Prima di tutto

Domande1

Cosa ci può realmente motivare?

Cambiare il mondo o salvaguardarlo?

Solidarietà come autocompiacimento?

Abbandonare la radicalità?

Etica della rivoluzione?

Conseguenze della rivoluzione nonviolenta all’Est...

Navigare a vista?

Esiste da qualche parte una linea di demarcazione tra amici e nemici?

A chi ci si può affidare?

Esiste un’ascesi che uno aiuta e uno forgia?

Negare se stessi – credibile o pericoloso (disumano, burocratico, ipocrita)?

Cosa ti dice il Sud del mondo? Solo cattiva coscienza?

Perché cercare la salvezza altrove (perché poi dover andare lontano...)?

Vivresti effettivamente come sostieni si dovrebbe vivere?

Passeresti il tuo tempo con coloro ai quali rivolgi la tua solidarietà?

Professionalità. Potresti vivere anche senza politica?

Altruismo/egoismo?

Quali costanti?

Quali sintesi (per esempio giustizia, pace, salvaguardia del creato)?

Cosa faresti diversamente?

Potenzialità della disobbedienza civile...

Tu che ormai fai «il militante» da oltre venticinque anni e che hai attraversato le esperienze del pacifismo, della sinistra cristiana, del ’68 (già «da grande»), dell’estremismo degli anni Settanta, del sindacato, della solidarietà con il Cile e con l’America Latina, col Portogallo, con la Palestina, della nuova sinistra, del localismo, del terzomondismo e dell’ecologia – da dove prendi le energie per «fare» ancora?

A proposito di Giona2

È un tempo, questo, in cui non passa giorno senza che si getti qualche pietra sull’impegno pubblico, specie politico. Troppa è la corruzione, la falsità, il trionfo dell’apparenza e della volgarità. Troppo accreditati i finti rinnovamenti, moralismi abusivi, demagogia e semplicismo. Troppo evidente la carica di eversione e deviazione che caratterizza mansioni che dovevano essere di estrema responsabilità. Troppo tracotanti si riaffacciano durezza sociale, logica del più forte, competizione selvaggia.

Davvero non si sa dove trovare le risorse spirituali per cimentarsi su un terreno sempre più impervio. Non sarà magari più saggio abbandonare un campo talmente intossicato da non poter sperare in alcuna bonifica, e coltivare – semmai – altrove nuovi appezzamenti, per modesti che siano?

O dobbiamo forse riandare alla storia di Giona, precettato per recarsi a Ninive, a raccontare agli abitanti di quella città una novella pesante e sgradevole, tanto da indurlo alla diserzione, imbarcandosi sulla prima nave che andava in direzione lontana e contraria, pur di non portare il messaggio?

Sappiamo com’è andata a finire: la tempesta, il rischio di naufragio, Giona scoperto, identificato come causa dell’ira degli elementi e gettato dalla nave, inghiottito dal pesce enorme e riportato esattamente là dove aveva abbandonato e doveva quindi proseguire il suo compito. (I dettagli e la fine della storia conviene leggerli nell’originale.)

1.

Giona è un «profeta controvoglia», che deve essere assai faticosamente convinto a portare a destinazione il messaggio che gli è stato affidato.

Fatica ad accettare il suo mandato chi ha capito cose importanti e necessarie anche agli altri e sa che sarà assai impopolare diffondere un messaggio che non promette vantaggi e prebende, ma chiede cambiamenti profondi e va controcorrente.

Quanta distanza dai tanti profeti autoinvestiti! Si capisce che Giona non corra per alcuna «nomination», ma anzi cerchi di sottrarsi. Si ha fame di verità, di profeti il cui messaggio sia più importante del latore: la persona del «profeta», gli interessi del «profeta», l’acquiescenza a gusti facili e alla demagogia rendono spesso difficile percepire i messaggi importanti e veri.

Si ha un’acuta sensazione di non-verità di fronte ai messaggi gridati dai mass media, dalla competizione politica, dalla pubblicità, dalla convegnistica, dallo stesso sdegno di chi proclama ad alta voce la propria opposizione e alternatività. E non si riesce a dar credito a ricostruzioni, teoremi, ideologie che tutto spiegano, tutto inquadrano, tutto giustificano, in tutto fanno tornare i conti. C’è sete di messaggi semplici e veri: verificati, cioè, dall’esperienza vissuta, non gonfiati o aggiustati per colpire meglio l’attenzione o la curiosità.

