Capitolo 8.
Le cose che facciamo AL COMPUTER.
Nel 1995, rientrando dopo quindici mesi da Washington, sono rimasto colpito dal modo in cui noi italiani trattavamo i computer. In America erano già elettrodomestici; in Italia, ancora giocattoli.
Quarantenni incoscienti descrivevano a cena le dimensioni del proprio disco rigido. Uomini e donne discutevano le meraviglie di Internet, senza sapere bene cosa fosse. Solo trecentomila connazionali utilizzavano la posta elettronica. Poco più dei tifosi del Verona, e altrettanto incompresi. Oggi è cambiato tutto. Non sono tanto i numeri a confortarmi, quanto una constatazione. A Milano, ormai, molti si vergognano di non usare la posta elettronica. Gli si chiede l'indirizzo e-mail, e accampano scuse bambinesche (è fuori uso, non ricordo, devo chiederlo a mia figlia, sto ristampando i biglietti da visita). Questo imbarazzo è una buona notizia. In Italia, la modernizzazione non poteva che passare dal conformismo.
Il fenomeno, per ora, è limitato ai professionisti urbani. Sono loro che arrossiscono come adolescenti, quando vengono colti in fallo. Confusamente, si rendono conto che non usare l'e-mail è come portare il borsello. Si può fare, ma bisogna accettarne le conseguenze.
Altrettanto divertenti sono coloro che si sono fatti installare la posta elettronica, ma non la aprono. I messaggi rimangono lì, in attesa di una segretaria caritatevole. Ho provato a spiegare a questi personaggi che avere l'e-mail e non leggerla è come possedere una radio e non accenderla.
Mi guardano con occhi bovini, aspettando che cambi discorso.
Ci sono infine coloro che hanno installato la posta elettronica, la usano, ma non hanno ancora imparato a scrivere il simbolo della «chiocciolina» (@), presente in ogni indirizzo, e producono sgorbietti inguardabili. In questo caso, devono intervenire le mogli. Basta piazzare figlio (anni sette) e marito (anni quaranta) allo stesso tavolo, e metterli sotto con gli esercizi. Usare matite appuntite, e molta pazienza.
Forse i primi italiani che usavano il telefono ci gridavano dentro come fosse un megafono (alcuni miei conoscenti lo fanno ancora). Poi gli utenti hanno capito che il nuovo mezzo imponeva nuove regole. Non si poteva chiamare la gente alle quattro del mattino e non era il caso di restare all'apparecchio per due ore, poiché questo produceva un segnale di occupato della stessa lunghezza.
Soprattutto, non si doveva mai, in nessun caso, telefonare a qualcuno e dire: «Pronto chi parla?».
La posta elettronica sta uscendo dalla stessa fase pionieristica, e ha ancora bisogno di regole.
Eccone alcune, frutto di una certa pratica (e alcune sofferenze).
1) Non è necessario spedire il messaggio in cinque copie. Una, basta.
2) Non è il caso di telefonare per sapere se il messaggio è arrivato.
3) Evitate messaggi lunghi. Tre paragrafi è il massimo consentito (se è una dichiarazione d'amore, due bastano).
4) Evitate messaggi troppo cerimoniosi. «Spett. Dott. Ing.» «Ch.imo Dr. Prof.» fanno già ridere sulla carta. Sullo schermo sono grotteschi.
5) Evitate messaggi troppo informali. Se scrivete a Umberto Eco, non potete esordire con: «Ehilà, Berto!».
6) Rispondere è cortese, ma non è obbligatorio.
7) Evitate gli allegati (attachments), se non sono necessari. Spesso il computer del destinatario non ha un «traduttore» adeguato, e comunque è tutto lavoro in più.
7bis) Soprattutto evitate di spedire disegnini, canzoncine, foto dei figli e del gatto, a meno che non siate in confidenza col destinano (o non vogliate punirlo).
8) Noi italiani, in cerca di rassicurazione, abbiamo chiamato «chiocciolina» il simbolo (in inglese: at), rifilando il nome dell'animale più lento al mezzo di comunicazione più veloce.
Chiamare il computer Fido e il mouse Sorcetto, però, è eccessivo.
9) Non preoccupatevi troppo della sintassi o dell'ortografia. Ma un po', sì. Rileggete almeno una volta. Evitate di scrivere: «Caro Teresa, devi spere cheho fio tardi ieri sera e non è statr possibile chiamlareti al telefono; Fatt viva. Ciao, Monica». In un messaggio un errore, frutto della fretta, è perdonabile. Quindici sono una prova di sciatteria.
10) Scrivete solo se avete qualcosa da dire.
