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Propositi
HO trascorso la mattina seguente a fare progetti per l’immediato, domandandomi quali fossero le soluzioni migliori, non solo per me, ma anche per Nala. Faceva sempre più freddo, per cui era importante continuare verso sud. Più mi fossi avvicinato alla Grecia e al Mediterraneo, mi dicevo, più le temperature sarebbero salite. E un clima più mite avrebbe aiutato entrambi, specialmente Nala, se aveva i polmoni deboli, come mi aveva spiegato il veterinario in Montenegro. Tra l’altro ero deciso a varcare la successiva frontiera con tutti i documenti in regola, perciò, mentre tracciavo il mio percorso seguendo le indicazioni di Bogdan, pensavo a dove e quando far vaccinare Nala contro la rabbia.
Era piacevole sentirsi organizzati. Mi pareva di pensare in modo più limpido che mai. Avevo un programma di massima, per cui potevo guardare avanti. Tuttavia, come al solito, avevo trascurato un dettaglio. Come diceva quel vecchio adagio? «Se vuoi far ridere Dio, parlagli dei tuoi progetti.» Se poi c’è di mezzo un gatto, puoi star sicuro che i tuoi piani lo faranno sghignazzare di gusto.
Siamo partiti l’indomani, verso metà mattinata. Il tempo era un po’ migliorato. Quando abbiamo raggiunto la strada principale che taglia l’Albania nel senso della lunghezza, è perfino uscito il sole. Sentire il suo tepore sul viso è stata un’autentica iniezione di buonumore.
Anche Nala sembrava più vivace. All’inizio avevo paura che viaggiare potesse non piacerle, ma ormai i miei timori si erano dissolti. Stava comoda nella sua piccola borsa da manubrio. Quando le andava di schiacciare un pisolino, le bastava acciambellarsi. Da sveglia, invece, sporgeva la testolina fuori dalla cerniera, mentre il resto del corpo era al caldo e ben protetto. Mentre pedalavo era uno spasso vederla guardare di qua e di là, interessandosi ora a questo ora a quel particolare.
D’altronde, di cose da osservare ce n’erano un sacco. L’Albania è un bel posto, ma era evidente che avesse avuto tempi duri. Molti dei paesini che abbiamo attraversato erano malconce comunità agricole. Le strade erano crivellate di buche, ed evitarle tutte era quasi impossibile, specialmente quando il traffico era intenso. Per un po’ ho cercato di deviare per stradine secondarie, ma erano ancora più dissestate delle principali, per cui ho lasciato perdere. Più di una volta ho preso in pieno una buca, e l’onda d’urto squassava il telaio della bicicletta (e noi a bordo). Per fortuna Nala era più protetta di me. Il suo astuccio imbottito attutiva gli scossoni.
Come era inevitabile, a un certo punto ho forato e sono stato costretto a riparare la ruota nel bel mezzo di un campo, sotto lo sguardo minaccioso di alcune capre dall’aria poco ospitale. Ne ho perfino scacciata una, troppo interessata all’odore di un lembo di sciarpa che pendeva da una delle mie borse laterali. Per cui una parte di me ha tirato un sospiro di sollievo quando abbiamo raggiunto la capitale, Tirana.
Se non altro, lì le strade erano in uno stato migliore.
Come ho detto, non mi piacciono le grandi città. Preferisco la campagna e i paesaggi naturali. Nala, invece, era nel suo elemento. Era affascinata dalle mille cose nuove da osservare, ascoltare e fiutare. Mentre pedalavo accanto a gigantesche statue di epoca sovietica e bancarelle di verdure, lei è sbucata fuori dalla borsa, appoggiando le zampine anteriori sul manubrio. Era una gatta talmente curiosa! Non voleva perdersi nessun dettaglio.
Avevo deciso di trascorrere una notte a Tirana per sistemare un paio di faccende prima di dirigermi verso Himarë, una cittadina costiera nel sud a circa duecento chilometri dalla capitale, sulla cosiddetta «riviera albanese», dove Bogdan mi aveva consigliato di fare tappa prima di raggiungere il vicino confine greco. Non solo era un bel posto dove trascorrere il Natale, ma c’erano anche dei buoni veterinari, così avrei potuto far somministrare a Nala l’antirabbica prima di lasciare il Paese, a ridosso di Capodanno. A quel punto avrebbe avuto circa tre mesi.
