CAPITOLO X
"Isa, ti cercano!"
Il ragazzo saltò giù dal letto ed entrò nell'ampia cucina.
"Sono fuori," disse Anna, "ma prima ti vesti."
"Io..."
"Metti i pantaloni e la camicia. Se no, non esci."
Il ragazzo si vestí in fretta.
Seduto sul basso scalino del piccolo porticato c'era Filippo. Vicino saltellava il dix-dix.
"Non hai portato l'arco?"
"No. Se vuoi, lo prendo."
"Mi piace vederlo. E... si può tirare stando seduti?"
"È più difficile, ma si può."
"Mi fai provare?"
Isa accennò di si. Non riusciva a parlare.
Quando Filippo ebbe l'arco tra le mani lo osservò attentamente chiedendo un'infinità di spiegazioni. Isa rispondeva su ciò che sapeva.
Poi cominciò a spiegargli come s'usava; e come doveva essere la freccia; e come si doveva fare per colpire un oggetto che si muove; e come si sfrutta il vento.
Ma non trovando sempre le parole nella nuova lingua, s'alzò dicendo:
"Vieni. Ti faccio vedere."
"Isa, io... io non posso venire" mormorò Filippo.
Il ragazzo abbassò il capo.
Non aveva ricordato.
Stava per dire qualcosa, quando un'idea gli balenò nella mente.
"Ti porto io. Andremo vicino al fiume." "Oh, si!"
A Filippo ridevano gli occhi. Ma di colpo si fece serio e sussurrò:
"Io verrei volentieri, ma mio padre non mi lascia venire."
"Perché?" chiese Isa rabbuiandosi. "Forse perché sono un 'orzowei'?"
"No. Non mi lascia andare con nessuno."
"Lo puoi portare con te" disse in quel mentre una voce.
I ragazzi si voltarono.
Anna era sulla soglia.
"Lo dirò io a suo padre. Più tardi vi farò chiamare da Stefano. Ma ricordati, Isa, ch'egli è come il tuo arco. Nessuno deve fargli del male."
Isa annui sorridendo. Si chinò e prese delicatamente il compagno fra le braccia.
"Stai bene?" chiese.
"Benissimo."
Sorrisero ad Anna e si allontanarono verso il fiume.
"Ti peso?" domandò Filippo più tardi.
"No. Sei leggero."
"Tu sei forte. Quando sto con te non ho paura."
Isa mugugnò.
Era contento. Avrebbe cantato per la gioia.
"Sai" prosegui Filippo "papà mi ha detto del cucciolo. M'ha detto anche che sei stato tu a non farlo uccidere."
"Era piccolo, mi faceva..."
Non trovava le parole adatte per esprimere il sentimento provato quella notte.
"Ecco. Mi faceva male vederlo cosí."
"Quando papà t'ha frustato, io..."
"Non ricordo che m'abbiano frustato."
"Grazie, Isa. Sono contento d'essere tuo amico."
"Anch'io. Ci fermiamo qui?"
"Si."
Distante una trentina di passi dal sentiero, una breve radura interrompeva il susseguirsi delle grandi piante e dei cespugli che costeggiavano il fiume.
I fischi, i cinguettii, i pigolii, i trilli, i gorgheggi, le strida, i canti, i suoni acuti e profondi d'ogni sorta d'uccelli si confondevano con gli urli incomposti delle scimmie e col gracidare delle rane, lo stridio delle cicale ed il ronzare degli innumerevoli insetti.
Ma i ragazzi, seduti sul suolo felpato dai muschi, tutt'assorti a tirar d'arco, nulla sentivano.
Vicino a loro, felice, il dix-dix ruzzava fra l'erba spensieratamente.
Per molti giorni la piccola radura fu la meta delle loro passeggiate.
Ed in quel luogo si consolidò maggiormente fra i due ragazzi d'educazione diversa, dai diversi costumi, la loro amicizia. Ed Isa, proprio per Filippo, cominciò a comprendere i bianchi; mentre Filippo imparò a non disprezzare più gli uomini delle foreste.
"Vorrei poterti seguire nella foresta e percorrere con te ogni sentiero" disse un giorno Filippo.