Avete sentito parlare così tanto di commercio elettronico, negli ultimi tempi, che eviterò di riempirvi di numeri. Vi basti sapere questo. L'e-commerce «al dettaglio» (B2C, business to consumer), in Italia, vale poco. Vendere qualche migliaio di «pezzi» (libri, bottiglie di vino o CD musicali) viene considerato un successo clamoroso.
Quali i motivi del ritardo? Certamente, la geografia (se vivo in un ranch del Montana ordino la camicia su Internet; se sto in un appartamento di Mantova, scendo e me la compro). Di sicuro, la minore diffusione dei computer in rete rispetto ad altri paesi. Qualcuno aggiunge il timore per i sistemi di pagamento, ritenuti insicuri (ma quando mai: io mi preoccupo quando do la carta di credito al cameriere di Bucarest, non quando spedisco il numero su una linea sicura di Internet).
Credo però che alla base del ritardo italiano ci sia un'altra questione e riguardi il nostro carattere. Mettiamola così: le rivoluzioni tecnologiche, in Italia, devono innestarsi su una caratteristica nazionale. Il telefonino, per esempio, è stato un successo formidabile perché ha stuzzicato prima il nostro esibizionismo (farsi belli); poi il nostro conformismo (ce l'hanno tutti!); infine il nostro familismo (papà chiama mamma, mamma chiama nonna, nonna chiama nipote, nipote chiama amico eccetera).
Il commercio elettronico va invece a scontrarsi con un altro tratto italiano: la diffidenza.
Diffidenza verso un prodotto che non abbiamo a portata di mano; diffidenza verso i tempi e i sistemi di consegna; diffidenza, come abbiamo visto, verso i sistemi di pagamento. Per questo le vendite su catalogo, in Italia, hanno sempre avuto vita grama (quelle americane rappresentavano il 5% del totale degli acquisti prima che arrivasse l'e-commerce). Siamo, in sostanza, una nazione di santommasi: se non tocchiamo, non compriamo. Chi vorrà venderci qualcosa su Internet, dovrà tenerne conto. Dico bene, Amazon.com?
Molti alberghi italiani sembrano avere un motto: «Abbasso la modernità!» (anche, e soprattutto, quelli che si chiamano Albergo Moderno). Non ci credete? Provate a viaggiare con un computer. Troppi albergatori sembrano aver ingaggiato squadre speciali per complicare la vita a chi chiede solo una cosa: un attacco telefonico per collegarsi alla rete, e scaricare la posta elettronica (che non è, come sostiene qualcuno, una forma di tardo yuppismo, ma una necessità di lavoro per molti).
Il trucco preferito dell'Albergatore Dispettoso è collegare il telefono al muro della stanza con un cavo grosso come una gomena: per staccarlo, sarebbe necessario il pugnale di Sandokan. Ho chiesto: perché? Risposta: se non faccio così, mi rubano i telefoni (opinione raccolta in Trentino, non in Bolivia). Un altro trucchetto è il telefono che rifiuta i «numeri verdi», imponendo così di utilizzare numeri normali, che producono scatti, venduti a cifre esorbitanti. C'è anche il telefono che non dà alcun segnale di linea: per ottenerlo, occorre premere un tasto (e questo il computer non può farlo; può, invece, comporre un numero iniziale, come lo 0). C'è, infine, lo speciale, futuribile centralino che semplicemente non permette il collegamento Internet dalle camere. Immagino sia carissimo, ma un vero sadico non bada a spese.
Certo: gli alberghi inglesi non hanno il bidet, che è peggio. Ma questo italico accanimento non si spiega. È un caso di luddismo turistico, un tentativo di riportare tutti al buon tempo antico? Non credo, perché l'albergo che boicotta il computer ha messo nelle stanze tecnologia degna della Nasa (nonché l'inevitabile canale TV coi filmetti hard, che qualche forsennato cerca di guardare fotogramma per fotogramma, affinché non scatti l'addebito sul conto). Ripeto: io vedo una forma di tecnosadismo. Osservare un poveretto che gira per gli ascensori col computer in braccio gridando: «E adesso come faccio?» diverte moltissimo certi albergatori. A loro potrei dire: così non aiutate l'Italia a diventare adulta. Ma dubito siano sensibili a questi argomenti. Forse dovrei aprire il loro prototelefono, e metterci la schiuma da barba. Allora capirebbero.