2.

Quando il profeta finalmente la raggiunge e l’avvisa, la città di Ninive prende le sue misure per obbedire all’avvertimento profetico. Eccelle, tra i provvedimenti adottati per risanare e purificare la città, il digiuno. «Ognuno si converta dalla sua malvagia condotta e dall’iniquità che è nelle sue mani.» Gli animali, fratelli degli uomini, prendono parte al digiuno. Viene emanato il «decreto del re»: mostra che non basta la conversione individuale, occorre anche cambiare qualcosa nelle regole della città, per cambiare strada.

Quante Chernobyl, quanti incendi nel Golfo, quante guerre, quanti attentati, quanta deforestazione, quanti studi e previsioni catastrofiche ci occorreranno per prendere le nostre misure e digiunare?

Nel digiuno si può ottimamente sintetizzare il cuore del messaggio anche della «conversione ecologica»: la corsa sfrenata al profitto, all’espansione, alla crescita economica, alla dissipazione energetica e alimentare, alla supermotorizzazione, alla montagna ormai ingestibile dei rifiuti... un digiuno, una scelta di autolimitazione, del «vivere meglio con meno», è oggi necessario e urgente. Anche a costo di apparire impopolari.

3.

Giona, il profeta «catastrofista», sembra quasi deluso che poi la catastrofe non si avveri, e se la prende con Dio. Quasi sembra dire che «era inutile obbligarmi alla missione profetica, tanto lo sapevo che non sarebbe venuta così grossa...».

Oggi, soprattutto in campo ambientale, è tutta una profezia di sventura (dal Worldwatch Institute al Wwf, dall’ozono all’«effetto serra»...); c’è a volte il rischio di essere catastrofisti e di terrorizzare la gente, la qual cosa non sempre aiuta a cambiare strada, ma può indurre a rassegnarcisi. Piuttosto bisogna indicare strade di conversione, se si vogliono evitare ragionamenti come «dopo di noi il diluvio», «tanto è tutto inutile e la corsa è disperatamente persa...», «se io non inquino, ce ne sono mille altri che invece lo fanno...».

La «conversione ecologica» è cosa molto concreta. Esempi possibili si trovano in tutti i campi, dall’uso di detersivi meno inquinanti alla rinuncia frequente all’automobile, dalla sistematica separazione dei rifiuti per ricuperarne il massimo e non appesantire la terra con residui «indigesti» alla riduzione dei nostri consumi energetici. Occorrono comportamenti personali, ma anche «decreti del re».

Nelle nostre città anche un’altra conversione sembrerebbe importante: la «conversione alla convivenza». Ai vecchi abitanti di Ninive se ne sono aggiunti tanti nuovi, la città è ancora troppo divisa e contrapposta, mancano spazi comuni, occasioni comuni di incontro e di azione tra persone di diversa provenienza.

4.

Il profeta finalmente si ritira nei pressi della città per contemplare gli effetti della sua missione. Una pianta di ricino gli spunta sopra la testa per dargli ombra – e così com’è spuntata, si secca e scompare. Qualcosa di completamente gratuito e immeritato, come al profeta (che se ne lamenta) sembra immeritata la sua scomparsa.

Abbiamo bisogno di occasioni e opportunità gratuite nella nostra vita, nella vita delle città e delle campagne. Può bastare anche poco: spazi per sedersi senza dover consumare, accesso alla natura, al mare, al verde, senza dover pagare un biglietto, una fontana pubblica con l’acqua buona alla portata di tutti, biciclette del Comune che si possono prendere in prestito e restituire, un mercatino di scambio dell’usato... In una società dove tutto è diventato merce, e dove chi ha soldi può comperare e stare meglio, occorre la riabilitazione del «gratuito», di ciò che si può usare ma non comperare: perché non mettere a disposizione occasioni gratuite – modeste, magari – per dormire, mangiare, rifornirsi di vestiti usati...?

