Capitolo 3.
Le cose che facciamo COI FIGLI.
Un terzo degli italiani, secondo un'indagine, sarebbe semianalfabeta. Non sa eseguire semplici operazioni, commette errori di ortografia, non possiede le più basilari nozioni storiche o scientifiche..
Se è vero, è grave. Il problema non riguarda però le mamme coi figli alle elementari (va bene: anche alcuni papà). Conosco genitori in grado di trovare la stella polare, altri che sanno quando i Longobardi arrivarono in Italia (VI secolo. E Rotari non era l'inventore del club omonimo). Un amico sa perfino dividere 308 per 14 senza usare la calcolatrice. E pensare che fa l'avvocato. Il merito? Dei bambini, naturalmente. La letteratura, da Alfieri in poi, ci offre l'immagine di fanciulli che fanno i compiti in solitudine, nella cameretta illuminata da una luce fioca. Errore. La cameretta è ormai un parco-giochi e un centro elettronico. I compiti si fanno in cucina, in sala, in bagno e in ogni altro luogo dove il quaderno possa bagnarsi e sporcarsi. Non sono più «lavoro a casa», ma un rito collettivo, un happening, uno spettacolo suoni-e-luci.
Non posso garantire che tutte le scuole d'Italia preparino adeguatamente i bambini: ma di sicuro stanno producendo una generazione di genitori coltissimi. A furia di ascoltare le poesie, le mamme conoscono Gianni Rodari; dopo aver provato e riprovato scienze, i papà sanno finalmente cos'è l'anfiosso, un'informazione che può sempre tornare utile. Quando arrivano in azienda i consulenti col nome americano, domandate se l'anfiosso è l'antenato del pesce, un anfibio o un corso d'acqua sotterraneo (risposta: a). Poi chiedete di mettere in ordine cronologico queste forme di vita: rettili, meduse, anfibi, mammiferi, uccelli (risposta: bcaed). Se sbagliano, pretendete uno sconto.
Volete giudicare il vostro livello di istruzione, prima di sfidare il prossimo? Bene: leggete queste domande. a) Quando apparvero le prime forme di vita sulla Terra? (Terza elementare) b) Quante persone abitano nella tua provincia? (Quarta elementare) c) Quando venne introdotto in Italia il suffragio universale? (Quinta elementare)
Domanda di riserva: Come si calcola l'area del trapezio?
Se non conoscete le risposte, arrossite. Poi fate un figlio. Fra pochi anni, saprete tutto.
Noi adulti abbiamo timore del vuoto. Vogliamo riempirlo a tutti i costi. E quando abbiamo esaurito i nostri spazi, puntiamo a quelli dei bambini.
Guardatevi intorno. Le camere dei figli (o dei figli degli amici) grondano oggetti: le mensole gemono, i cassetti traboccano, a ogni presa elettrica sono collegati tre marchingegni. Nel resto della casa, ogni angolo deve servire a qualcosa. Lo stesso vale per i parchi-giochi. Attrezzi pensati dai grandi aspettano piccoli perplessi, occupando ogni spazio.
Ho il sospetto, invece, che ai bambini il vuoto non dispiaccia: possono decidere come riempirlo. Pensate ai corridoi domestici, vittime delle incessanti ristrutturazioni italiane. Erano spesso bui, talvolta inospitali, quasi sempre inutili. Ma generazioni successive hanno trovato modo di utilizzarli. Abbiamo giocato a calcetto con le calze arrotolate, a tennis, a hockey, abbiamo praticato qualsiasi sport potesse attentare all'incolumità dei lampadari. Provate a giocare a calcio in un appartamento moderno: è impossibile. Ogni tiro provocherebbe una strage di oggetti, quadri, video, stereo, strumenti elettronici.
I bambini amano il vuoto anche quando sono all'aria aperta. In un prato si possono fare cento giochi; in un «parco attrezzato» solo quelli consentiti dagli attrezzi. Perfino l'erba, in certi casi, può essere di troppo. Noi adulti la amiamo, giustamente. Ma ho il sospetto che nei bambini sia rimasto un desiderio antico di cortili dove le bici scattino, i palloni rotolino, i portoni rimbombino (se colpiti nel punto giusto), le ginocchia corrano un rischio moderato ed eccitante.
