Il demone dello sviluppo

Sviluppo? Basta! La scelta è tra espansione e contrazione1

Ci sono oggi molte buone e urgenti ragioni per ripensare a fondo la questione dello sviluppo, da qualche decennio obiettivo-principe incontrastato di tutte le diverse politiche (con segni anche molto differenti tra loro) che sul pianeta si affermano o si praticano «a beneficio dell’umanità». Mentre appare controverso il valore dei diritti umani e democratici, o il ruolo del capitale privato o di Stato nella direzione dell’economia, o la scelta tra diverse possibili opzioni di politica estera, sembra invece assodato un generale consenso verso l’obiettivo dello sviluppo: fare uscire dall’arretratezza le società o i settori sociali e geografici che vi si attardano e avviarli all’integrazione nella moderna civiltà industriale e alla crescita economica sembra universalmente e unanimemente riconosciuto come desiderabile e necessario. Tanto che anche le analisi più critiche e più consapevoli dei «limiti dello sviluppo» che ormai si producono a livello mondiale – come per esempio l’autorevole rapporto Brundtland delle Nazioni unite – non mettono realmente in dubbio questo traguardo che si pretenderebbe situato univocamente in «direzione della storia» , ma semmai ne postulano la mitigazione e la qualificazione in nome dell’ecocompatibilità.

Tra le nuove ragioni che urgentemente ci chiedono di interrogarci se questa presunta ovvietà civilizzatrice sia davvero accettabile e da procrastinare, ricorderei soprattutto le seguenti:

– la liberazione dell’Est europeo dalla compressione sinora sofferta a causa dei regimi del «socialismo reale»;

– l’andamento della crescita demografica mondiale e i movimenti migratori che gli squilibri del mondo inducono;

– i dati della crisi ecologica (catastrofe climatica, strato d’ozono, desertificazione, deforestazione eccetera);

– la perdita di qualità della vita e di autonomia delle persone e delle comunità anche nelle fortezze dello sviluppo.

Se le società dell’Est europeo ora faranno di tutto per rincorrere in poco tempo il nostro modello di produzione, di consumi e di vita, lo «stress» cui è sottoposto il pianeta sarà ancora molto più grave. Se nel Sud del mondo si seguiranno anche solo alcuni dei nostri cattivi esempi (per esempio in tema di consumi energetici, di motorizzazione, di cementificazione dei suoli eccetera) e se chi non può o non vuole aspettare i decenni che ancora mancano a questo traguardo per intanto tenterà la via dell’emigrazione verso il Nord, nuovi fattori di accelerazione della corsa al collasso si aggiungeranno. Qualcuno pensa che l’ulteriore artificializzazione e tecnicizzazione del mondo potrà dare le necessarie risposte correttive (filtri, depuratori, controllo delle nascita, tecnologie del disinquinamento, biotecnologie, rifiuti nello spazio o in fondo ai mari...); qualcuno aggiunge più crudamente che in ogni caso occorrerà cingere di muri ben alti e robusti la civiltà dell’abbondanza perché non ce ne sarà per tutti e non ci dev’essere neanche se non vogliamo l’infarto del pianeta.

Ci troviamo dunque [...] al bivio tra due scelte alternative: tentare di perfezionare e prolungare la via dello sviluppo, cercando di fronteggiare con più raffinate tecniche di dominio della natura e degli uomini le contraddizioni sempre più gravi che emergono [...]; o invece tentare di congedarci dalla corsa verso il «più grande, più alto, più forte, più veloce» chiamata sviluppo per rielaborare gli elementi di una civiltà più «moderata» (più frugale, forse, più semplice, meno avida) e più tollerabile nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell’umanità, verso le future generazioni e verso la stessa «biodiversità» (anche culturale) degli esseri viventi. La chiamerei una scelta tra espansione e contrazione – ben sapendo che per chi si trova sull’aereo in volo non esiste un immediato freno d’arresto, ma semmai solo la faticosa ricerca di un atterraggio morbido. E che entrambe hanno i loro costi: solo che la prima li fa pagare ad altri (lontani nello spazio e nel tempo), mentre la seconda se li assume e punta al ripianamento del nostro debito verso la biosfera.

Una scelta di espansione (che sarebbe poi quella che già è insita nelle strutture e nelle politiche attualmente dominanti) – dobbiamo saperlo – è una scelta di riarmo; una scelta di contrazione è una scelta di disarmo – con tutte le difficoltà del caso e tutta la necessaria gradualità per evitare bruschi scompensi e nuovi e pericolosi squilibri. E la quintessenza della scelta ecologica mi pare stia oggi proprio in questo: come arrivare a far compiere alle nostre società (del «Nord», dell’Occidente) una profonda opzione di autolimitazione e di contrazione, come scoraggiare l’Est a puntare in tempi brevi a forzare uno sviluppo simile al nostro, e come aiutare il Sud a non identificare la sua emancipazione nell’integrazione (del tutto subalterna, del resto) nella nostra «espansione»? Dove – ovviamente – questi tre aspetti agiscono a cascata tra loro, e senza riuscire a trovare risposte alla prima domanda, difficilmente se ne troveranno alla seconda e alla terza.

Se prendiamo sul serio i vari gridi di allarme sulla salute del pianeta, una scelta di contrazione (auto-limitazione) nella nostra parte di mondo sviluppato si impone urgentemente, in tutta evidenza. Ma le varie conferenze sull’ozono e sul clima, sui mari o sull’energia producono quasi solo generiche dichiarazioni di intenti. Dobbiamo quindi cominciare, con fermezza, a misurare la bontà di una politica non più dai tassi di crescita (della spesa, della produzione, dei consumi, degli investimenti, degli scambi eccetera) ma da quelli di decremento, e dire che vogliamo in tempi brevi e misurabili una conversione ecologica che si manifesti anche in concrete riduzioni (motorizzazione, inquinamento, chimica nei suoli, eccedenze agricole, volumi costruiti e superfici sigillate eccetera). Un compito impopolare, a prima vista, e non facile, che comporta sin dal più modesto consiglio comunale, ma anche dalle nostre personali scelte di acquisti, di trasporto, di alimentazione, di imballaggio, di riscaldamento eccetera sino alle grandi scelte degli Stati, delle industrie, delle organizzazioni internazionali eccetera, una inversione di rotta di centottanta gradi.

«Meno invece che più» come programma di contrazione non va disgiunto dal «vivere meglio con meno»: la qualità ecologica e sociale e culturale (l’armonia con la natura, lo sviluppo di rapporti sociali più conviviali, le molteplici risorse di identità e autorealizzazione) della nostra vita personale e comunitaria non dipende in primo luogo dalle quantità materiali. Una scelta di sobrietà e di semplicità non richiede necessariamente un’attitudine di rigorismo autopunitivo, e il campo di scelte di contrazione materiale che aprono strade di espansione spirituale è tanto vasto quanto poco esplorato attualmente (se non da piccole minoranze o da settori sociali «residuali»...). Forse la nostra stessa – a volte insana – voglia di «interventismo nella storia» potrebbe, con successo, applicarsi alla promozione di scelte di contrazione, invece che [...] a correggere le virgole a politiche di espansione, nel vano tentativo di limitarne i danni. Magari sarebbe anche questa una forma di quella compassione di cui qui si è parlato e di un nuovo intreccio tra solidarietà ed egoismo. Di fronte alla malferma salute della biosfera, le scelte che fanno bene al pianeta sono per forza di cose anche scelte che fanno bene a noi stessi: passare da modelli di vita dissipatori e squilibranti a modelli più rispettosi degli equilibri e della capacità di rigenerazione della natura non è altruismo eroico, ma «sacro egoismo» tra i meglio investiti.

In questo senso forse va anche tenuto conto che la migliore motivazione per una scelta di conversione ecologica non è necessariamente la paura delle catastrofi [...], né solo la pur necessaria spinta etica [...], ma anche una consapevole e qualificata volontà di vivere bene.

Per avvicinarci a modi di vedere e di vivere nella direzione indicata, e per tener conto in tutto quello che facciamo delle ragioni non solo del Nord industrializzato, ma anche di quei tre quarti dell’umanità che sono nostri creditori, bisognerà d’ora in poi [...] affrontare i problemi insieme da almeno tre punti di vista: quelli elaborati nel Nord (nell’Occidente, nei paesi sviluppati e prosperi), all’Est (nei paesi ex comunisti) e nel Sud (nel cosiddetto terzo mondo). Una triangolazione necessaria per giungere a visioni meno parziali ed egoistiche.

Forse in questo modo ci renderemmo anche conto che la rinuncia alla rincorsa dello sviluppo non sarà solo una scelta lungimirante e sapientemente generosa ed egoistica insieme, ma che nel mondo [...] è alto e forse addirittura in crescita il numero di coloro che comunque non troveranno posto sul treno dello sviluppo e che quindi – insieme a noi – saranno fortemente motivati a cercare possibilità di vita alternative: più semplici, più conviviali, più compatibili con la salute del pianeta.