Un'agenzia pubblicitaria mi ha scritto dicendo di voler lanciare, con un «mini-talk-show nel corso di un brunch in una location da definire», un nuovo prodotto che consenta alle ragazze «di sentirsi appealing, maliziose e daring» e di «sfoderare tutto il loro glamour». Come se tutto ciò non fosse abbastanza preoccupante, i mittenti - di cui non rivelo l'identità, per non creare un piccolo imbarazzo e una certa pubblicità - hanno aggiunto: «Saremmo lieti di coinvolgerla in qualità di moderatrice-conduttore». Ho risposto manifestando il mio stupore: moderatrice?! Precisazione a stretto giro di e-mail: «Ci scusi. È stato un refuso».
Invece non era un refuso. Era un errore, delizioso (per me) e disastroso (per loro). Cos'è accaduto? Quasi certamente, l'agenzia cercava una moderatrice (donna); non l'ha trovata, e ha utilizzato la stessa lettera per girare la proposta al sottoscritto. Il nome del destinatario è stato cambiato; ma nessuno si è accorto che, nel testo, era rimasta la parola «moderatrice». Niente refuso, quindi. Refuso è volere un «moderatore» e chiedere un «foderatore» (incarico interessante: avrei potuto accettare). Chiedere una «moderatrice» è invece un capitombolo, frutto di una disattenzione.
Succede. Il computer, infatti, è perfido; la posta elettronica, impietosa. «Copiare e incollare» (scuse, auguri, proteste, complimenti, condoglianze) è comodo; ma l'errore è in agguato. Così, possiamo mandare un messaggio in copia a molte persone. Ma, se è sciocco, moltiplichiamo le sciocchezze. La facilità di risposta porta a ribattere quando sarebbe meglio tacere; e a farlo subito, quando sarebbe opportuno riflettere. Gli uffici del mondo sono pieni di «pentiti elettronici», autori dell'e-mail che era meglio non spedire. Tra questi, immagino, coloro che mi hanno proposto «il mini-talk-show nel corso di un brunch in una location ancora da definire». Ai quali ripeto: come «moderatrice» mi sento poco adeguato. A meno di drastici interventi che non rientrano nei miei programmi.
La mia casella di posta elettronica, prima di Natale, è una galleria d'arte moderna. Ricevo cartoline, animazioni, vignette, concerti per mucche pazze, messaggi eroticonatalizi («Salve, sono la tua renna!»), Jingle Bells cantate dai gatti, auguri da Calimero.com, messaggi minimalisti, poesie.
Un lettore ha esordito con: «Carissima Ornella!». Un file audio MP3 recita minaccioso: «Buon Natale da Vip! Io sono Imeil, una clonimmagine realizzata da un provider di Vicenza».
Ora, io non sono un anziano poeta che scrive con la penna d'oca: mi mancano l'età, la poesia e, a pensarci bene, le oche. Da anni sostengo che utilizzare Internet ed e-mail è utile, intelligente e giusto. Ma anche le cose giuste, usate nel modo e nel momento sbagliato, smettono d'essere intelligenti, e non sono nemmeno molto utili.
La posta elettronica è una strepitosa invenzione: discreta, fulminea, praticamente gratuita. Ma va usata con buon senso. A Natale, soprattutto. La lusinga del ricordo, l'impegno degli auguri scritti a mano e il rito del francobollo erano, infatti, quanto potevamo offrire ad amici e conoscenti. Molti di noi ricevono invece raffiche di biglietti virtuali (e virtualmente uguali: «Congratulazioni!
Allegata a questa e-mail c'è una cartolina personalizzata creata apposta per te!»). Oppure messaggi come questo, spedito a una lista di cento nomi: «Vorrei abbracciarvi tutti, ma sono pigra e la posta elettronica è così comoda!». Non c'è dubbio, mia cara. Ma tu non hai neppure letto la lista dei nomi, prima di gettare il tuo cuore nel cyberspazio. Hai preferito economizzare: nonni zie amici e colleghi, tutti sistemati con un «clic» del mouse (bottone «Send/Spedisci», in alto a destra).
Ammettiamolo. Alle persone cui teniamo, ormai possiamo offrire un'unica cosa preziosa: il tempo (il resto si compra, si affitta, si duplica, si ricicla, si delega). Il tempo per scrivere un biglietto a mano, il tempo di una visita, il tempo di uno sguardo più lungo del solito, il tempo per una telefonata. Il tempo per avere un'idea originale, e recapitarla (anche con la posta elettronica, perché no). I biglietti aziendali prodotti in serie, l'indirizzo autoadesivo uscito dalla stampante, la lista di indirizzi lunga come un canto della Divina Commedia, le e-cards velocissime da mandare (e lente da scaricare) sono ammissioni pubbliche di sentimenti tiepidi. Spedire il solito «Buon Natale! Buon @nno!» a cento conoscenti già riuniti in una mailing list richiede circa venti secondi (collegamento compreso), pari a 0,2 secondi per conoscente. Voi direte: meglio che niente. Non sono sicuro. Forse è meglio niente.