Non sto invitando gli amministratori pubblici alla pigrizia, e gli amministratori condominiali alla crudeltà (di solito incoraggiata dagli inquilini del primo piano, così sciocchi da non capire che la pallonata di un bambino è una carezza). Sto solo dicendo che i nostri figli non hanno bisogno dei gadget con cui li inondiamo, cercando di metterci a posto la coscienza. Hanno bisogno invece del nostro tempo e dei loro spazi.
Nel primo caso, dobbiamo esserci. Nel secondo, è meglio se ci togliamo dai piedi.
Non c'è dubbio che noi italiani parliamo a voce alta. Per raggiungere i nostri decibel a un tedesco occorre una botte di birra, a un francese una discussione e a un russo una rivoluzione.
Parliamo forte in ufficio, al ristorante e al cellulare. È il caso di arrabbiarsi, urlando la nostra disapprovazione? No: meglio ascoltare in silenzio, perché capita di registrare conversazioni interessanti.
Da qualche tempo, per esempio, studio il linguaggio dei bambini. Mi piace la loro fantasia; mi affascina la loro sincerità; mi incuriosisce la diversità dei modelli educativi. Vale a dire: alcuni genitori si lasciano insultare, altri no.
Quale regola adottare? Francamente, non mi sento di dare consigli. Confesso però il mio turbamento quando sento un bambino di nove anni dire «stronza» alla madre. Com'è possibile? Il piccolo non ha neppure la scusa costituzionale dell'adolescenza. Non è stato provocato, nessuno gli ha negato il diritto a un videogioco, né ha cambiato canale TV senza presentare richiesta scritta. È vero: la mamma quarantenne usa vocaboli come «megagalattico», e talvolta parla come se si fosse addormentata nel 1978 e si sia appena svegliata. Ma si può redimerla (o redarguirla) in altro modo.
Non stupitevi del mio stupore. Appartengo a una generazione che non poteva dire «Chi se ne frega» (tollerato invece «menefreghismo», nobilitato dall'astrattezza), e se diceva al papà «Tu sei matto» veniva punito seduta stante con un manrovescio (io non ne ho mai presi; ma stavo attento a come parlavo). Il sostantivo «culo» era tollerato se indicava «fortuna»; vietato se indicava la parte anatomica. È vero: avevamo un doppio linguaggio (libero fuori, prudente in casa). Ma questa doppiezza allora si chiamava buona educazione, e non ci ha danneggiato (le parolacce le abbiamo imparate tutte comunque). I genitori che oggi tollerano di essere trattati come stracci rendono perciò un pessimo servizio ai figli e alla società. Sono in sostanza dei *******[Nota. Nel testo vi sono 8 asterischi. Fine nota.], ma i figli non glielo devono dire.
Dragon Ball, Pokémon, Game Boy, PlayStation, X-Box, videogiochi, carte collezionabili: di questo parlano i genitori del Duemila, istruiti pazientemente dai figli, che di queste materie sono, in genere, professionisti. La domanda che si pongono è la seguente: è giusto permettere queste cose ai bambini? È necessario fornir loro apparecchiature/album/figurine? Risposta: non è necessario. Ma può essere opportuno, e proverò a spiegare perché.
Vietare Pokémon/Game Boy/PlayStation/video-giochi a un bambino è difficile, e rischia di essere controproducente. Queste infatti sono conoscenze indispensabili alla sua vita sociale (in milanese moderno: social skills). Un bambino che sa a quale livello si evolve Bulbasaur (un Pokémon con una curiosa somiglianza con l'ex ministro Dini) avrà qualcosa di cui parlare coi compagni nell'intervallo. Provate a spiegargli che occorre essere indipendenti e originali. Non ci riuscirete. E, se ci riuscite, farete di vostro figlio un genio (2%) o un disadattato (98%). In ogni caso, un infelice.
I bambini non vogliono essere eccentrici e diversi: a otto anni, sono naturalmente conformisti.
Non c'è nulla di strano. L'intero concetto di «moda» è basato sul conformismo. Se noi adulti fossimo davvero originali, dovremmo andare in giro con un imbuto sulla testa (senza comprarlo da Moschino). E poi osservate l'abilità vertiginosa con cui un bambino maneggia un Game Boy: nessun telecomando, telefono o computer avrà mai segreti, per lui. L'universo dei Pokémon (prezzi scandalosi a parte) costringe a esercitare memoria e intuizione. E i videogiochi allenano i riflessi.
