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Torna a casa
DA noi, in Scozia, c’è un vecchio proverbio che dice: «Se ti tocca, non la scampi». Certe cose nella vita succedono per forza. Inutile cercare di girarci intorno: nessuno sfugge al proprio destino.
Ed è il destino che mi ha fatto conoscere Nala. L’ho sentito fin dal primo istante, quando ci siamo ritrovati tutti e due nello stesso luogo sperduto, al posto giusto nel momento giusto: non può essere stato un caso. E non è un caso che lei sia entrata nella mia vita proprio allora. Era come se qualcuno l’avesse mandata per guidare i miei passi, per indicarmi una meta che ancora non intravedevo. Mi piace pensare che anch’io le abbia regalato qualcosa che stava cercando. Ovviamente non potrò mai saperlo, ma più ci rifletto, più ne sono convinto. La nostra amicizia era scritta nelle stelle, per lei come per me. Eravamo destinati a crescere e scoprire il mondo insieme.
Tre mesi prima del nostro incontro, nel settembre del 2018, ero partito dalla mia città natale, Dunbar, sulla costa orientale della Scozia, per fare il giro del mondo in bicicletta. Avevo appena compiuto trent’anni e volevo dare un taglio alla routine, scoprire cosa c’era fuori da quel mio angolino, fare qualcosa di bello, di importante. All’inizio, per usare un eufemismo, non era filato tutto liscio. Avevo attraversato il Nord Europa, ma più che viaggiare mi ero imbattuto in una serie di deviazioni e distrazioni, false partenze e intoppi, e quasi sempre me l’ero andata a cercare. Il mio amico Ricky, che doveva accompagnarmi per l’intero percorso, aveva già fatto dietro front ed era tornato a casa. Se devo essere franco, è stato meglio così: insieme non davamo il meglio di noi.
Ai primi di dicembre, mentre percorrevo il sud della Bosnia ed Erzegovina diretto in Montenegro e in Albania per poi raggiungere la Grecia, mi è sembrato finalmente di fare progressi. Mi sentivo pronto a vivere quell’esperienza che avevo tanto desiderato. Il progetto, nei miei sogni, era di passare per l’Asia Minore e poi risalire l’antica Via della Seta, penetrando nel Sud-Est asiatico. Di lì sarei sceso in Australia, avrei attraversato il Pacifico e sarei risalito per il continente americano, dall’Argentina fino al Canada. Già mi vedevo pedalare attraverso le risaie del Vietnam, solcare i deserti della California, valicare i passi degli Urali, costeggiare le spiagge brasiliane... Avevo il mondo ai miei piedi. Mi sarei preso il tempo che occorreva. Non avevo alcun calendario da rispettare. Non ne avevo bisogno, non dovevo rendere conto a nessuno.
Quel giorno avevo appena smontato la mia tenda in un villaggio nei pressi di Trebigne. Erano le sette e mezzo del mattino. Il sole era sorto da poco. A parte un camion della nettezza urbana e qualche cane che abbaiava ogni tanto, le strade del centro, pavimentate di pietra lucida, erano quasi deserte. Le ruote sobbalzavano sull’acciottolato e gli scossoni della mia bicicletta color bianco sporco mi aiutavano a scrollare via il sonno. Poi ho imboccato la via che portava in montagna, verso il confine con il Montenegro.
Il meteo dava neve e nevischio in arrivo già l’indomani, ma in quel momento il cielo era limpido e l’aria piuttosto tiepida. Ben presto ho preso un ritmo spedito. Dopo alcune settimane frustranti, era bello tornare a sentire la strada, pedalare liberamente. Ero reduce da un incidente alla gamba, che mi aveva costretto a portare il gesso. Mi ero fatto male saltando dal celebre Stari Most, il ponte vecchio della città di Mostar, a qualche ora di viaggio alle mie spalle. Non un’idea geniale, lo ammetto. La gente del posto mi aveva sconsigliato di saltare in inverno, quando le acque del fiume sono più profonde. Ma sono sempre stato una testa calda, e non ho mai perso il vizio delle pagliacciate.
