11.
C’era stato un periodo, tanto tempo prima, in cui i soli momenti pacifici della sua esistenza erano quelli dell’intervallo tra il sonno e la veglia, quando apriva gli occhi la mattina fino a raggiungere la piena coscienza, i pochi secondi che passavano fino a quando, ormai desta, entrava nell’incubo a occhi aperti della giornata.
Era in prima media, un anno memorabile per le cose che imparava a scuola e fuori. Quell’anno il gruppetto dei bambini di città fu temporaneamente sommerso da un mucchio di scolari più grandi inviati da Old Sarum perché qualcuno aveva incendiato la scuola di quella frazione. Il ragazzo più grande nella prima di Miss Blunt aveva quasi diciannove anni, e aveva tre coetanei. C’erano diverse ragazze di sedici, creature voluttuose e felici per le quali la scuola era un po’ una vacanza dall’obbligo di raccogliere il cotone e dare da mangiare al bestiame. Miss Blunt si mostrò all’altezza della situazione: era alta come il ragazzo più alto della classe e due volte più larga di lui.
Jean Louise si affezionò subito ai nuovi venuti da Old Sarum. Dopo aver tenuto viva l’attenzione dell’intera classe introducendo deliberatamente Gaston B. Means1 in una discussione sulle risorse naturali del Sudafrica, e dimostrato la sua precisione con un fucile a elastico durante l’intervallo, si guadagnò la fiducia della banda di Old Sarum.
Con rozza cortesia i ragazzi grandi le insegnarono a giocare a dadi e a masticare tabacco senza farsi colare la saliva sul mento. Le ragazze grandi non facevano che ridacchiare dietro il paravento delle mani e bisbigliare continuamente tra loro, ma Jean Louise le trovò utili quando si trattò di scegliere le giocatrici per un incontro di pallavolo. Tutto sommato, si cominciava a capire che sarebbe stato un anno meraviglioso.
Meraviglioso, fino al giorno in cui andò a mangiare a casa. Quel pomeriggio non tornò a scuola, ma passò il resto della giornata sul letto piangendo di rabbia e cercando di capire la terribile notizia che aveva ricevuto da Calpurnia.
Il giorno dopo tornò a scuola camminando con estrema dignità, non fieramente, ma impacciata da un armamentario fino a quel momento sconosciuto. Era certa che tutti la guardassero e sapessero cosa le era successo, ma era anche sconcertata dal fatto che in tutti i suoi anni di vita non ne avesse mai sentito parlare. Forse nessuno ne sa niente, pensò. In tal caso, era proprio una novità.
Durante l’intervallo, quando George Hill le chiese di fare il Re della cucina nel gioco del Grasso che frigge, scosse il capo.
“Non posso fare più niente,” disse, e si sedette sui gradini a guardare i maschi che si scaraventavano a vicenda nella polvere. “Non riesco nemmeno a camminare.”
Quando non ne poté più, raggiunse il crocchio delle femmine sotto la quercia in un angolo del cortile.
Ada Belle Stevens rise e le fece posto sulla lunga panchina di cemento. “Perché non giochi?” chiese.
“Non ne ho voglia,” disse Jean Louise.
Ada Belle socchiuse gli occhi e corrugò le sopracciglia bianche. “Scommetto che so che cos’hai.”
“Cosa?”
“Hai la Maledizione.”
“La... cosa?”
“La Maledizione. La Maledizione di Eva. Non ci avrebbe colpito, se Eva non avesse mangiato la mela. Ti senti male?”
“No,” disse Jean Louise, maledicendo silenziosamente Eva. “Come hai fatto a capirlo?”
“Cammini come se cavalcassi una giumenta baia,” disse Ada Belle. “Ti ci abituerai. Io ce l’ho da anni.”
“Io non mi ci abituerò mai.”