Certe simulazioni di guida potrebbero aiutare i bruchi motorizzati che intasano le nostre città.
L'importante, come in ogni cosa, è non esagerare. Non bisogna permettere a un ragazzino di passare il pomeriggio incollato a un videogioco: mezz'ora basta e avanza. Ma questa è la solita vecchia regola del buon senso e della misura. Un bambino ossessionato dalle tabelline o dal cioccolato bianco mi preoccuperebbe allo stesso modo.
Nel primo capitolo abbiamo discusso di troppismo (sindrome da accerchiamento da oggetti, una forma di materialismo stoico). Abbiamo ragionato sugli effetti prodotti dal numero eccessivo di cose-nelle-case: ma abbiamo parlato degli adulti. Ai bambini può capitare di peggio. Il pericolo non è che una generazione di piccoli italiani cresca con la vocazione del grossista (un mestiere dignitoso, non ci sarebbe nulla di male). Il rischio, invece, è che un bambino abbia tutto, capisca poco e non si appassioni a niente.
Non è una predica, perché sarei un pessimo predicatore. La mia casa è un deposito di cartoni animati e un accampamento di peluche: quando ricevo visite di conoscenti grassottelli e pelosi, devo stare attento che, in un momento di distrazione, non vengano chiusi in un armadio. Ma sui peluche - dei quali un tempo dovevo conoscere i nomi, pena l'ostracismo - ho alzato bandiera bianca. Dopo alcune ricerche, ho scoperto che in fondo nemmeno io sono cresciuto in modo spartano, come mi si voleva far credere. Nelle fotografie talvolta è quasi impossibile trovarmi, dentro una foresta di giocattoli.
In un campo, però, non transigo: i CD-rom. Ho deciso che uno ogni sei mesi basta e avanza.
Il piccolo ha tempo per studiarlo, per capirlo (e per spiegarlo a me). In casa Severgnini sono passati sei CD-rom per bambini, che conosco a memoria. Mio figlio si è divertito col primo quando aveva quattro anni, e trafficava con l'ultimo quando ne aveva sette (ora ne ha dieci, ed è in altre faccende affaccendato). Si chiamavano, nell'ordine: L'allegro paesino, Aaron alla scoperta del mondo, Il castello, Il mio primo giro del mondo, I fantastici cinquanta e Forestia. Non farò invece i nomi di tutti quelli che ho trovato inutili, complicati, e noiosi. Anche perché un paio li ho lanciati in giardino dalla finestra, e devo dire che volavano benissimo.
Curioso destino, quello dei bambini italiani. Vengono vezzeggiati, ma non protetti; incensati, ma spesso non sorretti; lusingati, ma non sempre serviti. I tedeschi educano i loro figli, gli inglesi li giudicano, gli americani li spronano. Noi li ammiriamo.
Per capire di cosa sto parlando, vi invito a condurre un esperimento. Provate a entrare in un ristorante con una bimba di due anni, e chiedete una sedia per lei. Vi guarderanno come un extraterrestre. In Italia non esistono le sedie per bambini; non esistono i seggiolini che s'agganciano al tavolo; non esistono i sedili che, appoggiati su una normale seggiola, portano il bimbo all'altezza giusta (in America questi aggeggi si chiamano boosters, «rinforzatoli»). In Italia esistono i cuscini.
Provate poi a chiedere un «menu per bambini». Vi risponderanno che non c'è. C'è un menu solo, buono per tutti. Ai miei tempi - primi anni Sessanta - esistevano almeno le «mezze porzioni»; oggi sono scomparse, uccise dal sospetto (il cliente vuole risparmiare; puniamolo). Le «mezze porzioni» italiane hanno fatto la fine dello sconto, che da noi è sempre una faccenda ufficiosa, una sorta di concessione ad personam, che permette al venditore di sembrar generoso, e al compratore di sentirsi importante. Lo sconto e la «mezza porzione», negli Stati Uniti, sono invece scientifici.
Sono lì, ne hai diritto, puoi pretenderli.
