Capitolo 2.
Le cose che facciamo IN FAMIGLIA.
Mia moglie sostiene che sono un eccentrico, perché pretendo di tenere in salotto un vecchio computer Macintosh SE, un oggetto cubico che funziona anche se cade dal secondo piano. Ho smesso di usarlo da tempo. L'ho piazzato là perché lo considero più elegante della maggior parte dei soprammobili, e perché gli devo molto. L'ho comprato nel 1987: un anno dopo avevo scritto il primo libro, e mi ero liberato di nastri e puzzolenti correttori ortografici. Ero un uomo nuovo, e un gran rompiscatole; tutti dovevano conoscere i prodigi dell'elettronica (anche chi li conosceva già, e chi non li voleva conoscere).
Quell'uomo nuovo, tuttavia, si è trovato presto con un computer vecchio. Le macchine passano in fretta: neppure i mariti - prendete nota - invecchiano con la stessa rapidità. Ho adottato computer più potenti, ma meno fascinosi. Ho conservato anche il Macintosh, che non poteva essere venduto: il suo valore commerciale non supera quello di una radio-sveglia (usata). Potevo relegarlo in soffitta (triste) o regalarlo a un bar alla moda che intendesse anticipare l'inevitabile revival anni Ottanta (drammatico: l'idea di tre ganzi col pizzetto che appoggiano l'aperitivo sul mio SE non mi farebbe dormire la notte).
Così ho deciso di tenerlo, e di metterlo in salotto. È bello e inutile quanto l'argenteria, non va lucidato e nessuno si sogna di rubarlo. Mia moglie lo guarda con sospetto, e forse è gelosa (ha ragione; alcune mie passioni di gioventù non erano così attraenti, e avevano un sistema operativo ben più complicato). Mio padre, quando sale a trovarci, lo vede come una macchina futurista; mio figlio, come un oggetto d'antiquariato. La gatta lo considera un collega (passando, accarezzo entrambi). Io non so giudicarlo: mi limito a volergli bene. So che con le macchine occorre essere spietati (altrimenti trasformiamo le nostre case in musei, e ci riduciamo! a vivere negli intervalli tra una riparazione e l'altra). Il Macintosh cubico è l'eccezione. Quindi, Ortensia, giù le mani.
Ho un'armata di nipoti (li stanno ancora contando, ma dovrebbero essere diciassette). L'altro giorno, dopo una cresima, ne è comparso Uno con la cravatta rosa fosforescente, stretta e corta, puro acrilico. Improvvisamente, ho rivisto una scena di ventitré anni fa (cosa ci volete fare: la memoria di Proust funzionava a biscottini, la mia si accende con le cravatte rosa). Io ventiduenne, davanti al Metropol di Berlino, in attesa di un concerto dei Talking Heads. Indossavo quella cravatta (probabilmente mi vedevano nel buio), ed ero felice. C'era chi aveva la giacca, di quel colore.
Non so come la cravatta rosa sia finita al collo di Alessandro, anni quattordici, residente a Como: ma approvo incondizionatamente. Forse è stata fatta sparire da mia moglie, che l'ha girata al fratello, che l'ha usata prima di metterla in un sacco, che è stato aperto da qualcuno che voleva controllare cosa ci fosse dentro. Poi, attraverso una serie di altri armadi e passaggi, la cravatta rosa è finita al collo di Alessandro, che ne va orgoglioso (anche se mi ha confessato di averla trovata nello scatolone di carnevale, insieme al travestimento da pagliaccio). È una classica «catena dell'abbigliamento», versione tessile della più nota «catena alimentare». Se si interrompesse, l'Italia rimarrebbe nuda.
Esistono i cedenti puri (quelli che scartano, e vestono solo capi nuovi), e i beneficiari assoluti (quelli che non comprano niente, ed ereditano tutto). La maggior parte di noi, tuttavia, svolge ambedue i ruoli. Io passo giacche e cravatte, ma eredito impermeabili. C'è chi smette scarpe, ma accetta magliette. Conosco zie che cedono alle nipoti che lasciano alle sorelle che passano alle amiche che regalano ai poveri che ispirano gli stilisti che disegnano vestiti che le zie compreranno.