In realtà sono convinto che l’errore sia stato uno solo: dare retta alla guida, che mi aveva convinto a provare una tecnica diversa da quella che usavo per tuffarmi dalle scogliere a Dunbar. Avevo toccato l’acqua gelida con le gambe in leggera flessione. Ho capito di essermi fatto male appena ritornato a riva: lesione del legamento crociato anteriore destro. Il responso del medico era stato: gesso per tre settimane.
Be’, me lo sono tolto da solo il giorno dopo. Non ne potevo più di ciondolare per Mostar con le mani in mano, così ero ripartito prima del successivo appuntamento in ospedale. Per cui quella mattina, mentre guardavo il sole sorgere di fronte a me pedalando per il dolce pendio che saliva verso le montagne, la mia preoccupazione principale, la stessa da quando mi ero rimesso in marcia, era una: non infiammare il legamento crociato. Sapevo che il ginocchio avrebbe funzionato come al solito, a patto di non muoverlo di lato.
Pensavo a fare su e giù con le gambe, a stantuffo, attento a mantenerle allineate in verticale. Ben presto mi ci ero abituato, sembrava andare tutto bene. Sapevo il fatto mio, ero pronto a macinare una tappa di ottanta chilometri, forse addirittura il doppio.
Verso metà mattinata mi sono addentrato in un paesaggio montagnoso nell’estrema propaggine meridionale della Bosnia ed Erzegovina. Pareva di essere a mille miglia dalla civiltà. Da una quindicina di chilometri almeno non mi ero più imbattuto in un centro abitato vero e proprio. Ero solo con me stesso. I tornanti non erano particolarmente ripidi: la strada saliva a poco a poco, secondo un declivio graduale, giusto quello di cui avevo bisogno. In certi punti spariva del tutto, costringendomi a scendere dalla bici e proseguire a piedi: un diversivo per niente sgradito. I panorami toglievano il fiato. Costeggiavo delle creste montuose, diretto verso una muraglia di altissime cime innevate. Era esaltante.
Mi sentivo così bene che ho perfino messo un po’ di musica. Gli altoparlanti che avevo fissato alla bici sparavano un pezzo recente di Amy MacDonald, una delle mie artiste preferite: Come Home, «Torna a casa». Ero così su di giri che mi sono messo a canticchiare il ritornello.
In circostanze normali il testo ispirava nostalgia. A un certo punto, se devo essere sincero, ho davvero pensato a mia madre, a mio padre e a mia sorella che mi aspettavano in Scozia, convinti che sarei tornato presto. Siamo una famiglia affiatata e i miei mi mancavano molto, ma quello che stavo facendo era troppo bello per indugiare oltre in pensieri malinconici.
Casa dolce casa, va bene, ma ogni cosa a suo tempo, ho pensato tra me. Mai e poi mai, si capisce, avrei immaginato che qualcos’altro mi stesse aspettando, non in Scozia ma molto più vicino.
È successo mentre risalivo un altro pendio. Dapprima non ho neppure fatto caso al suono flebile e leggermente stridulo alle mie spalle. Lì per lì ho creduto che la ruota posteriore cigolasse, o che il bullone delle voluminose borse laterali nelle quali tenevo il grosso dei miei vestiti e delle attrezzature si fosse allentato. Mi sono detto che alla prima occasione avrei dato una lubrificatina qua e là. Poi ho smesso di cantare e il suono si è fatto più nitido. Allora ho capito che cos’era. E ho fatto un salto sulla sella. Poteva mai essere?
Era un miagolio.
Mi sono voltato e l’ho intravisto con la coda dell’occhio. Un micetto tutto pelle e ossa. Trotterellava sul ciglio della strada, cercando a ogni costo di tenere il passo con la bici.