Perché i ristoratori americani (ma anche tedeschi, olandesi, svedesi) si attrezzano in questo modo? Forse perché amano teneramente l'infanzia, e vogliono provvedere alle sue necessità?
Neanche per sogno. I ristoratori stranieri procurano seggiolini e children's menus perché vogliono attirare i genitori. Si rendono conto infatti che, per dieci anni almeno, le decisioni familiari in materia di tempo libero dipendono dai figli. I bambini, in altre parole, sono un business. Un grande business. E la cosa, vi dirò, non mi scandalizza. Questo atteggiamento - attrezziamoci per i bambini, così aumentiamo i clienti - mi sembra un modo accettabile di combinare spirito imprenditoriale e spirito di servizio. Meno accettabile, invece, è rimbecillire i bambini di pubblicità televisiva. E qui, devo dire, noi italiani siamo all'avanguardia.
L'avete capito: quando, in un ristorante, vedo una famiglia con bambini, mi metto nei panni dei più piccoli. I grandi parlano, progettano, litigano, guardano le mappe o le ricevute che li hanno fatti litigare: insomma, si divertono. I bambini non hanno vie di mezzo. O sono troppo buoni, e spezzano il cuore; o sono terribili, e rompono i timpani (e qualcos'altro). Come risolvere la faccenda?
Semplice: basta farli giocare.
I Giochi da Tavola non sono giochi da tavolo: questi esistono già, quelli bisogna inventarli. In attesa che ne creiate di vostri, ecco quattro suggerimenti (collaudati: non ci hanno ancora buttato fuori). Sono giochi adatti a bambini dai tre ai trentatré anni (includono pezzi piccoli, attenti che i trentatreenni non cerchino di ingoiarli).
TRANSIT - Gioco semplice e divertente. Occorre colpire il tappo della minerale, in modo da farlo passare tra due bottiglie. Esiste una versione per professionisti, con la sponda.
GARAGE - Ogni concorrente rovescia un bicchiere sul fianco, e lo mette davanti a sé.
L'avversario deve tirare il tappo/la pallina di mollica, e centrarlo. (Nota: è buona cosa vuotare i bicchieri prima di iniziare il gioco.)
BURRONE - Il gioco non consiste nel tirarsi addosso grosse confezioni di burro, come sperava il piccolo Riccardo. Oggetti necessari: una scatola di fiammiferi, una moneta. Inizio del gioco: la scatola viene posta al centro del tavolo. I due giocatori scelgono testa o croce, poi tirano a turno la moneta: chi indovina, avanza verso l'avversario. Vince la partita chi spinge la scatola oltre il bordo.
(p.s.: Più il tavolo è lungo, più il gioco si protrae. In un pranzo di nozze, può durare tutta la domenica.)
FATTORIA DEGLI ANIMALI - Passatempo perfido, quindi appassionante. Si tratta di stabilire a quali animali somigliano gli altri avventori. Un giudice familiare sceglierà le impressioni più accurate. Non è un gioco difficile (tutti abbiamo amici-scimmia e amiche-topo), ma occorre prudenza. Se un piccolo concorrente punta il dito verso il tavolo vicino e grida: «Porco!», saranno necessarie spiegazioni.
Buon divertimento!
La spettacolarizzazione delle nostre vite prosegue. Battesimi, prime comunioni, secondi matrimoni, funerali (unici): tutto diventa un happening da fotografare e filmare.
Per esempio: ho saputo che in molte parti d'Italia si è cominciato a festeggiare la prima confessione. Alcuni parroci hanno concluso infatti che, come sacramento, era discriminata (rispetto a battesimo, comunione, cresima e matrimonio), e hanno pensato di intervenire. Fin qui, nulla di male. A quel punto, però, sono entrate in gioco le famiglie, adottando i feroci riti sociali legati ad altre occasioni religiose. Non contenti di aver trasformato le prime comunioni in mini-matrimoni (bambine in bianco, trecento invitati), papà e mamme hanno deciso di enfatizzare allo stesso modo la vigilia, riprendendo con la videocamera il figlio mentre si incammina verso il confessionale, e organizzando un ricevimento per il dopo-assoluzione. Il prossimo passo, immagino, sarà costringere il piccolo a salire in piedi sul tavolo, e recitare davanti ai parenti la lista dei peccati.