Non so come don Tonino abbia deciso di fare il prete e il vescovo. Non so se abbia mai sentito forti esitazioni, l’impulso di dimettersi, una sensazione di inutilità del suo mandato. Probabilmente non aveva mai bisogno della tempesta e della balena per essere richiamato alla sua missione. Forse sentiva intorno a sé una verità e una semplicità con radici profonde, antiche e popolari. Beati i profeti che non devono passare per la pancia della balena.

La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile3

È tempo di pensare a una costituente ecologica.

1. Abbiamo creato falsa ricchezza per combattere false povertà [...]

Da qualche secolo e in rapido crescendo si produce falsa ricchezza per sfuggire a false povertà. Di tale falsa ricchezza si può anche perire, come di sovrappeso, sovramedicazione, surriscaldamento eccetera. Falso benessere come liberazione da supposta indigenza è la nostra malattia del secolo, nella parte industrializzata e «sviluppata» del pianeta. Ci si è liberati di tanto lavoro manuale, avversità naturali, malattie, fatiche, debolezze [...]; in cambio abbiamo radiazioni nucleari, montagne di rifiuti, consunzione della fantasia e dei desideri. Tutto è diventato fattibile e acquistabile, ma è venuto a mancare ogni equilibrio.

Non solo l’apprendista stregone è il personaggio-simbolo del nostro tempo. L’antico re Mida – che ottenne il compimento del suo desiderio che ogni cosa che toccava si trasformasse in oro – ci appare come il vero patrono dei culti del progresso e dello sviluppo, l’attualissimo predecessore dei benefici della nostra civiltà.

2. Non si può più far finta di non sapere, l’allarme è ormai suonato da almeno un quarto di secolo e ha generato solo provvedimenti frammentari e settoriali

Da qualche decennio e con sempre maggiori dettagli si conoscono praticamente tutti gli aspetti di questo impoverimento da cosiddetto benessere. Quasi non si sta più a sentire quando si recita, più o meno completa, la litania delle catastrofi ambientali.

Un quarto di secolo è stato impiegato a scoprire, analizzare, diagnosticare e prognosticare, a dare l’allarme, a lanciare appelli e proclami, a varare leggi e convenzioni, a creare istituzioni incaricate a rimediare. La tutela tecnica dell’ambiente è notevolmente migliorata nel mondo industrializzato, si sono registrati singoli successi, alcune acque si stanno rivitalizzando, certe specie in pericolo di estinzione si sono salvate, cominciano a circolare detersivi, carburanti e imballaggi «ecologici»...

3. Perché l’allarme non ha prodotto la svolta? È già finito l’intervallo di lucidità (Stoccolma 1972 - Rio 1992)?

Allarmi catastrofisti, lamenti, manifestazioni, boicottaggi, raccolte di firme... Tutto ciò ha aiutato a riconoscere l’emergenza – le malattie sono state diagnosticate, le possibilità di guarigione studiate e discusse – ma terapie complessive non sono state ancora attuate. E soprattutto appare tutt’altro che assicurata la volontà di guarigione: se ci fosse, produrrebbe azioni e segnali ben più determinati. Visto però che le cause dell’emergenza ecologica non risalgono a una cricca dittatoriale di congiurati assetati di profitto e di distruzione, bensì ricevono quotidianamente un massiccio e pressoché plebiscitario consenso di popolo, la svolta appare assai più difficile. Malfattori e vittime coincidono in larga misura.

C’è da meravigliarsi se oggi persino la diagnosi risulta controversa? Silvio Berlusconi, a capo del governo della cosiddetta Seconda repubblica, sin dal suo discorso inaugurale alla Camera ha ritenuto di dover ironizzare sull’allarme per l’effetto serra: «Forse il nostro pianeta comincerà a intiepidirsi in un lasso di tempo pari a quello che ci divide addirittura dalla morte di Caio Giulio Cesare». C’è da pensare che dunque ci resta ancora tanto tempo per cementificare, dissipare, disboscare!

Vuol dire che l’intervallo di lucidità che si potrebbe situare tra le due conferenze mondiali sull’ambiente (Stoccolma 1972 - Rio de Janeiro 1992) è già terminato? Si è fatto il pieno di lamenti e allarmi e si pensa ora che la riunificazione del mondo tra Est e Ovest vada celebrata con nuovi fasti di crescita?