Fu difficile. Quando il suo attivismo era limitato, Jean Louise si riduceva a giocare d’azzardo per piccole somme dietro un mucchio di carbone sul retro dell’edificio scolastico. L’intrinseca pericolosità dell’impresa l’attirava assai più del gioco stesso; non era così brava in aritmetica da curarsi se vinceva o perdeva, non c’era un vero piacere nel cercare di battere le leggi delle medie, ma traeva una certa soddisfazione dal fatto che riusciva a ingannare Miss Blunt. I suoi compagni erano i più pigri tra i ragazzi di Old Sarum, il più pigro dei quali era un certo Albert Coningham, un pensatore lento cui Jean Louise aveva reso inestimabili servigi durante le prove semestrali.
Un giorno, mentre suonava la campana del rientro, Albert, scuotendosi la polvere di carbone dai pantaloni, disse: “Aspetta un momento, Jean Louise”.
Aspettò. Quando furono soli, Albert disse: “Voglio che tu sappia che stavolta ho preso un 6 meno in geografia”.
“Così va proprio bene, Albert,” disse lei.
“Volevo solo ringraziarti.”
“Non c’è di che, Albert.”
Albert arrossì fino alla radice dei capelli, la tirò a sé e la baciò. Lei sentì la sua lingua umida e calda sulle labbra, e si ritrasse. Non era mai stata baciata così. Albert la lasciò andare e col suo passo strascicato si avviò verso l’edificio della scuola. Jean Louise lo seguì, perplessa e un tantino infastidita.
Tollerava di essere baciata sulla guancia solo da un parente, e poi di nascosto se l’asciugava col fazzoletto; Atticus la baciava vagamente dove capitava; Jem non la baciava per niente. Pensò che Albert in qualche modo avesse sbagliato i suoi calcoli, e presto se ne dimenticò.
Mentre l’anno passava, il più delle volte l’intervallo la sorprendeva con le femmine sotto l’albero, seduta al centro del gruppo, rassegnata al suo destino, ma intenta a guardare i maschi che facevano i loro giochi stagionali nel cortile. Una mattina, arrivando tardi sulla scena, trovò le ragazze che ridacchiavano più nascostamente del solito e chiese di conoscerne la ragione.
“È Francine Owen,” disse una.
“Francine Owen? Manca da un paio di giorni,” disse Jean Louise.
“Sai perché?” disse Ada Belle.
“No.”
“Sua sorella. L’assistente sociale le ha prese tutt’e due.”
Jean Louise diede una gomitata ad Ada Belle, che le fece posto sulla panchina.
“Cos’ha lei che non va?”
“È incinta, e sai chi è stato? Suo papà.”
Jean Louise disse: “Cosa vuol dire ‘incinta’?”.
Un gemito si alzò dalla cerchia delle ragazze. “Che deve avere un bambino, stupida.”
Jean Louise assimilò la definizione e disse: “Ma suo papà che c’entra?”.
Ada Belle sospirò: “Il papà del bambino è suo papà”.
Jean Louise scoppiò in una risata. “Dai, Ada Belle...”
“È vero, Jean Louise. Scommetto che l’unica ragione per cui Francine non lo è, è che non ha ancora cominciato.”
“Cominciato cosa?”
“Cominciato a mestorare,” disse Ada Belle, spazientita. “Scommetto che lui lo faceva con tutt’e due.”
“Faceva cosa?” Jean Louise era ormai in totale confusione.
Le ragazze si misero a strillare. Ada Belle disse: “Non sai un cavolo di niente, Jean Louise Finch. Prima di tutto, tu... poi, se lo fai, dopo... dopo che hai cominciato... cioè, avrai un bambino, sul serio”.
“Se faccio cosa, Ada Belle?”
Ada Belle si guardò intorno e strizzò l’occhio. “Be’, prima di tutto ci vuole un ragazzo. Poi lui ti abbraccia stretta e respira affannosamente e poi ti bacia alla francese. È quando ti bacia e apre la bocca e ti ficca la lingua in bocca che...”
Un rumore squillante nelle orecchie cancellò il racconto di Ada Belle. Jean Louise sentì che il sangue lasciava il suo viso. I palmi delle mani cominciarono a sudare e lei si sforzò di deglutire. Non voleva andare via. Se fosse andata via avrebbero capito. Si alzò in piedi, cercando di sorridere, ma le tremavano le labbra. Chiuse ermeticamente la bocca e strinse i denti.
