DECIFRARE FERRÁN ADRIÀ
Lo vogliono tutti.
“Non esiste un libro più fastoso di questo, nemmeno a cercarlo in tutto il mondo” sostiene Eric Ripert, chef del Bernardin a Manhattan. Sta parlando del monumentale libro di cucina dello spagnolo Ferrán Adrià, El Bulli 1998-2002, il primo di tre volumi che ripercorreranno l’evoluzione delle ricette e delle tecniche di preparazione adottate dal famoso ristorante a tre stelle. Al momento è disponibile solo in spagnolo e catalano, costa intorno ai centosettantacinque euro e pesa all’incirca cinque chili (guida alla lettura e cd-rom compresi): più che un libro di cucina sembra il misterioso monolite nero di 2001: Odissea nello spazio... È una raccolta che intimidisce e lascia il segno, tanto che è diventata la più discussa e ricercata nel giro degli chef professionisti e degli esperti di libri di cucina. Se volete diventare un cuoco di un certo livello, ogni minuto che passate senza è una tragedia: dovete procurarvela a ogni costo, ammesso e non concesso che poi riusciate a leggerla.
Quando se ne parla, è frequente il ricorso a metafore prese in prestito dalla fantascienza e dai viaggi interstellari. “Non esiste un libro di cucina come questo. È fantastico che sia stato impostato come Guerre stellari” conferma Wylie Dufresne, fan sfegatato di Adrià, che ha impostato il menu del suo WD-50 a New York ispirandosi al controverso chef catalano. “Ha deciso di tornare indietro nel tempo!” (Il prossimo tomo, infatti, coprirà gli anni tra il 1994 e il 1997.) “Ormai bisogna guardare alla Spagna, e Adrià è il punto di partenza.”
Erano anni che sentivo amici e colleghi raccontare la loro esperienza a El Bulli. A Tetsuya Wakuda, uno chef di Sydney, per esempio, aveva cambiato la vita. (Si era messo in testa di creare anche lui un “laboratorio/workshop”, proprio come Adrià.) Altri, come Scott Bryan del Veritas, sono rimasti strabiliati e confusi.
“È stato... come... sì, è stato uno choc. Mi hanno servito un sorbetto all’acqua di mare, ci credi?” Ho passato mesi a contemplare il Libro con un misto di paura e desiderio, poi ho deciso che era giunto il momento di darsi da fare. L’immensa e vergognosa lacuna che gravava come un macigno sulla mia educazione culinaria andava colmata al più presto. C’erano alcune cose che dovevo sapere. Il problema andava affrontato al più presto.
Ferrán Adrià era seduto a un tavolino nel minuscolo retrobottega del Jamonísimo, una salumeria di Barcellona che vende solo prosciutto iberico. Teneva in mano una sottile fetta di prosciutto di Salamanca e se la strofinava sulle labbra, vibrando quasi di entusiasmo. Raggiunta la temperatura giusta, il grosso strato di grasso bianco divenne traslucido e poi si sciolse. “Hai visto? Hai visto?” esclamò. Ci eravamo già scolati una bottiglia di Cava e diversi bicchieri di sherry, e avevamo mangiato un piatto di vongole galiziane, minuscole e incredibilmente ben conservate in scatola, del tonno basco burroso anch’esso in scatola, qualche acciuga e un numero imprecisato di assaggi di prosciutto originario dell’Estremadura e di Salamanca. Lo chef più innovativo e influente del mondo, almeno a detta di tutti, non pareva affatto lo scienziato asettico, algido e folle che mi ero aspettato di trovare. Questo tizio nutriva una vera e propria passione per il cibo. E gli piaceva anche mangiare. Nonostante l’approccio “scientifico” di alcune sue ricette, non snobbava i piaceri semplici del palato: “Che male c’è a sfruttare la scienza?” mi chiese. “Che male c’è nel giocare con il cibo e trasformarlo?” Prese un’altra fetta di prosciutto tra le dita. “Per ottenere il prosciutto si segue un certo ‘procedimento’. Bisogna ‘trasformare’ il maiale in qualcos’altro. Alla fine il prosciutto iberico è meglio del maiale di partenza, no? Uno sherry di qualità è meglio dell’uva con cui è stato distillato, non credi?”