"Il grande albero" rispose Isa usando il figurato linguaggio dei Boscimani "è sempre nello stesso posto. Eppure conosce ogni cosa e fa vivere molti animali; e né il vento, né l'uragano riescono ad abbatterlo."
"Non ti capisco, Isa."
"Ecco: nel villaggio Amaora, il mio villaggio, un vecchio Ring-kop non poteva più cacciare. Era come te. Le zagaglie dei nemici lo avevano reso cosi. Eppure il suo arco parlava sempre e il cerbiatto cadeva. Tu puoi essere sempre un grande guerriero."
"Lo credi?" "Si."
"Allora lo sarò."
Erano giorni felici, quelli.
Isa non era più chiamato per lavorare e nessuno più lo tormentava. Era lasciato libero d'andare quando voleva con Filippo.
Passarono cosí più di venti giorni, quando Filippo notò un cambiamento nell'atteggiamento del compagno. Come giungevano nella radura Isa gli dava l'arco e sedeva, assorto, al suo fianco. Non gridava più per i colpi andati male, né gioiva per quelli centrati.
Era lí, indifferente.
Filippo lo guardava senza avere il coraggio di chiamarlo.
"Isa" gli chiese una mattina "non sei contento di venire con me?"
"Chi lo ha detto?"
"I tuoi occhi lo dicono."
"I miei occhi non dicono quello che sente il mio cuore."
"Cosa c'è allora?"
"Non lo so."
"Io si."
"Dimmelo."
"I tuoi occhi guardano sempre lontano."
"E con questo?"
"Tu vuoi ritornare nella foresta."
"Forse."
"Ed allora che aspetti?"
"Non voglio lasciarti."
"Ritornerai, no?"
"Non lo so."
"Io non vorrei mandarti via" disse Filippo abbassando lo sguardo. "Vorrei tenerti sempre vicino a me."
"Io non vado via."
"Tu sei già via. Sei già solo."
"Non è vero questo."
"Si, Isa. Tu sei con me, ma non ridi più con me; non giochi più con me. Non gridi più che sono una femmina quando sbaglio a tirar d'arco. Sei via, perciò."
"Non volevo farti male."
"Cosí" proseguí Filippo senza badare all'interruzione "è meglio che tu vada dove vuoi. Però..."
Si tese tutto verso il compagno e gli sussurrò all'orecchio:
"...però ora giureremo di essere sempre amici. Tu ritornerai da me ogni tanto, cosí parleremo e giocheremo insieme."
"Cos'è un giuramento?" chiese Isa.
"Quando uno giura e poi non fa quello che ha detto, muore."
"Una parola, allora. Una promessa fatta agli spiriti buoni."
"Si. Dammi la mano."
Isa gliela tese. Filippo, stringendola con forza, disse:
"Isa è il mio grande amico. Lo giuro per il cielo. Io non lo abbandonerò mai, neppure quando mi sposerò. Ecco, ora tocca a te."
"Cosa devo dire? Le tue stesse parole?"
"No. Occorrono parole tue."
"Bene." Isa strinse la mano del compagno e mormorò lentamente:
"Il fiume si seccherà e la foresta diventerà deserto, prima che Isa dimentichi. Nel mio sangue scorre il suo sangue e Filippo è mio fratello. Il Gran Padre lo sa."
"Ma non è un giuramento, questo!" esclamò Filippo. "Devi dire: lo giuro."
"Perché? Se il Gran Padre lo sa, basta. Isa non abbandonerà il fratello. Pao ha detto che se si dice al Gran Padre, basta. E quando Pao dice che il fiume si seccherà e la foresta diventerà deserto prima che lui dimentichi, stai tranquillo che non dimenticherà."
"Se Pao l'ha detto, va bene. Ora riportami a casa, poi andrai."
"Ritornerò con Pao. E tu m'aspetterai."
"Vieni presto, però."
Per due giorni Isa vagabondò per la foresta.
Si sentiva libero, felice.
Il terzo giorno si diresse verso la "città morta" per incontrare Pao. Al limite della radura, ove sorgeva il villaggio del piccolo popolo, gridò il richiamo convenuto.