“...e questo è tutto. Che ti piglia, Jean Louise? Sei bianca come non ti abbiamo mai visto. Non ti ho spaventato, vero?” Ada Belle la guardò con un sorrisetto compiaciuto.
“No,” disse Jean Louise. “È solo che non ho più così caldo. Credo che andrò dentro.”
Pregò che non vedessero come le tremavano le ginocchia mentre attraversava il cortile della scuola. Nel bagno delle ragazze si piegò su un lavandino e vomitò.
Impossibile sbagliarsi, Albert le aveva ficcato la lingua in bocca. Era incinta.
Le spigolature di morali e costumi degli adulti racimolate da Jean Louise fino a quel momento erano poche ma sufficienti: si poteva avere un bambino senza essere sposate, questo lo sapeva. Non l’aveva saputo finora, e non si era curata di sapere come potesse avvenire, perché l’argomento non era interessante, ma se una ragazza avesse avuto un bambino senza essere sposata la sua famiglia sarebbe stata terribilmente disonorata. Aveva sentito Alexandra parlare a lungo delle Disgrazie che colpiscono le famiglie: “disgrazia” voleva dire essere spedite a Mobile e chiuse in una Casa lontano dalla gente perbene. La propria famiglia non avrebbe potuto camminare a testa alta, mai più. Un giorno era successo in fondo alla strada per Montgomery, e le signore all’altro capo della via ne risero e mormorarono per settimane.
Jean Louise odiava se stessa, odiava tutto il mondo. Non aveva fatto del male a nessuno. Era annichilita dall’ingiustizia di tutta la faccenda: non aveva mai voluto offendere nessuno.
Si allontanò furtivamente dalla scuola, girò l’angolo per andare a casa, zitta zitta si introdusse nel cortile, si arrampicò sull’albero dei rosari e vi rimase fino all’ora di pranzo.
Il pranzo fu lungo e silenzioso. A malapena Jean Louise si rese conto della presenza di Jem e Atticus. Dopo pranzo tornò sull’albero e vi restò fino al tramonto, quando si sentì chiamare. Era Atticus.
“Vieni giù,” disse. Troppo grande era la sua infelicità perché Jean Louise potesse reagire al ghiaccio che sentì nella sua voce.
“Miss Blunt ha telefonato per dire che hai lasciato la scuola durante l’intervallo e non ci sei più tornata. Dov’eri?”
“Sull’albero.”
“Non stai bene? Sai che se non ti senti bene devi andare subito da Cal.”
“No, signore.”
“Allora, se non sei malata, quale spiegazione puoi darmi del tuo comportamento? Hai qualche giustificazione?”
“No, signore.”
“Allora, lascia che ti dica una cosa. Se questa storia si ripeterà potrai dire addio alla Columbia.”
“Sì, signore.”
Aveva sulla punta della lingua quello che voleva dirgli, per liberarsi del suo fardello e scaricarlo sulle sue spalle, ma restò in silenzio.
“Sei sicura di sentirti bene?”
“Sì, signore.”
“Entra in casa, allora.”
A tavola per la cena, le venne voglia di tirare il piatto pieno in testa a Jem, un quindicenne che la batteva nel comunicare con suo padre come un adulto. Di tanto in tanto Jem le lanciava occhiate sprezzanti. Te la farò pagare, non temere, gli promise. Ma in questo momento non posso.
Si svegliava ogni mattina carica di energia come un gatto e con le migliori intenzioni, ma ogni mattina le tornava, sorda, la paura; ogni mattina cercava il bambino. Durante il giorno non era mai lontano dalla sua coscienza, presentandosi a intervalli nei momenti più inaspettati, sussurrandole cose e burlandosi di lei.