Di cultura classica e umanistica, l'Italia è piena. Ma se ne vergogna, preoccupata di non essere trendy (o à la page, come si diceva una volta, a dimostrazione che non parlare italiano è un vecchio vizio). Errore: la cultura classica non è la verbosità di certi avvocati; e neppure il sognante frammento di Alceo che spedivamo alle compagne di scuola. L'ho capito salendo al liceo «Paolo Sarpi» di Bergamo, che ha vinto un concorso nazionale (duemila scuole) per la miglior opera multimediale. In parole povere: i ragazzi hanno creato un magnifico CD-rom sulla contestazione del Sessantotto (per loro è storia; con lo stesso spirito, ma con minore tecnica, noi facevamo le ricerche sui moti del Quarantotto). Il «Sarpi», come ho detto, è un liceo classico. Questo non significa che i suoi studenti siano avvantaggiati di fronte alla vita. Ma neppure che siano svantaggiati davanti a un computer.
Il loro successo dimostra che non esiste contrasto tra cultura umanistica e nuove tecnologie.
Tradurre dal greco vuol dire apprendere una logica: la stessa che serve per scrivere in Html (HyperText Markup Language, il linguaggio usato per creare documenti su Internet). Riconoscere un ablativo assoluto - ne sono convinto - aiuta a leggere i manuali e i libretti di istruzioni. È vero, questo tipo di studi non insegna un mestiere. Perché fa di più: prepara a tutti i mestieri. Una buona scuola superiore - non solo il classico - dev'essere la presciistica della mente: alla prima discesa, scopriremo che è tutto facile. Il tanto citato college americano non è basato sullo stesso principio?
Prima si allena la mente; poi ci si specializza (nelle varie business, law, medical schools). Solo che loro cominciano a diciott'anni. Noi a quattordici.
Sarò ingenuo, ma credo che al liceo classico bastino più inglese e computer a portata di mano.
Al resto pensano i ragazzi. Prima che andassi a Bergamo per incontrarne un po', mi hanno spedito (per e-mail) il titolo del mio intervento: «Est modem in rebus?». L'ho accettato senza fiatare.
Riconosco il genio, quando me lo trovo davanti.
Mentre alcuni italiani rifiutano ogni novità (e fanno male), altri sono in piena isteria elettronica.
Li vedi al mattino che leggono dieci e-mail, poi ne scrivono venti, poi controllano se ne sono arrivate di nuove, poi stampano quello che hanno ricevuto, poi cominciano a ricevere telefonate sul cellulare e a mandare messaggini, poi giocano in Borsa e pasticciano coi fogli elettronici, poi si perdono nei meandri di Internet e commentano coi colleghi quello che hanno trovato. A un certo punto decidono che è ora di mettersi a lavorare. Ma sono le cinque del pomeriggio, ed è ora di andare a casa.
Questa dipendenza si può spiegare così: l'entusiasmo per il nuovo mezzo conduce all'abuso.
Accade anche ai quattordicenni col motorino: sono così contenti di averlo, che continuano a girare attorno all'isolato. Ma i quattordicenni non lavorano; noi dovremmo farlo. La sindrome dell'eccesso elettronico si può riassumere in quattro parole: subito, superfluo, sinistro e salato (c'è anche un acronimo: «Su, Su. Si Sa»).
Perché «subito»? Perché la rapidità degli strumenti ci ha ipnotizzato: abbiamo sempre fretta anche quando fretta non c'è. Superfluo: prima dell'e-mail e del cellulare comunicavamo con dieci persone al giorno, che magari erano poche; adesso con cento, che sono decisamente troppe.
Sinistro: siamo agli ordini di uno squillo e di uno schermo, e non è una faccenda simpatica. Salato: sommate bollette e carte ricaricabili, il costo dei telefoni, dei computer, dei programmi, dei CD-rom e delle periferiche, e pensate a quello che potevate realizzare, combinare, ottenere e guadagnare nelle ore trascorse a schiacciare pulsanti. Potevate guardare il cielo, per esempio. Non c'è schermo ad alta definizione che tenga. Oltre la finestra, è più bello.
All'inizio del capitolo ho suggerito dieci regole-base per l'uso della posta elettronica. Ora elenco ventiquattro segni inequivocabili: avete imparato, ma state esagerando.
1) La nuova pettinatura della moglie vi sembra una chiocciolina (@).
2) Sgridate il figlio, poi lo guardate negli occhi e dite: «Rispondi al mittente!».