Non volevo crederci, quando mi hanno raccontato queste cose. Poi ho pensato: perché no? La confessione mondana, in fondo, rientra nelle Abitudini Sociali Italiane Nuove e Incredibili (ASINI), grazie alle quali la nostra vita è diventata una lunga prova generale, in attesa che qualcuno compaia con la cinepresa. Se va bene, si mostra il filmato ad amici e parenti (che di solito non lo vogliono vedere). Se va male, c'è sempre Paperissima.
Spero siate d'accordo. La spettacolarizzazione della società italiana procede spedita, sul modello americano. Siamo ormai diventati i coreografi di noi stessi. Nelle messe solenni la bambina raccomandata porta all'altare l'agnellino (le altre, cestini di paglia). I funerali finiscono con un applauso per il defunto (una mano sulla spalla mentre era in vita sarebbe stata più utile). I ragazzini, negli oratori e sui prati, imitano le sceneggiate dei calciatori dopo un fallo o un gol. Non chiedetevi: «Dove andremo a finire?». Perché, dovunque sia, ci siamo già finiti.
Le assistenti di volo talvolta prendono troppo letteralmente la propria qualifica professionale: gli aerei volano, loro assistono. Ogni tanto, però, vedono cose interessanti.
Le mie preferite sono quelle che, quando l'aereo è semivuoto, invece di barricarsi dietro una tenda, parlano con i passeggeri. Meritano gratitudine, perché alcuni di noi - diciamolo - sono noiosissimi (mentre altri provano a invitarle a cena). La prossima volta, quando le signorine si sbracceranno per mostrarci «l'ubicazione delle uscite di sicurezza dell' aeromobile», prestiamo attenzione. In cambio, magari, ci racconteranno qualcosa.
Gabriella, una stewardess (in italiano antico: hostess) che lavora per l'Alitalia, mi ha riferito questo, per esempio. Quando sull'aereo viaggiano «minori non accompagnati» - leggi: bambini palleggiati tra papà, mamme, nonni e zie - lei cerca di tenergli compagnia. Dice d'aver scoperto un nuovo tipo di ragazzini, seri e responsabili, più grandi della loro età. Sono talvolta malinconici, ma quasi sempre si dichiarano soddisfatti di quella vita: accompagnati alla partenza dall'autista di papà, recuperati all'arrivo dall'amico della mamma. Gabriella li chiama «gli adultini».
Alzate gli occhi. Se c'è un aeroplano nel cielo, e non è un Tornado, a bordo sta probabilmente un adultino che va o torna da vacanze complicatissime, che i genitori hanno costruito su misura (per sé), salvo poi ricordarsi d'avere un paio di figli. Allora i piccoli partono, si adattano, si spiegano, si arrangiano, sempre coscienziosi e attenti. Sanno dove si fa il check-in e dove ci s'imbarca, e non si piazzano nevroticamente davanti ai monitor per seguire le vicende del proprio volo come fosse un film giallo. Hanno un orologio e una carta d'imbarco, e sanno leggere. Spesso li incontro, viaggiando.
Confesso che vorrei vederli più spensierati: aranciata a go-go, piedi scalzi sulla poltrona, e commenti perfidi sul cranio lucido che sbuca dallo schienale davanti. Gabriella è d'accordo.
Preferirebbe sopportarli che ammirarli, gli adultini dei cieli.
Un segno dell'età che avanza è osservare i giovani, scuotere la testa e brontolare. Io non brontolo, e scuoto la testa solo per far uscire l'acqua dalle orecchie. Ma osservo, e resto affascinato.
I giovani, a patto di non chiamarli giovani, sono materiale interessante. Avete mai incontrato, per esempio, le Ufette e i Bambinoni?
L'Ufetta ha meno di vent'anni (se li ha compiuti passa nella categoria Ufo, che è più preoccupante, ma meno intrigante). È una teen-ager che vive in un mondo tutto suo. È sottile, sorridente, solitaria e insonorizzata. È dotata di due strumenti. Il primo è il walkman con auricolari, col quale si astrae: la vedi sorridere, chiudere gli occhi, sospirare. Potresti saltarle davanti ballando il cha-cha-cha, e lei non farebbe una piega. Il secondo oggetto è il telefonino, con cui manda continui messaggini (forse ad altre Ufette). Quando incontro una di queste ragazzine in autobus o in metropolitana, sono sempre tentato di chiedere: «Scusa, da quale pianeta?». Poi mi trattengo. Non vorrei puntasse il ditino al cielo come ET, e mi chiedesse di accompagnarla a casa.