Perdersi per trovarsi: la terra in prestito dai nostri figli2

Dall’epoca della presa del potere dell’industria e del mercato su di essa dimensionato, molte cose sono cambiate, con una rapidità via via crescente – anzi, con una «velocizzazione» tremenda, se questa espressione mutuata dalla pubblicità per le automobili può essere consentita.

Dalla faticosa lotta degli uomini contro la natura siamo passati a una situazione in cui la natura quasi non ce la fa più a difendersi dall’uomo. Da una condizione in cui si assegnava valore alle cose a seconda della loro utilità e difficoltà di produrle o reperirle siamo passati a valori totalmente fittizi e convenzionali che ormai sono soltanto «prezzi», cioè valutazioni artificiosamente assegnate dal mercato, senza quasi nessun rapporto con il loro valore reale: per rendersene conto basterebbe immaginare un attimo i prezzi e i beni da essi misurati in una situazione di emergenza come una catastrofe, una guerra, un luogo isolato: risulterebbero subito di cartapesta. La nostra idea di viaggio e di movimento non ha più alcun rapporto con le persone e i paesaggi che si attraversano, né con paesi e popoli da raggiungere. Nell’approccio alle cose, l’imballaggio (materiale e culturale) prevale di gran lunga sui contenuti. Il tempo di vita che si è allungato molto sotto il profilo quantitativo non appare «liberato» e consegnato alla sovranità di chi lo vive, ma fortemente alienato e sostanzialmente determinato da altri. E si potrebbe continuare a lungo.

Tra le modificazioni più profonde che caratterizzano questo cambiamento progressivamente «velocizzatosi», vi è una di particolare gravità: vorrei chiamarla l’«impatto generazionale» di tutto ciò che noi oggi facciamo, sia a livello macrosociale che microsociale.

Un tempo il danno più grande che gli uomini potevano infliggere, prolungato nel tempo, era la deportazione dei figli di un popolo, il disboscamento di una montagna, l’incendio (oltre che il saccheggio) di un città, l’avvelenamento dei pozzi. Delitti orrendi, tutti questi, ma relativamente rari – casi estremi di ferocia o di insipienza, per così dire. Ma gran parte dell’umanità viveva incidendo solo modestamente sul futuro. Era poco quel che un uomo poteva costruire, accumulare, realizzare e lasciare agli altri dopo di sé. Ed era anche poco il danno che – nella peggiore delle ipotesi – poteva combinare.

Oggi la situazione è assai diversa e continua a cambiare con crescente velocità. I più piccoli atti – anche spensierati – possono diventare la goccia che fa traboccare il vaso. Ogni nuova automobile acquistata e immessa sulle strade, aumenta notevolmente l’effetto dell’inquinamento. Ogni bomboletta spray minaccia l’ozono. Ogni aumento degli armamenti – o dei rifiuti, o della cementificazione, o della rumorosità o della proliferazione di prodotti chimici di sintesi non più biodegradabili – porta non solo l’umanità e il pianeta più vicino alla soglia dell’irreversibilità del degrado, ma provoca anche effetti sinergici che si potenziano a vicenda in un gigantesco intreccio di cause e di concause che portano al disastro.

Si dice, giustamente: «Mai una generazione ha avuto tanta responsabilità e tanto potere su quelle azioni quanto la nostra». E si rincara, giustamente, osservando che «mai una generazione prima della presente ha avuto nelle sue mani la stessa decisione se lasciar continuare la successione di generazioni o se interromperla o metterla comunque assai pericolosamente a repentaglio».

Che fare, che cosa pensare, come atteggiarsi di fronte a questa situazione nuova e del tutto inedita, nella quale per la prima volta nella storia l’umanità (in porzioni, invero, assai differenziate e ingiuste) consuma più di quanto la natura riesca a rigenerare, e viene quindi intaccato lo stesso albero, e non semplicemente mangiati i suoi frutti?

La risposta dei profeti di catastrofi appare ascetica e univoca: ravvedersi, rinunciare, cambiare strada, tirare la cinghia: in nome della paura che la visione degli effetti della nostra «civiltà» suscita, si dovrebbe trovare la forza di risparmiare l’esito altrimenti inesorabile verso l’irreversibile. Il guaio è che la paura, anche dinnanzi alla catastrofe ecologica, è cattiva consigliera, nella realtà poi prevale piuttosto l’assuefazione, l’arte di arrangiarsi, quando non addirittura la dissipazione accelerata e ostentata, perché «tanto siamo perduti e non c’è niente da fare se non godersi quel che ancora si può godere».

Più concreto è il legame e più solida la motivazione di chi pensa ai propri figli e alle future generazioni più in generale. Lasciare a loro un mondo degradato e inquinato, consumato e desertificato, plastificato e artificializzato spaventa, e rende dubbiosi sul senso stesso del futuro, oltre che del cosiddetto progresso.

Quando il movimento verde riassume questa consapevolezza nella frase «la terra ci è stata solo prestata dai nostri figli» (che era poi il motto riassuntivo del primo grande convegno nazionale dei verdi italiani nel 1985), indica in una efficace sintesi una misura e una regola che forse può aiutare a temperare le spinte della «velocizzazione» e guidare i comportamenti riferibili al futuro.

Ecco perché si può parlare di «impatto generazionale» delle nostre scelte, azioni, omissioni. Deforestare oggi non è la stessa cosa che deforestare nel Medioevo: amputare una gamba a chi già è malato di polmoni, soffre di artrite e ha avuto qualche infarto non è la stessa cosa che intervenire su una persona sana. Le ripercussioni delle nostre scelte ormai spesso si avvicinano alla soglia di irreversibilità o la oltrepassano addirittura: la contaminazione nucleare, la costruzione artificiale di nuovi esseri viventi che poi a loro volta trasmettono la vita, la galoppante riduzione delle foreste pluviali... Come fare per non restringere in modo inaccettabile le possibilità di scelta e di vita dei posteri, come moderare il nostro ormai prepotente e spesso irreparabile «impatto generazionale»?

Qualcuno è tentato da risposte dittatoriali: l’austerità forzata, la compressione delle generazioni presenti pur di assicurare un possibile futuro ai posteri, l’autoritarismo ecologico dirigista e pianificatore (in materia demografica, dei consumi, delle libertà ammissibili eccetera).

Ma l’esperienza storica finora ha dimostrato che nessuna risposta autoritaria e dittatoriale è mai riuscita a incarnare davvero interessi «superiori» o di lungo periodo: anche a prescindere da ogni ragione di attaccamento alla democrazia, si può semplicemente osservare che il sacrificio di libertà e di democrazia che esse comportano, non viene ripagato in termini di benefici sociali o ecologici, ma anzi aumenta i rischi di appropriazione e uso incontrollato di poteri, risorse e sovranità sul futuro di tutti.

Ecco perché riguadagna una forte attualità l’insegnamento del «perdersi per trovarsi»: solo una linea di consapevole autolimitazione del proprio «impatto generazionale» potrà segnare dei confini democratici e convincenti alla nostra usurpazione del futuro e della sovranità di chi verrà dopo di noi. Ma la linea di siffatta autolimitazione non potrà affermarsi né senza una forte spiritualità che sviluppi le motivazioni in quella direzione, né attraverso un’ideologia e una pratica di negazione del presente in nome di un futuro (nostro o dei posteri). Distruggere il presente per salvare il futuro non può essere una proposta né convincente, né vincente.

Forse la questione dell’«impatto generazionale» trova una risposta nel suo elementare atto costitutivo: generare un/a figlio/a non potrà mai essere un atto di semplice rinnegamento di sé e di precedenza assegnata al futuro: avviene se ci sono le necessarie spinte (di amore, di speranza, di realizzazione di sé, di piacere) anche nel presente. Certamente comporta poi numerosi e profondi momenti di rinuncia a se stessi, accettati volentieri non solo dopo la speranza di ritrovarsi più «ricchi» e più gratificati in un «dopo», ma anche per tutte le soddisfazioni che ritornano già strada facendo. Se non si trovano nel presente (per esempio nel rapporto di amore) sufficienti ragioni per volere un futuro – che poi potrebbe anche deludere, questo si sa – non vi potrà essere alcuna astratta ragione, nessun rapporto del Club of Rome o delle Nazioni unite, che riuscirebbe a convincere larghe moltitudini di gente a rinunciare a qualcosa pur di lasciare un mondo non ridotto all’osso a chi verrà dopo di noi.

Riappare quindi tutto intero il nocciolo del problema di una società che non voglia vivere nel nome del «dopo di noi il diluvio»: (ri)scoprire in positivo i valori dell’autolimitazione del proprio «impatto» (ambientale, sociale, culturale, estetico... generazionale), (ri)convincersi che lasciare tracce dà maggior soddisfazione che produrre voragini e che con la lentezza si può vivere meglio che con la velocità. Non solo, quindi, «in nome dei figli», ma anche per interesse e amore proprio.

