2.
Atticus Finch sollevò il polsino sinistro, poi cautamente lo rimise a posto. L’una e quaranta. Certe volte portava due orologi: anche quel giorno ne aveva due, un antico orologio da tasca con la catenella (masticata dai suoi figli quando avevano messo i denti) e un orologio da polso. Il primo era un’abitudine, il secondo lo usava per vedere che ora era quando non poteva muovere le dita per estrarre l’orologio dal panciotto. Era stato un omaccione prima che l’età e l’artrite lo riducessero a una taglia media. Aveva compiuto settantadue anni il mese prima, ma nella mente di Jean Louise era sempre là sospeso tra i quaranta e i cinquanta: non ricordava che fosse mai stato più giovane, e non sembrava diventare più vecchio.
Davanti alla poltrona in cui sedeva c’era un leggio d’acciaio da musicista, e sul leggio c’era un libro: Lo strano caso di Alger Hiss. Atticus si sporse un po’ in avanti, per meglio esprimere la disapprovazione per ciò che stava leggendo. Uno che non lo conosceva non avrebbe notato l’irritazione sul suo viso, perché raramente la mostrava; ma un amico si sarebbe aspettato il secco “uhm!” che seguì: le sopracciglia di Atticus erano aggrottate, la sua bocca una linea simpatica e sottile.
“Uhm!” disse.
“Cosa, caro?” disse la sorella.
“Non capisco come un uomo come questo possa avere la faccia tosta di darci la sua opinione sul caso Hiss. È come se Fenimore Cooper scrivesse i romanzi di Waverley.”
“Perché, caro?”
“Mostra un’infantile fiducia nell’integrità dei funzionari dello Stato e sembra credere che il Congresso corrisponda alla loro aristocrazia. Non ha la minima idea di come funziona la politica americana.”
Sua sorella diede una sbirciata alla copertina del libro. “Non conosco questo autore,” disse, condannando così il libro per sempre. “Be’, non preoccuparti, caro. Non dovrebbero essere già qui?”
“Io non mi preoccupo, Zandra.” Atticus guardò la sorella, divertito. Era una donna impossibile; ma mille volte meglio lei che avere sempre in casa Jean Louise in balia dell’infelicità. Quando era infelice, sua figlia si aggirava qua e là come una pantera, mentre Atticus voleva che le sue donne avessero i nervi distesi, e non vuotassero i portacenere in continuazione.
Si accorse che una macchina svoltava nel vialetto, sentì sbattere due delle portiere, poi la porta d’ingresso. Allontanò cautamente il leggio con i piedi, fece un vano tentativo di alzarsi dalla profonda poltrona senza usare le mani, la seconda volta ci riuscì, e aveva appena ritrovato l’equilibrio quando Jean Louise gli fu addosso. Sopportò il suo abbraccio e lo ricambiò meglio che poteva.
“Atticus...” disse lei.
“Metti la sua valigia nella camera da letto, per favore, Hank,” disse Atticus da sopra la spalla di lei. “Grazie per essere andato a prenderla alla stazione.”
Jean Louise tentò di dare un bacetto alla zia e mancò il bersaglio, prese un pacchetto di sigarette dalla borsetta e lo buttò sul sofà. “Come vanno i reumatismi, zietta?”
“Un po’ meglio, dolcezza.”
“Atticus?”
“Un po’ meglio. Hai fatto un buon viaggio?”
“Sì, certo.” Si lasciò cadere sul sofà. Hank tornò senza la valigia, disse: “Spostati”, e si sedette accanto a lei.
Jean Louise sbadigliò e si stirò. “Che notizie ci sono?” chiese. “Ormai tutto quello che vengo a sapere lo imparo leggendo tra le righe della ‘Maycomb Tribune’. Nessuno di voi mi scrive mai niente.”
Alexandra disse: “Avrai saputo della morte del figlio del cugino Edgar. È stata una cosa molto triste”.
Jean Louise notò che Henry e suo padre si erano scambiati un’occhiata. Atticus disse: “È tornato tardi, un pomeriggio, accaldato dopo un allenamento di football, e ha vuotato la ghiacciaia della Kappa Alpha. Ha anche mangiato una dozzina di banane annaffiandole con una pinta di whisky. Un’ora dopo era morto. Non è stato affatto triste”.
Jean Louise disse: “Ooh!”.
Alexandra disse: “Atticus! Sai che era il cocco di Edgar”.
Henry disse: “È stato davvero orribile, Miss Alexandra”.
“Il cugino Edgar ti corteggia ancora, zietta?” chiese Jean Louise. “Mi pare che dopo undici anni dovrebbe chiederti di sposarlo.”
Atticus aggrottò le sopracciglia in segno di avvertimento. Vide il demone di sua figlia levarsi e imporre il suo dominio su di lei: le sopracciglia di Jean Louise erano sollevate, come le sue, gli occhi dalle palpebre pesanti sotto le arcate diventarono tondi, e un angolo della bocca si arricciò pericolosamente. Quando faceva quella faccia, solo Dio e Robert Browning sapevano cosa poteva sognarsi di dire.