4. «Sviluppo sostenibile»: pietra filosofale o nuova formula mistificatrice?

Da qualche anno (rapporto Brundtland, 1987) la formula magica dello «sviluppo sostenibile» sembra essere la quadratura del cerchio così lungamente cercata. Nella formula è racchiusa una certa consapevolezza della necessità di un limite alla crescita, di una qualche autolimitazione della parte altamente industrializzata e armata dell’umanità, come pure l’idea che alla lunga sia meglio puntare sull’equilibrio piuttosto che sulla competizione selvaggia; ma il termine «sviluppo» (o «crescita», come in realtà si dovrebbe dire senza tanti infingimenti) è rimasto parte del nuovo e virtuoso binomio. Purtroppo basta guardare ai magri risultati della Conferenza di Rio per comprendere quanto lontani si sia ancora da una reale correzione di rotta. Sembra che il nuovo termine indichi piuttosto la propensione a un nuovo ordine mondiale nel quale il Sud del mondo viene obbligato a usare con più parsimonia e razionalità le sue risorse, sotto una sorta di supervisione e tutela del Nord: non appare un obiettivo mobilitante per suscitare l’impeto globalmente necessario per la conversione ecologica.

5. A mali estremi, estremi rimedi?

[...] Di fronte ai vicoli ciechi nei quali ci troviamo, può succedere che qualcuno tenti estreme vie d’uscita. Anche tra ecologisti, pur così propensi a una cultura della moderazione e dell’equilibrio, può esserci chi – seppure oggi in posizione isolata – pensi a rimedi estremi. Scegliamo i due più rilevanti. Il primo potrebbe essere caratterizzato da «muoia Sansone e tutti i filistei»: la convinzione che la catastrofe ambientale sia inevitabile e non più rimediabile, e che pertanto tocchi mettere in conto disastri epocali come ne sono avvenuti altri nel corso dell’evoluzione del pianeta. In mancanza di aggiustamenti tempestivi ed efficaci, la svolta ecologica verso un nuovo equilibrio sostenibile verrebbe imposta da tali disastri.

L’altro «rimedio estremo» che si potrebbe agitare sarebbe lo «Stato etico ecologico», l’ecodirigismo o ecoautoritarismo possibilmente illuminato e possibilmente mondiale. Visto che l’umanità ha abusato della sua libertà, mettendo a repentaglio la propria sopravvivenza e quella dell’ambiente, qualcuno potrebbe auspicare una sorta di tutela esperta ed eticamente salda e invocare la dittatura ecologica contro l’anarchia dei comportamenti antiambientali.

Si deve dire chiaramente che simili ipotetici «estremi rimedi» si situano al di fuori della politica, almeno di una politica democratica. Ogni volta che si è sperimentato lo Stato etico in alternativa a situazioni o Stati antietici (e quindi senz’altro deplorevoli), il bilancio etico della privazione di libertà si è rivelato disastroso. E l’attesa della catastrofe catartica non richiede certo alcuno sforzo di tipo politico: per politica si intende l’esatto contrario della semplice accettazione di una selezione basata su disastri e prove di forza.

Quindi si dovrà cercare altrove la chiave per una politica ecologica, e inevitabilmente ci si dovrà sottoporre alla fatica dell’intreccio assai complicato tra aspetti e misure sociali, culturali, economici, legislativi, amministrativi, scientifici e ambientali. Non esiste il colpo grosso, l’atto liberatorio tutto d’un pezzo che possa aprire la via verso la conversione ecologica: i passi dovranno essere molti, il lavoro di persuasione da compiere enorme e paziente.

6. La domanda decisiva è: come può risultare desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile?

[...] La domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni e impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta. La paura della catastrofe, lo si è visto, non ha sinora generato questi impulsi in maniera sufficiente ed efficace; altrettanto si può dire delle leggi e dei controlli, e la stessa analisi scientifica non ha avuto capacità persuasiva sufficiente. A quanto risulta, sinora il desiderio di un’alternativa globale – sociale, ecologica, culturale – non è stato sufficiente, o le visioni prospettate non sufficientemente convincenti. Non si può certo dire che ci sia oggi una maggioranza di persone disposta a impegnarsi per una concezione di benessere così sensibilmente diversa come sarebbe necessario.

