Sacrificabile

di Philip K. Dick

 

 

Titolo originale: Expendable (1953)4  

Traduzione di Corinna Augustoni 

 

 

 

L’uomo uscì sotto il porticato di casa per vedere come si presentava la giornata. Era bella e fredda; la rugiada ricopriva il prato rasato. Si abbottonò il cappotto e si mise le mani in tasca. 

Mentre l’uomo scendeva i gradini, i due bruchi che aspettavano vicino alla cassetta della posta, vedendolo, furono percorsi da un fremito. 

— Ecco che se ne va — disse il primo. — Scrivilo nel tuo rapporto. 

Mentre l’altro bruco cominciava a far ruotare i suoi anelli, l’uomo si fermò girandosi rapidamente. 

— Ti ho sentito — disse. Sferrò un calcio al muro e spiaccicò i bruchi contro il cemento. Li ridusse in poltiglia. 

Poi si affrettò lungo il viottolo che conduceva al marciapiede. Mentre camminava si guardava intorno. Un uccello stava saltellando sull’albero delle ciliegie e le piluccava con sguardo vivace. L’uomo lo studiò. Tutto a posto? Oppure... L’uccello volò via. Tutto sembrava tranquillo per quanto riguardava gli uccelli. Nessuna minaccia da parte loro. 

Proseguì il cammino. All’angolo sfiorò una ragnatela stesa tra i cespugli e il palo del telefono. Ebbe un tuffo al cuore. Corse via, agitando le braccia nell’aria attorno a sé. Mentre procedeva diede un’occhiata alle sue spalle. Il ragno stava scendendo lentamente dal cespuglio per verificare il danno alla sua ragnatela. 

Era difficile parlare dei ragni, fare delle previsioni. Occorrevano più dati ma non era stato ancora stabilito un contatto.

Aspettò alla fermata dell’autobus, pestando per terra i piedi per mantenerli caldi. L’autobus arrivò ed egli salì, percependo subito una piacevole sensazione mentre prendeva posto in mezzo a quella gente rassicurante e silenziosa che guardava dinanzi a sé con aria indifferente. 

Fece un largo sorriso e, per la prima volta in quella giornata, si rilassò.

L’autobus scese lungo la strada. 

 

Tirmus, in preda all’eccitazione, fece ondeggiare le sue antenne. 

— Votate, allora, se volete. — Si affrettò a sorpassarli, salendo lungo il monticello. — Ma, prima che cominciate, lasciatemi dire quello che ho detto ieri. 

— Sappiamo già tutto — disse Lala con impazienza. — Procediamo. Abbiamo fatto i nostri piani. Che cosa ci trattiene? 

— A maggior ragione voglio parlare. — Tirmus fissò il consesso degli dèi. — L’intero formicaio è pronto a marciare contro il gigante di cui si discute. Perché? Sappiamo che non può comunicare con i suoi simili... Questo è fuori discussione. Il tipo di vibrazioni emesse, il linguaggio che usano gli rende impossibile comunicare quello che sa di noi, dei nostri... 

— Sciocchezze — saltò su Lala. — I giganti comunicano quanto basta. 

— Non c’è nessuna prova che un gigante abbia divulgato informazioni su di noi! 

L’esercito era irrequieto. 

— Procedete pure — disse Tirmus. — Ma è uno spreco di energie. È inoffensivo... isolato. Perché non prendere tempo e... 

— Inoffensivo? — Lala lo squadrò. — Non capisci? Lui sa! 

Tirmus si allontanò dalla collinetta. — Sono contrario alla violenza inutile. Dovremmo risparmiare le nostre forze. Un giorno ne avremo bisogno. 

Si votò. Come previsto, l’esercito era favorevole a fare guerra al gigante. Tirmus sospirò e cominciò a stendere per terra delle mappe. 

— Questa è la posizione che ora occupa. Si può prevedere che si troverà laggiù alla fine dell’era attuale. Ora, come vedo io la situazione... 

Continuò in questo modo, stendendo le mappe sul terreno soffice.

Uno degli dèi si sporse verso un altro, così che le loro antenne si toccarono. — Questo gigante non ha nessuna probabilità di salvarsi. In un certo senso mi dispiace per lui. Come gli è capitato di inciamparci? 

— Un caso — ridacchiò l’altro. — Sai come fanno, vanno in giro ciondolando come ubriachi. 

— Comunque, è una punizione troppo severa per lui. 

 

Era il tramonto. La strada era buia e deserta. L’uomo veniva lungo il marciapiede con un giornale sotto il braccio. Camminava velocemente, guardandosi intorno. Passò di fianco al grande albero che cresceva vicino al cordone del marciapiede e saltò agilmente in strada. La attraversò e raggiunse il lato opposto. Mentre voltava l’angolo incappò nella ragnatela tesa tra il cespuglio e il palo del telefono. Automaticamente fece un gesto per allontanarla e scrollarsela di dosso. Mentre i fili della ragnatela si rompevano, gli giunse all’orecchio un mormorio fievole, insistente, metallico. 