Una volta alzate le tapparelle di metallo dell’El Bulli Taller, il laboratorio/workshop di Adrià ricavato in un palazzo gotico ristrutturato nella parte vecchia di Barcellona, mi ritrovai di fronte a una panoplia di gingilli e utensili. Sotto un piano da lavoro comparvero magicamente dei fornelli a induzione. Nelle dispense illuminate, un’impressionante gamma iperorganizzata di ingredienti, ciascuno disposto in vasi di vetro identici. Più che in una cucina, sembrava di essere nella stanza segreta del dottor No, solo che il vero protagonista era il cibo.
“Che cos’è ‘meglio’, questa o un tartufo bianco?” mi chiese Adrià, tenendo in mano una pera, piccola e deliziosa. “È meglio il tartufo bianco, solo perché costa di più o perché ti dà prestigio?” Confessò di non avere ancora trovato una risposta, dunque voleva scoprirlo. Nel suo taller, o laboratorio, ci si interroga di continuo sulle proprietà fisiche dei cibi (“Si può fare così? Si può fare cosà? È possibile preparare un caramello che non si sfaldi con l’umidità? È possibile aromatizzare la schiuma del cappuccino al gusto di carota? È possibile gelatinizzare un consommé caldo?”), sull’arte dello stare a tavola, sulla natura della cucina e della gastronomia. Per sei mesi l’anno, Adrià chiude il ristorante e viene qui a lavorare con il fratello Alberto, il chimico Pere Castells, il designer industriale Luki Huber e lo chef Oriol Castro: insieme fanno esperimenti, documentandoli con scrupolo, e si pongono domande, alcune delle quali davvero minacciose, perfino eretiche per lo status quo.
Che cos’è un pasto?
Che cos’è una cena?
Che cos’è uno chef?
È impossibile non porsi quesiti simili, anche se Adrià e i suoi collaboratori si concentrano su temi più contenuti, meno metafisici. Quel giorno, per esempio, si stavano domandando se si poteva caramellare una fetta di pesca e spacciarla poi per foie gras scottato in padella. (A quanto pare, è possibile.) Si può cuocere una bella acciuga fresca lasciando intatta la pelle esterna, in modo che sembri ancora cruda? (Sembrerebbe di sì.) Si può ottenere del caviale da una purea di mango? (Anche in questo caso, risposta affermativa.) Nel corso della giornata furono condotti almeno cinque o sei esperimenti, seguendo modalità diverse per ciascuno, e alla fine grafici e appunti rivelarono risultati positivi.
“Se in un anno riesco a trovare due o tre pietanze innovative, vuol dire che è stato proficuo” mi spiegò Adrià. Sono sicuro che molti di voi avranno notato sui menu l’effetto a catena prodotto da alcune delle sue prime idee di successo: cappuccino aromatizzato (che ormai lui stesso non propone più), consommé caldo in gelatina, pasta di calamari, gelatina di formaggio, “polvere” di foie gras surgelata. Potete dire ciò che volete di Adrià. Molti degli chef che ridacchiavano solo a sentirlo nominare adesso lo copiano senza ritegno e ne sfruttano i concetti più semplici per i loro banali menu.
Sì, al taller non fanno che porsi domande, ma è indispensabile che anche i clienti facciano altrettanto: quella che lancia El Bulli, infatti, è una sfida molto rischiosa, un po’ come camminare senza rete di protezione su una corda tesa sospesa nel vuoto. E oltretutto si tratta di domande importanti. Ciò che viene portato in tavola è pur sempre cibo o si tratta di un’altra cosa? E, soprattutto, è “buono” nel significato tradizionale del termine (qualunque esso sia)? Il menu da trenta portate in continua evoluzione sembra scatenare un furioso dibattito al riguardo.