Né singoli provvedimenti, né un migliore «ministero dell’Ambiente», né una valutazione di impatto ambientale più accurata, né norme più severe sugli imballaggi o sui limiti di velocità – per quanto necessarie e sacrosante siano – potranno davvero causare la correzione di rotta, ma solo una decisa rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società o in una comunità si consideri desiderabile.

Sinora si è agito all’insegna del motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana e onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in lentius, profundius, suavius (più lento, più profondo, più dolce), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso.

Ecco perché una politica ecologica potrà aversi solo sulla base di nuove (forse antiche) convinzioni culturali e civili, elaborate – come è ovvio – in larga misura al di fuori della politica, fondate piuttosto su basi religiose, etiche, sociali, estetiche, tradizionali, forse persino etniche (radicate, cioè, nella storia e nell’identità dei popoli). Dalla politica ci si potrà aspettare che attui efficaci spunti per una correzione di rotta e al tempo stesso sostenga e forse incentivi la volontà di cambiamento: una politica ecologica punitiva che presupponga un diffuso ideale pauperistico non avrà grandi chance nella competizione democratica.

7. Possibili priorità nella ricerca di un benessere durevole

I passi che qui si propongono – intrecciati e interdipendenti tra loro – fanno parte di una visione favorevole al cambiamento e potrebbero a loro volta incoraggiare nuovi cambiamenti. Purché ogni passo limitato e parziale si muova in una direzione chiara e comprensibile, e i vantaggi non siano tutti rimandati a un futuro impalpabile.

a) Bilancio ecologico.

Gli attuali bilanci pubblici e privati sono tutti basati su dati finanziari. Sintanto che non si avranno in tutti gli ambiti (Comune, Provincia, Regione, Stato, Ce...) accurati bilanci della reale economia ambientale che facciano capire i reali «profitti» e le reali perdite, non sarà possibile sostituire gli attuali concetti di desiderabilità sociale, e tanto meno un cambiamento dell’ordine economico.

b) Ridurre invece che aumentare i bilanci.

Ogni discorso sulla necessità della svolta resta assurdo sino a quando la crescita economica resterà l’obiettivo economico di fondo e sino a quando i bilanci pubblici e privati punteranno ad aumentare di anno in anno. La parte industrializzata del pianeta dovrà finalmente decidersi alla crescita zero e poi a qualche riduzione, naturalmente con la necessaria cautela e moderazione per non causare dei crolli sociali o economici.

c) Favorire economie regionali invece che l’integrazione nel mercato mondiale.

Sino a quando la concorrenza sul mercato mondiale resterà il parametro dell’economia, nessuna correzione di rotta in senso ecologico potrà attuarsi. La rigenerazione delle economie locali, invece, renderà possibile – tra l’altro – una gestione più moderata e controllabile dei bilanci, compreso quello ambientale.

d) Sistemi tariffari e fiscali ecologici, verità dei costi.

Di fronte a un mercato che addirittura postula e premia comportamenti antiecologici, visto che non ne fa pagare i costi, si rende indispensabile un sistema fiscale e tariffario orientato in senso ambientale, che imponga almeno in parte una maggiore trasparenza e verità dei costi: imprenditori e consumatori devono accorgersi dei costi reali del massiccio trasporto merci, degli imballaggi, del dispendio energetico, dell’inquinamento, del consumo di materie prime eccetera.

e) Allargare e generalizzare la valutazione di impatto ambientale.

Tutto quanto viene oggi costruito (opere, tecno­logie eccetera) produce impatti e conseguenze di dimensioni sinora sconosciute. La valutazione di impatto ambientale – nel senso più comprensivo di una reale valutazione delle conseguenze ecologiche, ma anche sociali e culturali a breve e lungo termine di ogni progetto – dovrà diventare il nocciolo di una nuova sapienza sociale, e va quindi adeguatamente ancorata negli ordinamenti. Così come altre società, passate o presenti, proteggevano con norme fondamentali e tabù (sulla guerra, l’ospitalità, l’incesto...) le loro scelte di fondo, oggi abbiamo bisogno di norme fondamentali a difesa della valutazione di impatto ambientale – non importa se si tratti di autostrade, missili, biotecnologie, forme di produzione di energia o introduzione di nuove sostanze chimiche di sintesi. Tale valutazione non potrà avvenire senza l’intervento dei più diretti interessati e postulerà una Corte ambientale a suo presidio.

f) Redistribuzione del lavoro, garanzie sociali.