Ricongiungere le ragioni «altruiste» (in genere nobili, ma non sempre efficaci nel muovere grandi masse di persone) con ragioni più «egoiste» e verificabili anche nel presente è oggi un compito e una opportunità della sfida ecologista: «perdersi» (rinunciando per esempio alla motorizzazione privata di massa, alla salute e all’igiene meccanizzata, ai diversi sogni di onnipotenza energetica o biotecnologica o militare...) può significare davvero ritrovarsi, già nel presente, oltre che lasciare qualche possibilità in più a chi ci seguirà e vorrà pure lasciare le proprie (speriamo) tracce, senza restare sepolto dalle nostre voragini.

«Perdersi» e «trovarsi» non può funzionare in due tempi lontani tra loro e la voce delle future generazioni non è delegabile a nessuna rappresentanza «superiore» o esterna al presente. Sarà uno dei più difficili problemi politici da risolvere, quello di come immettere momenti di auto-limitazione all’impatto generazionale delle scelte che oggi si compiono nel breve volgere delle legislature e per ragioni a volte legate persino a meschini sondaggi elettorali o miserabili giochi di potere e di profitto.

Per arrivare a questo compito di vera e grande riforma dovrà, per intanto, almeno diffondersi la coscienza che questa sia una urgente necessità e una nuova e impellente priorità.

Un piccolo potere da prendere sul serio3

Questa «lettera» si situa nella migliore tradizione della scuola di Barbiana: essa analizza e svela, con pazienza, precisione e ricchezza di dettagli e in un linguaggio facilmente accessibile, un circolo vizioso apparentemente inesorabile, visto dalla parte di chi ne rimane schiacciato.

E come nella «lettera a una professoressa», redatta dai ragazzi di Barbiana sotto la guida del loro priore don Lorenzo Milani, anche qui lo si analizza non per il semplice gusto di sapere, ma soprattutto per trovare qualche leva per spezzarlo.

Il circolo vizioso, illustrato attraverso l’itinerario di numerosi prodotti da tanto o da poco tempo familiari alle nostre tavole e alle nostre abitudini quotidiane, genera miseria e dipendenza nel «terzo mondo», rendendoci spensierati complici di una catena di sfruttamento e di distruzione delle persone e della natura. Il caffè che beviamo, i mobili di legname tropicale che danno lustro e prestigio alle nostre case, le gomme delle nostre automobili o biciclette... tutti ingranaggi, insieme a tanti altri, di una macchina complessa e precisa che determina il destino di milioni di persone, di interi paesi e continenti, di vasti ecosistemi.

Per centinaia di milioni di esseri umani la coltivazione di tanti prodotti agricoli, l’allevamento di bestie e la pesca, l’estrazione dei tesori della terra è rimasta schiavitù, a dispetto dei principi democratici e sociali che caratterizzano il nostro tempo, e la dimensione che questa schiavitù ormai ha raggiunto e rischia di raggiungere ulteriormente si trasforma anche in minaccia per gli equilibri della natura: supersfruttamento degli uomini e delle terre, deforestazione ambientale e sociale sono strettamente legati. I deserti che la nostra civiltà crea feriscono il tessuto umano e culturale quanto e come la corteccia naturale del pianeta. Per altre centinaia di milioni di persone gli stessi meccanismi provocano invece la loro espulsione dalla terra, dai boschi o dai mari da cui traevano sussistenza e li trasforma in profughi ambientali e sociali, sradicati da quella comune madreterra che aveva garantito all’ininterrotta catena dei loro antenati cibo, casa e vestiario.

Cosa fare contro un’ingiustizia così macabra, distruttiva non solo per chi la subisce più direttamente, ma anche per chi nella miope ottica a breve ne appare beneficiario, perché può comperare a poco prezzo il frutto della terra e del lavoro altrui? Come iniziare a fermare l’infernale ingranaggio, da dove cominciare un’azione riequilibratrice, cosa fare per riparare ai danni e ai torti che tanta parte dell’umanità e del pianeta subiscono attraverso la legalissima e spietatissima violenza dei commerci, dei prezzi e delle Borse?

Quando i popoli del Sud del mondo iniziavano i percorsi – spesso poi rivelatisi fallaci – della loro liberazione politica, per conquistare l’indipendenza nazionale, la parte delle popolazioni del Nord solidale e generosa, informata e sensibile alla giustizia decise di appoggiare queste lotte, cercando di diventare una specie di «quinta colonna»: alleati dei movimenti di liberazione all’interno delle cittadelle del colonialismo e dell’imperialismo. Attivarsi in Francia per l’indipendenza dell’Algeria, negli Usa per il sostegno al Vietnam e sostenere in tutto il mondo il boicottaggio economico contro il regime dell’apartheid in Sudafrica erano altrettante forme di riparazione a ingiustizie commesse anche in nostro nome e di appoggio ai processi di liberazione in quei paesi.

Forse poteva sembrare più eroico e più entusiasmante sfilare con le bandiere di qualche fronte di liberazione, ma ciò che questa «lettera» ci propone non è meno importante, e forse persino più efficace. Ci viene proposto di usare finalmente quel piccolo potere che la nostra civiltà ci lascia, e che agli effetti pratici conta più del voto e dello sciopero, e di usarlo dalla parte del Sud del mondo.

Il piccolo potere è il potere del «consumatore»: parola orrida, perché mette a nudo la dimensione vera del nostro ruolo assegnatoci dal sistema, qualità assai più vera e più penetrante del nostro essere magari cittadini o elettori, ma termine realistico per designare la funzione che ci spetta nel potente universo delle merci e del denaro. La costruzione teorica, l’ideologia (cioè: la falsa coscienza diffusa a protezione del sistema) non cessa di ripeterci che il consumatore è il coronamento e destinatario finale di ogni bene e ogni servizio e che tutto è fatto per accontentarlo e servirlo sempre meglio. Ma nella pratica si sa che il consumatore dagli strateghi del mercato è considerato bestia da ingrasso e da macello non meno che gli animali allevati nelle stalle industriali: altrettanto prevedibile e manovrabile, altrettanto facile da nutrire e da mungere. E che i suoi gusti e le sue preferenze possono essere indotte e pilotate dalla persuasione pubblicitaria, e che in ogni caso obbediscono a leggi dominate dal denaro e dalla convenienza, non da scelte ideali e di valore.

E se si tentasse, finalmente, di prendere sul serio questa leva che ci troviamo in mano, e che finora noi stessi lasciamo che si ritorca contro di noi, felici di lasciarci ingannare dalla persuasione pubblicitaria e di perpetuare lo stato di beata ignoranza e complicità? Se si cominciasse non solo a rivendicare, ma a praticare una maggiore autodeterminazione, su fronti apparentemente poco politici e poco eroici, quali la scelta della nostra alimentazione, dei nostri acquisti per la casa, dell’uso dei nostri soldi, del tipo di prodotti e di imballaggi da accettare o da rifiutare?

Grande peso possono avere, certamente, le scelte personali, soprattutto se spiegate e propagandate adeguatamente: fa differenza rifiutare un prodotto in silenzio, o spiegarne il motivo in un colloquio col direttore del supermercato, seguito magari da una lettera al giornale cittadino o da un cartello portato davanti all’ingresso del punto di vendita. L’obiezione di coscienza nei confronti di prodotti macchiati da troppo sangue, da troppa distruzione ambientale, da troppo sudore malpagato, da troppa infelicità di bambini derubati della loro infanzia è una scelta altrettanto valida e forte quanto quella nei confronti del servizio o delle spese militari. Ma per pesare ha bisogno di moltiplicarsi e di farsi conoscere, di generare dibattito e sensibilizzazione – e di offrire alternative accettabili anche per cittadini che non se la sentano di trarne conseguenze semplicemente ascetiche, di rinuncia totale [...].

Ecco perché in questa «lettera» si propone di legare la scelta personale di consumatore consapevole e solidale, informato e capace di generare «scandalo», a comportamenti più collettivi e più politici, e alla costruzione di scambi meno iniqui e meno nocivi.

Quando, agli inizi dei movimenti operai, i lavoratori si accorsero che il magro salario veniva immediatamente rimangiato dai loro padroni sotto forma di affitti e di prezzi da pagare nei negozi, cominciarono a organizzare, con l’aiuto dei sindacati, cooperative di consumo e cooperative edilizie.

Allora l’obiettivo era di abbassare i prezzi, saltando l’intermediazione padronale. Oggi, nei confronti del Sud del mondo, si possono fare scelte simili, peraltro in alcuni casi già avviate e sperimentate su piccola scala nel mondo del volontariato e della solidarietà, della conversione ecologica e della sensibilità sociale. Solo che non ci si deve più proporre di abbassare i prezzi, ma – paradossalmente – di aumentarli, per renderli più veraci e più corrispondenti al valore reale dei beni e dei servizi offerti e quindi meno invitanti alla dissipazione e allo spreco.

