CAPITOLO IX

PER un istante avevo dimenticato che mi trovavo lì per chiedere lavoro; ma soltanto per un istante. Se qualche cosa poteva sollevarmi dalla miseria, sarebbe stata una parola sul nostro mondo e il suo significato dalla bocca di uno dei suoi àuguri, il breve cenno d’un capo.

Zapparoni possedeva molti volti, come la sua opera molti significati. Dov’era il minotauro in questo labirinto? Era il buon nonno che faceva la fortuna di bambini, di massaie e di ortolani, era il fornitore militare, che nel medesimo tempo predicava la morale all’esercito e lo attrezzava con inaudita raffinatezza, era l’audace costruttore, al quale importava unicamente il gioco intellettuale e che voleva descrivere una curva che riconducesse alle forme primitive? O si doveva semplicemente produrre una nuova armatura, come se ne trovano in tutte le classi del regno animale e la natura per quest’opera ingaggiava l’intelletto, ricorrendovi come a un mezzo? Ciò avrebbe spiegato molti tratti ingenui, che sorprendono negli attori del dramma.

Anzitutto, quale era la sua posizione di fronte all’uomo, senza il quale tutto quanto era pazzia? Procedeva dall’uomo e doveva tornare all’uomo. Si potrebbe benissimo immaginare una rosa, una vite senza spalliera, però non mai l’opposto. Voleva rendere l’uomo più felice o più potente o lo voleva più felice e più potente a un tempo? Voleva dominarlo, atrofizzarlo, o introdurlo in regni incantati? Vedeva nell’automa un grande esperimento, una prova da subire, una domanda alla quale rispondere? Lo ritenevo capace di considerazioni teoriche, anzi, teologiche; avevo veduto la sua biblioteca e lo avevo guardato negli occhi.

È una grande cosa venire a sapere dalla bocca d’un saggio in quali faccende siamo irretiti e quale significato hanno i sacrifici che ci vengono richiesti davanti a immagini velate. Anche se si dovessero udire cose spaventose, sarebbe sempre una fortuna vedere lo scopo al di là dell’ottuso vortice.

Intanto non toccava a me porre domande, al contrario. Il saluto mi aveva fatto l’effetto d’una doccia fredda. Per un istante fui tentato di difendermi. Ma sarebbe stato un errore, e mi contentai dunque di dire:

«È stato molto gentile a volermi ricevere personalmente, eccellenza».

Il titolo gli spettava, come molti altri; mi ero informato da Twinnings.

«Mi chiami semplicemente per nome, come fanno tutti i lavoratori nelle nostre officine.»

Non diceva le mie officine e i miei lavoratori. Ci eravamo seduti sopra due sedie da giardino e guardavamo il prato. Zapparoni aveva incrociato le gambe e mi guardava sorridendo. Portava pianelle di marocchino, e in genere dava l’impressione d’un uomo che passa piacevolmente la mattina fra le sue quattro mura. Aveva piuttosto l’aria d’un artista, di un romanziere alla moda o di un grande compositore, il quale da molto tempo ha lasciato le preoccupazioni materiali dietro di sé ed è sicuro dei suoi mezzi e dell’effetto che produce.

Arrivava da lontano il ronzio delle officine. Presentivo che avrebbe cominciato subito a interrogarmi. Vi ero preparato, ma non avevo nessun discorso pronto, come nei tempi passati in simili incontri. Ogni aspirante vuol fare una determinata impressione, rappresentare il tipo ideale che nella propria mente ha formato di sé. Presenta il suo parere. Qui era impossibile, perché non sapevo precisamente che cosa mi si chiedeva. Inoltre la tecnica della interrogazione ha fatto grandi progressi. Anche se difficilmente potrà accertare che cosa sia un uomo, pure coglie con grande precisione che cosa non è, che cosa si sforza di sembrare.

Perciò la cosa migliore è rispondere sempre chiaro e tondo.

«Lei viene nel momento giusto», cominciò, «per illuminarmi sopra un particolare, che mi ha colpito in questo istante durante la lettura.»

E accennò al suo gabinetto. «Ho cominciato le Memorie di Fillmor; che lei probabilmente conosce. Dev’essere approssimativamente del suo corso.»

Questa osservazione colpì giusto più di quanto Zapparoni supponesse, se non l’aveva fatta per pungermi. Fillmor era uno dei nostri marescialli. Lo conoscevo bene; avevamo studiato insieme da Monteron. Dai dragoni di Parchim era passato alla scuola di guerra. Come Twinnings, amava i modi anglosassoni; entrambi venivano dal Mecklemburgo. In quella piccola regione la corte si atteneva a modelli inglesi, perciò molti che ne venivano avevano qualche cosa di londinese.