— ... Aspetta! 

Esitò.

— ... Attento... dentro... aspetta... 

Contrasse la mascella. Gli ultimi fili gli si ruppero tra le mani mentre continuava a camminare. Dietro di lui il ragno si muoveva guardingo sul pezzo di ragnatela rimasta. L’uomo guardò dietro di sé. 

— Dannazione a te — disse. — Detesto essere preso dentro in una ragnatela. 

Andò avanti lungo il marciapiede verso il viottolo di casa sua; lo scavalcò con un salto evitando i cespugli che si tingevano di ombre scure. Nella veranda trovò la chiave e la inserì nella serratura.

Esitò. Dentro? Meglio che all’aperto, specialmente di notte. Una gran brutta cosa la notte. Troppo movimento sotto i cespugli. Per niente rassicurante. Aprì la porta ed entrò. Davanti a lui, come uno specchio di acqua scura stava il tappeto. Al di là, sull’altro lato, distinse la sagoma della lampada. 

Quattro passi per raggiungere la lampada. Sollevò il piede. Si fermò.

Cosa aveva detto il ragno? Aspetta. Aspettò, ascoltando. Silenzio.

Prese l’accendino e lo accese. 

Un tappeto di formiche ondeggiò verso di lui gonfiandosi come un fiume in piena. L’uomo balzò fuori nella veranda. Le formiche avanzarono nella semioscurità avventandosi, precipitandosi, graffiando il pavimento. 

L’uomo saltò giù dalla veranda e corse lungo il fianco della casa. Quando le formiche cominciarono a invadere come la piena di un fiume il porticato, stava già ruotando rapidamente la manopola del rubinetto dell’acqua e raccogliendo la canna per annaffiare. 

Il getto dell’acqua sollevò le formiche e le sparpagliò facendole schizzare via. L’uomo strinse il foro di uscita della canna, socchiudendo gli occhi in mezzo agli spruzzi. Avanzò, facendo ruotare il getto impetuoso da una parte all’altra. 

— Che Dio vi maledica — disse a denti stretti. — Stavate aspettando dentro... 

Era spaventato. Dentro... non era mai capitato prima! Nella notte un sudore freddo gli ricoprì il viso. Dentro... Non erano mai arrivate dentro prima di allora. Forse una o due falene, e mosche, naturalmente. Ma erano insetti svolazzanti, rumorosi e innocui... 

Un tappeto di formiche!

Le investì selvaggiamente con il getto finché non ruppero le file e sparirono nel prato, nei cespugli e sotto la casa.

Si sedette sul viale, con la canna dell’acqua in mano, tremando da capo a piedi. 

Lo avevano fatto apposta. Non era un’irruzione alla spicciolata, dettata dalla collera e dal risentimento; era un attacco progettato e calcolato. Lo avevano aspettato. Un passo in più e... 

Grazie a Dio il ragno lo aveva avvertito.

Chiuse subito l’acqua della canna e si alzò in piedi. Nessun suono; ovunque silenzio. Improvvisamente ci fu un fruscio tra i cespugli. Uno scarafaggio? Qualcosa di nero corse via rapidamente... lo schiacciò col piede. Probabilmente era un messaggero, una veloce staffetta. Entrò guardingo nella casa buia, trovando la strada alla luce dell’accendino. 

 

Più tardi si sedette alla sua scrivania, tenendo accanto a sé una pistola per la verniciatura a spruzzo in acciaio pesante e rame. Ne sfiorò la superficie umida con le dita. 

Erano le sette in punto. Dietro di lui la radio trasmetteva a basso volume. Si sporse per spostare la lampada da tavolo in modo che illuminasse il pavimento vicino alla scrivania.

Si accese una sigaretta, prese della carta da scrivere, la sua penna stilografica e indugiò pensieroso. 

Così, volevano proprio lui e lo volevano talmente da architettare dei piani per averlo. Una lugubre disperazione irruppe dentro di lui come un torrente. Cosa poteva fare? Da chi poteva rifugiarsi? O a chi poteva dirlo? Serrò rabbiosamente i pugni, stando seduto sulla sedia dritto come un fuso. 

Il ragno si calò vicino a lui sul piano della scrivania.

— Scusami. Spero che tu non ti sia spaventato, come nella poesia. 

L’uomo sgranò gli occhi. — Sei lo stesso? Quello che stava all’angolo? Quello che mi ha avvertito? 

— No. Quello era un altro. Un Ragno Filatore. Io sono, per la precisione, un Ragno Morsicatore. Guarda le mie mascelle. — Aprì e chiuse la bocca. — Io le mordo, le formiche. 

L’uomo sorrise. — Fortunato te. 

— Certo. Sai quanti ce ne sono di noi in... diciamo... un acro di terreno? Indovina. 

— Un migliaio. 

