CAPITOLO 6

CARNEVALE CON DELITTO

Venerdì, 4 marzo 1938

Era arrivato finalmente il venerdì del sospirato veglione dei giornalisti al teatro Odeon.

Anche se disponeva dell’abito e degli accessori, Olimpia era inquieta. Dava la colpa al tempo, allo scirocco afoso che da giorni investiva la città e aveva perfino fatto spuntare fuori stagione le gemme sugli alberi.

In realtà ad agitarla erano i suoi pensieri: non aveva più visto Sandro Piccardi dalla sera di lunedì e temeva che si fosse pentito. Sapeva che il suo orgoglio non avrebbe sopportato di aspettarlo invano davanti al locale.

E ammesso che al veglione fosse andato tutto bene, si chiedeva, come si sarebbe comportato Sandro dopo?

C’erano vari problemi da risolvere con astuzia. A sua madre aveva detto che era stata invitata alla festa in casa della collega Vanna e che avrebbe fatto tardi perché era in programma una grande tombola. E doveva prepararsi fuori casa, per non suscitare troppe domande a causa dell’abito che avrebbe indossato.

Sua madre, povera donna, le lasciava una certa libertà di movimento, perché con la stanchezza che aveva sempre addosso non avrebbe potuto starle dietro e sapeva che Olimpia non era una sciocca, ma quell’abito sfarzoso l’avrebbe messa in apprensione.

Alla mattina Olimpia era uscita alla chetichella infilandosi il suo bel cappotto nero e reggendo una borsa da viaggio prestata dalla Serra, con abito e accessori. Aveva annunciato che non sarebbe tornata a casa alla fine del lavoro, perché doveva andare da Vanna a dare una mano per la festa.

La sera, una volta fuori dal laboratorio, rimase invece a ciondolare per le vie del centro, guardando le vetrine, fin verso le otto, quando scese le scale dei bagni pubblici di piazza Duomo, vicino alla Galleria.

C’era già stata altre volte, nonostante il prezzo, per prendersi il piacere di un bagno fumante in una grande vasca, mentre a casa sua doveva accontentarsi di una scomoda tinozza.

Le piacevano il decoro del locale, i banchi di ricevimento in legno intarsiato, il pavimento splendente di marmi policromi, il profumo raffinato nell’aria.

Quando l’inserviente la fece accomodare in una stanza da bagno calda di vapori e lei si immerse nella vasca colma d’acqua bollente, chiuse gli occhi e si sentì una signora. A poco a poco i suoi nervi si calmarono e si dispose a godersi l’insolita serata.

Uscì dal locale un’ora dopo trasformata come Cenerentola, e tale si sentiva. I capelli, divisi da una scriminatura centrale, le formavano un nodo pesante sulla nuca e due lunghi boccoli le cadevano ai lati del viso. Un velo di cipria le impreziosiva il volto su cui spiccava il verde degli occhi messo in risalto dalla matita; l’abito, illuminato dalla collana di strass, accompagnava senza strizzarla la sua silhouette slanciata. Il solito cappotto nero che indossava non sfigurava su tanta grazia. In una mano stringeva la busta di raso, nell’altra la borsa da viaggio con i suoi vestiti.

Nel breve tratto sotto i portici di piazza Duomo, fra i bagni pubblici e via Santa Radegonda, dove si apriva l’Odeon, fece in tempo a notare che signori di ogni età si voltavano a guardarla.

Un giovane in abito da sera le si avvicinò esclamando: «Dai un bacio alla tua mamma, che ti ha fatto così bella!». Un gruppo di distinti signori la fece oggetto di un educato lancio di stelle filanti, altri due le chiesero di poterla accompagnare.

Olimpia procedeva a testa alta con un contegno da regina e si accorse che le esternazioni di ammirazione includevano tutte un certo rispetto. L’abito fa il monaco eccome, si sorprese a pensare.

Sandro per fortuna era già in attesa davanti al teatro, dove entravano a gruppi persone in abito da sera e in maschera. Al vederla rimase incantato, con un’espressione stupita sul volto, ma non fece domande e la salutò con un casto bacio su una guancia.

Olimpia lasciò borsa e cappotto al guardaroba e un cameriere li fece accomodare al loro tavolo.

Il locale era fantastico: per tutta la settimana, come le spiegò Sandro, operai e pittori avevano lavorato alla decorazione del Giardino d’Inverno, cuore della festa. Il salone centrale era ornato di pannelli dipinti con scene di carnevale, mentre dal soffitto pendeva una rete di festoni colorati. Intorno si aprivano altre cinque grandi sale con tavoli per la cena e piste da ballo, anch’esse decorate. Dappertutto, ceste di coriandoli, cotillon, palline colorate destinate a rallegrare le danze.