Sulla mia lista di cose da fare a Tirana c’era procurarmi un po’ di lek, la valuta locale. L’ostello che avevo prenotato a Himarë accettava solo contanti e le banche, mi avevano avvertito, sarebbero state chiuse per le ferie natalizie. Inoltre l’Albania non sembrava molto affidabile per i pagamenti elettronici. Ho inserito la tessera nel bancomat per procedere al ritiro e mi è caduto l’occhio sul saldo del conto. Era molto più basso del previsto, anche togliendo le duecento sterline che mi era costato far riparare il telefono a Bar.
Sono rimasto interdetto. C’era sicuramente un errore.
Mi sono sforzato di ricordare. Avevo usato la carta di credito su internet e qualcuno poteva aver rubato i dati? Oppure l’avevo data a qualcuno che, approfittando di una mia distrazione, poteva averla clonata? Non mi pareva proprio. Ho cercato di contenere il panico: dovevo chiamare la mia banca.
Avevo preso una camera in un hotel molto economico in un vicoletto dove il cellulare prendeva male, ma, a forza di spostarmi, ho trovato un punto dove c’era campo e sono riuscito a telefonare nel Regno Unito. L’operatore ha esaminato insieme a me gli ultimi pagamenti, e me li ricordavo quasi tutti. Fino a due grosse uscite per un totale di quattrocento sterline circa, la settimana prima. Quelle non mi dicevano nulla, neppure quando l’impiegato mi ha letto il nome del beneficiario. L’accredito era a una società in Serbia, un Paese dove non ero neppure stato.
«Non posso averle fatte io, quelle operazioni», ho protestato. «Non ho mai messo piede in Serbia.»
«Ma sono pagamenti fisici», ha obiettato l’altro. «Ha inserito la carta in un POS e digitato il PIN.»
Lì ho capito! Il veterinario di Budva era affiliato a una rete di cliniche. Ricordavo di aver visto un cartello su cui c’era scritto: CI TROVATE ANCHE IN BOSNIA ED ERZEGOVINA E IN SERBIA. Sul momento avevo pensato soprattutto al bene di Nala, senza neppure preoccuparmi di convertire in sterline il conto in valuta locale. Avevo dato per scontato che sarebbe stato economico. Errore. Grave errore.
Mi sono congedato dall’operatore della banca sentendomi un perfetto idiota. Per un po’ me la sono presa con me stesso, poi mi sono calmato. La situazione non era ancora disperata. Conducevo una vita piuttosto frugale e avevo ancora un bel gruzzoletto da parte. Non avevo paura di mangiare il cibo più economico sul mercato e di piantare la tenda dove capitava. Anzi, quello stile spartano era una delle attrattive del viaggio che avevo deciso di intraprendere. Però dovevo stare più attento e stringere un po’ la cinghia. Più facile a dirsi che a farsi.
A quel punto la mia bici aveva percorso più di tremila chilometri. Il bolide nuovo e lucente che avevo inforcato a Dunbar ne aveva passate di cotte e di crude e aveva tutta l’aria di meritare un po’ di attenzioni. Non c’era di che stupirsi, essendo sopravvissuta a condizioni climatiche estreme, senza contare, negli ultimi giorni, lo stato delle strade albanesi. I freni anteriori, in particolare, iniziavano a non rispondere più a dovere. Le pastiglie dovevano essere quasi del tutto consumate. Cercando su internet avevo trovato un’officina specializzata gestita da un gruppo di ragazzi, così mi sono avventurato nei vicoli di Tirana e ho lasciato lì la bici. Mi hanno promesso che non mi sarebbe costato molto, a meno che occorresse sostituire dei pezzi.
Ho portato Nala a spasso in un parco e dopo una mezz’ora sono tornato in officina. Ho capito subito che le notizie non erano positive. Il responsabile sembrava a disagio, mi ha detto che nel complesso la bici era in buono stato, ma che i freni erano conciati davvero male. Sapevo di averli usurati, specie sui monti della Svizzera, dove alcune discese erano state a dir poco ostiche, ma quando mi ha mostrato le vecchie pastiglie sono rimasto scioccato. Me le aspettavo consumate, soprattutto quelle anteriori, ma ora che i meccanici le avevano rimosse erano praticamente inesistenti. E quelle sul retro non erano molto meglio.