Il Bambinone ha dieci anni di più. È facile da individuare perché tiene ancora in spalla lo zaino del liceo. Più è malconcio, più lui è orgoglioso. Il Bambinone ama stare con altri come lui (quando nessuno li ascolta, discutono del colore degli zaini). Ha il cuore buono, e la sua rumorosità non è sintomo di maleducazione, bensì un segno del piacere di stare al mondo. Il Bambinone dispone di scarso spirito d'osservazione, ma coltiva almeno due passioni (il calcio e le Baleari, le moto e i videogiochi, la birra e il Milan). Ha comprato l'auto dopo aver visto la pubblicità in TV, ama Nek e ascolta la Marcuzzi (e viceversa). Adora l'aneddoto scolastico e/o estivo; e non capisce perché la fidanzata, che l'ha sentito raccontare quattro volte, non rida di gusto.
Importante: è raro che un Bambinone frequenti un'Ufetta. Lei infatti non lo sente; lui non la vede. Possono però scontrarsi per strada. Se lei gli dice «Ma che bello zaino», e lui risponde «Fammi vedere il telefonino», qualche speranza c'è.
Questa pagina ha uno scopo terapeutico: vorrei consolare qualche mamma e papà. Parleremo, infatti, dell'orecchino.
Conosco genitori che, sulla questione, hanno rischiato l'esaurimento nervoso, spalleggiati dai nonni (che invece avevano travasi di bile). Ebbene, sappiate che l'orecchino maschile è un'antica tradizione italiana. Ho scoperto che lo portava anche un mio bisnonno, Francesco. Era un'abitudine diffusa nelle campagne lombarde - che, nella seconda metà dell'Ottocento, non erano esattamente un covo di progressisti.
Lo stesso vale per l'abbigliamento. Quando frequentavo il ginnasio, andavano di moda i mantelli: le ragazze sembravano tante Cappuccetto Rosso, noi un incrocio tra Zorro e Belfagor.
Ricordo che, indossandolo, mi sentivo profondamente anticonformista. Finché papà non è comparso col mantello del nonno Giuseppe, e me l'ha offerto. L'ho indossato senza protestare - era perfetto ma capivo che qualcosa si era rotto: non mi sentivo più Zorro, ma Giovanni Pascoli.
Morale: se i ragazzi di casa portano pantaloni con il cavallo alla caviglia, non dite loro la verità (la moda viene dai ghetti neri in America, dove il pantalone extra-large del ragazzino appartiene al padre o al fratello). Dite, invece, che li indossava anche Vittorio Emanuele III, noto brevilineo (non so se è vero, ma che importa?).
Ecco, dunque, un consiglio ai genitori: davanti a qualunque provocazione, restate calmi.
Complimentatevi con i figli per il lodevole recupero delle tradizioni, e chiedete di fotografarli per l'album di famiglia. È una mossa sleale, lo so; ma potrebbe funzionare. Uso il condizionale perché non ci ho ancora provato: non ho, infatti, un figlio adolescente. Se l'avessi, e tornasse a casa con un anello all'orecchio, un altro nel naso e dei pantaloni che sembrano rubati a un clown, sarei meno sereno. Forse correrei a rileggere queste righe, ma dubito servirebbero a molto.
Ho assistito alla «giornata dell'orientamento» in un istituto tecnico. Non è, come il nome lascia pensare, un incontro in cui alcuni studenti vagano bendati (i futuri geometri), mentre altri si aggirano con la bussola, cercando l'uscita (gli aspiranti ragionieri). È, invece, un buon servizio che alcune scuole offrono ai ragazzi. Ex alunni ed esperti arrivano, un sabato mattina, e presentano i vari sbocchi universitari e professionali.
