Anche i cinesi mangiano troppo

Allo spreco del cibo si abbina il suo consumo esagerato, innaturale. Nell’ultimo quarto di secolo l’obesità è esplosa come una malattia di massa: negli Stati Uniti ormai riguarda il 35 per cento della popolazione adulta, in Gran Bretagna il 24, mentre in Italia si registra il record dei bambini in sovrappeso, uno su tre fra i 6 e gli 11 anni. L’obesità divora i corpi, accorcia la vita, ne ridimensiona la qualità. E incide, con una serie di effetti a catena, sui conti del servizio sanitario pubblico perché in molti casi si traduce in patologie, come il diabete, molto complesse e costose dal punto di vista terapeutico. La European Association for the Study of Diabets e la Federazione diabete giovanile definiscono la prevenzione e il trattamento dell’obesità come «il piú importante problema di salute pubblica in tutto il mondo». In America, uno studio condotto sui giovani di età compresa tra i 6 e 19 anni ha dimostrato che i soggetti classificati come «obesi» hanno generato costi sanitari aggiuntivi, pro capite, per 194 dollari per visite ambulatoriali, 114 dollari per prescrizioni di farmaci e 12 dollari per prestazioni d’emergenza. Proiettando questi dati sull’intera popolazione giovanile degli Stati Uniti si arriva alla conclusione statistica che l’obesità e il sovrappeso causano costi aggiuntivi al sistema sanitario pari a 14,1 miliardi di dollari l’anno per visite ambulatoriali, farmacie e medicine d’urgenza. A questi costi bisogna poi aggiungere le spese per le malattie collegate all’obesità, dal diabete ai problemi cardiovascolari fino all’ictus. Anil Kapur, direttore della World Diabetes Foundation, ha provato a tirare le somme: «Le stime riguardanti i costi globali dell’healthcare – prevenzione, trattamento del diabete e delle complicanze – si sono attestate per il 2010 attorno a 376 miliardi di dollari, un terzo di tutto il budget che Barack Obama ha messo in conto per la sua riforma sanitaria, ma con l’attuale progressione dell’obesità e del sovrappeso questo numero è destinato a superare i 490 miliardi di dollari nel 2030».

L’obesità ha contagiato anche la Cina che, fra i tanti primati mondiali, ha conquistato anche quello della popolazione in sovrappeso, circa un terzo dei cittadini della Repubblica popolare. Un adulto su dieci risulta obeso, con una spesa per il servizio sanitario nazionale vicina ai 7 miliardi di dollari, mentre a Pechino e Shanghai i bambini di 6 anni pesano in media 22,4 chili. Sono numeri impressionanti se si considera che mezzo secolo fa, al tempo di Mao, la carestia uccise 30 milioni di persone: la corsa al benessere e agli stili di vita occidentali hanno trascinato la Cina dalla sponda della fame a quella dell’obesità.

Alle origini delle diagnosi del diabete ci sono diversi fattori: da una cattiva alimentazione, che colpisce anche un paese come l’Italia dove pure dovrebbe essere radicata la cultura della dieta mediterranea, all’insufficiente attività fisica. Ma quello che piú conta sono gli acquisti esagerati di cibo, gli sprechi della tavola, spinti da una gigantesca macchina della pubblicità e del marketing. Un esempio? Le merendine e gli snack, il cui consumo è sostenuto da martellanti campagne televisive: l’82 per cento dei bambini italiani fa merende troppo abbondanti, con oltre mille calorie. E rischia di finire nella zona rossa del sovrappeso. L’eccesso di cibo, insomma, avvelena l’uomo e il suo spreco incide in modo diretto sull’inquinamento ambientale. Un gruppo di professori dell’università di Bethesda, nel Maryland, ha calcolato nei dettagli questo danno: il cibo sprecato vale 300 milioni di barili di petrolio l’anno. Ulf Bohman, direttore del Dipartimento nutrizione dell’Agenzia svedese per il controllo degli alimenti, ha firmato le nuove linee guida dell’alimentazione, nelle quali ambiente e salute hanno lo stesso peso. «Siamo abituati a pensare che la sicurezza alimentare e la nutrizione siano una cosa, e l’ambiente un’altra. Non è cosí. Nella realtà i due fenomeni sono strettamente correlati e impattano, con un effetto moltiplicatore, sulla qualità della vita» dice Bohman. E azzarda qualche cifra: il 25 per cento delle emissioni di CO2 prodotte dagli abitanti dei paesi industrializzati sono riconducibili alla produzione e al consumo di cibo, mentre la carne è responsabile del 18 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica. Ecco perché il governo di Stoccolma ha deciso di introdurre l’obbligo di riportare sulle etichette dei prodotti alimentari, oltre agli ingredienti e alle qualità nutritive, anche le emissioni sprigionate con la lavorazione. Si è scoperto cosí che un hamburger di manzo produce emissioni pari a 1,7 chilogrammi di anidride carbonica, molto piú di un panino al pollo che invece vale 0,4 chilogrammi di anidride carbonica. Per produrre un chilo di avena vengono emessi quasi 9 etti di CO2, mentre un chilo di carne equivale a 6 chili di petrolio.

La natura non fa sconti, specie quando l’uomo non riconosce il senso del limite nei suoi stili di vita e nelle sue abitudini quotidiane. In teoria, il cibo che produciamo sarebbe piú che sufficiente per tutti: il pianeta ne sforna una quantità pari a sfamare 12 miliardi di essere umani, mentre in realtà siamo meno di 7 miliardi. La differenza è lo spreco, che ingrassa le pance di potenziali malati oppure finisce nei cestini dei rifiuti. Avvelena uomini e ambiente. Ridurre lo spreco alimentare, dunque, non è solo una scelta di buon senso, ma è un passaggio obbligato per raggiungere l’obiettivo di accorciare le distanze tra Nord e Sud del mondo, rendere l’ambiente piú sostenibile. E dare un volto a una globalizzazione meno ingiusta.