Navigo, ergo sum
Se l’iperconnessione prende la mano dei nostri figli e li traghetta dalla vita reale a quella virtuale, in una sovrapposizione di spazi che non vengono piú separati, cosí il linguaggio idiomatico della rete crea un suo gergo, asciutto e aggiornato, per le generazioni fornite delle attitudini multitasking. Le chiavi della cella tecnologica si chiudono a doppia mandata. E diventa piú comprensibile il grido d’allarme lanciato in piú occasioni dal linguista Tullio De Mauro, autore del libro La cultura degli italiani, secondo il quale l’analfabetismo di ritorno è un fenomeno di massa, che riguarda il 70 per cento della popolazione. Una regressione che in altri paesi ha già indotto i governi a intervenire a difesa della lingua nazionale e di un corretto livello di alfabetizzazione delle nuove generazioni. La sbornia delle tecnologie elettroniche, introdotte per esempio dai governi laburisti già nella scuola dell’infanzia, sembra rientrare, sotto i colpi di rigorose analisi scientifiche. La Royal Society of Medicine ha chiesto al governo inglese di intervenire per vietare, o almeno limitare, l’uso dei computer per i bambini sotto i nove anni. «Il computer, se usato prematuramente, persino all’asilo, rischia di compromettere le abilità di lettura e di calcolo matematico – avverte Aric Sigman, uno dei piú famosi psicologi della Royal Society. – Con il bombardamento prematuro il bimbo diventerà anche un maghetto della tastiera, ma magari non saprà disegnare un albero, fare le addizioni o imparare una poesia».
Cosí in molte scuole della Gran Bretagna e della Scozia è tornato l’uso obbligatorio della penna stilografica proprio a partire dai nove anni: un cambiamento didattico a 360 gradi dopo la scoperta che l’80 per cento dei ragazzi sa scrivere solo stampatello. Stessa regola in diversi stati della Germania, dove le commissioni di consulenti governativi hanno diffuso un rapporto sull’importanza della scrittura a mano: l’uso della penna e della carta impone un rallentamento riflessivo e obbliga chi compone una frase a pensarla, prima di scriverla. Il contrario di quello che avviene con il computer che sincronizza, nello stesso tempo e con la stessa sequenza, il pensiero con la sua formulazione digitale e riduce le nostra capacità meditative. In Francia sono state riscoperte le virtú didattiche del dettato, anche per gli alunni delle classi superiori: un tentativo di contenere la deriva del gergo del web, di contrastare forme espressive sciatte e banali e di difendere, con lo stile di un paese molto orgoglioso della sua storia, la lingua nazionale.
Il sonno, la salute, le parole, il tempo. E poi l’amore. L’iperconnessione ha stravolto qualsiasi approccio alla seduzione, al corteggiamento, ai primi contatti di coppia. Indifferenti ai canoni di una tradizionale educazione sentimentale, anche perché nessuno si preoccupa di alimentarla, i «nativi digitali» hanno costruito all’interno della prigione tecnologica un loro universo di ammiccamenti, di relazioni, di spazi condivisi. Lo psichiatra Vittorino Andreoli ha studiato molto da vicino il lessico sentimentale che domina i contatti attraverso la rete: «La vita digitale permette le emozioni, e anzi le rende piú straordinarie, piú forti, piú ricche di quelle del mondo reale. Ma ciò che viene a mancare sono le relazioni, i legami affettivi che si stabiliscono tra due persone, anche grazie all’assenza di contatti reali. In un amore passionale, non a caso, soffriamo proprio per la mancanza fisica della persona amata, mentre il web non prevede l’assenza dell’altro. Per cui internet crea un equivoco, e scambia i sentimenti con le emozioni». Il rischio è l’autismo digitale, il solipsismo, l’incapacità di riconoscersi lontani da un monitor, di occupare uno spazio affettivo. Dice Andreoli: «In internet non si naviga in due, si sta bene da soli. Davanti allo schermo siamo portati a cancellare le immagini indesiderate, a creare i nostri avatar, non piú persone, ma immagini di persone».
Nell’era di internet, il protocollo sentimentale è stato stravolto nei suoi momenti essenziali. Dirsi addio, per esempio, è ormai una questione di sms sul cellulare, di un banale clic su Facebook, di un messaggio con non piú di 160 caratteri attraverso il computer. Lasciarsi è una pratica veloce, senza contraddittorio e con uno sforzo in termini di byte, non di parole. Nel 1994 fece scalpore nel mondo la notizia che Daniel Day Lewis aveva lasciato la sua compagna, l’attrice Isabelle Adjani, incinta, comunicandoglielo solo via fax. Quel gesto, oggi, è preistoria. Da un sondaggio condotto in Francia su un campione di duemila persone, si è scoperto che gli addii amorosi si celebrano nel 40 per cento dei casi attraverso la posta elettronica, e nel 10 per cento dei casi con un messaggio su Twitter o Facebook. «Mollarsi digitalmente è sempre piú comune perché è piú facile, rapido, ed evita qualsiasi malinteso» commenta Sean Wood, direttore del marketing di DateTheUk, uno dei piú popolari siti inglesi di incontri on line.