È questo il cosiddetto «ciclo dell'abbigliamento». La filosofia indiana se ne dovrebbe occupare.
Abbiamo parlato dei Conservatori, quelli che non vogliono buttar via nulla. Adesso affrontiamo i Terminator, quelli che devono far fuori tutto.
Penso li abbiate conosciuti; o, addirittura, si nascondono in casa vostra, travestiti da mariti e figli. I Terminator amano finire le cose: dentifrici, shampoo, rasoi, libri, pietanze. Esaurire dà loro un piacere fisico. Viceversa, l'idea di iniziare un secondo tubetto di dentifricio mentre il primo contiene ancora un po' di pasta, li irrita. Aprire un secondo flacone di shampoo quando nella doccia ce n'è uno semipieno, li indispone. Non lo faranno mai. E se lo fa qualcun altro, si arrabbiano.
Lo studio di questi personaggi è affascinante. Il comportamento dei Terminator oscilla tra una delicata nevrosi e una lodevole parsimonia. Non amano discuterne, però. Preferiscono aggirarsi per casa come pantere, in cerca di qualcosa da finire e buttar via: i quotidiani del giorno prima sono tra le vittime preferite. La destinazione non è sempre la spazzatura; talvolta un prodotto si può riporre in ordine. Un libro, per esempio, finisce in libreria; un CD tra i dischi. L'importante è che sia finito, letto, ascoltato.
Volete sapere se vivete con un Terminator? Non è difficile. Guardate come si comporta al mattino. Se insiste nello sfruttare la bomboletta di schiuma da barba finché fuoriesce solo un fumo biancastro (pessimo per la fascia di ozono), l'uomo è da tenere sotto osservazione. Se usa il rasoio usa-e-getta finché è arrugginito, non c'è dubbio: è uno di loro.
«Esaurire» è la parola d'ordine dei Terminator. Poco importa che, nel frattempo, facciano venire l'esaurimento nervoso ai famigliari. Questi personaggi, tra l'altro, non sono sempre adulti o anziani: ci sono ragazzi che soffrono della stessa sindrome (e poi si chiedono perché non trovano la fidanzata). Come dicevo, non ne parlano volentieri. Ma se vengono colti sul fatto, ammettono di trovar rassicurante il gesto di buttar via, scartare, riporre, chiudere. Confesso che un po' li capisco: in un mondo pieno di oggetti, bisogna pur difendersi in qualche modo.
Un'altra figura di estremo interesse è l'Organizer. Un tempo veniva definito «una persona ordinata». Ma le persone ordinate non ci sono più. Sono scomparse, come il capoufficio (ora c'è il manager). Le loro delicate ossessioni, però, continuano a tormentare amici e parenti.
Un caso affascinante è l'Organizer Automobilistico: se entrate nella sua macchina e spostate qualcosa, si innervosisce. L'Organizer da Scrivania mantiene una precisa disposizione di matite, biro, forbici, gomma e colla: solo la presenza di un figlio in casa, che considera quella scrivania legittima zona di saccheggio, riesce a guarirlo dalla sua mania. C'è l'Organizer da Cucina che, naturalmente, non cucina. Si limita a dare consigli alla moglie/fidanzata/compagna sulla collocazione dei vari arnesi; oppure si dedica ad attività splendidamente inutili, come versare metà bottiglia di minerale dentro l'altra, in modo da ottenere una bottiglia piena.
Simpatico è l'Organizer da Armadio, che pensa di conoscere il posto giusto per i capi di abbigliamento di tutta la famiglia. Non è raro sorprenderlo mentre gira trasportando qua e là mutande e scarpe della moglie, sotto gli occhi perplessi del gatto.