Sua zia protestò. “Veramente, Jean Louise, Edgar è primo cugino di tuo padre e mio.”
“A questo punto del gioco non dovrebbe avere più molta importanza, zietta.”
Atticus chiese frettolosamente: “Come hai lasciato la grande città?”.
“Ora io vorrei sapere qualcosa di questa grande città. Voi due non mi scrivete mai niente di scandaloso. Zietta, conto su di te per avere le notizie di un anno in quindici minuti.” Batté la mano sul braccio di Henry, più per trattenerlo dall’intavolare una conversazione di affari con Atticus che per altri motivi. Henry lo interpretò come un gesto affettuoso e lo ricambiò.
“Be’...” disse Alexandra. “Be’, avrai saputo dei Merriweather. Quella è stata una cosa molto triste.”
“Cos’è successo?”
“Si sono lasciati.”
“Come?” disse Jean Louise, sinceramente stupita. “Vuoi dire separati?”
“Sì,” ammise sua zia.
Lei si voltò verso il padre. “I Merriweather? Da quanto tempo erano sposati?”
Atticus guardò il soffitto, sforzandosi di ricordare. Era un uomo preciso. “Quarantadue anni,” disse. “Sono stato al loro matrimonio.”
Alexandra disse: “La prima volta che abbiamo capito che c’era qualcosa che non andava è stato quando sono venuti in chiesa e si sono seduti ai lati opposti dell’auditorium...”.
Henry disse: “Si sono guardati in cagnesco per molte domeniche di fila...”.
Atticus disse: “È passato ancora un po’ di tempo, e sono venuti nel mio studio a chiedermi di farli divorziare”.
“L’hai fatto?” Jean Louise guardò suo padre.
“L’ho fatto.”
“Per quali motivi?”
“Adulterio.”
Jean Louise scosse la testa, stupita. Dio, pensò, dev’esserci qualcosa nell’aria...
La voce di Alexandra interruppe le sue ruminazioni: “Jean Louise, sei venuta in treno così?”.
Presa in contropiede, le ci volle qualche attimo per capire che cosa sua zia intendesse con così.
“Oh... sì,” disse, “ma un momento, zietta. Sono partita da New York con calze, guanti e scarpe. Ho indossato questa roba solo dopo Atlanta.”
Sua zia tirò su col naso. “Vorrei proprio che stavolta tu cercassi di vestirti un po’ meglio, mentre sei a casa. La gente si fa un’impressione sbagliata. Pensano che tu venga dai... uhm, bassifondi.”
Jean Louise sentì un vuoto alla bocca dello stomaco. La Guerra dei Cent’anni era arrivata più o meno al ventiseiesimo anno senza altre indicazioni che precari momenti di tregua.
“Zietta,” disse. “Sono tornata per fare due settimane di riposo, puro e semplice. Dubito che in tutto questo tempo arriverò anche solo a uscire di casa. Mi spremo le meningi tutto l’anno...”
Si alzò, andò verso il caminetto, lanciò un’occhiataccia alla cappa e si voltò. “Se gli abitanti di Maycomb non si fanno un’impressione, se ne faranno un’altra. Sicuramente non sono abituati a vedermi tutta in ghingheri.” La sua voce ridiventò paziente: “Guarda, se all’improvviso mi presentassi vestita di tutto punto direbbero che sono andata a New York. Adesso arrivi tu a dire che credono che io me ne infischi di quello che pensano quando vado in giro in pantaloni. Santiddio, zietta, Maycomb sa benissimo che non ho mai portato nient’altro che una tuta da lavoro fino a quando mi sono venute le mestruazioni...”.
Atticus dimenticò i crampi alle mani. Si piegò in avanti per allacciarsi le scarpe già perfettamente allacciate e si raddrizzò con la faccia rossa ma seria. “Basta così, Scout,” disse. “Chiedi scusa a tua zia. Non attaccar briga appena arrivata.”
Jean Louise lo guardò con un sorriso. Quando suo padre voleva mostrare la propria disapprovazione, tornava sempre al nomignolo della sua infanzia. Jean Louise sospirò. “Scusa, zietta. Scusa, Hank. Mi sento oppressa, Atticus.”
“Allora torna a New York e liberati delle tue inibizioni.”
Alexandra si alzò passandosi le mani sulle varie sporgenze delle stecche di balena che le fasciavano il corpo. “Hai mangiato qualcosa in treno?”
“Sì, certo,” mentì lei.
“Allora, vuoi un caffè?”
“Grazie.”
“Hank?”
“Sì, grazie.”
Alexandra lasciò la stanza senza consultare il fratello. Jean Louise disse: “Tu non hai ancora imparato a berlo?”.