Fillmor apparteneva al medesimo tipo di Lessner, però gli era di gran lunga superiore, un autentico primo della classe, e già allora si capiva che era atteso da una splendida carriera. Monteron aveva poca simpatia per lui, però era innegabile che Fillmor non aveva amici; da lui emanava un’aura fredda, nella quale si sentiva a suo agio. Diverso in questo da temperamenti fervidi come Lorenzo o da gaudenti come Twinnings, di cui si ricercava l’amicizia. Così Lorenzo preferiva stare a contatto della truppa, Twinnings nell’amministrazione, Fillmor nello stato maggiore.

Avevamo cominciato insieme; lui come destinato al successo e io all’insuccesso. Perciò si era tentati di fare confronti, e ci avevo spesso riflettuto. Come si spiegava quell’ascesa tranquilla, sicura, che passava anche sopra i disastri come sopra gradini? Anzitutto, probabilmente, con una sorprendente memoria. Era un allievo che non aveva bisogno di studiare. Infatti quel che sentiva, gli rimaneva impresso. Si incideva per sempre nella sua memoria. Se gli si leggeva lentamente, a voce forte, una poesia, la ripeteva a mente, senza un solo errore. Nessuno s’impadroniva più facilmente di lui e con minor fatica delle lingue straniere. Dopo avere imparato a memoria mille vocaboli, cominciava a leggere giornali e libri stranieri, e così estendeva anche le sue conoscenze storiche e politiche. Penetrava di volo, senza fatica, nello spirito della lingua. Simili prodezze le compiva anche nel calcolo; era capace di eseguire a mente operazioni matematiche con diverse cifre.

Veniva in urto con gli insegnanti, se traduceva senza prepararsi, a vista, o consegnava compiti nei quali si leggeva soltanto l’impostazione del problema e la soluzione. Sospettavano che si servisse di chiavi e di traduzioni interlineari. Il passo lungo un palmo d’un autore difficile, per il quale si erano faticosamente preparati e che avrebbe dovuto far passare l’ora con infinite sottigliezze, Fillmor l’avrebbe tradotto in un attimo, se non l’avessero trattenuto bruscamente. Simili temperamenti formano il terrore degli insegnanti. Non potendo coglierlo in fallo nello studio, cercavano di passare all’argomento ad hominem. Ma non era facile, perché anche nella condotta Fillmor si distingueva per una netta superiorità. Anche più tardi, nei terribili lunedì di Monteron, non cadeva mai un’ombra su di lui. Quando gli toccava subire qualche ingiustizia, si vendicava aspettando un errore madornale e, dopo aver alzato cortesemente la mano, lo correggeva. Allora si veniva a sapere che per le volpi della scuola, l’importante non era il sapere, ma soltanto sapere meglio degli altri. Però il colpo era stato ben preparato. Adesso lo temevano. Dovettero riconoscere la sua superiorità, a meno che non preferissero ignorarla. Così capitava che il primo della classe ascoltava in silenzio e senza essere mai interrogato. Si facevano tre volte il segno della croce quando si erano liberati di lui. Però il summa cum laude era sicuro.

Il suo prodigioso talento lo accompagnò nella professione. Lo aiutò anche nelle sfere di cui facilmente non si valuta l’importanza, dove gli servì non foss’altro che per ricordare i nomi. Alla quantità delle persone che conosciamo per nome, corrisponde il nostro immediato prestigio: una potenza personale. E questo per una cerchia molto estesa. Gli uomini danno importanza al proprio nome. In quanto a me, mi lasciavo sempre guidare troppo dal sentimento. Sapevo il nome delle persone che mi erano simpatiche o antipatiche, con le quali venivo in contatto, e dimenticavo quello degli altri o li confondevo, il che riesce anche più penoso. Fillmor sorprendeva persino gente che non aveva mai veduto, per esempio telefonisti, salutandoli per nome, suscitando in loro l’impressione di appartenere alla sua medesima sfera.

Riguardo al tempo, allo spazio e ai fatti non si poteva essere meglio orientati di lui. Il suo cervello doveva somigliare a un cruscotto. Dominava una grande quantità di combinazioni, come un giocatore di scacchi che impegnato simultaneamente in cinquanta partite riporta le posizioni di uno scacchiere dopo l’altro dalla memoria nella immaginazione. Perciò in ogni istante conosceva il numero degli uomini in servizio attivo o di quello della riserva. Sapeva che cosa era possibile, e conosceva la via più breve per attuarla. Aveva dunque precisamente il talento che oggi viene chiamato geniale e che può contare sull’assenso della coscienza universale. A questo si aggiunga che era quasi immune dalle passioni, al di fuori di un’ambizione che non si curava delle parate. Voleva mettere delle forze in movimento, voleva il potere di comandare.