Certo, saltare le molte intermediazioni parassitarie e ladresche che spezzettano il percorso del caffè o delle banane, della soia o del caucciù e lo caricano di ingiustizie e crimini, è già molto. Ma dovremo arrivare a sfuggire al mondo senza qualità dell’offerta massiccia di prodotti in quantità, la cui fabbricazione e vendita provoca devastazioni umane, sociali e ambientali «in partenza», e spesso effetti nocivi anche «in arrivo», visto che i boomerang dei nostri pesticidi esportati cominciano a tornare indietro. Ormai è interesse anche nostro, non solo obiettivo di generosa solidarietà, assicurarci che la qualità ambientale e sociale dei prodotti che acquistiamo contribuisca al riequilibrio invece che provocare squarci e ferite le cui ripercussioni finiscono senz’altro per riverberarsi anche su di noi – al più tardi quando i profughi di un ordine economico ingiusto bussano alle nostre porte, sotto forma di immigrati sradicati.

Conoscere e scegliere bene l’impatto sociale e ambientale dei nostri acquisti e consumi, ridurne attentamente la nocività e aumentarne invece l’equità e la compatibilità ecologica, organizzare e usare circuiti capaci di promuovere e diffondere scelte accettabili, contribuire a finanziare – sia con le scelte di acquisto, sia con l’investimento dei propri risparmi – strutture solidali e attente anche agli equilibri naturali, denunciare e boicottare commerci e prodotti iniqui e nocivi (e sono la vasta maggioranza), approfondire e diffondere l’informazione e la consapevolezza di fatti e circostanze, esigere sul piano politico e sociale che i nostri governi, le nostre amministrazioni locali, le nostre cooperative, i nostri sindacati, le nostre associazioni facciano scelte giuste ed evitino la complicità in quelle ingiuste: ecco un piccolo programma di sostegno a una «lotta di liberazione» che la gente nel Sud del mondo conduce anche per noi, e che questa «lettera» ci aiuta a capire e concretizzare.

Turismo, un boomerang4

In agosto l’Italia è in vacanza. Tutti i tentativi di diluire almeno un poco la spropositata e certo controproducente concentrazione delle ferie, attraverso una programmazione più razionale e lo scaglionamento nelle aziende, nelle scuole, nelle amministrazioni e nelle diverse regioni, sono finora falliti. Le grandi fabbriche dell’Italia del Nord, a cominciare dalla Fiat, chiudono i cancelli tra fine luglio e inizio agosto per tre settimane; lo stesso fanno le ditte fornitrici e in generale l’apparato produttivo nel suo insieme. Non diversa è la situazione nei templi della burocrazia e nelle grandi strutture di servizi: giustizia, amministrazioni pubbliche, ospedali, trasporti... Perfino i musei e i parchi naturali in agosto mantengono a fatica un’attività ridotta al minimo, e invitano gli utenti ad avere pazienza e tornare a settembre. A pieno regime marciano invece tutte le branche (private) dell’industria delle vacanze in senso stretto: gastronomia, alberghi, luoghi di divertimento, fino al posteggiatore abusivo, al borsaiolo e al cicerone improvvisato. Tutti i fenomeni sociali ed economici di addensamento e rarefazione della popolazione potrebbero essere studiati nell’agosto italiano come in un manuale. Mentre nelle città deserte i pochi rimasti devono superare enormi difficoltà per far fronte alle strette necessità della vita quotidiana, le località turistiche della costa, di montagna o delle isole sono talmente affollate, e quindi ingodibili, che ci si domanda come sia possibile che, anno dopo anno, carovane infinite di turisti italiani e stranieri si sottopongano, per lo più a bordo di automobili, al supplizio di questa volontaria deportazione di massa. Tutto è più caro, ogni posto è gremito, la qualità di ogni genere di merce è dubbia, l’affollamento comporta una prova di nervi non inferiore al normale stress urbano, le lunghe file non sono certo un sollievo contro il convulso movimento cui ci si sottopone nel resto del tempo, tutto è più faticoso; infine, proprio nel luogo della vacanza si incontrano per lo più le stesse facce che si hanno davanti tutto l’anno. Se ne manca qualcuna, la si recupera in una delle serate che si organizzano dopo il ritorno per guardare le diapositive e confrontare i record di chilometri percorsi, dislivelli superati e altre prestazioni atletiche. Lo sconvolgimento e il peso estremo che un equilibrio sociale già messo a dura prova deve sopportare, con i disagi e le frustrazioni che ne derivano, non potrebbero manifestarsi in modo più acuto ed evidente.

Naturalmente tutto ciò non riguarda solo l’Italia, ma l’intero mondo «civilizzato», che annovera le vacanze industrializzate fra i suoi marchi di qualità. Ma certe contraddizioni e strozzature della moderna industria del turismo si manifestano in Italia (come avviene anche in altri campi) in modo più crudo ed evidente, perché la società italiana, fino a oggi, non è ricorsa a una cosmesi sociale così efficiente come quella dei paesi industrializzati più ricchi. Proprio l’Italia mostra come non sia possibile trasferire senza danno certe usanze preindustriali (per esempio il «riposo domenicale» di un’intera società) nella dimensione della civiltà industriale.

Ma in Italia le vacanze estive del 1989 hanno evidenziato anche qualcos’altro: con quanta leggerezza l’intera attività turistica organizzata e amministrata industrialmente stia letteralmente segando il ramo sul quale è seduta. La peste delle alghe nell’Adriatico ne offre un esempio lampante, che potrebbe essere scomposto in centinaia di singoli eventi meno plateali. Lo sfruttamento smodato e unilaterale di una regione, fondato sulla monocoltura e sulla trasformazione di bellezze naturali o artistiche in risorse da mettere a profitto, si rivela ben presto un boomerang. E chi ha costruito la propria fortuna su un turismo che funziona secondo il principio «usa e getta», quando il suo idolo di crescita illimitata si rovescia, sposta solo un po’ più in là, ma certo non rimuove la causa del danno. Così dietro la costa della riviera adriatica vediamo sorgere un nuovo «mare artificiale» in forma di molteplici giochi d’acqua, da godersi in piscine ipermoderne e discoteche acquatiche, cosicché il mare «vero» diventa tutt’al più un’esperienza supplementare, eventuale, ma che si può anche tralasciare. Del resto, l’inverno alpino senza neve non aveva dimostrato solo pochi mesi prima che si può sciare e ammirare il paesaggio imbiancato per incantesimo chimico (cannoni sparaneve), proprio come il mare delle pantomime acquatiche di Rimini, Cesenatico e Riccione?

Però intanto i ricchi cominciano per tempo a portarsi al sicuro da qualche altra parte, e anche i mandriani che organizzano il turismo di massa si preparano a dirottare verso altri pascoli, meno sfruttati, le loro orde di nomadi vacanzieri. La tanto reclamizzata Urlaubserlebnis Italien, l’esperienza straordinaria di una vacanza in Italia, è ormai diventata un’ammucchiata costosa, inquinata e smodata, da buttare e sostituire proprio come tutte le altre merci prodotte in serie, a meno che non rinunci appunto al suo carattere di merce. Ma come fare? La fantasia che i politici e i manager del turismo sono finora riusciti a sviluppare non è andata oltre la «differenziazione dell’offerta» (scaglionamento delle ferie, utilizzo migliore delle nicchie di mercato e delle basse stagioni, dei molti luoghi non ancora scoperti eccetera) e il «numero chiuso»: in futuro Venezia o Firenze dovrebbero accogliere giornalmente solo la quantità di visitatori che sono capaci di sopportare. Naturalmente la selezione sarebbe affidata al mercato, cioè alla tasca.

Una via del tutto diversa è per esempio quella mostrata, proprio il giorno di Ferragosto, dall’associazione alpinistica Mountain Wilderness: più di cento cordate di alpinisti e scalatori italiani e francesi (e alcuni tedeschi e svizzeri) si sono messi in cammino di primo mattino per attraversare a piedi la Vallée Blanche, sotto il Monte Bianco, e a tremilacinquecento metri di altezza hanno formato una «scritta vivente» per l’istituzione di un parco internazionale del Monte Bianco e per lo smantellamento di una funivia dei ghiacciai che deturpa il paesaggio: senza una forma di disarmo, infatti, non si migliorano le cose neanche nel campo delle vacanze e del turismo.

Ma la resistenza contro l’eccessivo sfruttamento turistico muove finora poche persone, e l’idea che ci si possa ricreare anche vicino e non solo lontano da casa appare ancora a troppi una stravaganza elitaria. Eppure le alghe nell’Adriatico e l’assalto di massa alle funivie hanno una cosa in comune. La via che indicano può portare solo al mare artificiale, alla neve artificiale, a una montagna artificiale. E questa corsa finirà per vincerla il Giappone, non l’Italia.

Quel divario tra ricchi e poveri5

Per una lunga fase del recente passato l’obiettivo di contribuire a trasformare i (paesi, economie, popoli...) «sottosviluppati» in «sviluppati» sembrava la quintessenza di un impegno internazionalista di giustizia e di pace.