Avrete notato che queste figure sono tutte maschili. Una donna, semmai, è organizzata; un uomo è Organizer. Spesso è inoffensivo, ma non sempre. In assoluto, uno dei personaggi più inquietanti è l'Organizer Contabile, quello che decide di tenere un meticoloso bilancio familiare.
S'aggira per la casa come una pantera in gabbia, cercando ricevute e scontrini. L'avvento dell'euro lo ha reso nervoso. Ditegli che avete trovato cinquantamila lire nel portafoglio: lo vedrete lanciare un urlo e schizzare verso la banca più vicina. Gli Organizer Contabili si ritrovano tutti là. Uno spettacolo che vale il circo.
Ora è il turno dei Ripetitori. Non temete: non sarà una disquisizione sui rischi dell'elettrosmog, o sulla copertura dei cellulari. I Ripetitori sono quelli che ripetono le cose. Ce ne sono di tre tipi.
Quelli che credono che tu non abbia capito. Quelli che pensano che tu abbia capito, ma ripetono lo stesso. E quelli cui, semplicemente, piace ripetere.
La prima sindrome è spesso di origine professionale: medici, avvocati, insegnanti e militari sono convinti di parlare a gente che comprende poco, e quel poco non lo ricorda. Così s'abituano a ripetere. L'originale intento pedagogico è encomiabile. Ma queste persone ripetono le cose anche ai famigliari (che hanno capito benissimo) e, in genere, a chiunque attraversi il loro cammino.
Conosco un primario ospedaliero che fa precedere ogni affermazione da una lunga ricostruzione.
Amici e parenti, appena apre bocca, mostrano segni di malessere (che lui ignora).
Il secondo tipo di Ripetitore è ancora più insidioso. Sa che voi avete capito: ma ripete comunque. Sadismo, indifferenza, pura malvagità? È difficile stabilirlo, ma ogni ufficio italiano è fornito (per legge) di uno di questi personaggi, che può svolgere anche la funzione di allarme antincendio: inizia a parlare, e tutti abbandonano l'edificio.
Il terzo tipo di Ripetitore è il più interessante, dal punto di vista scientifico. I parenti, esclusa ogni causa fisica e psichica, concludono che la nonna/il papà/la zia si diverte a raccontare le stesse cose. Come i cantastorie d'un tempo, ama rivisitare aneddoti e situazioni, arricchendoli di particolari. La scoperta genera un duplice sentimento. Da un lato, fa piacere sapere che la nonna/il papà/la zia conservi intatte le proprie facoltà mentali. Dall’altro, non si sa come uscirne. Ripetere «Già detto!» è scortese. Tentare di imbavagliare il soggetto è illegale. Non rimane che la fuga.
L'importante è non far rumore.
Se mi chiedessero quali sono le cose che apprezzo di più negli inglesi, risponderei: la lingua, l'umorismo e l'imperfezione. Quest'ultima qualità riassume anche le prime due: la lingua inglese è, in fondo, una magnifica catena di imprecisioni (pensate alla distanza tra grafia e pronuncia), e l'umorismo è l'abilità di sorridere delle stonature del mondo. Ma l'imperfezione va oltre. È tolleranza, rispetto dell'usato e attenzione ai segni del tempo. È capacità di badare alla merce, e non alla confezione.
Sono imperfetti i mobili vecchi che attendono di diventare antichi; sono imperfette sei sedie non perfettamente uguali intorno a un tavolo. È imperfetta la poltrona che mostra segni d'usura (va messa di fianco alla poltrona tappezzata di fresco, così da rendere omaggio a tutt'e due). È imperfetta e nobile una scarpa che ha camminato, invece che dormire in vetrina.