Solo una vasta redistribuzione sociale del lavoro (e quindi dei «posti di lavoro» socialmente riconosciuti) permetterà la necessaria correzione di rotta. L’ammortamento sociale degli effetti prodotti da scelte di conversione ecologica (che si chiuda una fabbrica d’armi o un impianto chimico) è un investimento importante e utile quanto e più di tanti altri, e se si indennizzano i proprietari di terreni che devono cedere a un’autostrada, non si vede perché altrettanto non debba avvenire nei confronti di operai o impiegati che devono cedere alla ristrutturazione ecologica.

g) Riduzione dell’economia finanziaria, sviluppo della «fruizione in natura».

Sino a quando ogni forma di economia sarà canalizzata essenzialmente attraverso il denaro, sarà assai difficile far valere dei criteri ecologici, e ci saranno pesanti ingiustizie socioecologiche: chi può pagare, potrà anche inquinare. Un processo di «rinaturalizzazione» – che allontani dalla mercificazione generalizzata (dove tutto si può vendere e comperare) e valorizzi invece l’apporto personale e non fungibile – potrebbe aiutare a scoprire un diverso e maggior godimento della natura, del lavoro, dello scambio sociale. Le res communes omnium (dalla fontana pubblica alla spiaggia, dalla montagna alla città d’arte) non si difendono col ticket in denaro, bensì con l’esigere una prestazione personale, con un legame col volontariato eccetera.

h) Sviluppare una pratica di partnership.

La necessaria autolimitazione ecologica riesce più convincente se si fa esperienza diretta di interdipendenza e partnership: nella nostra attuale condizione, forse potrebbero essere alleanze o patti «triangolari» (Nord/Sud/Est) quelli che meglio riflettono il nesso tra i cambiamenti necessari in parti diverse ma interconnesse del mondo. L’«alleanza per il clima» ne può fornire una interessante, per quanto ancora parzialissima, esemplificazione.

8. Una Costituente ecologica?

Società anteriori alla nostra avevano il loro modo di sanzionare, solennizzare e tramandare le loro scelte e i loro vincoli di fondo: basti pensare alla Magna charta libertatum, al leggendario giuramento dei confederati elvetici sul Rütli, alla dichiarazione francese sui diritti dell’uomo, al patto di fondazione delle Nazioni unite... Oggi difettiamo di un’analoga norma fondamentale di vincolo ecologico che – viste le caratteristiche del nostro tempo – avrebbe peso e valore solo se frutto di un processo democratico. Certamente esiste in questa o quella carta costituzionale un comma o articolo sull’ambiente, ma siamo ben lontani dal concepire la difesa o il ripristino dell’equilibrio ecologico come una sorta di valore di fondo e pregiudiziale delle nostre società, e di trarne le conseguenze.

Se si vuole riconoscere e ancorare davvero la desiderabilità sociale di modi di vivere, di produrre, di consumare compatibili con l’ambiente, bisognerà forse cominciare a immaginare un processo costituente, che non potrà avere, ovviamente, in primo luogo carattere giuridico, ma piuttosto culturale e sociale, e che dovrebbe sfociare in qualcosa come una «Costituente ecologica». In fondo le costituzioni moderne hanno il significato di vincolare il singolo e ogni soggetto pubblico o privato ad alcune scelte di fondo che trascendono la generazione presente o, a maggior ragione, la congiuntura politica del momento. Se non si arriverà a dare un solido fondamento alla necessaria decisione di conversione ecologica, nessun singolo provvedimento sarà abbastanza forte da opporsi all’apparente convenienza che l’economia della crescita e dei consumi di massa sembra offrire.

Solidarietà: «I care», me ne importa, come c’era scritto sulla parete della Scuola di Barbiana4

La solidarietà gridata fa il tifo per l’Intifada, gli studenti della Tienanmen, i popoli indigeni minacciati. Si scalda per gli eroi e i martiri, e ha un gran consumo di parole, di chilometri e di bandiere. È corta di memoria, e qualche volta si meraviglia che i beneficiari del nostro tifo risultino poi così diversi da come li avevamo dipinti.