Non essendo un ex alunno, e rifiutando di considerarmi un esperto, sono rimasto ad ascoltare (un esercizio sempre utile). Ero in un'aula, seduto al solito banco color acquamarina. Stavano parlando tre ex alunne, ormai ventenni: Laura, che lavora presso un'assicurazione; Simona e Alessandra, impiegate come programmatrici in un'azienda. A un certo punto, sono rimasto di stucco. Laura ha detto: «Non pensavo mi assumessero...». Simona ha spiegato: «Se non avessi studiato qui...». Alessandra ha concluso: «Spero che quello che ho appena detto vi abbia interessato». Sbalorditivo: tre giovani italiane usavano i congiuntivi.
Ora, io non vorrei sembrare snob, né pedante come i vecchi professori di liceo (che nostalgia; non se ne può più di tutta questa gente interessante). Ma vi assicuro che se quello fosse stato un colloquio di lavoro, le avrei assunte tutt'e tre. Usare il congiuntivo vuol dire infatti avere il cervello con le marce: è più facile salire, qualunque sia la montagna. Badate bene: Simona, Alessandra e Laura non erano zitelline malinconiche. Avevano le treccine africane d'ordinanza, il maglioncino con la cerniera, vestivano con trasandatezza meticolosa. Laura aveva anche il piercing al naso.
Credevo fosse incompatibile col periodo ipotetico, ma mi sbagliavo.
Certo, si può essere dei geni e farfugliare come disc-jockey a fine turno. Ma vi assicuro: sempre di più, il linguaggio diventerà un segno distintivo qualcosa che permetterà di farsi notare (sul lavoro in compagnia, nella società). Ora che tutto si compra, infatti, sta diventando prezioso quello che s'impara. Fidatevi, ragazzi. Conosco ragazze che considerano un congiuntivo più sexy dell'orologio di lusso e del pantalone firmato. Non fate quella faccia: sono pure carine.
Si parla spesso del latino, di questi tempi. Di come sia bello, utile, europeo (anche «The Times», bontà sua, ne ricorda spesso l'importanza). Si tratta di elogi sinceri, ma funerei. È come se il latino fosse morto, e noi ne piangessimo la scomparsa, triste ma inevitabile.
Sono discorsi che non mi convincono e non mi piacciono. D'accordo: sono parziale. Ho studiato in un liceo classico («Alessandro Racchetti» di Crema); e credo che il latino mi abbia insegnato a ragionare, a imparare altre lingue e a manovrare un computer (sissignori). So anche quanto gli americani ci invidiano questa lingua logica, antica, fascinosa. Una citazione in latino, a New York, dà più lustro di un gioiello (anche quando è sbagliata: gli americani dicono Qui pro quo, ma intendono Do ut des).
Il dramma del latino, qual è? Quello di venire imposto nelle scuole italiane dove, talvolta, è insegnato male. Per salvarlo, quindi, non c'è che un modo: vietarlo. Trasformarlo in una sostanza proibita, come i libri nel romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451.
Chi si lascerà sfuggire una frase latina (per esempio Castigat ridendo mores, che è quanto cerco di fare qui), dovrà pagare un'ammenda fino a cinquanta euro. Chiunque venga trovato in possesso di un testo di Orazio verrà processato (condanne da due a quattro mesi, in una cella dove trasmettono soltanto repliche di Teo Mammucari).
Nessuno potrà più parlare di libido o di deficit (neppure Tremonti a Roma o Prodi a Bruxelles).
Saranno bandite le agende (gerundivo); nessuno avrà più alibi. Sarà rigorosamente vietato chiudere una lettera con post scriptum, e nessuno potrà accusare un uomo politico di essere «tacitiano» (ma non c'è pericolo: di questi, non se ne vedono in giro). Ai giovani verrà permessa solo la detenzione di una modica quantità per uso personale. Che so, un verso di Lucrezio, un epigramma di Marziale.
Immaginate: bande di ragazzi si ritroveranno nelle cantine a inebriarsi con Catullo; italiani e tedeschi comunicheranno nella lingua di Cicerone. Poi arriverà Rutelli e chiederà la liberalizzazione. E noi gli diremo: giammai.
Come molti bambini italiani, ho avuto un'istruzione parallela, diversa da quella scolastica e familiare. La mia accademia alternativa ha preso vari nomi: oratorio, lupetti e boy-scout, «cantine», bar, calcio amatoriale. Aggiungo le gare di sci e di ping-pong, uno sport magnifico (a patto di non chiamarlo tennis da tavolo). In quegli ambienti il figlio di un professionista, qual ero, ha imparato a essere un po' meno insopportabile. A quei posti, perciò, sono grato. Mi hanno insegnato a passare la palla e a stare con gli altri, due cose che nella vita tornano sempre buone.