Lord Brummel, quando faceva indossare gli abiti nuovi dal valletto, non faceva l'artista: faceva l'inglese. Oggi queste pratiche sono scomparse - niente più Beau Brummel, e soprattutto niente più valletti - ma l'idea di fondo è rimasta. Loro, gli inglesi, apprezzano i maglioni sformati, il Barbour scolorito, e i libri pieni di ditate (well-thumbed). Conosco gente, in Italia, che piuttosto di sciupare un libro non lo legge; e butta un maglione al primo sospetto di consunzione sui gomiti, non sapendo che si tratta di un segno di nobiltà, che il denaro non può comprare. Anni fa ho detto a Montanelli che mi piaceva la giacca di velluto che aveva indosso. Mi ha risposto che non me la potevo permettere. C'erano voluti cinquant'anni per farla diventare così.
Certo, spesso gli inglesi esagerano, e l'imperfezione diventa sciatteria. Ma la lezione è da meditare. Se nella moquette (carpet) di molte case britanniche si annidano presenze inquietanti, la lucentezza cimiteriale di tanti pavimenti italiani lascia perplessi. Lo stesso vale per le automobili.
Un piccolo segno sulla carrozzeria non è una tragedia: è una medaglia al valore. Ditelo a vostro marito, la prossima volta che calcolate male le distanze.
Cosa bisogna fare dei vecchi biglietti d'auguri? Un tempo c'era il focolare, che risolveva in modo rituale queste faccende: una fiammata, e via. Oggi ci sono i termosifoni, e non svolgono la funzione con la stessa efficacia. Mettete trenta biglietti di Natale su un calorifero e resteranno lì ad appassire fino a Pasqua, ricordandovi il tempo che passa. Una proposta, allora. Prendeteli e studiateli. C'è di tutto.
Anche in un semplice cartoncino d'auguri, noi italiani confermiamo la nostra fantasia e la nostra originalità (quella che affascina e preoccupa il mondo). I biglietti più curiosi arrivano dagli Scarabocchiatori, i personaggi che firmano con uno sgorbio illeggibile, così la famiglia deve arruolare un investigatore privato per conoscere il mittente. Interessanti sono i Fotografi, quelli che si fanno stampare un cartoncino con la fotografia della famiglia. Se volete esser perfidi, non guardate i figli, che di solito sono carini. Guardate quanti capelli grigi sono venuti a lui, e che faccia stravolta ha lei. Affascinanti sono anche i Moltiplicatori, ovvero coloro che utilizzano il cartoncino aziendale, dimenticando che dieci colleghi hanno fatto altrettanto. Per esempio, io ho una collezione di biglietti Bocconi, Microsoft, Omnitel, Touring Club, Smau e Rizzoli. Se a qualcuno interessano, propongo scambi.
Interessanti sono i Grafici, che spediscono biglietti eccentrici e incomprensibili, e i Macchinisti, che hanno fatto stampare sul cartoncino anche la propria firma. I Bigliettai spediscono un biglietto anonimo, ma allegano un biglietto da visita (che però si perde nella busta). Strepitosi sono infine i Commossi, quelli che non si fanno vivi per tutto l'anno e poi mandano un biglietto affettuosissimo, da cui risulta che non possono vivere senza di voi. Se volete provate la «tecnica falò» (magari sul fornello della cucina), vedrete: quel tipo di auguri brucia che è un piacere.
Col tempo, mi sono accorto d'aver sviluppato una curiosa filosofia. I doni preferisco farli e riceverli quando capita, e diffido dei regali di Natale. Questo probabilmente è un retaggio infantile.
Essendo nato il 26 dicembre, ho sempre creduto che l'esenzione dall'obbligo natalizio fosse un mio privilegio, un modo per compensarmi dal dono cumulativo che ricevevo. Non solo: amo la fantasia, e capisco il riciclo creativo (tu offri un dono a me, e io lo giro a lei; io do un regalo a loro, che lo demoliscono e ne fanno tanti regalini per la tombola). Se pensate che questo faccia di me un eccentrico, aspettate. C'è dell'altro.
Dei regali, mi piace quello che ci sta intorno. La carta colorata non m'interessa (chi la piega e la conserva in un cassetto ha bisogno urgente di un cane o di un fidanzato). Mi affascinano, invece, confezioni e imballaggi. Spesso, infatti, si rivelano più longevi dei regali che contengono.