Oggi è possibile qualcosa di meglio e di più: non aggravare il nostro debito che va a carico degli altri – dei poveri, dei popoli lontani, della natura, dei posteri –; cominciare a restituire il maltolto. Sporcare e sprecare meno, scegliere comportamenti e consumi equi e compatibili con la fratellanza umana e l’integrità della biosfera. Fare gli indigeni da noi: i «custodi della (nostra) terra». E costruire patti concreti e reciproci con alcuni di quelli con i quali solidarizziamo. Possibilmente dal vero, senza gridarlo, senza semplificazioni: con il Sud e con l’Est, con croati e con serbi, con abitanti di periferia e con immigrati, con i licenziati della Farmoplant e con gli abitanti inquinati di Carrara.

Le scorciatoie sloganistiche aiutano a contarsi, non a cambiare persone e circostanze. I patti reciproci aiutano a fare i conti gli uni con le esigenze degli altri, visto che alla fine nessun altruismo regge davvero alla prova del tempo e dell’usura.

Non gridare non vuol dire rinunciare a spiegare e diffondere scelte solidali; serve per convincere, invece che mettere solo a verbale.

Incontri vivi, dibattiti morti5

Tra i molti che si lamentano della crisi della politica e della partecipazione, ci siamo senz’altro anche «noi» (i verdi, gli alternativi, gli impegnati, i diversi, comunque vogliamo definirci).

Ma se siamo onesti, dobbiamo ammettere che molte delle «iniziative politiche» o dei cosiddetti dibattiti che promuoviamo o ai quali partecipiamo sono delle normalissime e spesso noiose conferenze, con pubblico scontato quando non addirittura «precettato» (e qualche rompiscatole che non manca mai), senza curiosità e sorpresa, dove si va di solito per contarsi, per confermarsi e per parlarsi addosso. I nomi di richiamo – sempre troppi, come se andassero a peso –, che dovrebbero abbellire queste serate e servire da attrazione per il pubblico, spesso vengono reclutati fra i «tuttologi» di turno, e lo si capisce subito quando parlano: si sono preparati se va bene in treno o in aereo, durante il viaggio per arrivare, non si ascoltano tra di loro (sembra che principalmente debbano attendere che finiscano gli oratori precedenti e che finalmente scatti il loro intervento) e raramente parlano di qualcosa di vero, cioè di vissuto e di realmente fatto proprio. Mi sono trovato, recentemente, a essere invitato nel mio paese di origine (Sterzing/Vipiteno, 5000 abitanti) a una serata sulla Jugoslavia, e non ho potuto fare a meno di notare e apprezzare importanti differenze di stile politico (che è poi anche un aspetto degli «stili di vita») fra quell’incontro, organizzato dal modesto circolo locale «Juvenilia», e una pletora di tavole rotonde e dibattiti cui si è avvezzi nei luoghi deputati della politica urbana, evoluta, di sinistra o postsinistra. Voglio raccontare qualcosa di quell’incontro, perché ci si può imparare. Eravamo quattro oratori invitati: non per esprimere quattro punti di vista differenti, ma più o meno scontati, sullo stesso argomento, ma perché si riteneva che potessimo apportare quattro esperienze diverse, realmente vissute e impegnate. Il sindaco di Bruneck/Brunico (Svp) rappresentava un comune che esemplarmente, e senza badare troppo a critiche interne ed esterne, aveva aiutato prima i rifugiati albanesi e poi quelli jugoslavi, soprattutto croati: parlava in modo semplice e senza paraocchi ideologici, e chiaramente con l’intento di allargare la cerchia dei comuni impegnati ad assumersi compiti di solidarietà anche al di là del proprio piccolo, senza per questo cadere nella retorica o confondere il proprio ruolo con quello del ministero degli Esteri o dell’Onu.