Il ristorante si affaccia su una spiaggia appartata lambita dal Mar Mediterraneo, a una decina di chilometri da Roses, in Costa Brava, ed è raggiungibile percorrendo una strada panoramica a curve lungo il dorso della collina. Adrià mi invitò a cena nella cucina di El Bulli, così mi sedetti e gustai quello che pian piano, portata dopo portata, si rivelò un pasto incredibile, straordinario, obnubilante, delizioso, a suo modo piacevole: insomma, una continua sorpresa, ma pur sempre meravigliosa.
In quattro ore mi servirono trenta pietanze diverse. Anche la cucina di Adrià sovverte qualsiasi luogo comune: è fresca, tranquilla, elegante e moderna, con enormi finestre ad anta singola e sculture disseminate un po’ ovunque. Uno staff di cuochi, che oscillano tra i trentacinque e i cinquantacinque elementi, si occupa ogni sera dello stesso numero di clienti, e in un unico turno. È un ambiente serio, abbastanza sereno, lontano anni luce dai feroci campi di battaglia e dai tuguri puzzolenti, più simili a sottomarini, a cui è abituata la maggior parte dei cuochi.
Di rado qualcuno alza la voce. Non ci sono grida né insulti, non si sentono sbattere le stoviglie, nessuno si permette di chiudere a calci il portello del forno. Mangiammo a un tavolo apparecchiato con una semplice tovaglia bianca, senza fronzoli né centrotavola elaborati. Se fu una “cena” o un’“esperienza di vita” non saprei dirlo, temo che passerò il resto dei miei giorni a tentare di risolvere l’enigma. Comunque la si voglia mettere, Adrià mi accompagnò in un lungo giro sulle montagne russe della gastronomia, fatto di pietanze che passavano dalle più astruse applicazioni delle nozioni di chimica (un tuorlo d’uovo laccato al caramello e ricoperto con una foglia d’oro) all’epitome della semplicità (due gamberi freschi cotti nel loro sugo, senza aggiunta di altri ingredienti). Mister Adrià, che sostiene di capire le persone da come mangiano, teneva il passo e si gustava ogni portata insieme a me (a volte anche prima), spiegandomi quale delle meraviglie che avevo nel piatto andava mangiata per prima, quale per seconda e così via. “Dai, butta giù in un colpo solo! Sbrigati!” Il ritmo è importante, insisteva. “Non bisogna mangiare troppo lentamente, altrimenti ci si impigrisce e ci si stanca.”
Per cominciare, arrivarono degli “stuzzichini”. Un cocktail verde “al frappè di pino”, patatine di carciofo, un austero piatto nero con sopra del pane tostato, sale marino, arachidi finemente tritate e un tubetto bianco di burro d’arachidi fatto in casa, insieme a “foglie di ninfea al lampone”, una “composizione” di nocciole, tempura di limone con liquirizia, rabarbaro al pepe nero, una sfilza di minuscoli e gustosissimi “ciccioli” di cetriolo di mare disposti su una piccola griglia nera e grossi mucchietti di maiale con una salsa allo yogurt.
Poi fu la volta del jamón de toro. Nonostante l’ingannevole gioco di parole (in spagnolo, infatti, la parola toro indica il grosso bovino cornuto), si trattava di tonno affumicato e tagliato come se fosse prosciutto iberico; per evitare di appallottolare o rompere le eteree fettine, venne servito con un paio di pinze d’argento, che ricordavano (volutamente) uno strumento chirurgico.