Altri sensi di colpa: con che coraggio avevo pedalato in quelle condizioni con Nala a bordo? Oltre al rammarico, avevo paura di chiedere il prezzo dell’intervento. Però sembravano bravi ragazzi, per cui mi sono fidato. Mi hanno garantito che avrei pagato qualcosina per la manodopera, ma che i pezzi me li avrebbero venduti a prezzo di mercato. Avrei speso in tutto sulle cinquanta sterline. Che sollievo!
Ho atteso un’altra oretta in un caffè nei paraggi, lasciando la bici in officina. Devo ammetterlo: quei ragazzi hanno fatto un lavoro eccellente, dando perfino una pulita al telaio, cosa che – mi vergogno a dirlo – da quando ero partito da Dunbar non avevo mai fatto.
Quando siamo rientrati in hotel non avevo ancora digerito la notizia di quei soldi spesi per il veterinario in Montenegro. Così ho deciso di mangiare in camera, prendendo del cibo da asporto. Mi sono detto che passare una serata tranquilla a giocare con Nala e postare foto su Instagram mi avrebbe aiutato a risparmiare un po’.
In serata sono arrivati altri tre viaggiatori con cui avrei condiviso il dormitorio. Due inglesi e, con mia grande sorpresa, Bogdan, appena arrivato in autobus da Scutari. Già la volta precedente Bogdan si era inteso a meraviglia con Nala, per cui subito si sono messi a giocare. Lei saltava a destra e sinistra, afferrando qualunque cosa si muovesse a portata di zampa. Quando mi sono unito al gioco si è agitata ancora di più. Ho fatto finta di darle la caccia e lei è saltata da uno dei letti a castello, aggrappandosi alle tende lì vicino.
Era chiaro che intendeva affondare gli artigli nella stoffa per rimanere appesa. Purtroppo aveva calcolato male il salto. Mentre cercava di aggrapparsi alla tenda, una delle zampe le è rimasta incastrata. Non bastava da sola a mantenerla in posizione, per cui è volata per aria. Come tutti sanno, i gatti sono dotati di un meccanismo istintivo che consente loro di atterrare sempre in piedi. Però lei non doveva ancora aver sviluppato il suo, perché ha picchiato la testa. C’è stato un attimo di silenzio esterrefatto. Il povero Bogdan era bianco come un lenzuolo.
Sono saltato giù e mi sono inginocchiato accanto a lei.
Era stesa per terra, dove è rimasta inerte per qualche secondo, che a me è parso un’eternità, o comunque un tempo sufficiente perché ogni sorta di pensiero apocalittico potesse attraversarmi il cervello. Per un istante ho temuto che ci fosse rimasta secca. Prima che potessi mettere a fuoco quell’idea, però, si era già riscossa, dandosi una scrollata e arrampicandosi non senza imbarazzo tra le mie braccia. Nel giro di una decina di minuti era come se nulla fosse successo, con grande sollievo di tutti, Bogdan in particolare.
Se davvero i gatti hanno nove vite, Nala aveva appena consumato la prima. In ogni caso aveva imparato la lezione, perché da allora non l’ho più vista tentare acrobazie del genere.
L’indomani mattina Nala e io abbiamo salutato Bogdan e siamo partiti verso sud, diretti a Himarë. La strada era pittoresca: serpeggiava tra imponenti gole montane, costeggiando rovine romane diroccate. Ho visto anche decine e decine di vecchi bunker militari di epoca sovietica. Quando Bogdan mi aveva detto che in giro per l’Albania ce n’erano settecentocinquantamila, mi era parsa un’esagerazione, ma ora capivo che non diceva per scherzo.
La prima giornata in sella è stata molto riposante, ma a partire dalla seconda la festa è finita. La strada non faceva che salire e in certi tratti la pendenza era talmente ripida che mi toccava spingere la bicicletta a mano. Una volta, nei pressi di un villaggio in collina, ho dovuto rallentare a tal punto l’andatura che alcuni anziani del posto mi superavano a dorso d’asino. Mentre il suo asino mi staccava, uno di quei vecchi signori, i capelli tutti bianchi, mi ha rivolto un enorme sorriso sdentato e ha sollevato il pollice verso l’alto, come a voler dire: «Tieni duro, figliolo, sei quasi in vetta». Almeno il meteo non ha fatto scherzi.