Un artista croato tra i croati meno nazionalisti che io abbia mai incontrato di questi tempi esponeva la situazione attuale in Jugoslavia, con il piccolo particolare che si trattava di persona che da alcuni anni vive lì, a Sterzing, e aveva quindi quella diversa e superiore affidabilità che viene dalla consuetudine della convivenza quotidiana; non sarà stato il professorone o l’«esperto», ma in compenso tutti potevano verificarne la credibilità quotidiana. Vi era poi una «sorella» della Croce rossa, militaresca come la sua divisa e le sue regole esigono, che intratteneva la gente sul «diritto umanitario bellico» e le proprie esperienze di assistenza in Jugoslavia, ma pur con le sue stellette e il suo linguaggio un po’ ufficiale riusciva a impersonare un altro aspetto concreto del conflitto e delle sue ripercussioni su di noi [...]. Vi ero infine io, che da figlio di quella piccola cittadina e noto come impegnato nella convivenza interetnica in Sudtirolo, oltre che nelle vicende balcaniche al Parlamento europeo, parlavo degli sforzi concreti che in tutte le repubbliche jugoslave gruppi di cittadini attivi contro la guerra fanno per riannodare i fili della convivenza interetnica, indicando alcune cose concrete di sostegno che si possono fare. Una ragazza aveva introdotto al pianoforte la serata, per creare un’atmosfera di raccoglimento e concentrazione, un’equilibrata regia aveva assicurato l’alternanza fra interventi in lingua tedesca e italiana e ben ottantacinque persone erano venute, nel dopocena dell’ultimo sabato di carnevale, per assistere senza chiacchiericcio dall’inizio alla fine, impegnando il circolo promotore a stabilire i necessari contatti per dare un seguito alla riunione.

L’incontro che vi sto raccontando mi ha riconfermato alcune idee intorno a come si potrebbe agire per dare vita e significato a incontri e riunioni altrimenti troppo spesso meramente rituali ed espressione di uno stile politico ormai morto e putrefatto. In particolare mi è piaciuto che al «parlato» si sia affiancata anche la musica (creata lì, non riprodotta in scatola); che al posto di altisonanti «esperti», magari noti dai giornali o dalla tv, si sia preferito ricorrere a tutte le risorse locali possibili; che si sia cercata una veracità di testimonianza piuttosto che il consueto scambio di posizioni precotte; che l’intero incontro abbia avuto carattere di «evento», non di routine, preparato prima e seguito dopo da attività, e che al tempo stesso sia stato pensato e organizzato per la cittadinanza, non per i già informati o già simpatizzanti. Insomma: qualcosa di non sforzato e artificiale, che ha dato la consapevolezza di partecipare a un momento creativo e non semplicemente riproduttivo, con un reale incrocio tra esperienze, più che tra «posizioni». Per il pubblico era normale limitarsi a domande piuttosto che esibirsi negli inevitabili «interventi» che di solito vedono esibirsi soprattutto i «mancati relatori». Sarà un caso che incontri così mi capitino, abbastanza di frequente, soprattutto alla «periferia» del sedicente dibattito politico, in posti abbastanza piccoli o comunque in contesti meno contaminati dal teatrino politico (anche alternativo o di opposizione)? Sara un caso che coloro che non vedono al di là della propria cultura politica tradizionale (magari fatta persino da Samarcanda e «Cuore», oltreché da «MicroMega» e «la Repubblica») tendono a ignorare questa ricchissima «periferia» che sviluppa, a loro insaputa, una vitalità originale e preziosa?

1 Serie di domande trovate sul computer dell’autore e datate 4 marzo 1990.

2 Traduzione di appunti per una relazione tenuta, su invito del vescovo di Bolzano Wilhelm Egger, il 5 aprile 1991. Nel maggio del 1995 Langer ha dedicato il testo alla memoria di monsignor Tonino Bello, da poco deceduto, aggiungendovi le parti introduttive e conclusive. Il testo è stato pubblicato per la prima volta in Alexander Langer, Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, a cura di Edi Rabini e Adriano Sofri, Sellerio, Palermo 2011, pp. 397-401.

3 Intervento ai colloqui di «Dobbiaco 94» sul tema del «Benessere ecologico», 8-10 settembre 1994; poi ripubblicato in Alexander Langer, Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, cit., pp. 177-187.

4 Testo scritto per «Agenda Armadilla 1993».

5 Da «Senza Confine», 4 aprile 1992; poi ripubblicato in Alexander Langer, Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, cit., pp. 103-106.