Il divario tra ricchi e poveri veniva letto come divario tra sviluppo e sottosviluppo, da colmare attraverso la più equa distribuzione dei benefici dello sviluppo. «Meglio insegnare a pescare all’affamato che mandargli un carico di pesci», era la popolare sintesi di una filosofia e una politica «sviluppista» che in realtà non insegnava a pescare (a chi poi? a popoli da sempre pescatori?), ma distruggeva intere flotte di piccoli pescatori con i loro artigianali pescherecci per fare posto alla grande pesca industrializzata. La stessa Chiesa cattolica, in genere più lenta nei suoi movimenti e per questo talvolta anche più resistente alle mode culturali, era arrivata con Paolo VI (Populorum progressio) a definire «lo sviluppo» come nuovo nome della pace. La partecipazione al mercato dei prodotti e dei servizi industriali – dapprima in forma marginale e subalterna, ma col miraggio di una più piena e più attiva integrazione – diventava il parametro della maturità economica e sociale, ma anche di civiltà dei popoli, traducibile di volta in volta in grafici che misuravano le kilowattore installate, la densità della diffusione degli elettrodomestici o delle automobili, la quantità di energia consumata e di merci esportate, il «prodotto nazionale lordo».

Se oggi guardiamo agli effetti di quasi mezzo secolo di «sviluppismo», non abbiamo che da scegliere da quale lato cominciare l’esame e il giudizio. Se osserviamo i popoli e le regioni della terra che ce l’hanno fatta a prendere il treno dello «sviluppo» – da Hong Kong a Taiwan, da Singapore all’Iran, dal Brasile alle Filippine – e se poi confrontiamo il loro «sviluppo» con chi è rimasto indietro e arranca tuttora nel più desolato «sottosviluppo» (come molti paesi africani, non solo subsahariani, e asiatici, non solo il Bangladesh), è difficile dire dove i danni siano maggiori, mentre è abbastanza certo che i benefici siano assai unilateralmente finiti nelle mani dei paesi che hanno retto il timone dello «sviluppo» e nelle mani di ristretti gruppi sociali che se ne sono fatti agenti locali.

Non è un caso, quindi, che nei paesi del Sud del mondo da qualche tempo cominci a emergere con sempre maggior chiarezza una critica all’illusione «sviluppista». E mentre molte élite locali e la quasi totalità dei governi e delle banche ancora inseguono l’obiettivo di entrare nella competizione dello «sviluppo», pagandone i prezzi e assumendosene i rischi, sperando che la crescita economica poi compensi gli uni e gli altri, si diffondono gruppi che puntano alla sussistenza più che al mercato, all’autosufficienza più che all’ingresso (peraltro del tutto subalterno) in un circuito eterodeterminato, alla valorizzazione del proprio patrimonio naturale e culturale per usi propri piuttosto che alla sua trasformazione in merce d’esportazione. In altre parole: cresce la critica al miraggio di uno «sviluppo» che l’esperienza ha dimostrato essere foriero di dipendenze e povertà alla lunga più feroci di quelle derivanti dal «sottosviluppo». Movimenti come quello che a Città del Messico, dopo il terremoto del 1986, affermava di temere più la «ricostruzione» che il sisma, o come quello che nello Zimbabwe e in Tanzania oggi si oppone alle monocolture, o come quello che in India difende gli alberi e con essi la civiltà rurale dei villaggi e in Indonesia punta al modesto autosviluppo dei villaggi senza i grandi progetti finanziati dalla Banca mondiale, o come quello dei seringueiros di Chico Mendes e degli indios dell’Amazzonia sono altrettanti tasselli di una fondata critica e alternativa allo «sviluppismo».

Non è un caso se questi movimenti del Sud incontrano oggi, nel Nord del pianeta, soprattutto gli ecologisti come loro interlocutori e alleati, che a loro volta propugnano una critica allo «sviluppo» dall’interno della sua stessa roccaforte. Ne deriva, in maniera via via più lucida, un nuovo «terzomondismo» che si colora di verde. Si caratterizza soprattutto per la sua visione sempre meno economicocentrica e sempre più «sviluppo»-critica: non si tratta più di «aiutare» il Sud del pianeta a collocare le sue merci sul mercato mondiale a prezzi meno ingiusti o a diventare più competitivo grazie a una più efficiente industrializzazione o a condizioni meno sfavorevoli sul mercato finanziario o del debito, né si tratta di accelerare i tempi e aumentare gli sforzi per estendere i benefici della civilizzazione energetica, produttiva e informatica ai paesi «sottosviluppati» (ora eufemisticamente ribattezzati «paesi in via di sviluppo», con un’espressione almeno altrettanto ipocrita quanto quella di «paesi emergenti»: nell’un caso bisognerebbe dire per onestà che sono «paesi in via di inviluppo», nel secondo che si tratta di paesi che stanno per essere «sommersi»).

Così i movimenti di solidarietà all’interno dei paesi industrializzati – almeno in linea generale – non dovranno probabilmente più battersi per aumentare sotto un profilo quantitativo le risorse (gli «aiuti») destinate al «terzo mondo», ma individuare nuovi obiettivi, più esigenti sotto il profilo qualitativo.

Collocherei tra questi nuovi obiettivi senz’altro i seguenti:

– limitare i danni dell’impatto della nostra civiltà e dei nostri mercati verso i paesi impoveriti;

– esigere, di conseguenza, una accurata valutazione – ovviamente compiuta in primo luogo con la cooperazione di chi vi è direttamente interessato in loco – dell’impatto ambientale, sociale, culturale e generazionale di tutti gli interventi promotori di «sviluppo»: verificare, cioè, quanto tali interventi siano compatibili con gli equilibri ambientali e sociali delle regioni interessate e quanto tengano conto dell’identità delle popolazioni coinvolte e delle conseguenze anche per le generazioni future;

– contribuire a irrobustire le difese critiche contro l’invasione «sviluppista», e quindi rafforzare tutte le forme di partnership tra i critici dello sviluppo nel Nord e nel Sud del pianeta;

– iniziare a praticare una «cooperazione allo sviluppo» in direzione anche opposta a quella oggi vigente: accettare (e stimolare) che le popolazioni del Sud del mondo intervengano criticamente per correggere il nostro «modello di sviluppo», facendo valere loro le ragioni sia di giustizia, sia di integrità della biosfera verso i grandi inquinatori, i grandi dissipatori energetici, i grandi promotori di degradi irreversibili che sono i paesi industrializzati.

Se gli ecologisti riconoscono – a volte magari più in un’ottica teorica che di vita vissuta – nel «modello di sviluppo» dominante nei paesi sottoposti alla logica della crescita economica e del dominio sovrano del mercato una causa fondante dell’attuale emergenza ecologica planetaria, non possono certo augurarsi una «cooperazione allo sviluppo» che porti questo modello a estendersi dove ancora non ha preso piede! Nello stesso tempo, ovviamente, non potrebbero accettare la tranquilla perpetuazione di ingiustizie planetarie, per cui un quinto dell’umanità si arroga il diritto di usurpare e degradare i quattro quinti delle risorse comuni a tutti i viventi.

Ecco perché l’idea di una «cooperazione per domare il demone dello sviluppo» comincia a farsi strada, e perché in questa prospettiva il contributo creativo dei popoli del Sud del pianeta diventerà essenziale per ricondurre la civiltà dei nostri paesi «sviluppati» a una misura compatibile con la giustizia sociale planetaria, con la pace tra i popoli e con un equilibrio rigenerabile della biosfera.

Ecologia e movimento operaio Un conflitto inevitabile?6

È un vero e proprio luogo comune truffaldino, quello che vorrebbe in contrasto immanente il movimento ecologico con quello operaio, o più in generale l’ecologia con il lavoro.

Ma tant’è che passa per acquisita la contraddizione tra risanamento ambientale e posti di lavoro, e vengono citati gli operai della Farmoplant di Massa, dell’Acna di Cengio o della Stoppani di Genova per dimostrarla: tutti casi dove gli operai e i sindacati erano mobilitati a difendere la continuità produttiva di impianti chimici gravemente inquinanti, di cui la popolazione e i «verdi» chiedevano la chiusura. Stessa storia a Montalto di Castro: operai e sindacati in piazza per far portare a termine la «promessa» centrale nucleare, ecologisti al contrario mobilitati a bloccare l’industria nucleare. E stessa storia anche con quegli agricoltori che vedono nel referendum contro i pesticidi un attentato al loro lavoro e al loro reddito.

Se si accettasse questa logica, avrebbero avuto ragione quelle migliaia e migliaia di giovani ufficiali della prima guerra mondiale che erano assai delusi dalla fine della guerra perché la pace non riservava loro un ruolo altrettanto prestigioso e anzi li minacciava di disoccupazione: ma si possono davvero fare (o prolungare) le guerre per risparmiare il rischio della disoccupazione ai militari e agli addetti dell’industria bellica?