A mano a mano che le portate si susseguivano, Adrià mi guardava e ogni volta che coglieva sul mio viso un’espressione stupefatta, rideva. Le “ciliegie con prosciutto” sembravano confetti, ma in realtà ognuna era ricoperta da una glassa di grasso di prosciutto. L’“uovo d’oro”, una specie di cuscinetto a base di tuorlo d’uovo avvolto nel caramello e in una foglia d’oro, risvegliava al palato diverse sensazioni, nell’ordine: choc, disorientamento e infine rassicurante conforto. Un microscopico “panino al gelato di parmigiano” fu l’esempio estremo di come si possa giocare su cibi apparentemente normali: un ricordo dolce-amaro di un’infanzia mai vissuta, l’ennesima deliziosa burla dello chef catalano. Il “caviale” di mela – celestiali sferette all’essenza di mela – venne presentato in una finta scatoletta di Petrossian. Poi due portate di crêpe, una di pelle di pollo e l’altra di solo latte (!), un vero piacere per i sensi. Una combinazione come i “ravioli” di piselli sembrava impossibile da realizzare: l’essenza di pisellini, fluida e verde brillante, non era avvolta nella pasta o in qualche involucro esterno, ma in se stessa, un ripieno sospeso nel vuoto come per miracolo. L’“aria” di carota era un’impalpabile spuma di carota e mandarino dal sapore deciso, servita in una coppetta di vetro lavorata a mano. Portandomi il cucchiaio alla bocca, inavvertitamente ne inspirai un po’, e non fu facile mantenere un certo contegno, tra la tosse e il colorito paonazzo. Una delle preparazioni per cui Adrià è così famoso è il consommé di foie gras con polvere ghiacciata di foie gras, un concetto di per sé inconcepibile. Nella ciotola di consommé caldo e trasparente sembrava fossero appena caduti dei fiocchi di neve. Lo chef mi istruì su come mangiarlo: dovevo procedere da un lato del piatto all’altro, alternando caldo e freddo. Che per qualche strana ragione la polvere ghiacciata e tritata finissima si mantenesse integra in una ciotola di brodo caldo, mi lasciò sbalordito. Era un risultato che sfidava tutte le leggi dell’universo fino a quel momento conosciute. E aveva un sapore delizioso, come qualunque altra pietanza cucinata al mondo, una sonora tirata d’orecchi a secoli di cucina classica, nemmeno lontanamente paragonabile al “cappuccino di foie gras” e alle montagne di “foie gras saltato in padella con chutney e verdurine” che ormai si vedono dappertutto. Credo sia l’argomentazione più forte ed efficace che Adrià possa addurre a testimonianza di ciò che sostiene di fare. “Per me ogni volta è come se fosse la serata inaugurale. Dev’essere... magica.”
Quando arrivarono le “ostriche ripiene di ostriche e yogurt, ricoperte di noce di macadamia”, fu un altro incredibile trionfo. Due ostriche perfette in un’essenza di ostriche più piccole e liquefatte, una puntina di salsa al limone e per finire una crema di yogurt alla noce di macadamia: mangiare i diversi ingredienti in questa sequenza era come compiere un viaggio intorno al mondo, insolito ma al contempo familiare, e alla fine ti potevi tuffare sull’ostrica principale. La sfera luminosa e traslucida di midollo di tonno cosparsa di gocce di caviale era così deliziosa che Adrià mi disse: “Questa non la servirò mai ai miei clienti giapponesi. Se la scoprono, il prezzo delle ossa di tonno salirà alle stelle!”. Be’, non aveva tutti i torti. Il gusto di quella sostanza ultraleggera, celestiale, ricordava un sushi alla Edo di prima qualità: insomma, era di un altro pianeta. Come quasi tutto ciò che assaggiai quella sera, rivelava una progressione di sapori puliti e precisi, calibrata con cura, e un piacevole retrogusto che però non strideva mai con la portata successiva.
I “ravioli” di seppia e cocco consistevano in due cuscinetti di pesce che all’improvviso (e con un certo disagio) ti esplodevano in bocca, inondandola di liquido. Quando mi riebbi dalla sorpresa, alzai la testa e vidi che Adrià rideva di gusto. I “cannelloni” al tartufo estivo con midollo di vitello e cervella di coniglio, l’entrée più tradizionale fra le tante servite, erano ricchi, insuperabili, sontuosi e al gusto di burro.