Dopo tanta fatica, intorno alle dieci di sera, ho raggiunto la graziosa Himarë, sulla costa. Ero in ritardo di varie ore sulla tabella di marcia. L’ostello che avevo prenotato era deserto. Ci viveva solo un tipo con i capelli lunghi che sembrava un po’ un ospite, un po’ una specie di custode. Si è presentato come Maik.
Era un rifugio spartano, ricavato in un vecchio edificio che sorgeva lungo una stradina asfaltata su una collina affacciata sulla baia. Però si stava benissimo: c’erano un grande soggiorno, aree all’aperto munite di amache e una spaziosa camera con tre letti a castello. Ho scaricato il bagaglio e adagiato Nala sul materasso, dove si è addormentata in pochi secondi. L’ho lasciata riposare, ma ho tenuto la porta socchiusa, nel caso si fosse svegliata e si fosse spaventata. C’eravamo solo io e Maik, per cui non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Era un personaggio interessante, Maik. Tedesco, un paio d’anni più giovane di me, diceva di essere un viaggiatore e un dj. Siamo andati subito d’accordo e abbiamo chiacchierato fino a notte fonda.
Mi ha spiegato che i proprietari dell’ostello, una coppia, erano in vacanza a Corfù, così avevano chiesto a lui di tener d’occhio la struttura in cambio dell’alloggio gratis.
«Magari puoi fare lo stesso anche tu», ha suggerito. «Se mi dai una mano.»
Qualunque cosa pur di risparmiare qualche soldo. Date le circostanze, un Natale a buon mercato era quello che mi ci voleva.
«Sicuro!» ho risposto, e Maik ha promesso di chiamare i proprietari la mattina seguente.
E così è stato. L’indomani, la vigilia di Natale, è venuto da me raggiante, con i pollici all’insù.
«Grande! Che cosa c’è da fare?»
«Niente di che: spaccare un po’ di legna, spremere le arance per la colazione e badare ai loro cani», ha riassunto.
«Perfetto.»
Ero entusiasta. Mi pareva che Natale fosse arrivato in anticipo e per tutta la giornata ho sentito aria di festa.
La popolazione albanese è in parte musulmana, e l’ex governo comunista era ostile alle religioni, per cui il Natale non è vissuto come un evento così speciale, almeno a Himarë, come ho constatato nel pomeriggio, portando Nala a fare un giro. Per strada c’erano le luci e si vedevano degli alberi addobbati alle finestre, e alcune vetrine proponevano dolci tipici, ma nulla a che vedere con il tripudio natalizio a cui ero abituato nel Regno Unito. È stato un piacevole cambiamento.
Mentre passeggiavamo, come al solito, Nala attirava l’attenzione dei passanti. Varie persone del posto sono venute a chiedermi di accarezzarla e alcune adolescenti hanno voluto fare un selfie con noi. Mentre sedevamo su un muretto per ammirare il panorama, una signora anziana con un foulard in testa è stata cinque minuti buoni a mangiarsela con gli occhi, adorante. E intanto borbottava tra sé, quasi stesse pregando. Non ho la più pallida idea di che cosa dicesse, naturalmente, ma una cosa l’ho capita: Nala era magica. Aveva una specie di superpotere: la capacità di far sorridere la gente a prescindere dal credo, dall’età, dalle opinioni o dalla cultura.
Quella sera l’ho lasciata addormentata al sicuro nella nostra stanza con una bella scorta di cibo e acqua, mentre io e Maik abbiamo trascorso un paio d’ore in un bar lì vicino. La gente del posto si è mostrata ospitale. Ci hanno fatto assaggiare vari bicchierini di un distillato locale, la rakia, un’acquavite di frutta. Al primo assaggio sapeva di solvente per vernici, ma poi mi sono abituato al gusto. Nel locale suonavano alcuni musicisti della zona e l’atmosfera era piacevolissima, semplice e rilassata come tutto il resto da quelle parti. Verso le dieci ero di ritorno.