O non è piuttosto questa la massima alienazione che il movimento operaio dovrebbe combattere? Come possono gli stessi operai chiedere di continuare una produzione o un’attività nociva a loro stessi e agli abitanti della loro città, ai loro figli, alla gente in generale – e il tutto, ovviamente, perché qualche impresa e qualche imprenditore ne tragga profitto? Certo, il ricatto della disoccupazione... si sa, ma qualsiasi lotta del movimento operaio ha sempre dovuto fare i conti col ricatto del licenziamento, della fuga dei capitali, delle chiusure di impianti, della razionalizzazione e conseguente riduzione di manodopera, della ristrutturazione antioperaia. Perché una lotta per aumenti salariali o contro il cottimo dovrebbe essere congeniale al movimento operaio più di una lotta per la salute in fabbrica e per la salubrità delle lavorazioni con riguardo anche a chi sta fuori dalla fabbrica?

In ogni caso intorno al conflitto strutturale tra operai e padronato si scontrano esigenze contrapposte: l’impresa tenderà a minimizzare i suoi costi e a massimizzare i suoi profitti sia a spese dei lavoratori che a spese dell’ambiente, degli acquirenti e consumatori dei suoi prodotti o servizi e della collettività in generale. Cercherà di risparmiare e di guadagnare sulle tasse, sul costo del lavoro, sui costi dei trasporti, sui costi ambientali... scaricandoli, per l’appunto – nei casi in cui e finché potrà farlo – sugli operai, sulla collettività e sull’ambiente. Gli operai, a loro volta, tenderanno a minimizzare la fatica, il tempo, l’alienazione impiegati per l’impresa e a massimizzare il salario e i loro spazi di partecipazione e di libertà. Ma perché dovrebbero allearsi col padrone per sostenere e difendere produzioni nocive a loro stessi e al prossimo?

Solo la logica distorta del produttivismo e la re­-sa – questa sì, davvero, alienante! – all’ottica padronale e aziendale può far scegliere gli operai e i sindacati di stare dalla parte del produttivismo padronale, cioè dell’indifferenza verso il cosa e come si produce, purché si produca e si venda il prodotto!

Ma esiste anche un’altra tradizione nel movimento operaio: quella che annovera la rivendicazione di fabbricare aratri invece che cannoni e di costruire case popolari invece che alloggi di lusso; quella che affermava che la nocività non si contratta e la salute non si vende; quella che si opponeva tout court alla logica del produttivismo («di cottimo si muore», «no alla flessibilità e alla piena utilizzazione degli impianti»...). La tradizione di quei filoni della lotta dei lavoratori che pretendevano – giustamente – di pronunciarsi sulla qualità sociale del lavoro, sui suoi fini, sui limiti della vendibilità della forza lavoro, oltre che sul suo prezzo. Utilizzando un’espressione oggi corrente nel dibattito sull’ecologia, si potrebbe dire che anche nel movimento operaio si ritrovano il filone in cui prevale l’attenzione alla «quantità» e quello, invece, più attento alla «qualità»: e se indubbiamente il sindacalismo si è avvicinato sempre di più alla mera contrattazione della quantità (di lavoro, di retribuzione, di tempo, di servizi e prestazioni sociali eccetera), non va sottaciuta e rimossa tutta quell’altra faccia del movimento operaio e dello stesso sindacalismo che è intervenuta e continua a intervenire sulla qualità (del lavoro e delle condizioni di lavoro, del prodotto, del tempo lavorativo o libero dal lavoro, della stessa retribuzione e delle prestazioni sociali connesse eccetera). E se finora la «qualità» cui il movimento operaio prestava attenzione – quando ne prestava – era essenzialmente riferita alla stessa classe operaia (no al lavoro notturno, ai ritmi troppo gravosi, al lavoro dei fanciulli, gli infortuni sul lavoro, i trasporti e la mensa...) e riguardava quindi in un certo senso la «qualità di classe» o, nelle migliori ipotesi, la «qualità sociale» del lavoro, oggi si impone sempre di più la necessità di badare anche e forse persino prioritariamente alla «qualità ecologica» del lavoro e delle sue condizioni. Lo esige non solo l’emergenza ambientale, in generale, ma lo stesso degrado alienante del lavoro, da un lato, e le potenzialità di riscatto e di risanamento, dall’altro. (Cosa che, del resto, dovrebbe valere altrettanto anche per il versante imprenditoriale, e comincia – infatti – ad affermarsi qua e là.)

Il movimento ecologista contiene, dunque, un grande invito al movimento operaio: quello a rompere la subalternità al produttivismo e a occuparsi, finalmente, anche della qualità (ecologica e umana, oltre che sociale e di classe) del lavoro e delle sue condizioni. E chiede una preziosa e indispensabile collaborazione: chi meglio dei lavoratori addetti (e dei loro sindacati) potrebbe informare e mettere in guardia i cittadini e gli ambientalisti, quando una produzione è pericolosa per la salute di chi ci lavora, di chi sta intorno e di chi consuma il prodotto? Non c’è bisogno di pensare a Seveso (dove, ricordiamocelo, sindacati e operai non avevano mai allertato la popolazione del pericolo che la gente del posto correva!) o alla centrale nucleare di Caorso, basta riferirsi – assai più modestamente – ai contenuti dello scatolame alimentare, dei flaconcini di shampoo, alle fibre sintetiche, ai detersivi eccetera. Quel che la gente e gli ecologisti oggi chiedono ai lavoratori di tutti i settori (perché non ce n’è alcuno che sia immune alla qualità ecologica!) e al movimento operaio e sindacale organizzato è di essere anche occhi e orecchi, nasi e gole per conto del «popolo inquinato» (fatto in grandissima parte proprio da famiglie di lavoratori!), e di aiutarlo a difendersi contro gli inquinatori e i ladri di salute. Di lottare, quindi, per non dover più continuare produzioni nocive e inquinanti, pericolose e a rischio. Quanto spazio e quale gamma per un movimento operaio e sindacale che voglia rompere l’alienazione e contare davvero, cominciando a interloquire e contrattare, lottare e autogestire in tema di risanamento e qualità ambientale del lavoro!

E quale sfida per il movimento ecologista, che dovrà fare della solidarietà attiva e fantasiosa con i lavoratori disposti a «finire la guerra» e a «riconvertire l’industria bellica a scopi pacifici» un suo obiettivo di primaria importanza, decisivo per uscire dal tunnel della chimica pesante, delle produzioni energetiche ad alto rischio e alto inquinamento, delle megaopere pubbliche, della stradomania, della dittatura dell’automobile e così via! L’idea di un globale disegno di risanamento del lavoro e anche di una grande «cassa integrazione verde» perché la collettività si assuma, giustamente, gli oneri di tale riconversione e non li scarichi semplicemente sugli operai che – spesso loro malgrado! – lavorano negli impianti nocivi si fa sempre più strada.

È tempo, dunque, che si infittiscano il dialogo e le iniziative esemplari tra ecologisti e operai (anche sindacalisti), ma anche tra ecologisti, operai e imprenditori, per esplorare concretamente, e non necessariamente solo in situazioni di conflitto, il terreno della comune lotta per la qualità ecologica, oltre che sociale e umana, del lavoro. Vorrà dire prendere per le corna il toro dell’alienazione, e lavorare per il disinquinamento non solo dell’ambiente, ma anche della vita di milioni di persone, dentro e fuori le fabbriche, gli uffici, i servizi, le campagne.

Il cittadino come creditore dello Stato7

Quest’anno le finanze pubbliche italiane hanno toccato un nuovo record: per la prima volta gli interessi sul debito superano le altre grandi voci di spesa del bilancio dello Stato. Nel 1991 l’Italia avrà speso per il servizio del debito più che per gli stipendi dell’enorme apparato amministrativo o per la sanità o le pensioni. Lo Stato dovrà spendere quest’anno più di 140.000 miliardi di lire per trovare sul mercato finanziario nuovi investitori disposti a collocare i propri risparmi o capitali speculativi nei diversi titoli di Stato invece di comprare per esempio azioni, o case, o oro, o di creare la possibilità di buoni investimenti all’estero. Questa somma gigantesca – quasi un quarto del totale delle uscite dello Stato – supera [...] il totale del gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, indicato in 123.000 miliardi di lire. In cinque anni il peso nominale degli interessi passivi è raddoppiato, in dieci anni più che quintuplicato [...].

L’acquisto di titoli di Stato è da una decina d’anni la «dritta» con cui lo Stato riesce a coprire il suo cronico deficit di bilancio, suggerita soprattutto ai normalissimi piccoli risparmiatori, i quali hanno scoperto che conviene fornire allo Stato la droga di cui ha bisogno per sopravvivere, anziché per esempio accontentarsi dei ridicoli interessi bancari o affidarsi al rischioso mercato azionario, nel quale i dilettanti sono in ogni caso poco capaci di orientarsi. Da parte loro le banche si sono attrezzate alla mediazione e alla gestione dei titoli di Stato, ricavandone tanto quanto ricavano con i libretti di risparmio o la tenuta dei conti dei clienti, e questo le ha rese indifferenti al fatto che lo Stato rastrelli tante risorse sul mercato del credito.