Ma nessuno rispose.
Provò ancora mentre avanzava lentamente.
I Boscimani non dovevano essere lontani.
Possibile che nessuno lo sentisse?
S'appoggiò ad un tronco e rimase in ascolto.
Ma, ad eccezione dei mille e mille rumori della foresta, nessun altro segno di vita.
Proprio per questo Isa non si mosse.
Ciò non era normale. Appena trenta passi più avanti, proprio dietro i grandi alberi che lo nascondevano, c'era il villaggio di Pao. Perché nessuno rispondeva ai suoi richiami? Possibile che nessuno lo udisse?
Improvvisamente l'abbaiar d'uno sciacallo ed il vento che cambiò direzione, gli fecero chiaramente comprendere ciò che era accaduto.
Balzò in avanti correndo senza rumore.
Prima d'entrare nel villaggio, si fermò.
Il suo corpo pareva quello d'una statua, tant'era immobile. Ma le narici dilatate, frementi, e gli occhi che scrutavano in ogni dove, indicavano con quanta attenzione osservasse ogni cosa.
Gli arbusti spezzati, le capanne scoperchiate, gli oggetti dei Boscimani gettati cosí, alla rinfusa, mostravano chiaramente che in quel luogo si era duramente combattuto. Qua e là delle frecce erano conficcate nel terreno.
Sorpassato l'ultimo cespuglio, vide il primo morto.
L'osservò bene.
Doveva essere stato uno dei più giovani guerrieri di Pao. Dodici colpi di zagaglia gli avevano squarciato il petto. La mano stringeva ancora l'arco.
Ma dal corpo era stata staccata con un colpo netto, là testa.
Isa osservò il taglio.
Un bianco non ci avrebbe visto nulla.
Lui vi lesse, invece, il nome della tribù che aveva compiuto l'eccidio.
"I guerrieri del Gran Re!" esclamò.
Erano, gli Zulù, il ceppo più numeroso e più forte della grande razza bantù alla quale appartenevano anche i Swazi, i Pondo, i Tembù, i Mascona, i Shangaans, i Matabele, i Barotse.
I bianchi confondendo chiamavano zulù anche le altre tribù bantù.
Ma per Isa zulù erano solo quegli uomini appartenenti alla grande, numerosa tribù cosí chiamata e che aveva un solo capo: il Gran Re. Anche fisicamente gli Zulù differivano dai loro cugini: naso aquilino, occhi obliqui; e molto, molto alti.
Ma tutti, Swazi, Pondo e cosí via, erano nemici acerrimi degli Zulù. O meglio, lo erano stati fin quando Ciaka, il Gran Re, portando lo sterminio in tutti i villaggi delle varie tribù bantù, non aveva ottenuto la loro sottomissione.
Questo era accaduto molti anni prima.
Isa ricordava quando i vecchi raccontavano le leggendarie imprese dei terribili guerrieri. Ricordava che essi concludevano invariabilmente i loro racconti dicendo:
"Se loro sono i guerrieri del Gran Re, noi siamo le 'antilopi della foresta'. Nessuno può gareggiare con un Swazi in battaglia; nessuno riesce a fermarlo. Egli è tanto agile e veloce che le zagaglie nemiche non riescono a colpirlo."
Cosí dicevano.
Ma ricordava pure che un giorno anche i loro villaggi furono rasi al suolo; ricordava l'ingresso di Ciaka nel suo villaggio, di Ciaka che con la sua potenza e con la sua crudeltà, era diventato veramente il "Grande Re".
Era storia accaduta molti anni prima, quando lui non aveva ancora nove primavere. Ma ricordava sempre i venti guerrieri uccisi con un colpo alla nuca ed il capo del villaggio fatto divorare dalle formiche, solo perché avevano osato dichiarare che le "antilopi della foresta" potevano fare sempre ciò che volevano. Anche se Ciaka non lo permetteva.
Malgrado tutto ciò, Isa ammirava i guerrieri del re. Nel suo intimo, aveva sognato di appartenere un giorno a quelle schiere. Come ogni essere della giungla, ammirava la forza ed il coraggio.