L’autismo digitale è il risultato di un paradosso dell’iperconnessione: piú siamo collegati attraverso l’uso dei gadget elettronici, e meno siamo disponibili a costruire rapporti affettivi misurandoci anche con la sorpresa del contatto fisico. Cellulari, posta elettronica, messaggini: la tecnologia ci circonda, non passano piú di tre minuti, nel corso di una giornata, senza che ciascuno di noi venga raggiunto, o interrotto. Tre minuti, nulla. Ma se il telefonino squilla durante il picnic con i figli, se bisogna rispondere al Blackberry mentre siamo in viaggio con la nostra compagna, se in ufficio utilizziamo il computer nei momenti di pausa per distrarci con i videogiochi, allora le emozioni, come dice Andreoli, prendono il sopravvento sui sentimenti. E piú siamo connessi, piú siamo soli. Piú entriamo in relazione con gli altri via web, meno siamo coinvolti sul piano emotivo. I sentimenti si raffreddano, le relazioni diventano opache, non producono empatia. Nella primavera del 2008, i capi delle piú importanti aziende informatiche della Silicon Valley hanno introdotto un divieto per tutti i dipendenti: quando incontrano un ospite devono presentarsi all’appuntamento senza gadget elettronici. Nudi. Cosí, proprio nel cuore dell’industria ad alto contenuto tecnologico si è deciso di fare un passo indietro, tornando al buon senso e alle buone maniere del contatto fisico, diretto, faccia a faccia, senza le mediazioni digitali. E quando ci si incontra, i pc, i cellulari, i Blackberry, devono essere depositati nella portineria degli uffici, come se fosse necessario mostrarsi disarmati di fronte agli interlocutori.
La tecnologia è avida nella sua evoluzione. Quando crea un problema, riesce presto a trasformare la sua soluzione in una nuova opportunità e ciò rende il progresso tendenzialmente infinito. La stessa rete che alimenta l’autismo digitale, la stessa rete che incatena i navigatori nella prigione del web, ha generato il suo anticorpo: il social network. La comunità internettiana, l’amicizia contro la semplice informazione, lo stare insieme sul web come alternativa all’isolamento. I signori della rete hanno considerato il 31 marzo 2010 come una data storica, nella quale si è consumato il sorpasso, e le visite di Facebook hanno superato per la prima volta quelle di Google, che sembrava irraggiungibile con il suo bottino di contatti, 3 miliardi di ricerche al giorno.
Facebook è un fenomeno relativamente recente, nato nel 2004 grazie all’ingegno di uno studente diciannovenne, Marck Zuckerberg, che riuscí con il suo primo social network a mettere in contatto gli studenti universitari di Harvard. Oggi Zuckerberg è ancora un ragazzo, e il suo nome è il piú giovane nella classifica degli uomini piú ricchi del mondo nel settore dell’hi-tech con un patrimonio valutato attorno ai 4 miliardi di dollari. Quanto agli utenti di Facebook, sono a quota 500 milioni in tutto il mondo, dei quali 12 milioni, il 20 per cento della popolazione, solo in Italia. La creatura di Zuckerberg è la savana del web, un enorme territorio da esplorare, dove ciascuno si mette a caccia delle sue relazioni. Affettive: nuovi amori, amicizie e corteggiamenti. Sentimentali: la ricerca dei vecchi compagni di scuola, degli amici che la vita ha disperso. Politiche: una morbida propaganda via web, la piazza virtuale per catturare il consenso, per avvicinare gli elettori al loro leader.
Il social network è una moltiplicazione infinita di luoghi non reali, dove ciascuno può vivere il suo momento di gloria, una breve parentesi da protagonista. Il repertorio delle iscrizioni è una sequenza di invenzioni della mente umana attratta dalla calamita tecnologica. Su Facebook l’adolescente depresso annuncia il suo macabro conto alla rovescia prima di suicidarsi; il boss della ’ndrangheta, Pasquale Manfredi, spadroneggia in rete, detta ordini e rompe l’isolamento della latitanza nascondendosi dietro il nickname «Scarface», il gangster cubano interpretato al cinema da Al Pacino; un gruppo di svitati (1653 iscritti) gioca al tiro al bersaglio con i bambini down. I napoletani ironizzano sui loro guai, intitolando ogni voragine della città porosa e abbandonata a un santo al quale votarsi per evitare degli incidenti: alla buca piú grande corrisponde il santo per eccellenza, «Fosso Nostro Signore».
Con Facebook la rivoluzione digitale fa un ulteriore passo avanti nel seppellire il mondo reale a vantaggio di quello virtuale. La rete si trasforma nel luogo della socialità e dell’identità: navigo ergo sum, e se non sono sul web semplicemente non esisto. La realtà virtuale si impadronisce perfino della felicità, confondendola con la conquista di un posto, anche solo una nicchia, nell’universo di internet. In un’indagine condotta su un campione di popolazione di circa diecimila cittadini australiani, di età compresa tra i 18 e i 64 anni, piú della metà degli interpellati ha risposto che la felicità significa entrare in un social network, fare parte di una comunità virtuale. Connettersi.