Questo circolo vizioso della finanza pubblica italiana, che per così dire ha messo lo Stato nelle mani dello strozzino, ha anche un suo lato piccante: non solo perché i creditori dello Stato sono prevalentemente i suoi stessi cittadini [...], ma anche perché il denaro così investito non di rado proviene dall’evasione fiscale. L’evasione annua [...] è stimata dal ministero competente in 260.000 miliardi di lire; di questa somma l’anno scorso solo un ottavo ha potuto essere recuperato attraverso indagini fiscali. Non è dunque lontano dal vero chi afferma che lo Stato viene truffato due volte: quando si dimostra incapace di un prelievo fiscale equo e quando prende in prestito ad alti interessi i proventi dell’evasione.

Allorché di recente il ministro delle Finanze [...] ha reso pubblico un elenco di 270.000 evasori per un ammontare di 33.000 miliardi di imposte non pagate, sono venuti alla luce alcuni dettagli illuminanti. Non pochi erano evasori totali; altri avevano dichiarato redditi ridicolmente bassi, in particolare commercianti, liberi professionisti, artigiani. Diversi gioiellieri, pellicciai, commercianti di abbigliamento, avvocati, medici, ingegneri, titolari di officine, vinai, stando alle loro dichiarazioni dei redditi guadagnano meno dei propri dipendenti, e le detrazioni per spese di esercizio portano spesso alla cancellazione pressoché totale del loro debito fiscale. La pubblicazione dei nomi ha scatenato subito la discussione se lo Stato debba spingere i cittadini allo spionaggio e alla delazione [...], o se gli effetti innescati da simili procedure non siano troppo negativi. Ma che l’evasione fiscale di massa costituisca il maggiore scandalo sociale dell’Italia è chiaro a tutti, solo che si fa ben poco per combatterlo.

Tutto ciò ha naturalmente a che fare con la base sociale sulla quale le coalizioni di governo italiane si appoggiano da decenni. È illuminante a questo proposito proprio il circolo evasione fiscale - indebitamento dello Stato - emissione di titoli di Stato - interessi a carico dello Stato. Soprattutto gli strati della piccola borghesia che guadagnano appena più di quanto serve loro per vivere, ma anche una parte crescente dei percettori di salari e stipendi che possono mettere da parte un piccolo risparmio (per l’acquisto di un’auto o di un’abitazione, o per integrare la pensione), sono ora diventati creditori dello Stato, e sentirebbero come un attacco ai loro risparmi una riduzione del tasso di interesse (che attualmente si aggira intorno al 10 per cento al lordo dell’inflazione).

Oggi ogni cittadino italiano – compresi i neonati – porta sulle spalle un debito di ventitré milioni di lire, di cui non sospetta nulla. Ma in molti casi è contemporaneamente un creditore dello Stato, e come tale interessato a che esso continui a onorare il servizio del debito. Che questo meccanismo possa funzionare ancora a lungo è assai dubbio, non da ultimo a causa della crescente integrazione economica e finanziaria nella Comunità europea, e anche perché ormai ogni logica economica è stata travolta. Se poi si aggiunge la dilatazione delle spese statali per le funzioni ordinarie dello Stato e il buco sempre più minaccioso del sistema pensionistico – come in tutti i paesi – si profila chiaramente all’orizzonte la necessità di un provvedimento drastico. Sempre più spesso nella discussione pubblica affiorano concetti come «consolidamento dei titoli di Stato» (che significherebbe come minimo il prolungamento forzoso del debito e un abbassamento dell’interesse) o perfino la svalutazione (parziale) delle obbligazioni dello Stato.

Tuttavia, finché un governo dipende dal consenso degli strati che sono stati alimentati dal circolo vizioso sopra descritto e non esiste una situazione di guerra che possa in qualche modo giustificare una drastica svalutazione degli obblighi finanziari pubblici, l’Italia deve continuare a convivere con questo dilemma, tentando di rinviare il peggio con piccole misure correttive (privatizzazione di aziende di Stato, contrasto più efficace dell’evasione, alienazione di beni del patrimonio dello Stato, pacchetti fiscali). La bancarotta di un membro del G7 nel mezzo dell’Europa, in tempo di pace, è difficilmente immaginabile. Ma si può capire che i partner europei dell’Italia non riescano a liberarsi tanto facilmente delle loro riserve sull’unione economica e monetaria con un socio simile.

L’intuizione dell’austerità8

Capita, di questi tempi, di sentir citare il richiamo berlingueriano del 1977 all’austerità... con un sospiro nostalgico. Dove si mescola la nostalgia verso Enrico Berlinguer a quella per il messaggio in favore di uno stile di vita più modesto, meno spendaccione, e di una vita più ardua, fatta anche di sacrificio, di rinuncia, persino di fatica e di noia (Berlinguer lo diceva a proposito dello studio). L’«intuizione dell’austerità», come viene qualche volta chiamata, la si evoca con sottolineature morali, ma anche come riferimento a un diverso tenore di vita, ricco di implicazioni economiche e persino ecologiche.

Se Berlinguer, a suo tempo, non è riuscito a sfondare con il suo discorso sull’austerità, ciò è dovuto – a mio parere – a una fondamentale ambiguità: era (e resta) difficile capire se l’allora segretario del Pci, pur così ricco di connotazioni etiche, intendesse sostanzialmente la stessa cosa che a quei tempi una larga parte del movimento sindacale (con Lama in testa) proclamava, o se si riferisse a una diversa accezione di austerità.

Nel primo caso era un «tirare la cinghia oggi per rilanciare la crescita domani», una politica dei due tempi che non metteva veramente in discussione l’obiettivo del «rilancio dell’economia», e che quindi esigeva uno sforzo di accumulazione per ripartire da una base più solida: meno consumi e più investimenti, meno soddisfazioni immediate e più risparmi, meno cicale e più formiche. Difficile entusiasmarsene, allora come oggi.

Una diversa e più profonda accezione di «austerità», che probabilmente era presente in Berlinguer, ma non realmente esplicitata a quel tempo, avrebbe significato qualcosa di non così facilmente riducibile alle esigenze politico-economiche dominanti di allora... e di oggi. Vediamo dunque se il termine «austerità» può caratterizzare oggi uno stile di vita e un’opzione sociale accettabile e persino desiderabile, o se invece si tratti sempre e di nuovo di un involucro mistificante per arrivare poi al solito dunque, quello di ricapitalizzare e di dare impulsi a quella che chiamano ripresa economica.

Ci sono alcune verità assai semplici da considerare: nel mondo industrializzato si produce troppo, si consuma troppo, si inquina troppo, si spreca troppa energia non rinnovabile, si lasciano troppi rifiuti non riassorbibili senza ferite dalla natura, ci si sposta troppo, si costruisce troppo, si distrugge troppo. Naturalmente sappiamo bene che la distribuzione sociale di quei danni è inversamente proporzionale alla ricchezza: i ceti opulenti e benestanti esagerano più dei poveri, i quali hanno poco da sprecare perché mancano dei necessari presupposti economici. Ma essi non sono meno influenzati dalla cultura dominante, per cui aspirano – assai sovente – a diventare al più presto esattamente come i più ricchi, e trovano spesso insopportabile l’idea che la felicità non esiga l’automobile, il videorecorder e le vacanze a Madagascar.

Accettare oggi la positiva necessità di una contrazione di quel «troppo» e di una ragionevole e graduale decrescita, e rilanciare, di fronte alla gravissima crisi, un’idea positiva di austerità come stile di vita più compatibile con un benessere durevole e sostenibile, sarà possibile solo a patto che essa venga vissuta non come diminuzione, bensì come arricchimento di vitalità e di autodeterminazione. E ciò dipende, ovviamente, da tutto un intreccio di scelte personali e collettive, di condizioni culturali e sociali, di sinergie e intese. Ma qualcuno dovrà pur cominciare, e indicare e vivere un privilegio diverso da quello della ricchezza e dei consumi: il privilegio di non dipendere troppo dalla dotazione materiale e finanziaria, il privilegio di preferire nella vita tutte le cose che non si possono comperare o vendere, il privilegio di usare con saggezza e parsimoniosità l’eredità comune a tutti, senza recinti e privatizzazioni indebite. L’austerità di una vita più frugale, meno riempita da merci usa e getta, più ricca di doni, di servizi mutui e reciproci, di condivisioni e co-usi a titolo gratuito, di ricuperi e riciclaggi, di soddisfazioni senza prezzo.

Riabilitare e rendere desiderabile questo genere di austerità come possibile stile di vita, liberamente scelto e coltivato come ricchezza, comporterà una notevole rivoluzione culturale e una cospicua riscoperta della dimensione comunitaria. Perché con meno beni e meno denaro si può vivere bene solo se si può tornare a contare sull’aiuto gratuito degli altri, sull’uso in comune di tante opportunità, sulla fruizione della natura come bene comune, non riducibile a merce.