Cercò bambino nel dizionario e non trovò niente di utile; cercò nascita e c’era meno ancora. Rovistando qua e là trovò un vecchio libro intitolato Diavoli, farmaci e dottori ed ebbe quasi un silenzioso attacco isterico davanti alle illustrazioni di sedie per partorienti e strumenti chirurgici medievali, e alla notizia che certe volte, per farle partorire, le donne venivano sbattute ripetutamente contro il muro. A poco a poco raccolse informazioni dalle compagne di scuola, badando a intervallare le domande di settimane per non destare sospetti.
Evitò Calpurnia per tutto il tempo che poté, perché pensava che le avesse mentito. Cal aveva detto che quel problema lo avevano tutte le ragazze, che era una cosa naturale come respirare, che era il segno che stavano diventando grandi e che le avrebbero avute fino a cinquant’anni. Dopodiché, davanti alla prospettiva di essere ormai troppo vecchia per godere qualcosa della vita prima che finisse tutto, Jean Louise si sentì così travolgere dalla disperazione che si astenne dallo sviscerare la questione. Cal non aveva parlato né di bambini né di baci alla francese.
Alla fine Jean Louise tastò ancora il terreno facendole qualche domanda sulla famiglia Owen. Cal rispose che di quel signor Owen lei non voleva dire niente, perché non era degno di stare con gli altri esseri umani. Lo avrebbero tenuto in galera per un pezzo. Sì, la sorella di Francine era stata spedita a Mobile, povera bambina. Francine era all’orfanotrofio battista della contea di Abbott. E lei non doveva spremersi le meningi pensando a quella gente. Calpurnia si stava infuriando, e Jean Louise non aggiunse altro.
Quando scoprì che dovevano passare nove mesi prima che il bambino venisse al mondo, si sentì come un criminale condannato di cui avessero sospeso l’esecuzione. Contava le settimane segnandole su un calendario, ma non considerò il fatto che erano passati quattro mesi quando iniziò a fare i suoi calcoli. Mentre la data si avvicinava, passava le giornate in preda al terrore impotente di svegliarsi e trovare un bambino nel suo letto. Crescevano nello stomaco delle donne, di questo era sicura.
L’idea le frullava nella mente da un pezzo, ma se ne ritraeva istintivamente: la prospettiva di una separazione finale le riusciva insopportabile, ma sapeva che sarebbe venuto il momento in cui non sarebbe stato più possibile rinviare o nascondere tutta la faccenda. Anche se i suoi rapporti con Atticus e Jem erano arrivati al punto più basso (“Sei proprio sventata in questi giorni, Jean Louise,” aveva detto suo padre. “Non riesci a concentrarti su una cosa per cinque minuti?”), il pensiero di un’esistenza senza di loro, per bello che fosse il Paradiso, era insostenibile. Ma essere mandata a Mobile e costringere la propria famiglia a vivere a capo chino da quel giorno in poi era peggio: non l’avrebbe augurato nemmeno ad Alexandra.
Stando ai suoi calcoli, il bambino doveva nascere in ottobre; e il trentesimo giorno di settembre lei si sarebbe uccisa.
L’autunno arriva tardi in Alabama. Per Halloween si può ancora sedere sulla veranda senza la giacca pesante. I tramonti sono lunghi, ma viene buio all’improvviso; il cielo passa da un arancione spento a un blu nero prima che uno possa fare cinque passi, e con la luce se ne va l’ultimo soffio caldo della giornata, lasciandosi dietro una temperatura da stanza di soggiorno.
L’autunno era la sua stagione più felice. C’era come un’aspettativa dei suoi suoni e delle sue forme: il tonfo lontano del cuoio e dei giovani corpi che si allenavano sul campo di football vicino a casa sua le facevano pensare alle bande musicali e alla Coca-Cola ghiacciata, alle noccioline rinsecchite e alla vista del fiato vaporizzato che usciva dalla bocca della gente. C’era persino qualcosa da pregustare per quando fosse iniziata la scuola: la ripresa di vecchie faide e vecchie amicizie, settimane per imparare di nuovo le cose che si erano mezzo dimenticate durante la lunga estate. L’autunno era il momento della minestra calda da mangiare con tutto ciò che si era saltato la mattina quando si era troppo assonnati per gustarlo. Il suo mondo assumeva l’aspetto più bello quando stava arrivando il momento di lasciarlo.
