LUSSO SFRENATO

Anche se mi piace sottolineare che il vero “lusso” sta nelle cose semplici, spesso poco costose, e che una ciotola da cinquanta centesimi di pho in Vietnam o un bagel fatto come si deve a New York sono spesso più gratificanti di un gustoso pranzo di quattordici portate da Ducasse, a volte è necessario spendere dei soldi. Un sacco di soldi.

Se vuoi il meglio, devi essere disposto a sganciare a cuor leggero anche cinquecento dollari per una cena. In alcuni casi un conto salato è davvero sinonimo di buona qualità. E l’esempio migliore è il Masa Takayama, un minuscolo sushi bar-ristorante – tredici coperti in tutto – al quarto piano dell’anonimo centro commerciale che si trova all’interno dell’edificio della Time Warner a New York. Di solito viene presentato come il locale più costoso del paese. Se si vuole passare una serata indimenticabile al Masa, bisogna mettere mano al portafoglio (altrimenti, accanto c’è il Bar Masa, più abbordabile).

E ne vale la pena, dal primo all’ultimo centesimo.

Mi spiego meglio. Si parte da un minimo di centocinquanta dollari a persona (tasse, mance, bevande e altri extra esclusi), ma vi assicuro che non è niente. Anzi, è l’affare del secolo. È un momento impagabile, in cui dare libero sfogo ai propri desideri, come fare sesso al volante di una Aston Martin con due escort da cinquemila dollari a notte.

Immagina di essere uno dei tredici clienti seduti a un lungo, ampio bancone di hinoki chiaro, così caldo, invitante e delizioso che ti ci vorresti sdraiare sopra e schiacciare un bel pisolino, oppure passare la giornata a strofinarci contro la guancia... se non le parti intime. Il maestro del sushi più celebrato del paese è davanti a te con un coltello, una grattugia e un pezzo di wasabi. Ai suoi lati sono disposte alla rinfusa montagnole di pesce, una visione sensuale come non ti saresti mai potuto sognare, nemmeno in un paradiso ittico al sapore di soia. Trattieni il respiro, strabiliato, e rimani a bocca aperta davanti a quei mucchietti di ventresca di tonno rosa pallido, squisitamente grassa, arrivata il mattino stesso da Tokio. Due assistenti con la testa rasata aiutano in silenzio lo chef e si muovono tra le austere canne di bambù e un semplice grill di pietra. Non c’è un menu, dunque non sai mai cosa ti arriverà. Mentre te ne stai lì seduto, ti senti già il sangue alla testa, le labbra congestionate, un lieve tremolio alle mani, l’acquolina in bocca, una leggera eccitazione nelle parti basse, e hai la certezza matematica che questa sera nessuno al mondo mangerà meglio di te. Sei da solo nell’ogiva di un razzo diretto verso l’epicentro del piacere gastroculinario. E non vorresti essere in nessun altro posto.

Non per ripetermi, ma la mia ultima visita al Masa si è rivelata perfino meglio di quanto mi aspettassi. A volte fare il mio lavoro ha i suoi vantaggi.

Mi infilai nel ristorante con Eric Ripert, lo chef a quattro stelle del Bernardin, e Michael Ruhlman, autore di alcuni famosi libri di cucina come Soul of a Chef, che aveva trascorso la giornata a osservare come funzionava la cucina del Per Se, il ristorante in fondo al corridoio. Nel caso non lo sapeste, il Per Se è il tempio della haute cuisine di Thomas Keller, aperto da poco, dopo un battage pubblicitario mozzafiato. Lui e Michael hanno scritto a quattro mani The French Laundry Cookbook, e credo che quell’esperienza abbia lasciato un ottimo ricordo perché, appena entrammo al Masa, il sommelier del Per Se ci seguì e rimase con noi tutta la sera, lubrificando le nostre gole con una serie di ottimi vini. E sto parlando di vini che non potrò mai più ordinare in tutta la mia vita, perché mi mancheranno sia l’ardire che la pecunia.

Come sempre, sul bancone non c’era altro che tovagliolini e bacchette. Un bicchiere di vino ciascuno – anche per lo chef Takayama – e poi, in un silenzio reverenziale, lo spettacolo ebbe inizio.