E quei guerrieri ne avevano in tal misura che anche i bianchi, malgrado le loro armi possenti, erano stati spesso sconfitti. E la fama di queste imprese era stata divulgata in tutta la giungla a tutti i villaggi, dai tamburi del Gran Re.
Isa scavalcò il morto e si guardò d'attorno.
Qua e là giacevano i piccoli uomini. Le loro membra avevano già sentito i denti degli sciacalli.
Li osservò uno per uno.
Cercava su di essi un segno che gli facesse riconoscere il suo amico.
In un angolo erano le donne e i bambini.
Una massa informe che giaceva brutalmente accatastata.
"Del nemico non deve rimanere traccia," questo era il motto di Ciaka. Ed era rigorosamente applicato.
Quando ebbe cercato per ogni dove, entrò nella grotta.
Quattro guerrieri del piccolo popolo giacevano nell'interno. I loro corpi erano crivellati di colpi.
In quell'angusto spazio si dovevano essere battuti da leoni.
Li osservò.
No. Pao non era fra loro.
Sedette fuori.
Era sconvolto per quello che i suoi occhi vedevano. Avrebbe voluto gridare, fuggire. Avrebbe voluto trovare i guerrieri del Gran Re e vendicare i suoi amici.
Ma era vissuto molti anni con Pao e il suo popolo.
Era cresciuto e nato nella foresta.
Non inutilmente.
La foresta, la sua tribù e Pao gli avevano insegnato che la prudenza era la migliore arma.
Se voleva colpire e vendicare, doveva attendere il momento giusto.
Rimase seduto.
Ma se il suo corpo poteva apparire quello d'un morto, tant'era la rigidità delle membra, il cervello lavorava alacremente.
Aveva notato che i morti del piccolo popolo, senza tener conto delle donne e dei bambini, non erano numerosi. Nel villaggio lui aveva visto almeno un numero triplo di uomini validi a tirar d'arco.
Potevano essere fuggiti. Impulsivamente voltò il capo verso il luogo dell'eccidio.
No, un Boscimano, come qualsiasi altro essere della foresta, sarebbe morto tre volte, prima di far uccidere i suoi cari.
Pao ed i suoi uomini non dovevano essere nel villaggio quando gli Zulù avevano attaccato. Gli uomini del Gran Re non usavano prendere prigionieri. Doveva essere andata proprio cosí: Pao e gli altri erano andati a caccia ed il villaggio era stato assalito durante la loro assenza.
Non pensò neppure di cercare il luogo ove i nemici avevano bruciato i loro morti, e non si chiese neppure perché non si trovava neanche una zagaglia degli assalitori.
Era una cosa questa che persino Amebais, la stolta, sapeva a memoria.
Lo Zulù che perdeva la zagaglia in combattimento, veniva ucciso dai compagni.
Ciaka l'aveva insegnato.
E tutti avevano subito imparato.
Era bastato un solo esempio.
Più di mille guerrieri furono fatti uccidere da Ciaka in una sola mattinata, perché avevano perduto le loro armi.
Ma perché i guerrieri del Gran Re si erano mossi?
A questo Isa non sapeva rispondere. Molto tempo prima c'erano state lunghe lotte. I vecchi dicevano che Ciaka voleva la distruzione d'ogni ramo della grande famiglia Bantù. Allora non era difficile incontrare un villaggio raso completamente. Ma si sapeva il perché.
Poi tutti si erano sottomessi a Ciaka e i Bantù si trovarono sotto un unico capo.
Le lotte più recenti erano state dirette contro gruppi di rivoltosi e contro i villaggi degli Ottentotti.
Ma nei territori più a Sud; non in questi.
"La foresta parla ed il sole fa sempre luce" disse Isa. "E si saprà perché il Gran Re ha fatto parlare le sue zagaglie."
S'alzò.
Aveva deciso.
Avrebbe cercato Pao. E sarebbe rimasto con lui.
Il piccolo popolo l'aveva aiutato e salvato. Ora egli avrebbe data la sua zagaglia e il suo braccio per loro.