L'oratorio, per esempio. La domenica guardavamo film di cowboy al chiuso, durante la settimana giocavamo a calcio all'aperto (due attività accomunate da un particolare: mai capitato di vedere un bacio). L'oratorio (San Luigi, a Crema) aveva muri alti e prati spelacchiati; c'erano ghiaccioli al tamarindo, biciclette e palloni. Compariva ogni tanto il curato, don Antonio, che ci piaceva non tanto per le cose che diceva, ma per quelle che faceva. Tollerava molto: anche una ragionevole dose di parolacce. Nessuno ci ha mai fatto prediche, che io ricordi. L'unico rigore cui eravamo tenuti era quello dagli undici metri.
Tutto ciò avveniva negli anni Sessanta. Poi gli oratori sono passati di moda. La stessa chiesa (che talvolta rischia di farsi ipnotizzare dalla modernità da cui dice di volerci salvare) forse li riteneva superati. Oggi sono tornati, alla grande. In tanti paesi e in molti quartieri sostituiscono il muretto dei giovani, il ritrovo per anziani, il centro sportivo. Le case del popolo chiudono, i comuni contano i soldi, il pomeriggio nelle discoteche c'è solo il custode. Restano gli oratori. Ce ne sono 1200 in provincia di Milano, 400 nel bergamasco, altri 350 tra Cremona, Mantova e Pavia. In Veneto li chiamano «patronati». Nell'Italia del Sud, centri parrocchiali. Molti genitori li considerano un luogo sicuro. Un adolescente che gioca a calcio rischia, al massimo, una pallonata in faccia. Con i tempi che corrono, è salutare come una benedizione.
Il settimanale «New Yorker» segnala «la progressiva infantilizzazione della società americana». L'articolo si intitola «Kids are us», i bambini siamo noi. La tesi è semplice: negli Stati Uniti d'America, oggi più che mai, si gioca.
Programmi televisivi, abbigliamento, vacanze, passatempi: rassicurati dalla discreta salute dell'economia, gli adulti si concedono vezzi e lussi infantili. Le generazioni dure e pure degli anni Cinquanta e Sessanta hanno lasciato il posto alla dittatura dei baby-boomers. I quali, a leggere il «New Yorker», sono più baby che boomers: comprano le scarpe da ginnastica con la soletta speciale, vogliono l'automobile con i gadget e le lucine, guardano i Simpson in televisione e giocano con i computer.
E in Italia? Anche noi siamo diventati una gigantesca scuola materna? Verrebbe voglia di rispondere no, se si considerasse la disciplina: le scuole materne della repubblica sono più ordinate e organizzate rispetto al mondo di fuori, e le maestre possiedono un'autorità che le alte cariche dello Stato si possono scordare. Se invece guardiamo i gusti e gli atteggiamenti, allora si può essere d'accordo. Noi «nuovi adulti» italiani - la generazione nata negli anni Cinquanta e Sessanta - siamo più infantili dei nostri genitori.
Sia chiaro. Restar bambini non è un demerito: filosofi, santoni, stilisti e pubblicitari sostengono, anzi, che sia una bella cosa. Il fatto, tuttavia, rimane. Le prove? Quante ne volete.
Usiamo la tecnologia per giocare, o per vantarcene. Vestiamo comodo e colorato. Appena possiamo, compriamo tenerezza (shampoo alle erbe dolci, Aldo Giovanni e Giacomo). Con la scusa della salute, facciamo merenda, andiamo in bicicletta e giochiamo a pallone. Amiamo le collezioni e le raccolte (dalle promozioni dei quotidiani ai bollini della benzina).
Direi che abbiamo una sola giustificazione: i nostri genitori - classe di ferro, che ha visto la guerra e ha fatto l'Italia - non mollano. Hanno deciso che siamo bambini a oltranza, e adorano viziarci e comandarci (a seconda dell'umore). Il guaio è che talvolta esagerano; e questo, francamente, non dovrebbero farlo. Altrimenti lo diciamo ai nostri figli. Poi ci pensano loro.