CAPITOLO XXII

ERA un segno vergognoso, un biglietto d’ingresso. Così i lenoni che vogliono trascinarci in case di malaffare ci fanno scivolare in mano un’immagine oscena. Il mio demone mi aveva ammonito.

Quando compresi il trucco, s’impossessò di me un furore cieco. Un vecchio guerriero, un cavalleggero e allievo di Monteron faceva anticamera davanti a una bottega, dove si mostravano orecchie mozzate, mentre si sghignazzava nel fondo.

Fino a quel momento avevo sempre combattuto con armi onorevoli e abbandonato il servizio prima che orrendi vampiri escogitassero i loro micidiali incendi. Qui si dovevano preparare nuove raffinatezze in stile lillipuziano. Come sempre la prima preoccupazione era il sipario, affinché la sorpresa potesse maturare al sicuro. Non avrebbero avuto scarsità di poliziotti; c’erano già dei paesi dove ogni uomo sorvegliava l’altro e se ciò non bastava, denunciava se stesso. Non era un affare per me. Avevo veduto abbastanza e preferii il banco del biscazziere.

Rovesciai il tavolo e col piede spinsi l’orecchio fuori del sentiero. Adesso il grigiofumo si era fatto molto sveglio, volava su e giù come una spia che vuole gustarsi un avvenimento da ogni punto di vista. Misi mano alla sacca da golf e ne tirai fuori uno dei ferri più pesanti, e mi preparai a colpirlo.

Mentre mi mettevo in posizione, risuonò un brusco ammonimento, come se ne sentono nei ricoveri antiaerei. Non mi lasciai intimidire, e con la superficie del ferro girandomi sulla punta dei piedi, colpii il grigiofumo che andò in pezzi. Dalla pancia gli uscì una spirale, seguita da una serie di scoppi, come quelli che chiudono uno spettacolo pirotecnico, e una nuvola rossa marrone salì dal ferro. Sentii di nuovo una voce: «Occhi chiusi!» Mi arrivò uno schizzo sulla manica della giacca, e vi fece un buco. Un’altra voce gridò che c’era un unguento per la pelle nel padiglione. Lo trovai in una specie di borsa per la difesa aerea che mi ricordai di avere già veduto. Sul braccio non c’era nessuna ferita. Anche l’esplosione non aveva suscitato un’impressione di minaccia.

Gli avvertimenti sembravano detti da una voce artificiale, come presi da un vocabolario meccanico. Ebbero l’effetto di rompere l’incanto come segnali del traffico. Mi ero lasciato trascinare senza avere consultato il mio cervello. Era il mio vecchio difetto, nel quale mi facevano ricadere le provocazioni. Bisognava liberarmene. Nella bisca credevo, ad esempio, che avrei intascato persino gli insulti, e avevo fiducia nella mia capacità di farlo. Per il momento il problema stava nell’uscire di lì, infatti non era più possibile pensare di essere ingaggiato.

Avevo anche completamente perduto ogni velleità di occuparmi ancora delle intimità di Zapparoni. Probabilmente ne avevo già vedute abbastanza.