— No. Due milioni e mezzo. Di tutti i tipi. Morsicatori come me, o Filatori, o Pungitori. 

— Pungitori? 

— Sono i migliori. Vediamo un po’. — Il ragno si mise a pensare. — Per esempio la vedova nera, come la chiamate voi. È molto utile. — Fece una pausa. — C’è solo una cosa che non va. 

— Cosa? 

— Abbiamo i nostri problemi. Gli dèi. 

— Gli Dei! 

— Le formiche, come le chiamate voi, i padroni del mondo. Sfortunatamente sono al di là della nostra portata. Hanno un sapore orribile... ti fanno ammalare. Dobbiamo lasciarle agli uccelli. 

L’uomo si alzò in piedi. — Uccelli? Sono loro che... 

— Be’, abbiamo un accordo. È andata avanti così per secoli. Ti racconterò la storia. Ci è rimasto ancora un po’ di tempo. — Il cuore dell’uomo ebbe un balzo. — Ancora del tempo? Cosa vuoi dire? 

— Niente. Più tardi avremo qualche piccola noia, credo. Lascia che ti racconti quello che accadde tanto tempo fa. Penso che tu non ne sappia niente. 

— Continua. Ti ascolto. — Si alzò e cominciò a passeggiare avanti e indietro. 

Loro governavano la terra abbastanza bene, circa due milioni di anni fa. Vedi, gli uomini arrivarono da un altro pianeta. Quale? Non lo so. Atterrarono e videro che la terra era molto ben coltivata dalle formiche. Ci fu una guerra. 

— Così siamo noi gli invasori — mormorò l’uomo. 

— Certo. La guerra ridusse entrambi i contendenti, voi e loro, allo stato barbarico. Voi dimenticaste l’arte della guerra e loro degenerarono in gruppi sociali chiusi, formiche, termiti... 

— Capisco. 

— Gli ultimi di voi che erano al corrente dell’intera storia ci reclutarono. Fummo allevati... — Sogghignò a modo suo il ragno — ... fummo allevati da qualche parte per questo scopo che, nonostante tutto, è degno di apprezzamento. Le teniamo sotto controllo molto bene. Sai come ci chiamano? I Mangiatori. È spiacevole, non trovi? — Altri due ragni si lasciarono scivolare giù sul filo delle loro ragnatele e atterrarono sulla scrivania. I tre ragni si consultarono segretamente tra loro. 

— È una faccenda più seria di quanto pensassi — disse il Ragno Morsicatore con disinvoltura. — Non ero a conoscenza di tutto il complesso dei dati. Il Ragno Pungitore qui presente... 

La vedova nera raggiunse il bordo della scrivania. — Gigante — disse con voce metallica — vorrei parlarti. 

— Parla pure — disse l’uomo. 

— Avremo qualche guaio qui. Si stanno muovendo, stanno venendo qui e sono in tante. Abbiamo pensato che sia meglio stare qui con te per un po’ e prendere in mano la situazione. 

— Capisco — annuì l’uomo. Si inumidì con la lingua e si passò le dita tremanti tra i capelli. — Pensate che... voglio dire, quali sono le probabilità... 

— Probabilità? — Il Ragno Pungitore ondeggiò pensoso. — Be’, lavoriamo in questo campo da molto tempo, quasi un milione di anni. Penso che le abbiamo in pugno, nonostante tutti gli ostacoli. I nostri accordi con gli uccelli, e naturalmente con i rospi... 

— Penso che possiamo fare qualcosa per salvarti — interloquì allegramente il Ragno Morsicatore. — In realtà noi non vediamo l’ora di affrontare casi come questo. 

Da sotto le assi del pavimento giunse un suono stridente e indistinto, il rumore di una moltitudine di minuscole chele e ali che vibravano debolmente, in sordina. L’uomo lo sentì e si curvò tutto su se stesso. 

— Siete proprio sicuri? Pensate di potercela fare? — Si asciugò il sudore intorno alle labbra e impugnò la pistola per verniciatura a spruzzo, rimanendo sempre in ascolto. 

Il suono stava crescendo, si stava dilatando sotto di loro, sotto il pavimento, sotto i loro piedi. Fuori dalla casa le fronde dei cespugli stormivano e alcune falene volarono contro la finestra. Il suono divenne sempre più forte, sopra e sotto, da tutte le parti, un mormorio rabbioso e determinato. L uomo guardò da una parte e dall’altra. 

— Siete sicuri di potercela fare? — mormorò. — Potete veramente salvarmi? 

— Oh — disse imbarazzato il Ragno Pungitore. — Non volevo dire questo. Intendevo la specie, la razza... non tu come individuo. 

L’uomo rimase a bocca aperta e i tre ragni si allontanarono imbarazzati. Altre falene cozzarono contro la finestra. Sotto di lui il pavimento tremò e si sollevò. 

— Capisco — disse l’uomo. — Mi dispiace di avervi frainteso.