Anche il giorno di Natale è stato tranquillo. Ho iniziato con le faccende che mi spettavano, spaccando la legna, raccogliendo arance da un albero in cortile e dando da mangiare ai quattro cani che abitavano in una corte laterale. Una di loro, una femmina di pastore tedesco, aveva partorito da poco ed era tremendamente gelosa dei suoi cuccioli. Quando uscivo a riempirle la ciotola, mi guardava storto e mi ringhiava.
All’ora di pranzo ho chiamato a casa, in Scozia, e ho parlato con mia madre, mio padre, mia nonna e mia sorella. Natale è sempre stata una festa importante per una famiglia unita come la nostra. Mi mancavano molto e anch’io mancavo loro. Era la prima volta che saltavo il pranzo del 25 dicembre. Però erano felici che stessi trascorrendo quella giornata in un posto che mi piaceva e che il mio viaggio avesse iniziato a prendere una piega positiva! Papà in particolare mi ha invitato a tener duro. «Un’occasione come questa non si presenterà più», mi ha ricordato. «Vivila il più intensamente possibile.» Sentirlo parlare così mi ha dato una carica incredibile.
Sapevo che loro avrebbero consumato un lauto pranzo, come da tradizione, mentre io mi sarei accontentato di un piatto di pasta e delle verdure della cucina dell’ostello. Andava bene così.
Quella sera ho guardato un film sul telefono e ho cominciato a fare progetti. Salvo altri intoppi, sarei riuscito a far vaccinare Nala intorno a Capodanno e già il 1° gennaio avrei superato il confine greco. Le cose sembravano andare di nuovo per il meglio. O quantomeno lo speravo.
La giornata di Santo Stefano è stata la più soleggiata da intere settimane. Il Mediterraneo ai nostri piedi era di un azzurro intenso, irresistibile. Ho deciso di portare Nala in spiaggia. Lei si è divertita un mondo a dare la caccia al suo topo giocattolo, e la gente del posto a guardarla: erano usciti in molti per godersi il bel tempo. Alcuni hanno fatto capannello, scattandole delle foto e chiedendo di accarezzarla. Io non ho sollevato obiezioni, dicendomi che, se le avesse dato fastidio, avrebbe provveduto lei stessa a farlo capire. Invece, come sempre, le attenzioni sembravano piacerle.
Solo più tardi quella sera, dopo aver postato su Instagram uno scatto dei suoi giochi sulla spiaggia, ho notato che il suo respiro si era fatto di nuovo irregolare. Oltre al solito affanno, mi pareva di sentire anche un principio di tosse.
È stato un brutto colpo. Ero convinto che il problema si fosse risolto, che i suoi polmoni si sarebbero irrobustiti a mano a mano che cresceva. Mi sentivo in colpa per averla esposta alla brezza marina.
Maik aveva accennato a un veterinario che doveva passare di lì durante le vacanze natalizie per verificare che la cucciolata stesse bene. Così l’ho pregato di chiamarlo per fargli visitare anche Nala. Lui ci ha chiesto di pazientare un paio di giorni. Nel frattempo avrei dovuto tenere la gatta al caldo, evitando di farla uscire. Era quello che avevo intenzione di fare. Non avrei messo piede fuori, tanto più che le previsioni annunciavano di nuovo temperature rigide.
Il dottore si è fatto vedere il giorno prima della vigilia di Capodanno. Era un tipo affabile, con un completo un po’ troppo grande che non gli calzava granché. Ha auscultato Nala con lo stetoscopio e l’ha visitata, ignorando le mie domande e limitandosi a scuotere la testa e mormorare qualche «Mmm» sottovoce. Iniziavo a spaventarmi sul serio, ma ho fatto del mio meglio per starmene zitto. Poi si è messo a frugare nella borsa. Ha tirato fuori dei medicinali e una siringa.
«Gatto ha infezione ai polmoni», ha annunciato in un inglese non proprio impeccabile, mostrandomi la siringa. «Serve antibiotico. Uno adesso, altro fra tre settimane.»