Gli Spumanti Ferrari, un tempo, mi spedivano due bottiglie natalizie dentro una cassetta di legno. Le bottiglie sono state vuotate e riciclate; le cassette di legno riempiono ancora la nostra vita domestica (contengono biglietti da visita, vecchie agende, giocattoli). L'Enel, per Natale, mi ha mandato un paio di stivaloni da elettricista avventuroso. Non so cosa ne farò - potrei sempre scalare un impianto idroelettrico nel Mato Grosso - ma ho già utilizzato l'interessante scatola trasparente che li conteneva. Infine, la Benetton. Per tre anni mi ha regalato un maglione, chiuso in un robusto cassetto di cartone.
Questa volta, a Treviso, hanno deciso di devolvere l'equivalente del regalo a un'agenzia delle Nazioni Unite. Hanno fatto bene, e gliel'ho scritto. Ma adesso dove metto le ricevute?
Un piccolo libro di gran successo in Francia, La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita (autore Philippe Delerm), ci spiega che esistono azioni dalle quali tutti, o quasi tutti, traiamo soddisfazione. Una guida all'edonismo minimalista, insomma, che ci spiega quant'è bello indossare il primo maglione autunnale, tenere in tasca un coltellino, annusare le mele e ascoltare la radio in automobile. Dev'essere un elenco convincente, a giudicare dalle vendite del libro. Mi permetto tuttavia di aggiungere un piccolo piacere extra, e proporlo a lettrici e lettori.
Si tratta di questo: buttar via i medicinali. L'operazione va effettuata con solennità, passando da un armadio a un cassetto, da uno scaffale a un mobiletto. Occorre leggere le date di scadenza spesso invisibili, per aumentare il piacere della ricerca - e infilare i prodotti scaduti in un sacco.
Analgesici con antistaminici, antibiotici con sonniferi, confetti con gocce, pomate con sciroppi.
L'importante è ottenere una bella insalata russa, e con quella avviarsi verso le cassette poste davanti alle farmacie. Ascoltate il tonfo delizioso dei medicinali inutili che cadono. È la salute ritrovata, che in via eccezionale ha deciso di far rumore.
Sia chiaro: non stiamo invitando al consumismo farmaceutico, che in anni non lontani ha prodotto buchi di bilancio e Poggiolini. Molte di quelle medicine non dovevate nemmeno comprarle, e il vostro medico poteva fare a meno di prescriverle. Ma, dal momento che occupano i cassetti di casa, è giusto levarsele di torno, evitando di comprarne altre, quando non è necessario.
Osservate quei cadaverini chimici mentre si avviano verso il sepolcro. Molti sono stati aperti e subito abbandonati (il prodotto era così efficiente, oppure del tutto inutile?). Altri presentano confezioni intatte (siete di quelli che comprano i medicinali, leggono il foglietto illustrativo, si preoccupano, e non prendono nulla). Solo alcuni prodotti sono stati acquistati, usati e sono serviti a qualcosa. A quelli potete accordare una sepoltura con gli onori militari. Buttando via l'ultima pastiglia, imitate uno squillo di tromba, ringraziate, e godetevi tutte le malattie che non avete più.
Doveva accadere. A quarantacinque anni ci sono cascato anch'io. È una debolezza generazionale che vi chiedo di perdonare, se potete. Non sto parlando di entusiasmo eccessivo per commesse e baby-sitter, né di lozioni e tinture (mi tengo il grigio metallizzato). Sto parlando, invece, di scomposte passioni sportive.
Giorni fa mi sono ritrovato su una mountain-bike, con walkman in testa, ed ero contento. D'accordo: la mountain-bike restava a distanza di sicurezza dalle montagne, ma la gravità dell'episodio rimane. Potrei anche dirvi cosa stavo ascoltando mentre pedalavo, ma non vorrei peggiorare la mia posizione.