“No,” disse suo padre.
“Nemmeno il whisky?”
“No.”
“Sigarette e donne?”
“No.”
“Cosa fai per divertirti?”
“Mi arrangio.”
Jean Louise finse di stringere una mazza da golf con le mani. “Come va?” chiese.
“Non sono affari tuoi.”
“Riesci ancora a usare la mazza?”
“Sì.”
“Te la cavavi piuttosto bene per un cieco.”
Atticus disse: “Non c’è niente che non va nella mia...”.
“Niente tranne il fatto che non ci vedi.”
“Ti spiacerebbe provare la tua affermazione?”
“Nossignore. Va bene domani alle tre?”
“Sì... no. Ho una riunione. Perché non facciamo lunedì? Hank, abbiamo qualcosa lunedì pomeriggio?”
Hank si scosse. “Solo quell’ipoteca all’una. Non dovrebbe richiedere più di un’ora.”
Atticus disse alla figlia: “Allora siamo d’accordo. A giudicare dalle apparenze, Signorina Perfettina, sarà un altro di quei casi in cui un cieco guida un altro cieco”.
Davanti al caminetto, Jean Louise aveva raccolto un vecchio putter dal manico di legno annerito che aveva alle spalle anni di onorato servizio anche come attizzatoio. Vuotò una grande sputacchiera antica del suo contenuto – palline da golf –, la rovesciò su un fianco, sparpagliò con un calcio le palline sul pavimento del soggiorno, e le stava tirando nella sputacchiera quando la zia riapparve portando un vassoio con caffè, tazze e piattini, e una torta.
“Fra te, tuo padre e tuo fratello,” disse Alexandra, “quel tappeto è una vergogna. Hank, quando sono venuta a tenergli la casa, la prima cosa che ho fatto è stato tingerlo più scuro che potevo. Ti ricordi com’era? Che diamine, c’era una macchia nera da qui al caminetto che non si riusciva a togliere in nessun modo...”
Hank disse: “Me lo ricordo, signora. Temo di avervi contribuito anch’io”.
Jean Louise rimise la mazza accanto alle molle, raccattò le palline e le gettò nella sputacchiera. Si sedette sul sofà e guardò Hank che stava recuperando quelle che si erano disperse. Non mi stanco mai di guardare come si muove, pensò.
Lui tornò indietro, bevve una tazza di caffè nero bollente a un’allarmante velocità e disse: “Signor Finch, meglio che vada”.
“Aspetta un momento e vengo con te,” disse Atticus.
“Se la sente?”
“Certo. Jean Louise,” disse Atticus all’improvviso, “quanto di ciò che succede quaggiù finisce sui giornali?”
“Parli di politica? Be’, ogni volta che il governatore si lascia sfuggire qualcosa, le indiscrezioni arrivano ai giornali scandalistici; ma più di questo, nulla.”
“Alludevo al tentativo della Corte Suprema di raggiungere l’immortalità.”
“Oh, quello. Be’, a sentire il ‘Post’, li linciamo a colazione; il ‘Journal’ se ne frega; e il ‘Times’ è talmente imbalsamato dai suoi obblighi verso la posterità da farti morire di noia. Non gli ho prestato la minima attenzione, se non per gli scioperi dei bus e quella storia nel Mississippi. Atticus, che non si sia riusciti a ottenere una condanna in quel caso è stato l’errore più grosso che abbiamo fatto dopo la Carica di Pickett.”
“Sì, è vero. Immagino che i giornali ci siano andati a nozze.”
“Sono impazziti.”
“E l’Associazione nazionale per il progresso della gente di colore?”
“Non so niente di quella cricca, se non che qualche impiegato malaccorto l’anno scorso mi ha spedito dei bolli natalizi dell’Anpgc, e io li ho appiccicati su tutte le cartoline che ho spedito a casa. Il cugino Edgar ha ricevuto la sua?”
“Sì, e mi ha dato alcuni suggerimenti su quello che dovrei fare con te.” Sulla faccia di suo padre apparve un largo sorriso.
“Cosa, per esempio?”
“Che dovrei venire a New York, prenderti per i capelli e darti un bel po’ di frustate. Edgar ti ha sempre disapprovato, dice che sei troppo indipendente...”
“Non ha mai avuto il minimo senso dell’umorismo, quel vecchio e pomposo pesce gatto. È proprio quello che è: due baffoni così e una bocca da pesce gatto. Penserà che vivendo da sola a New York io viva, ipso facto, nel peccato.”
“La sostanza è quella,” disse Atticus. Si tirò su dalla poltrona e fece segno a Hank di andare.
Hank si rivolse a Jean Louise. “Alle sette e mezzo, dolcezza?”
Lei annuì, poi guardò la zia con la coda dell’occhio. “Va bene se metto i pantaloni?”
“Nossignora.”
“Buon per te, Hank,” disse Alexandra.