Tutto ciò non potrebbe essere proposto se lo si intendesse e lo si organizzasse come strada verso il rilancio del meccanismo perverso di accumulazione e crescita economica che ha generato l’inflazione selvaggia di natura, di piaceri e di valori che stiamo sperimentando: una «svalutazione» ben più grave di quella della lira (così come assai più grave appare il buco d’ozono rispetto al buco nelle finanze dello Stato) alla quale non si deve rispondere volendo «tornare nello Sme», cioè‚ riprendere al più presto possibile l’economia degli sprechi, del degrado, dello svuotamento dei valori.

L’austerità potrà invece essere vissuta con piacere e come miglioramento della qualità della vita, se ci farà dipendere meno dai soldi, da apparati, da beni e servizi acquistabili sul mercato, ed esigerà (anzi: permetterà) che ognuno ridiventi più interdipendente: sostenuto dagli altri, dalla qualità delle relazioni sociali e interpersonali, dalle conoscenze e abilità, dall’arte di adattarsi e arrangiarsi, dalla capacità di ricercare e vivere soddisfazioni (individuali e collettive) non ottenibili con alcuna carta di credito, né chiavi in mano, pronte a essere passivamente consumate. Può essere una grande occasione.

Impatto ambientale, sociale e culturale della cooperazione italiana9

Abbondano, nei paesi industrializzati, gli istituti che hanno il compito di favorire i commerci, l’export, gli investimenti, le transazioni finanziarie. Sono centri che spianano la strada agli affari, ai legami economici, all’intensificazione degli scambi commerciali e alla penetrazione dei mercati. Spesso questi istituti hanno tra le loro funzioni anche quella di estendere la rete delle relazioni economiche verso il cosiddetto «terzo mondo», dove spesso si trovano terre ancora vergini e spazi bianchi sulle mappe degli affari.

Le aziende che si servono di questi istituti e i ministeri del Commercio estero dei paesi interessati, sotto il profilo del loro interesse finanziario nel breve periodo, hanno lavorato bene. Le bandierine che segnalano ormai la presenza di cantieri, banche, miniere, imprese assicurative o catene di alberghi si sono infittite anche nell’emisfero meridionale del mappamondo; il flusso di denaro che passa da Sud a Nord (cioè dai poveri ai ricchi) da anni supera quello che a vario titolo percorre la direzione inversa.

Ciò vuol dire che l’insieme dei cosiddetti aiuti, prestiti, pagamenti e trasferimenti finanziari che ogni anno va dai paesi industrializzati a quelli chiamati eufemisticamente «in via di sviluppo» viene superato dall’insieme delle somme che per rimborsi e pagamenti ritorna dal Sud nelle casse dei ricchi. Ma si è anche allargata a dismisura la scia di distruzioni sociali, ambientali e culturali che questo «sviluppo» ha lasciato dietro di sé nei paesi che ne sono stati fatti oggetto. Urbanesimo selvaggio e gente accatastata in megalopoli invivibili; foreste tropicali disboscate (e con loro sfrattati i popoli indigeni che vi abitavano); risorse ittiche raschiate al fondo; differenze sociali divenute abissali (è infinitamente più grande la distanza tra un povero e un ricco di oggi, in India o in Egitto o nel Perù, che non due-trecento anni fa); equilibri idrogeologici sconvolti. Devastazioni che non feriscono solo i popoli più direttamente colpiti, ma che sempre più arrivano come dei boomerang anche a noi che viviamo nel Nord industrializzato, bianco e benestante del pianeta [...]. Ecco perché qualcuno comincia a pensare che ormai occorrono, più che istituti per la promozione dei nostri affari nel terzo mondo, strumenti che ci aiutino a capire e limitare i danni che il trionfo dei nostri affari provoca in giro per il mondo. E che la cosiddetta «cooperazione» [...], gli «aiuti allo sviluppo», debbano essere sottoposti a un vaglio critico per evitare di fare danni in nome di chi, con il denaro dei contribuenti, prometteva invece di «aiutare».

È così che dalla «Campagna Nord-Sud: biosfera, sopravvivenza dei popoli, debito» è nato l’«Osservatorio dell’impatto ambientale, sociale e culturale dell’intervento italiano nel Sud del mondo» (Oia), reso possibile grazie all’impegno convinto di persone impegnate nei movimenti ecologisti e della solidarietà tra i popoli, e a un generoso contributo della «Federazione delle liste verdi». Quel che avete in mano è il primo dossier con i risultati della sua ricerca relativa al Brasile (e ha in cantiere, in fase avanzata, un analogo lavoro sulle Filippine). Non si tratta di risultati scandalistici, ma di «normalità» nei rapporti Nord-Sud. Una «normalità» che tuttavia poi fa gridare allo scandalo, quando ci si accorge che così ci stiamo «mangiando l’Austria» ogni anno (così il Wwf italiano ha efficacemente sintetizzato in una sua campagna la veloce progressione della deforestazione in Amazzonia).

Quali sono, in sintesi, le proposte più generali che emergono dalla rigorosa analisi che l’équipe dell’Oia ha condotto nel suo primo lavoro? Vorrei riassumerli così:

1. ormai è necessario che ogni intervento «di cooperazione» dei paesi industrializzati verso il terzo mondo venga sottoposto a una severa valutazione dell’impatto ambientale, sociale e culturale, per evitare che si distruggano preziosi e irrecuperabili ecosistemi, che si lacerino tessuti sociali seminando miseria e dipendenza, che si snaturi l’identità e la cultura di intere popolazioni;

2. tale «valutazione di impatto» non può consistere nel ricorso a una nuova tecnocrazia che agli «studi di fattibilità» commissionati dalle aziende aggiunga semplicemente un ulteriore parere tecnico che certifichi la compatibilità ambientale, sociale e culturale del progetto, bensì dovrà essere fatta essenzialmente insieme a esponenti dei popoli più direttamente interessati [...]; si dovranno sviluppare metodologie ed esperienze adatte a farlo, ed è evidente quanto pesi a questo proposito la pressione e la vigilanza dell’opinione pubblica democratica, ambientalista e solidale;

3. anche nella cooperazione dovrà ormai valere il criterio che le «grandi opere» vanno guardate con una particolare diffidenza critica, per l’alto tasso di irreversibilità che contengono: gli errori, una volta impostati, sono difficilmente correggibili e si tende a perpetuarli, se non altro per non smentire gli enormi capitali investiti;

4. è venuto il momento di cominciare a risarcire i popoli e la natura dei danni loro inflitti: ecco una possibile destinazione «creativa» del debito estero, ecco un nuovo e importante traguardo della cooperazione [...].

5. non è più accettabile alcuna nozione e alcuna politica «di sviluppo» che non ne salvaguardi la durata nel tempo e la compatibilità con la natura; è questo quel che si deve intendere quando si parla di «sviluppo sostenibile», lo è solo quando è conciliabile con i limiti della biosfera, con imprescindibili criteri di equità sociale e con l’integrità culturale di chi vi è coinvolto; altrimenti i danni che si inducono sono di gran lunga superiori ai vantaggi;

6. tutto questo non è un lusso di anime belle terzomondiste o espressione di particolare generosità o filantropia da parte dei paesi industrializzati, bensì una necessità comune sia ai popoli del Sud del mondo, sia alla gente dei paesi industrializzati. L’assalto indiscriminato alle «casseforti biologiche» del pianeta comporta dei costi e delle conseguenze tali che nessuno potrà illudersi che resteranno circoscritte al mondo del «sottosviluppo».

Non è detto che sforzi come quelli della «Campagna Nord-Sud» o dell’«Osservatorio» arrivino ancora in tempo. Può darsi che effettivamente la vorace miopia degli interessi economici e dei profitti a corto termine siano più forti di ogni richiamo alla ragione, oltre che alla giustizia. Ma non è un buon motivo per non provare almeno a fare il possibile per la difesa dell’integrità della biosfera e per la sopravvivenza dei popoli, accettando di cominciare a pagare il comune debito che – seppur in proporzioni assai diverse – Nord e Sud hanno contratto con la «madreterra».

1 Testo che ricapitola le linee essenziali degli interventi di Alexander Langer al convegno «Sviluppo? Basta! A tutto c’è un limite», Verona, 1° aprile 1991.

2 Da «Servitium», settembre 1989.

3 Prefazione al libro Lettera ad un consumatore del Nord, a cura del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Emi – Editrice Missionaria Italiana, Milano 1990.

4 Da «Kommune», settembre 1989; traduzione di Clemente Manenti.

5 Testo presentato al Convegno ACRA, Torino, ottobre 1989.

6 Da «VerdeUIL», 1° ottobre 1983.

7 Da «Kommune», ottobre 1991.

8 Da «Senza confini», ottobre 1992.

9 Introduzione alla seconda edizione del dossier «Brasile. Responsabilità italiane in Amazzonia», a cura di Oia – Campagna Nord-Sud: Biosfera, Sopravvivenza dei Popoli, Debito, ottobre 1991.