HARD-CORE

Gabrielle Hamilton, trentott’anni, scruta con espressione assente fuori dalla porta a vetro del Prune, il suo ristorante nel Lower East Side, riflettendo sulla mia domanda: “Com’è cambiata la cultura culinaria da quando tu hai iniziato?”.

“Nessuno fa più sesso” risponde sconsolata. “Non dici più: ‘Papà e mamma divorziano e mi tocca lavare i piatti’. Adesso dici: ‘Papà e mamma mi mandano alla scuola di cucina’. La gente oggi sceglie di diventare chef. È un lavoro pulito, colto, giusto.”

Sebbene sia incinta di sette mesi, ed eviti diligentemente l’alcol (e il fumo della mia sigaretta), è chiaro che Gabrielle ha nostalgia dei vecchi tempi. Le manca “stare seduta qualche ora al bar dopo la chiusura a bere. È sorprendente come riesci a rigenerarti dopo che sei stata tutto il giorno imbrattata di sugo”.

Il cammino che ha percorso per diventare chef, e per aprire il suo ristorante, non è stato facile. Gabrielle è cresciuta, insieme a quattro fratelli e sorelle, a Lamberville, una cittadina industriale del New Jersey, una volta centro di fabbriche e segherie (che sta vivendo oggi un rinnovato benessere, in quanto meta dei fine settimana). Suo padre, scenografo teatrale, e sua madre, francese di nascita, si separarono quando lei aveva undici anni. Dopo aver trascorso un anno con la madre nel Vermont, ritornò a vivere col padre nel New Jersey. A dodici anni lavorava già nella ristorazione.

“Eri una bambina difficile?” le chiedo.

Mi risponde con un sorriso sardonico e pungente: “Solo se consideri un problema la cleptomania e la droga”. Dopo la scuola, durante l’estate, cominciò lavando piatti al Picnic Basket di New Hope, in Pennsylvania. “Avevo bisogno di soldi” dice. “Volevo quei soldi.” I ristoranti erano “l’unico posto in cui sapevo cosa fare”. Fortunatamente sua madre, una bravissima cuoca, aveva insegnato a lei e ai fratelli “un sacco di trucchi del mestiere”. Continuò a lavorare in vari locali, come lavapiatti, sguattera e cameriera. “Mi occupavo di tutto,” dice “il bar, la pasticceria... tutto.” A quindici anni ebbe il suo primo posto di cuoco. Si trasferì a New York all’inizio degli anni ottanta e lavorò come food stylist per una ditta di catering fino al 1999, anno in cui aprì il Prune.

Quando Gabrielle dice di aver fatto “di tutto”, ricorda Keith Richards quando racconta di essersi annoiato “a qualche festa”. La sua affermazione è provocatoriamente inadeguata. La storia del suo lungo e difficile cammino, degli “anni desolati”, dall’umile lavoro di sguattera al successo attuale, sono diventati una sorta di leggenda metropolitana. A seconda di chi ascolta, ci sono state brevi e diverse esperienze lavorative, dallo striptease al delitto su commissione. Naturalmente, io credo a tutto. È un tipo tosto. Volete un esempio? Quando più tardi le chiedo qual è la prima cosa che cerca in un eventuale dipendente, mi risponde: “La prima cosa? Se sto nella sala ristorante con la mia uniforme bianca, e mi chiedono: ‘È qui lo chef?’, è sicuro che non avranno il lavoro”.

Forse saprete che sa essere ardentemente femminista, reazionaria e piacevolmente (perfino dolorosamente) candida. È del tutto priva di artifizi e il suo limite di tolleranza per le stronzate è bassissimo. L’anno scorso il “New York Press” l’ha inclusa nella lista delle cinquanta persone più antipatiche della città, ed è facile ipotizzare che abbia calpestato – se non schiacciato – diversi piedi. Non è un caso che mi piaccia e la ammiri enormemente. Se avesse scritto prima di me la sua versione di Kitchen Confidential, starei ancora a friggere patatine.

La sua idea originale per il Prune? “È stata una reazione ad anni di catering di merda” ammette. Il Prune doveva essere “tutto quello che non c’era. New York, nel ’99, era ancora ferma ai menu lunghi trenta pagine”. Lei voleva aprire un posto dove non fosse tutto perfetto e scintillante. Il menu conteneva “tutto quello con cui ero cresciuta. Volevo che il cibo creasse un’atmosfera familiare, intima... come a casa propria. Non ho inventato nulla di nuovo”.

Questa faccenda degli chef di successo “mi ha rotto”, mi dice scocciata, prima di confessarmi che a casa non ha nemmeno la televisione. È facile, tuttavia, leggendo queste righe, o cogliendo lo sguardo di disapprovazione di Gabrielle, perdere di vista il nocciolo della questione. Gli chef rivelano la propria vera natura attraverso i propri piatti, il proprio cibo e l’ambiente in cui decidono di servirli.