Ho annuito. Di questo passo la povera Nala avrebbe finito per assomigliare a un puntaspilli. Ma chi avrebbe avuto cuore di negarle le cure di cui aveva bisogno? Lo stato dei suoi polmoni era un grattacapo fin da quando l’avevo trovata e valeva la pena risolvere la cosa una volta per tutte.
Nala ha fatto una smorfia quando ha sentito penetrare l’ago, ma il dolore è stato presto dimenticato. Quando il veterinario ha presentato il conto, ho trattenuto il respiro. Forse era la volta che restavo a secco. Invece alla fine era l’equivalente di una ventina di sterline. Sollevato, l’ho pagato in contanti.
Maik gli ha spiegato che ai primi di gennaio avrei voluto farla vaccinare contro la rabbia.
«Se sta meglio», mi ha ammonito, alzando il dito indice.
Dopo che se n’è andato, sono rimasto un po’ da solo con Nala a meditare sull’accaduto. Un altro meraviglioso progetto se ne andava in fumo. Stavolta, però, non mi importava. Non avrei ripetuto gli sbagli del passato. Avrei dato retta al veterinario, seguendo le sue indicazioni alla lettera. Avrei messo da parte la bicicletta per qualche giorno e sarei rimasto in Albania finché Nala non fosse stata in condizione di proseguire. Avrei pazientato per tutto l’inverno, se necessario. Ero deciso a fare la cosa giusta. Per Nala e per me.
Per il resto del giorno e quello successivo, la vigilia di Capodanno, ho tenuto Nala al coperto. Lei non ha avuto da ridire. I gatti agiscono sempre per istinto, e credo che in cuor suo anche lei sentisse che doveva riprendere le forze. Guarire. Già al mattino la tosse era un po’ migliorata, ma non volevo metterle fretta. Mentre riposava mi sarei portato avanti con i miei lavoretti.
Il Capodanno di Himarë assomigliava ben poco al nostro scatenato Hogmanay, il veglione scozzese. A mezzanotte le strade intorno al porto si sono riempite di famiglie, le chiese hanno scampanato per qualche minuto e poi la città è rimasta deserta. Niente feste alcoliche fino alle prime ore del mattino, o forse erano cose più private. Mi è mancata un po’ la Scozia, ma ci ha pensato Nala a farmi passare la nostalgia. Sono rimasto con lei all’ostello, badando a tenerla al caldo e assicurandomi che i botti non la spaventassero troppo. Non erano niente di che, a dire il vero, giusto cinque minuti di petardi.
L’Albania ha due ore di anticipo sul fuso orario del Regno Unito, per cui ho aspettato sveglio che finisse l’anno anche in Scozia, chattando con gli amici e la famiglia. Anche la mia pagina di Instagram era piena di messaggi, non solo di scozzesi ma anche di follower sparsi per tutto il mondo, moltissimi dei quali avevano scoperto me e Nala nel corso dell’ultima settimana.
Tra i nuovi arrivati c’era anche un sito piuttosto famoso specializzato in animali, The Dodo, un portale newyorkese che voleva far uscire un articolo su di noi. Avevo promesso di fare due chiacchiere più approfondite a ridosso del Capodanno. Ma non ero convinto che facessero sul serio. In fondo non eravamo poi così interessanti. Però forse una storia da raccontare c’era veramente, magari quello che stavo facendo parlava al cuore della gente.
Non ero sicuro del fatto mio. Sapevo che alcuni facevano carriera sui social come «influencer», però mai e poi mai avrei creduto che potesse capitare a me. Per ora mi era bastato regalare un sorriso a chi seguiva le mie avventure con Nala. Quella sera, per la prima volta, ho iniziato a domandarmi se ci fosse un potenziale che meritava di essere sviluppato meglio. Forse potevo addirittura inventarmi una specie di «lavoro».
Più ci pensavo, più la prospettiva mi entusiasmava. Poteva essere un’occasione d’oro per fare qualcosa di buono, per sensibilizzare chi mi seguiva su alcuni dei temi che mi stavano più a cuore, come la protezione degli animali e la tutela dell’ambiente. Allora sì che avrei avuto la sensazione di aver raggiunto un traguardo.
Ecco il mio buon proposito per l’anno nuovo. Fa’ qualcosa di buono, Dean, mi ripetevo. Fa’ qualcosa di buono.