Perché gli uomini, passati i quarant'anni, fanno queste cose? Probabilmente perché sentono il tempo che passa (e poi qualcuno deve pur andare a prendere il pane). Il guaio è che queste gesta non vengono compiute con la spensieratezza dei vent'anni. C'è una sorta di cupa determinazione, nei quarantenni sportivi. Alcuni continuano e diventano piccoli Prodi (o Bazoli, che dice di essersi fatto le Dolomiti in bici). Altri si limitano a far ridere i figli.
Perché i figli guardano, e giudicano (le mogli non hanno bisogno di guardare: giudicano e basta), papà in bicicletta è una forma di avanspettacolo (alla partenza); e il suo volto ricorda quello di un pokémon dopo la battaglia (all'arrivo). Notate bene: ho sempre fatto attività sportiva, come molti della mia generazione. Nel corso degli anni ho preso calci negli stinchi, palline in pancia, racchette in testa. Vado sugli sci da quando sono bambino, e ho gareggiato in tutti gli sport possibili: dalla dama al calcio rude della terza categoria. Ma allora avevo la naturalezza dell'età: allenamento, equipaggiamento e abbigliamento erano questioni secondarie. Il quarantenne che prova uno sport nuovo, invece, trasforma la propria ansia in acquisti. E poi, per giustificare la spesa, soffre, suda, spinge gli amici a fare altrettanto. Vogliategli bene: andare in bicicletta, in fondo, è un antidoto contro la tentazione di pitturarsi i capelli. Sudando, infatti, c'è il rischio di perdere colore, faccia e dignità.
L'amica ha un cane indisciplinato (Origano), e decide di farlo addestrare. Ma non è convinta.
Le sembra una violenza. Segue le lezioni con apprensione, continua a porre domande. Presto l'istruttrice capisce che dovrà addestrare due allievi: il cane, e la mia amica. All'ennesima rimostranza, sbotta: «Lo sapevo. Un'altra padrona democratica».
L'aneddoto è illuminante, e illustra un fenomeno in crescita: il tentativo di umanizzare gli animali. I quali saranno animali, ma non sono stupidi; e ne approfittano gioiosamente. I nostri eccessi assumono forme diverse. Il cappotto del barboncino è un classico, ma le variazioni sono pressoché infinite.
La famiglia Severgnini, per esempio, è irritata perché la gattina bianca di casa (Minù) è stata sottomessa da una gattona gialla abusiva, che arriva dai tetti (Lulù). Dopo mesi di scaramucce, Minù ha infatti deciso che Lulù è più forte, e le cede il passo: davanti alla ciotola e negli angoli migliori del balcone. La cosa ci dispiace, perciò abbiamo cercato di tenere lontana Lulù. Ma il tentativo di imporre la democrazia sui tetti è ridicolo. Da che mondo è mondo, i gatti piccoli cedono il passo ai gatti grossi. Lo stesso fanno i leoni nella savana (e, pensandoci, in molte aziende accade lo stesso, anche in assenza di felini riconoscibili).
Il trasferimento delle regole umane agli animali è una forma di egoismo camuffata da sensibilità. I marciapiedi di Milano sono pieni di escrementi. E se la cacca è indubbiamente dei cani, la colpa è certamente nostra (perché non la raccogliamo, perché non riprendiamo quelli che non la raccolgono, perché costringiamo grandi cani in piccoli appartamenti). I pochi spazi verdi delle città sono impraticabili per lo stesso motivo: concediamo l'erba ai cani, e la togliamo ai bambini. Ma i cani, anche in questo caso, non hanno responsabilità. Se fossi un labrador e avessi un campo-giochi a disposizione, non avrei esitazioni a usarlo come toilette.
La Signora col Cane. L'avete in mente? Quella che porta la bestiola per strada o ai giardini pubblici, e ne approfitta per fare un po' di défilé. Un tempo si limitava a indossare scarpe sbagliate e vestiti troppo eleganti per l'occasione. Ultimamente ha preso l'abitudine di mettersi il guinzaglio di traverso sulle spalle, come fosse una stola di volpe. O un fonendoscopio.