Aveva già dodici anni e faceva le medie. La sua capacità di apprezzare il cambiamento dalla scuola elementare era limitata; non la entusiasmava l’idea di doversi recare in aule diverse durante la giornata a seguire le lezioni di insegnanti diversi, né sapere che aveva come fratello un eroe del remoto liceo. Atticus era a Montgomery nell’assemblea legislativa, Jem avrebbe potuto benissimo essere con lui, tanto rare erano le occasioni in cui lo vedeva.
Il trenta settembre lo passò tutto a scuola e non imparò niente. Alla fine delle lezioni andò in biblioteca e vi rimase fino al momento in cui il bidello entrò e le ordinò di uscire. Camminò lentamente per la città, per restare sola il più a lungo possibile. La luce del giorno svaniva quando attraversò il binario della vecchia segheria per andare al deposito del ghiaccio. Theodore, l’uomo del ghiaccio, la salutò mentre passava, e lei proseguì lungo la strada e si voltò indietro per guardarlo finché lui non entrò.
La cisterna dell’acqua della città era in un campo vicino al deposito del ghiaccio. Era la cosa più alta che avesse mai visto. Una scaletta portava da terra fino a una specie di piccolo ballatoio circolare.
Buttò i libri per terra e prese a salire. Quando fu più in alto degli alberi dei rosari nel prato dietro la sua casa abbassò lo sguardo, si sentì girare la testa e guardò in su per il resto dell’ascensione.
Tutta Maycomb si stendeva sotto di lei. Jean Louise pensò che poteva vedere la sua casa: Calpurnia stava facendo le focaccine dolci e Jem sarebbe tornato dall’allenamento di lì a poco. Guardò oltre la piazza e fu certa di aver visto Henry Clinton uscire dal Jitney Jungle con la spesa di qualcuno. Mise la roba sul sedile posteriore di una macchina. I lampioni si accesero tutti in una volta e lei sorrise, piena di una gioia improvvisa.
Si sedette sullo stretto ballatoio e dondolò i piedi nel vuoto. Perse una scarpa, poi l’altra. Si chiese quale funerale avrebbe avuto: la vecchia signora Duff sarebbe rimasta alzata per tutta la notte e avrebbe fatto firmare un libro alla gente. Jem avrebbe pianto? In tal caso, sarebbe stata la prima volta.
Si chiese se doveva fare un volo ad angelo o lasciarsi solo cadere dall’orlo del ballatoio. Se fosse caduta sulla schiena, forse non si sarebbe fatta molto male. Chissà se avrebbero mai capito quanto li amava.
Qualcuno l’afferrò. Jean Louise si irrigidì quando sentì delle mani che le inchiodavano le braccia ai fianchi. Erano quelle di Henry, macchiate di verde dagli ortaggi. Senza una parola, la raddrizzò e la spinse giù per la ripida scaletta.
Quando arrivarono in fondo, Henry le tirò i capelli: “Giuro su Dio che stavolta lo dico al signor Finch!” urlò. “Lo giuro, Scout! Non hai un briciolo di buonsenso a venire a giocare su questa cisterna? Avresti potuto ucciderti!”
Le tirò di nuovo i capelli, strappandogliene qualcuno: la scosse; si tolse il grembiule bianco, lo arrotolò e lo buttò per terra, rabbiosamente. “Non sai che avresti potuto ucciderti? Non hai un po’ di sale in zucca?”
Jean Louise lo guardava con aria inespressiva.
“Theodore ti ha visto lassù ed è corso dal signor Finch, e poiché non riusciva a trovarlo è venuto a cercarmi. Dio Onnipotente...!”
Quando la vide tremare capì che non era stato un gioco. La prese per la collottola, con dolcezza; mentre tornavano a casa cercò di scoprire cosa la tormentava, ma lei non volle dire nulla. La lasciò nel soggiorno e andò in cucina.