Il Prune è un ristorante informale, caldo, accogliente, invitante, con una piccola cucina a vista, pochi tavoli apparecchiati in modo semplice e un antico banco di zinco che funge da bar. Il menu è sentimentalismo puro, autentico, che si esprime con piatti profondamente onesti, genuini, legati ai ricordi della sua infanzia... e di quella che probabilmente avrebbe voluto avere.

I fazzoletti di pasta con uova in camicia, il prosciutto francese e il burro bruno provengono direttamente dal passato di Gabrielle. Gli ossibuchi arrosto con insalata di prezzemolo (il mio piatto preferito in assoluto) sono presi in prestito dal menu del St. John di Fergus Henderson, a Londra (Gabrielle è stata così gentile da telefonargli e dirgli che si sarebbe “appropriata” del suo piatto). Animelle fritte con bacon e capperi, fegato di pescatrice con toast caldi imburrati, e salsicce d’agnello con scarola e salsa romanesca figurano, insieme alla zuppa nuziale italiana, nel menu degli antipasti. Il menu del bar offre la scelta di rafani con burro dolce e sale kosher, e sardine con triscotti e mostarda, un piatto particolarmente caro alla Hamilton, perché, come lei stessa ama ricordare, “mi è stato d’aiuto nei momenti più difficili”.

Tra le portate principali del Prune figurano: maialino di latte con pomodori sottaceto in conserva e cotica croccante, pesce fresco alla griglia, cosce di coniglio brasate, nodini di vitello con burro allo scalogno e prezzemolo, gamberi rossi bolliti con salsiccia, patate e mais; quanto alle specialità del giorno, anche il più cinico dei professionisti li troverebbe invitanti e corroboranti come un bagno d’acqua calda.

“Non mi piacciono le guarnizioni, né i piatti complicati” dice.

Le piace la cucina asiatica, in particolar modo quella thailandese, birmana e quella szechuan, ma si rifiuta di mischiarla con la sua. “No. Non lo permetterei mai. Non puoi mettere il cilantro nel menu. Non è nello spirito del posto.”

“Cos’è, allora, il Prune?”

Come molti chef americani, anche Gabrielle ha un atteggiamento conflittuale nei confronti dell’influenza della cucina francese.

“Li odio quei cazzi di francesi” ringhia senza mezzi termini. Dietro mia insistenza, dichiara controvoglia il suo apprezzamento per i loro “formaggi, vini e profumi”. Ma temo che a questo riguardo racconti un sacco di stronzate. Il Prune trasuda Francia da tutti i pori. Gabrielle può rifuggire dalla terminologia francese e dalle descrizioni in francese dei piatti, può infarcire il suo menu di americanismi evocativi di estati lontane, di pranzi mai dimenticati con gli amici, infilarci qualche riferimento rurale britannico e italiano. Ma la cucina francese di sua madre domina il locale. Il Prune sembra un ristorante francese. Ci si sente come in un ristorante francese. Prima del divieto di fumare, era un paradiso per i fumatori. Anche l’atmosfera rilassata, da bistrò, è sottilmente francese.

Desiderosa d’infierire, afferma che la Spagna è senz’altro “la Nuova Francia”, ma si dissocia dai pinchos e tapas: “Riesco ancora a concentrarmi. Ce la faccio a mangiare un pranzo completo”. Alla fine, “mi voglio sentire sazia” (concetto che molti francesi probabilmente condividerebbero). Quando insisto perché mi faccia il nome di qualche chef che lei ammira, mi rivolge il più grosso e caloroso sorriso della giornata e nomina Scott Bryan, del Veritas (forte influenza francese), e il suo capo di una volta, Mark Ladner (vabbè, lui fa cucina italiana al Lupa, ma c’è sicuramente uno chef francese tra i suoi assistenti). “Adoro quello che fanno.”

Come tanti chef che conosco, che hanno iniziato la carriera negli anni ottanta (bei tempi!), Gabrielle Hamilton è una sopravvissuta e una cinica, e come tutti i cinici, una romantica fallita. Scusami, Gabrielle. Ti porti addosso l’odore della Francia. Sono i ravanelli con burro e sale che ti tradiscono. Puoi fuggire dal passato, ma non puoi nasconderti. Nessuno di noi può farlo.

Prima di andare via mangio dell’agnello brasato e, per l’ennesima volta (sono anni che ci provo), cerco di convincerla a scrivere la versione femminile di Kitchen Confidential. “Mi faresti apparire uno stupido seminarista!” insisto. “È un libro che deve per forza essere scritto. Non c’è forse abbastanza testosterone in questo campo?!” Le faccio notare che lei è già una scrittrice, dal momento che ha pubblicato vari articoli sulla rivista “Food & Wine”, e che alcuni miei amici editori me l’hanno ribadito varie volte.

Lei liquida l’idea con un gesto e si alza, pronta a riprendere il lavoro giù in cucina, dove il personale è già occupato con i preparativi per la serata.

“Non scriverò il Grande Romanzo Americano,” sospira “ma daremo ancora da mangiare a un po’ di gente.”