Siccome Fillmor sapeva sempre che cosa era possibile, non conosceva inclinazioni personali, e tollerava senza fatica il mutamento di clima politico e dei governi che esso mutava. Le ondate che abbattevano altri, lo portavano in alto. Di uomini come lui si ha bisogno in tutte le circostanze, nelle monarchie, nelle repubbliche, nelle dittature di ogni specie. Mentre io mi ero rifugiato nella perizia dello specialista, per rimanere ancora appena tollerato, egli era lo specialista indispensabile per quello che deteneva il potere. Simili tipi, appena vi giungono, somigliano spesso a briganti che si siano impossessati di una locomotiva di cui non capiscono il funzionamento. Mentre stanno lì perpiessi, arrivano tecnici come Fillmor e mostrano a questa gente come si manovrano le leve. Un fischio, e le ruote, che erano rimaste ferme, si mettono di nuovo in moto. Sopra simili menti riposa la continuità dell’esercizio del potere, il proseguimento della marcia, e senza di loro le rivoluzioni si scaricherebbero nella sabbia, resterebbero un miscuglio di misfatti e di chiacchiere.

S’intende che Fillmor era per i suoi vecchi compagni un disertore, mentre lui li giudicava degli sciocchi. Probabilmente in questi giudizi v’era una grande parte di illusione ottica, perché Fillmor rimaneva fermo; restava fedele a se stesso come prototipo dello spirito del tempo, che muoveva tutti, mentre i mutamenti passavano sopra di lui. A questo si aggiunga l’influsso costante d’una buona stella. Pensavo a volte a Talleyrand, a Bernadotte. Però a Fillmor mancava il fascino e la gioia della vita. Non aveva nemmeno una buona cucina; posso dirlo perché ogni tanto, «per coltivare la tradizione», dava un pranzo ai suoi vecchi camerati. Si riunivano da lui quelli che nel momento erano a terra, e si lasciavano rimpinzare di vini artefatti e di orrori americani. E la cosa si fermava lì, chi aveva veramente bisogno di aiuto, faceva meglio se andava da Twinnings.

Da tutto questo si può concludere che Fillmor era un uomo completamente sprovvisto di fantasia; infatti, chi sempre sa che cosa è possibile, non si occupa di quel che è assurdo, di quel che è impossibile. Invece il mio errore era sempre stato quello di andare in cerca dell’impossibile; già da bambino non mi contentavo della lista delle vivande. Tutti i sistemi che spiegano con precisione perché il mondo è così e non può mai essere diverso, avevano da sempre provocato in me il fastidio che si può provare nello studiare il regolamento in una cella di carcere sotto una luce abbagliante. Anche se vi si fosse nati e non si fossero mai veduti né stelle né mari né boschi, si dovrebbe avere l’intuito della libertà fuori del tempo nello spazio illimitato.

La mia cattiva stella mi fece nascere invece in un tempo in cui erano di moda proprio le cose precisamente definite, esattamente calcolabili. Non furono rari i giorni in cui avevo l’impressione di incontrare soltanto guardie carcerarie, gente che addirittura si offriva con volenterosa premura a questo servizio che li appaga, e in cui trova piacere. «Io naturalmente sto a destra, a sinistra, al centro, discendo dalla scimmia, credo soltanto a quel che vedo, l’universo esplode con questa o quella rapidità»: discorsi simili li sentiamo a volte fin dal primo incontro con qualcuno, anzi con persone alle quali non abbiamo chiesto che si presentino come imbecilli. Se si ha la sfortuna di incontrarli di nuovo dopo cinque anni, tutto è mutato, perfino lo stile di sicurezza autoritaria e per lo più brutale. Ora portano un altro distintivo all’occhiello, si vantano della parentela con un altro animale, e l’universo si contrae con una rapidità che fa rizzare i capelli. In questo sistema della banalità Fillmor occupava uno dei punti più alti.

Voglio ammettere che per lungo tempo sono stato fra gli ammiratori di questa specie di intelligenza risoluta e che mi sono promesso molto da essa, soprattutto durante gli anni nei quali mi trovavo a collaudare carri armati. Inoltre il mio giudizio potrà valere come quello d’un uomo al quale è difficile perfino pescarsi un posto ambiguo mentre vede i suoi compagni nello splendore dell’ammirazione. Lasciamo la questione sospesa. Fillmor si era coperto di gloria infinita e pubblicava le sue Memorie. Siccome in lui tutto era calcolato, senza dubbio questa pubblicazione doveva servire a cominciare un nuovo periodo della sua vita.

Ai tempi nostri un generale fortunato, un maresciallo che ha trionfato dalla parte buona, può attendersi un posto altissimo o nell’economia o nella politica. Questo è uno tra i fenomeni paradossali d’un’epoca ostile al militare.

Se Zapparoni aveva passato la mattinata leggendo le Memorie di quell’uomo, certo non era stato soltanto per passare il tempo. Ma quale giudizio avrei dovuto esprimere di una tale lettura? Si trattava di quel che segue.