3) Vi lavate i denti mentre scaricate i messaggi.
4) Durante i Mondiali, controllavate le e-mail nell'intervallo delle partite.
5) Se non rispondete a tutti, vi sentite in colpa. Se rispondete, anche.
6) Avete detto «Te lo forwardo io», e non siete andati a confessarvi.
7) Se avete meno di trenta messaggi in arrivo, vi sentite soli al mondo.
8) Se avete più di trenta messaggi in arrivo, vi sentite assediati.
9) Se qualcuno non vi ha risposto dopo quattro ore, temete che vi odi.
10) Se qualcuno vi risponde immediatamente, pensate che vi perseguiti.
11) Avete contratto un virus, e sospirate di sollievo. Era solo influenza! Poteva essere nel computer.
12) Odiate gli attachments pesanti. Meno quelli che mandate voi.
13) Avete spedito la foto dei figli a tutti gli amici che detestano i bambini.
14) Avete una figlia maggiorenne, ma scrivete ancora con quel vezzoso carattere azzurro.
15) Leggete «VDF» e pensate a un nuovo formato (come PDF, JPG, TIF, ZIP, RTF). Poi vi accorgete che sono i vigili del fuoco.
16) Leggete «CC» e non vi vengono in mente i carabinieri, ma i messaggi in copia.
17) Fate così tanti errori che, rileggendo, risultate incomprensibili a voi stessi (cxapita, batendo trppk in frertta).
18) Rispedite a tutti gli amici la barzelletta che tutti gli amici, a turno, hanno spedito a voi.
19) Avete chiamato Eudora la cagnolina, Outlook il gatto e Hotmail il pesce rosso.
20) Quando siete contenti gridate: «Yahoo!».
21) Al ristorante, premete il dito sul naso del cameriere e dite: «Check mail!».
22) Arrotolate gli spaghetti, e li infilate nella «In Box».
23) Prima di esprimere il vostro parere su un argomento, dite: «Subject, due punti».
24) Il bigliettino affettuoso per il fidanzato recita così: From: «Silvia Posa» <sposa@hotmail.com> To: «Sandro Carlo Poli» <scapoli@libero.it>
Subject: 6 1 tesoro, s8 s8. Attendo 3pida. Date: Sat, 13 July 2002 09:33:23 +0800 X-Priority: 1
(High)
Domenica ho ricevuto una lezione di vita. Ero in campagna dove, nella bella stagione, i professionisti urbani amano recarsi, per il gusto di stare tra i piedi ai contadini e dare uno scopo alla vita dei tafani. Dopo pranzo, un vecchio amico (nel senso che è un amico, e non è giovanissimo) ha annunciato: «Vado a leggere il "Corriere" sulla rete», e si è diretto, giornale in mano, verso un'amaca. Niente Internet, niente collegamenti telefonici. L'unica corrente necessaria era una lieve brezza da ovest. Dimenticavo: la rete in questione era a banda larga, altrimenti l'amico rischiava di cadere faccia in giù.
Avevo incontrato il mio Tecnosauro, e mi aveva battuto. Il Tecnosauro è un animale mansueto, ma non dovete stuzzicarlo. Non detesta la tecnologia; semplicemente, non la ama. Il Tecnosauro non è un luddista, che rifiuta le macchine per partito preso. Il Tecnosauro è sostanzialmente allergico alle novità. Si innamora di un meccanismo, e lo difende con la vita (e per la vita). C'è chi usa un rasoio elettrico che fa più rumore di un elicottero. Chi mantiene un citofono del 1971 attraverso il quale non riconosce neppure i figli. Chi usa termocoperte che sono versioni semplificate di sedie elettriche. Non mi stupirei se tra poco nascessero i Club Nostalgici del Duplex, dove i soci si ritrovano per litigare gioiosamente su chi deve telefonare a una cert'ora.
Ben più aggressivo è il Tecnosauro-Predicatore, il quale non si limita a difendere le sue idee, ma intende cambiare le vostre. Se ha accettato una novità, poi boicotta ogni aggiornamento, sostenendo che è inutile e dannoso. Per esempio: se è un automobilista, si è spinto fino all'aria condizionata. Ma non vuole né il climatizzatore né la chiusura centralizzata.
Mi è stato riferito di un dirigente d'azienda che rifiuta di usare i CD-rom. Giorni fa ha chiamato il supporto tecnico dicendo: «Mi si è guastato il porta-bibite nel computer». Cosa volete fare a un uomo del genere? Deriderlo, redarguirlo, convertirlo? Non serve. Basta dirgli di bere Fanta e non Sprite. Quando si rovescia nel computer, l'effetto cromatico è migliore.