“Cos’hai fatto, piccola?”
Quando le rivolgeva la parola, la voce di Calpurnia era sempre un misto di affetto risentito e blanda disapprovazione. “Signor Hank,” disse. “Meglio che lei torni in negozio. Il signor Fred si starà chiedendo cosa le è successo.”
Calpurnia, masticando risolutamente un rametto di liquidambar, abbassò lo sguardo a Jean Louise. “Cos’hai combinato?” disse. “Cosa facevi su quella cisterna?”
Jean Louise non aprì bocca.
“Se me lo dici, non lo dirò al signor Finch. Cos’è che ti ha tanto scombussolato, bambolina?”
Calpurnia si sedette accanto a lei. Aveva superato la mezza età e il suo corpo si era un po’ ingrossato, i capelli crespi ingrigivano, e lei strizzava gli occhi per la miopia. Stese le mani in grembo e le esaminò. “Non c’è niente di così brutto a questo mondo che tu non possa dirlo,” disse.
Jean Louise si gettò tra le sue braccia. Sentì due mani ruvide massaggiarle le spalle e la schiena.
“Sto per avere un bambino!” singhiozzò.
“Quando??”
“Domani!”
Calpurnia la tirò su e le asciugò il viso con un angolo del grembiule. “Dove diavolo sei andata a pescare un’idea balorda come questa?”
Tra un singhiozzo e l’altro Jean Louise confessò la sua vergogna, senza omettere nulla, e pregando di non essere mandata a Mobile, né stiracchiata o sbattuta contro un muro. “Non potrei venire a casa tua? Ti prego, Cal.” Implorò Calpurnia di aiutarla di nascosto; avrebbero potuto portare via il bambino durante la notte, quando fosse arrivato.
“E ti sei tenuta questa cosa dentro per tutto questo tempo? Perché non hai detto niente?”
Jean Louise sentiva il braccio pesante di Calpurnia intorno al corpo, consolante quando non c’era consolazione. Sentiva Calpurnia mormorare: “...nessun diritto di riempirti la testa di baggianate... li ammazzerei se li avessi tra le mani”.
“Cal, tu mi aiuterai, vero?” disse lei timidamente.
Calpurnia disse: “Com’è vero che è nato il piccolo Gesù, bambina. Ficcati subito questo nella testa, non sei incinta e non lo sei mai stata. Non è questo il modo”.
“Ma se non è questo, io cosa sono?”
“Con tutti i libri che leggi, sei la ragazzina più ignorante che io abbia mai visto...” La sua voce si affievolì. “...ma non credo che tu ne abbia mai avuto veramente la possibilità.”
Lentamente e con ponderazione, Calpurnia le narrò la storia semplice. Mentre Jean Louise ascoltava, le rivoltanti informazioni che aveva raccolto in un anno si disposero in un disegno fresco e cristallino; la voce rauca di Calpurnia scacciava il terrore accumulatosi durante l’anno, e Jean Louise si sentì tornare in vita. Respirò profondamente e sentì in gola il fresco dell’autunno. Udì lo sfrigolio delle salsicce in cucina, vide la pila di riviste sportive del fratello sul tavolo del soggiorno, sentì l’odore agrodolce dell’acconciatura dei capelli di Calpurnia.
“Cal,” disse. “Perché non ho imparato prima tutto questo?”
Calpurnia aggrottò la fronte cercando una risposta. “Tu sei, come dire, un po’ indietro rispetto a noi, Miss Scout. Non hai ancora imparato tutto quello che devi sapere... Se fossi cresciuta in una fattoria, lo sapresti da prima di aver imparato a camminare, o se qui ci fossero state delle donne, se tua mamma non fosse morta, l’avresti saputo...”
“Mia mamma?”
“Sissignora. Avresti visto delle cose, come tuo padre che bacia tua madre, e avresti fatto delle domande subito dopo aver imparato a parlare, scommetto.”
“Lo facevano anche loro?”
Calpurnia mostrò i molari incapsulati d’oro. “Benedetta bambina, come credi di essere venuta al mondo? Certo che lo facevano.”