Per iniziare, dell’astice al naturale saltato con cetrioli e servito, come il resto delle pietanze, in una semplice ciotola di terracotta disegnata dallo chef in persona. Poi una deliziosa tempura di granchio più leggera dell’aria. Vino. Dell’altro vino. Un disco di toro, denso, quasi una purea, sormontato da una montagnola di caviale osetra, di quelli che ti riconciliano con te stesso, seguito da un bonito avvolto in germogli di ravanello... o almeno credo, perché il vino cominciava a farsi sentire. Poi una scodella in gres di brodo fumante, in cui fummo invitati a intingere fette di foie gras fresco e aragosta, prima di ficcarceli avidamente in bocca. Impreziosito da minuscole perle dorate di grasso di foie gras, il brodo ci venne poi servito in ciotole da zuppa. Il sommelier di Keller mesceva con generosità, ogni vino e ogni portata ci accompagnavano meravigliosamente alla successiva, incredibile pietanza e poi a un’altra e a un’altra ancora. (Adesso mi sto affidando agli appunti di Ruhlman, perché immagino che ormai a questo punto fossi piacevolmente ubriaco.)

Masa sistemò davanti a ciascuno di noi una lastra quadrata di ardesia e cominciò a servire la mia parte preferita della cena: il sushi. Un pezzo alla volta. Scordatevi la soia, ogni altro intingolo e quell’orribile pasta verde fosforescente a base di wasabi che vi portano nella maggior parte dei sushi bar. Ogni boccone, fatto di pesce e di un caldo ed etereo cuscinetto di riso, arrivava già condito con yuzu, sale marino, soia o wasabi appena grattugiato, a discrezione dello chef. Anguilla d’acqua dolce... poi di mare... sgombro, così fresco che sembrava ancora vivo... ventresca di tonno, unta e burrosa, che pareva esalare l’ultimo respiro mentre veniva adagiata sul riso davanti a me.

Mangiavamo tutti e tre con le mani, lo sguardo vitreo, pregando di avere una seconda porzione. Il nostro cervello faceva gli straordinari e produceva endorfine senza sosta, e ormai ogni forma di cautela, logica e razionalità ci aveva abbandonato da tempo.

Altro vino... altro sushi.

Ruhlman dice che a questo punto, ogni volta che mettevo in bocca qualcosa, gemevo sonoramente e bofonchiavo: “Oh, sìììì... Sì, baby, così... Mmh...”. Non me ne vergogno affatto, sapete? Guardare Masa che fa scorrere la lama affilata nel pallido tonno, una visione quasi pornografica, separa e sfila uno strato dopo l’altro prima di tagliarlo e di posarlo sul riso – che sai che finirà nella tua bocca nel giro di qualche secondo – è come fare sesso. Anzi, è molto meglio. Non si corre il rischio di restare delusi. Guardare Masa che trasforma circa ottanta dollari (all’ingrosso, figuriamoci quanto costa al dettaglio...) di quell’incredibile e irripetibile tonno in un unico involtino di alga nori ti fa quasi perdere i sensi.

Ci portò toro alla griglia... funghi shiitake grigliati avvolti intorno al riso, una favolosa imitazione del pesce... uova di riccio di mare così sublimi che molto probabilmente erano illegali... capesante ammorbidite dall’abile taglio dello chef... vongole (ne ho mangiate parecchie)... calamari... gamberi... anguille spennellate di soia... E, per concludere, manzo Kobe, che a ogni morso ci sprizzava sui denti il suo grasso, coccolato e massaggiato a dovere.

Se il resoconto della serata vi sembra tratto dalle pagine di una rivista porno di second’ordine, non lasciatevi condizionare. Andate al Masa. Subito. Prenotate a tarda sera e arrivate in orario. Non dovete fare altro che sedervi in silenzio e rilassarvi. Penserà a tutto lui. Abbandonatevi all’esperienza. E gustatevela.

Cucinare con professionalità è sinonimo di dominazione, bisogna avere una forte dose di autocontrollo.

Mangiare bene, invece, è sinonimo di sottomissione. L’autocontrollo, semmai, bisogna perderlo e affidare il proprio destino ad altri. Mettete da parte il vostro io più prepotente, calcolatore e astuto, e abbandonatevi senza remore alla nuova esperienza come se doveste immergervi in un bel bagno caldo. Disattivate il radar e lasciatevi travolgere da cose meravigliose. Quando questo accade a uno chef professionista, è un momento di rara bellezza.

Provateci anche voi.