Poi arrivarono i “due metri di spaghetti di parmigiano”, cioè una lunga striscia di consommé al gusto di formaggio solidificata con agar-agar. Avvolta su se stessa in una ciotola, simile a una porzione ridotta di spaghetti alla carbonara, con una spruzzata di pepe nero, andava succhiata e inghiottita in un colpo solo (Adrià stesso me ne diede una rumorosa dimostrazione). Un croccante carré di acciuga – testa e lisca – arrivò avvolto in quella che sembrava una nuvola di zucchero filato nero e, nonostante l’aspetto funereo, era delizioso.
A prima vista, il “terriccio di cioccolato” era orribile e ben poco convenzionale, assomigliava più che altro a una coppetta piena di terra e ciottoli, ma in realtà era un classico dessert a base di cioccolato e nocciole. Per il “pane inglese”, invece, Adrià si era ispirato a un effetto speciale del cinema, il morphing: una volta posizionata sulla lingua, infatti, la pagnotta scompariva senza lasciare traccia. Poi arrivò una gradita “sorpresa”. Mi ritrovai davanti un sacchetto da cui fuoriusciva qualcosa di molto simile a una baguette. All’improvviso, Adrià si avvicinò e con un pugno la frantumò in fragranti pezzetti di pasticcini al finocchio.
Volete sapere se ho mangiato bene? Non so se abbia senso descrivere una cena da El Bulli in questi termini. Piuttosto, sarebbe meglio dire che è stata “grandiosa”, cioè molto piacevole, una sfida all’ordine delle cose universalmente accettato, innovativa, rivoluzionaria. Per un cuoco vecchio stampo come me, convinto che in cucina contino solo concetti come terroir e tradizione, uniche chiavi di lettura per soddisfare appieno i propri clienti, è stata un’esperienza destabilizzante ma anche rivelatrice. Portata dopo portata, ho avuto la prova che il mondo è cambiato e, sfacciato e incontrollabile come non mai, si è rinnovato.
Forse nessuno può dirlo meglio di Juan Mari Arzak, proprietario nonché chef dell’Arzak, un ristorante a tre stelle di San Sebastián, fervido sostenitore di Adrià. “Quello che fa è molto importante” disse, sedendosi al nostro tavolo dopo cena per il caffè e le sigarette di rito. I due – Arzak, il basco passionale, e Adrià, il catalano entusiasta e curioso – sono diventati ottimi amici. “Ci telefoniamo tutti i giorni alle quattro del mattino e uno di noi grida sempre all’altro: ‘Ho avuto un’idea!’” continuò Arzak. “Quest’uomo sta davvero rivoluzionando la nostra arte.”
A New York, invece, Ripert si mantiene più sulle sue. “Ferrán Adrià è un fenomeno. Ne basta uno, che ce ne facciamo di cinque o anche solo di tre come lui? Per me è inconcepibile anche solo pensare di copiarlo.”
In ultima analisi, la vera natura di Adrià si rivelò il giorno dopo la mia visita, o almeno così mi piace pensare, mentre eravamo a pranzo nel suo ristorante preferito, il Rafa’s, un localino intimo con solo venti coperti nella vicina Roses. Lì servono pesce freschissimo, quasi sempre cucinato soltanto con un po’ di sale e olio d’oliva. Rafa, il proprietario, e sua moglie utilizzano un unico fornello e una minuscola griglia posti dietro un pannello di vetro, oltre il quale si possono ammirare le meraviglie pescate qualche ora prima. Dopo essersi avventato su alcune fette di cetriolo di mare alla griglia, Adrià attaccò un piatto di gamberi così freschi che sembravano ancora vivi, e ne succhiò il cervello e il succo dalla testa. “Una magia! Questa è una magia! Quando cuciniamo i gamberi, cerchiamo di imitare quelli di Rafa. Ecco, vorrei che le mie pietanze facessero sempre questo effetto” mi disse gesticolando come un matto, con un’espressione selvaggia negli occhi.
E direi che ci è riuscito in pieno, benché a modo suo, insolito e trasgressivo come sempre.