“Be’, io non ci credo.”
“Piccola mia, dovrai crescere ancora un po’ prima che questo ti sembri sensato, ma i tuoi genitori si amavano appassionatamente, e quando ami una persona in questo modo, Miss Scout, accidenti, è questo che vuoi fare. È la cosa che vogliono fare tutti quando sono molto innamorati. Vogliono sposarsi, vogliono baciarsi e abbracciarsi e fare festa e avere tanti bambini.”
“La zietta e zio Jimmy non credo che lo facciano.”
Calpurnia si aggiustò il grembiule. “Miss Scout, la gente si sposa per tanti motivi diversi. Miss Alexandra, credo che si sia sposata per governare la casa.” Calpurnia si grattò la testa. “Ma questa è una faccenda che non ti riguarda e di cui non ti devi preoccupare. Non occuparti degli affari altrui finché non hai provveduto a sistemare i tuoi.”
Calpurnia si alzò in piedi. “Non devi prestare attenzione a quello che dicono le ragazze di Old Sarum: questi sono i tuoi affari in questo momento. Nessuno ti chiede di contraddirle, basta che non gli dai retta... e se vuoi sapere qualcosa, corri dalla vecchia Cal.”
“Perché non mi hai detto subito tutto questo?”
“Perché con te le cose sono cominciate troppo presto, e non sembrava che ti interessassero tanto, e abbiamo pensato che sarebbe stato così ancora per un po’. Il signor Finch diceva di aspettare che ti fossi abituata all’idea, ma non avevamo immaginato che lo scoprissi così in fretta e in un modo così sbagliato, Miss Scout.”
Jean Louise si stirò voluttuosamente e sbadigliò, felice della propria esistenza. Le stava venendo sonno e non era sicura di riuscire a stare sveglia fino all’ora di cena. “Abbiamo le focaccine calde stasera, Cal?”
“Sissignora.”
Sentì sbattere la porta d’ingresso e i passi pesanti di Jem nel corridoio. Stava andando in cucina, dove avrebbe aperto il frigorifero e trangugiato un litro di latte per spegnere la sete che gli era venuta durante l’allenamento. Prima di appisolarsi, osservò tra sé che per la prima volta in vita sua Calpurnia si era rivolta a lei dicendo “sissignora” e “Miss Scout”, le formule solitamente riservate alle persone importanti. Si vede che sto invecchiando, pensò.
Jem la svegliò quando accese la luce nella stanza. Lo vide camminare verso di lei, col rosso cupo della grossa M che spiccava nettamente sul bianco della maglia.
“Sei sveglia, piccola Tre Occhi?”
“Non essere sarcastico,” disse lei. Se Henry o Calpurnia facevano la spia sarebbe morta, ma li avrebbe portati con sé.
Guardò bene suo fratello. Aveva i capelli umidi e odorava del sapone forte degli spogliatoi della scuola. Meglio essere la prima a dare battaglia, pensò.
“Uh, hai fumato,” disse. “Si sente lontano un miglio.”
“No.”
“Non capisco come puoi fare l’attaccante, mingherlino come sei.”
Jem sorrise e non accettò la sfida. Gliel’hanno detto, pensò lei.
Jem si batté una mano sulla M. “Il vecchio Finch non ne manca uno, ecco quello che dicono di me. Ne ho fermati sette su dieci, oggi pomeriggio,” disse.
Andò al tavolo e raccolse una rivista di football, l’aprì, la sfogliò, e stava sfogliandola di nuovo quando disse: “Scout, se dovesse succederti qualcosa... sai, qualcosa che non vuoi dire ad Atticus...”.
“Eh?”
“Sai, se a scuola hai qualche problema o qualcosa... basta che me lo fai sapere e ci penso io.”
Jem uscì dal soggiorno col suo passo lento, lasciando Jean Louise a domandarsi, con gli occhi spalancati, se era per davvero completamente sveglia.
1 Grande truffatore e falsario del Sud attivo tra Ottocento e Novecento.[N.d.T.]