattiva.»

«Anche la mia, sa, mi fa sempre arrabbiare.»

«Lei cosa fa quando la fa arrabbiare?»

«La punisco.»

«Anch’io!»

Cominciavamo a sbattere le povere bambole contro il radiatore, perché quel gioco da femminucce ci veniva subito a noia.

Molto meglio quando ci portavano a giocare ai giardinetti intorno allo stadio. In una nicchia sotto la torre di Maratona brillavano cinque gocce di sangue, ognuna con il suo nome, a ricordo dei martiri fucilati in quel punto.

«Renitenti alla leva. Non volevano arruolarsi coi repubblichini» ci gridava il signor Gino, ospite onorario della panchina di fronte, ogni volta che nelle nostre scorribande ci capitavamo davanti.

«Cinque ragazzi. Li hanno trascinati contro questo muro, quei delinquenti, e gli hanno sparato. Bum! Bum! Bum!» mimava il gesto di scaricarci contro un fucile. «Uno non voleva proprio morire. Era a terra pieno di sangue e urlava “mamma, mamma!”. E sapete cosa hanno fatto?»

Restavamo immobili, a testa bassa, intimoriti dal suo tono indignato.

«Gli hanno scaricato addosso sei colpi di pistola, SEI, ma lui continuava a urlare, anche se era ridotto come un colabrodo. Allora è intervenuto il maggiore, figliol di troia, e gli ha dato il colpo di grazia. Capito? Queste cose non dovete dimenticarle, bambini.»

Si accalorava e per l’emozione un occhio andava per conto suo e cominciava a ruotare come se fosse tarantolato.

«Ridete? E che avete da ridere, grullerelli?» ruggiva mentre noi scappavamo da ogni parte.

Quel sacrario però mi faceva paura. Se per caso ci capitavo da sola giocando a nascondino, immaginavo che le gocce si staccassero dalla lapide materializzandosi in fantasmi pieni di sangue che gridavano “mamma, mamma!”.

Rivedo, come fosse ieri, il tavolo di cucina di fòrmica verde dove sedevamo a fare i compiti sotto la luce fredda del neon a ciambella. E la merenda delle cinque, dopo la TV dei ragazzi, con l’immancabile fetta di pane con l’olio.

Sulla tavola apparecchiata il babbo preparava l’Idrolitina. Versava la bustina in una bottiglia di acqua del rubinetto, la tappava ermeticamente e la scuoteva. L’acqua si intorbidiva, friggeva, animata da una miriade di particelle gassose che poi si depositavano sul fondo, lasciandola frizzante e con un vago retrogusto di limone e bicarbonato.

A Berlino si alzava un muro a spaccare il mondo in due blocchi. Stati Uniti e Unione Sovietica iniziavano la corsa agli armamenti e alla conquista dello spazio.

Qualche anno più tardi Jimmy Fontana avrebbe cantato Il mondo, avvisandoci con la sua voce robusta dell’inesorabilità del tempo che passa: Il mondo non si è fermato mai un momento, la notte insegue sempre il giorno ed il giorno verrà. Ma per me allora il tempo si dilatava all’infinito. A me le parole della canzone evocavano immagini suggestive della Terra che ruotava, silenziosa, nello spazio, come l’avevano descritta le parole di Gagarin, rimbalzate in quel lontano 1961 da uno schermo all’altro: «La Terra è blu… è bellissima».

Esco di nuovo sulla strada, mi sposto sul marciapiede di fronte e metto a fuoco la finestra che era stata della mia camera. I vetri sono chiusi ma la persiana è aperta in posizione basculante. Sono stati cambiati gli infissi, ora di un brutto metallo anodizzato.

Alla fine degli anni Sessanta fu collocata in quella camera una grande scrivania e io abbandonai il tavolo di fòrmica per fare i compiti.

Quando Patty Pravo cantava La bambola e Micaela si faceva i riccioli, si accorciava le gonne e assumeva pose da diva, io combattevo la mia battaglia per non soccombere all’emarginazione.

Anche se le classi erano miste, alle medie maschi e femmine formavano due gruppi separati che raramente entravano in contatto. Una volta tacitati a suon di sberle i ragazzi che mi dileggiavano per il mio aspetto fisico, non avevo incontrato difficoltà a inserirmi nel gruppo delle compagne.

Era l’età in cui maschi e femmine si evitano e ostentano disinteresse reciproco, impauriti dai primi segni della pubertà. Non vedevo quasi più neanche Sergio ed era meglio così. Le rare volte che ci incontravamo, per le feste comandate, quasi non gli rivolgevo la parola. Poi passavo i giorni successivi a fantasticare su noi due.

Tra le compagne di classe, due diventarono le amiche del cuore. Venivano quasi tutti i pomeriggi a casa mia e ci chiudevamo in camera a fare i compiti. Questa almeno era la versione ufficiale. In realtà passavamo gran parte del tempo a chiacchierare e a sputare sulla testa dei passanti dalla finestra.

Eravamo un terzetto singolare, riassumevamo tutte le stramberie fisiche con le quali la natura si diverte a tormentare gli adolescenti. Io larga e compressa come una mortadella; Alessandra, detta Sandrina, piccola, minuta, con occhiali spessi per correggere uno strabismo congenito; Antonella, già formata come una donna. Era sviluppata in prima media e ci superava di mezza testa. Ma in terza l’avevamo tutte superata di parecchio. Dal maglioncino le sporgevano seni da balia ciociara, di cui fingeva di lamentarsi ma di cui in realtà si faceva un vanto.