Ecco, questa potrebbe essere una spiegazione. Effetto E.R., quello che colpisce anche i neolaureati in medicina: il fonendo pendulo, che a Ciccio non scivola mai, ma in realtà cade giù continuamente (perché non è fatto per restare appeso così). Lo strumento certifica «Io sono un medico» (non per nulla è inserito in ogni confezione di «Giochiamo al dottore»). Il guinzaglio assicura: «Guardate che ho un cane, e lo porto in giro con notevole disinvoltura».
Sia chiaro: io amo i cani e, in fondo, anche quelli che li conducono a spasso. Quello che non sopporto è la messa in scena, e la sciatteria che spesso l'accompagna. I proprietari dei cani, nelle grandi città dell'Occidente, si portano appresso una paletta e un sacchetto, e raccolgono i rifiuti (nome tecnico: cacche) dell'incolpevole animale. A Milano, no. Quando il povero fox terrier sporca il marciapiede, la Donna (e l'Uomo!) col Cane tira diritto. Il risultato è nauseabondo. Camminate nel rinnovato Corso Lodi, a Brera, o intorno al Palazzo di Giustizia, e capirete cosa dico. Non sono servite implorazioni, invettive, denunce, trasmissioni televisive, campagne-stampa, associazioni per i diritti del pedone.
Resta una soluzione drastica: il guinzaglio. Non per il cane. Per il padrone. Invece che lasciarglielo sulle spalle, mettiamoglielo al collo. Poi parcheggiamo l'umano fuori da un negozio.
Non c'è bisogno che si metta a cuccia. Basta che si guardi intorno e rifletta. Se vuole abbaiare, faccia pure. Non ci lasceremo commuovere.
Il film La carica dei 102 allarma gli amici degli animali. C'è il rischio di una nuova infatuazione per i dalmata, seguita dall'abbandono. Questa preoccupazione, certamente nobile, è motivata?
Non sono in grado di rispondere, ma posso portare una testimonianza personale. Da qualche tempo, infatti, possediamo una cucciola dalmata, Luna. O meglio, lei possiede noi. Potrei dire che è la regina di casa Severgnini (ma le sovrane non si sgranocchiano la reggia). Luna, vi assicuro, non corre alcun rischio di abbandono. Io qualcuno in più, se manifestassi intenzioni del genere.
So troppo poco di cani per mettermi a dare lezioni. Ma tre o quattro cose penso di poterle dire, ai genitori che aspettano il permesso dei bambini per prendersi un dalmata. La prima: si tratta di un cane straordinariamente affettuoso, e decisamente intelligente. Se non fa qualcosa, è perché non ne ha voglia. Scava più buche di uno stopper del Milan; non a caso, il giardino di casa sembra il prato di San Siro dopo il derby. Ama guanti e cappelli: sono il suo snack preferito. Adora i bambini. Luna è la star della scuola elementare di Borgo San Pietro (Crema), dove all'uscita viene sommersa da piccoli urlanti. Lei li lecca democraticamente tutti, e sembra felice. Non è un cane da tenere in casa o in appartamento, se non per brevi periodi. Secondo me, la piccola (si fa per dire) dalmata è fatta per correre. Andare in bicicletta con lei al guinzaglio è come fare sci nautico. Ho deciso, infine, che Luna è spiritosa. Giorni fa è venuta a trovarmi la troupe televisiva di Inter Channel, per parlare (ovviamente) dell'Inter. Ci siamo seduti in giardino. La prima domanda è stata: «Lei ha scritto che il mondo si divide in due. Ci sono quelli che amano l'Inter, Londra e i gatti. E quelli cui piacciono la Juventus, Parigi e i cani. Conferma?». L'intervistatrice non aveva finito di parlare che Luna è balzata in scena, ha leccato la telecamera, ha fatto uno shampoo al cameraman e si è accomodata tra le mie gambe. E io lì, felice di essere smentito da un cane bianconero. È il colmo.