Ho inchiodato e ci siamo fermati tutti e due. Ero sconvolto.
«E tu che ci fai quassù?» ho domandato.
Più giù, a fondovalle, si scorgevano degli ovili e delle baite, ma adesso eravamo in alta montagna, l’ultima casa l’avevo passata da ore. Praticamente non c’era anima viva. Da dove era sbucato quel gatto? Dove stava andando? Più ci pensavo, più mi pareva assurdo.
Ero deciso a vederci chiaro ma, nel tempo che ho impiegato a parcheggiare la bicicletta e smontare di sella, il micio era già schizzato via, scavalcando il guard rail per rifugiarsi tra i massi che spuntavano oltre il limitare della strada. Mi sono avvicinato, ancora incredulo. Non mi ero sbagliato, era proprio un micetto: aveva al massimo qualche settimana. Un esserino minuscolo e smunto. Aveva un corpo lungo e snellissimo, grandi orecchie acuminate e una coda folta. La pelliccia era sottile, malconcia per le intemperie, con qualche macchia color ruggine. Ma aveva anche due enormi occhi verdi, i più penetranti che io avessi mai visto. Mi fissavano, come per studiarmi.
Ho fatto qualche passo verso di lui, aspettandomi una reazione ostile, da gatto randagio, temendo di vederlo sgusciare via. Eppure la mia presenza non pareva fargli paura, anzi. Mi ha permesso di accarezzargli la nuca e ha fatto le fusa, come se il contatto con un essere umano e le mie attenzioni gli facessero piacere.
Questo è un gatto domestico, è cresciuto in una casa, mi sono detto. Forse era scappato, oppure (cosa più probabile) era stato abbandonato sul ciglio di una strada. Il solo pensiero mi faceva ribollire il sangue. Sentivo le mie barriere difensive sbriciolarsi.
Povero piccoletto, ho commentato tra me.
Sono tornato alla bicicletta e ho aperto una delle borse. Non portavo con me molto cibo, ma avevo un vasetto di pesto che contavo di mangiare a pranzo. Gliene ho offerto un cucchiaino, spalmandolo su un pezzo di roccia e facendomi da parte per lasciargli via libera.
Il gattino ci si è fiondato come se non mangiasse da una settimana e se l’è spazzolato tutto. Ho tirato fuori il telefono per filmare quella scena bizzarra. Ogni tanto pubblicavo i momenti più importanti del mio viaggio su Instagram, soprattutto per tenere aggiornati famigliari e amici. Magari avrei condiviso anche quel video. Il micio era decisamente fotogenico, anzi, pareva giocare con l’obiettivo, ancheggiando sul cordolo della strada come per mettersi in posa.
La realtà, purtroppo, era molto meno graziosa. Da solo sarebbe morto di freddo e di fame. Oppure sarebbe stato investito da uno dei giganteschi autocarri che, di quando in quando, passavano di lì. Poteva addirittura finire tra le grinfie di uno dei rapaci che avevo visto planare sulle cime dei monti. Era talmente piccolo e fragile che un’aquila o una poiana non avrebbero faticato affatto a ghermirlo e volare via.
Ho un debole per gli animali fin da quando ero bambino e le creature abbandonate o reiette mi hanno sempre fatto tenerezza. In Scozia ho avuto criceti, polli, serpenti, pesci, perfino degli insetti stecco. Ai tempi della scuola, durante le vacanze estive, ho addirittura allevato per sette settimane un gabbiano ferito. Si era lasciato pressoché addomesticare: in una foto che mia madre conserva ancora ce l’ho appollaiato sulla testa. Poi, quando è guarito e ha ripreso le forze, è volato via: era il giorno prima del mio rientro a scuola.