«Ieri sono andata con la mamma a comprarmi una camicetta, mi tiravano tutte davanti, così ho dovuto prendere la prima misura da donna.»

Io e Sandrina ascoltavamo ammirate.

Fu Antonella, non ricordo esattamente quando, a informarci su alcune pratiche sessuali degli adulti. Sapevamo da un pezzo come nascono i bambini, ma nell’ignoranza totale in cui allora ci lasciavano la nostra fantasia galoppava come un cavallo selvaggio.

Arrivò a casa mia tutta eccitata comunicando di essere in possesso di una notizia incredibile, ma garantita dalla fonte da cui l’aveva attinta.

«Ho saputo una cosa…» Aveva una mimica facciale molto accentuata, era bravissima a creare l’attesa.

«Chiudi la porta. Potrebbero sentirci.»

Ci eravamo barricate in camera mia, tutte sorrisini maliziosi, e lei, abbassando la voce, aveva fatto la grande rivelazione: «I grandi si fanno la pipì in bocca!».

Davanti alla nostra incredulità ribadì che era un’informazione sicura, avuta di prima mano da una cugina che aveva spiato il fratello e la cognata dal buco della serratura.

«Bum! Non ci credo» ripetevamo noi.

«Vi dico che è così. L’ha visto coi suoi occhi. Lei si è chinata, gli ha preso il coso in bocca e lui ci ha pisciato.»

«Ma come è possibile?» chiedevamo scandalizzate.

«Ah, io non lo farò mai!»

«Che schifo! Nemmeno io.»

«I miei genitori non fanno queste cose» garantivo io.

«E come fai a saperlo?»

«Lo so e basta! Queste porcherie le fanno solo quegli schifosi dei tuoi parenti!»

Il misterioso mondo degli adulti faceva paura e insieme attirava. Per un po’ di tempo spiai i miei genitori, cercando con terrore sulle loro labbra tracce di urina, poi dimenticai le confidenze di Antonella.

Furono anni felici quelli delle medie malgrado l’obesità.

Poi le nostre vite presero strade diverse. Io andai al classico, Sandrina a ragioneria e Antonella scelse una scuola professionale. Continuammo a frequentarci per qualche mese, ma era diventato complicato, così piano piano i nostri incontri si diradarono fino a terminare del tutto. Prima però Antonella riuscì a insegnarmi a fumare.

Era l’estate che precedeva l’inizio della scuola superiore e noi tre, presagendo malgrado le promesse solenni l’imminente separazione, avevamo intensificato la nostra frequentazione.

Un pomeriggio rovente di luglio passeggiavamo all’ombra degli alberi di viale Volta. Arrivati al bivio di via Barbacane, che sale stretta e ripida verso Camerata, Antonella ci lanciò un’occhiata maliziosa e propose: «Andiamo su?».

«A far che? Fa troppo caldo» aveva protestato Sandrina.

Ma io, che avevo fiutato odore di novità, mi ero schierata con Antonella. Maggioranza vince e ci eravamo avviate su per la salita con Alessandra che ci seguiva sbuffando e trascinando i piedi.

«Mi fa male una scarpa. Basta, torniamo indietro.»

Noi ridevamo, incuranti delle sofferenze dell’amica: «Dài, muoviti, impiastro!».

Al termine della prima erta Antonella si era fermata: «Ecco, siamo arrivate».

Avevamo raggiunto uno spiazzo, una sorta di terrazza naturale che si affacciava su un uliveto. Intorno a noi solo il canto degli uccelli e il frinire accanito delle cicale. Sandrina si era seduta sul parapetto in pietra ed esaminava il calcagno sbucciato. Poco discosto, in piedi, Antonella estrasse di tasca una sigaretta e una scatola di fiammiferi.

«Vi insegno a fumare» annunciò e con fare esperto si accese la sigaretta.

«Guarda qui» aggiunse rivolgendosi a me e indicandosi la bocca.

«Siete tutte sceme» piagnucolò Sandrina dalla sua postazione.

Io invece mi ero piazzata davanti alla fumatrice e non mi perdevo una mossa. Antonella aspirò una lunga boccata, poi spalancò le labbra: nel cavo orale vidi le spire bianche di fumo avvolgersi in volute per poi sparire in gola.

«Come fai?» chiesi piena di ammirazione.

Sorridendo compiaciuta Antonella aveva chiuso la bocca e subito dopo vidi il fumo uscirle dalle labbra socchiuse e dalle narici. «Ora ti insegno» disse.

«Siete sceme,» continuava a ripetere l’altra «sceme e cretine! Io non ci sto, se pensate che lo faccia anch’io vi sbagliate di grosso!»

«Tieni, tira» aveva ordinato Antonella senza badarle porgendomi la sigaretta. Io ubbidii. Una nuvola di fumo amaro mi riempì la bocca per poi uscirne immediatamente insieme a diversi colpi di tosse.

«Non così. Devi tirare il fiato in gola.»

Avevo riprovato e questa volta il fumo era entrato in gola e ne era uscito un po’ dopo. Sentii un forte senso di nausea, la testa che girava e la gola in fiamme. Tossii felice.

Tre mesi dopo iniziai il ginnasio. Anche lì le classi erano miste, solo che maschi e femmine non si evitavano più e per una cicciona come me non c’era posto tra loro. Fu allora che mi gettai negli studi “pazzi e disperatissimi”.