Però non sempre i miei tentativi di aiutare gli animali hanno dato buoni frutti. Una volta, mentre lavoravo in una fattoria, ho fatto la scemenza di portarmi a casa due porcellini rimasti orfani. Li ho sistemati in camera mia e ho acceso dei riflettori per tenerli al caldo. Che idiota sono stato! Si sono messi a scorrazzare su e giù, seminando il caos, facendosi la tana tra i miei vestiti e gettando tutto per aria. E il baccano... da come grugnivano pareva che li stessero sgozzando. È stata la notte più atroce della mia vita.
Sono sempre stato di quelli che preferiscono i cani. Avevo sempre percepito i gatti come creature aggressive, però quel micetto era vulnerabile e innocente, non avrebbe fatto del male a una mosca. Il mio cuore mi diceva di raccoglierlo e portarlo con me, ma la mente sfornava obiezioni di buon senso. Quel viaggio era già stato abbastanza avventuroso, e avevo appena iniziato a ingranare. Se volevo arrivare in Montenegro entro sera, non potevo lasciarmi rallentare.
Sono tornato sulla strada e ho cominciato a spingere la bicicletta a mano per consentire al gattino di trotterellarmi a fianco. Presto o tardi, mi dicevo, si sarebbe annoiato, avrebbe visto qualcos’altro di interessante e se ne sarebbe tornato per la sua strada. Nel giro di cinque minuti è apparso chiaro che non aveva nessuna intenzione di mollarmi. E per andare dove, poi? Il paesaggio, tutto rocce e arbusti, era piuttosto inospitale, e di lì a poco, se il meteo aveva ragione, sarebbe arrivata la neve. Gli restava un giorno di vita su quelle montagne. A dir tanto.
Ho sospirato. Il cuore ha vinto sulla mente. Non c’era altra soluzione.
L’ho preso e l’ho messo sulla bici. Stava tutto in un palmo, pesava come una manciata di piume. Gli sentivo le costole. Sotto il manubrio montavo una borsa «tecnologica», quella dove tenevo il drone che usavo per girare video e documentare il mio viaggio. Ho spostato quel materiale in una delle sacche laterali. Quindi ho foderato il fondo con una maglietta e ci ho adagiato dentro il gattino. Spuntava fuori con il musetto, fissandomi con aria inquieta, come per comunicarmi che non era poi così comodo là dentro. Ma che alternative c’erano? Altri spazi non ne avevo. Sono partito, sperando che si sarebbe abituato, ma nel giro di pochi secondi ho capito che il micio aveva altri progetti.
Avevo percorso sì e no un centinaio di metri. Cogliendomi del tutto alla sprovvista, prima che potessi reagire, è balzato fuori dalla borsa, mi si è arrampicato lungo il braccio e mi si è acciambellato sulle spalle, mettendosi comodo. L’ho sentito avvolgermisi intorno come una sciarpa, la testa nell’incavo del collo. Respirava impercettibilmente. La posizione non era disagevole, e non mi impediva di pedalare, anzi, a dirla tutta era una sensazione piuttosto piacevole. Che il micio fosse a proprio agio era fin troppo evidente, perciò ho ricominciato a pedalare, prendendo velocità. Ben presto, con mio grande stupore, il gatto si è addormentato.
Così ho potuto concentrarmi un po’. Fare i miei conti e meditare sul da farsi. Ero di nuovo combattuto. Amavo viaggiare da solo, ma un po’ di compagnia non mi dispiaceva. E il micio non era un carico pesante. Insieme ci saremmo divertiti, ne ero certo. Però era e restava un imprevisto, l’ennesima deroga al programma: stavo deviando ancora dalla retta via.
Non mancava molto a mezzogiorno, e il sole stava salendo nel cielo grigio-bluastro. Stando al mio GPS, ormai il confine non era lontano. Era tempo di prendere delle decisioni. Decisioni importanti.
Eppure in cuor mio sapevo di avere già preso la principale.
«Se ti tocca, non la scampi.»
Nessuno sfugge al proprio destino.