La lasciarono a bocca aperta i gruppi mascherati con sfarzosi costumi orientali, alcune sirene avvolte in tessuti azzurri come il fondo del mare, i principi delle nevi, con spumosi abiti bianchi cosparsi di cristalli a gocce. Chissà quanto costavano quei costumi, destinati a essere indossati poche ore!

Le più belle ragazze di Milano esibivano eleganti toilette, ma Olimpia per una volta non si sentiva da meno.

Era una buona ballerina e non esitò a lanciarsi nelle danze. Sandro purtroppo non teneva bene il tempo e all’inizio il piacere del ballo ne risentì. Ma c’erano tante cose da vedere!

Sandro le indicò, nella sala centrale, il tavolo della giuria che avrebbe premiato i migliori costumi. Qua e là per le sale si accendevano ogni tanto, tra gruppi di maschere, battaglie a colpi di coriandoli, bibite dissetanti erano offerte al bar ai ballerini accaldati.

All’una di notte, mentre si riposavano seduti al tavolo sorseggiando spumante italiano, furono circondati da un gruppetto di amici di Sandro.

«Ecco perché non ti sei fatto vedere al nostro tavolo» esclamò uno.

«Lo credo, doveva tenere nascosto questo tesoro» aggiunse un altro.

«Chi è questa bella signorina?» chiese un terzo.

Sandro fece le presentazioni di malavoglia.

«Ora devi permetterci di ballare con lei» impose un giovane di nome Gianni.

Olimpia lo accontentò. Gianni ballava benissimo, sapeva eseguire le figure del tango, si scatenava nei foxtrot. Poi fu la volta degli altri, e per un’ora lei volteggiò per le sale leggera come una libellula, forse un po’ ubriaca, divertente, spiritosa.

Alle due servirono la cena e Olimpia raggiunse Sandro, che appariva seccato. «Non ti sarai offeso» lo rabbonì. «D’ora in avanti ballerò solo con te.» Si sentiva una regina in grado di dispensare o negare i suoi favori.

Dopo cena fu la volta dei balli lenti, e Sandro cominciò a stringerla. In fondo, pensava Olimpia infastidita, era solo la terza volta che si vedevano, e si conoscevano ben poco. Sandro aveva parlato di tante cose: dei suoi studi, della famiglia, dei viaggi che aveva fatto, del partito, ma mai nulla di intimo. Ora, invece, sulle note di Non dimenticar le mie parole, sembrava aver trovato la sua vena romantica, e lei non sapeva se esserne lusingata o preoccupata.

«Non ho mai incontrato una donna come te» le disse accostando il viso al suo. «Con te potrei stare giornate intere senza desiderare altro che guardarti.»

Le luci si erano abbassate e le coppie si stringevano sempre più.

«Ti amo, Olimpia! E tu cosa provi per me? Vuoi essere la mia ragazza?»

«È troppo presto, Sandro» sussurrò lei. «Certo, ti voglio bene, sei così caro con me.»

Sandro la stringeva sempre più, le baciava leggermente le guance, trovò la bocca, cercò di premerla contro la sua.

Olimpia sospirò, si trovò coinvolta anche lei nel turbamento, gli permise una carezza sul seno, un altro bacio.

Sandro era visibilmente agitato, si staccò da lei. «Così è un tormento» esclamò. «Andiamo a passeggiare fuori, poi ti porto a casa.»

La ragazza si stupì ma non volle contrariarlo, le girava leggermente la testa.

Si trovarono sotto i portici di corso Vittorio Emanuele, lei col cappotto e la borsa da viaggio ritirati al guardaroba, lui senza soprabito a causa del caldo afoso.

«Ho lasciato la macchina sotto casa mia, in piazza San Babila» la informò. «Sono appena due passi, andiamo.»

Tenendosi per mano, raggiunsero la piazza. Sandro abitava nel grattacielo di recente costruzione. «Ti va di salire? Ti presento ai miei genitori» le propose con disinvoltura.

«Ma a quest’ora staranno dormendo» obiettò Olimpia.

«No no, erano anche loro a una festa. Vieni» la invitò quasi spingendola nell’ascensore.

L’appartamento era enorme, arredato nello stile Novecento di moda, con un vasto salone dai grandi divani bianchi. Dalla parete a vetrata si godeva un panorama fantastico sulla città illuminata.

Dei genitori non c’era traccia.

«Si vede che non sono ancora tornati» spiegò Sandro. «Siediti che ti offro una bibita.»

Olimpia lo vide armeggiare dietro al bar che occupava un angolo del locale e tornare con due bicchieri di whisky con ghiaccio. Era già un po’ brilla, ma sorseggiò volentieri la fresca bevanda dal sapore nuovo; pensò che ben pochi, con le sanzioni in atto, potevano permettersi liquori stranieri.

Sandro sedette vicino a lei e cominciò a carezzarla sulla nuca. «Cara» le mormorava. «Ti amo da impazzire.»

Olimpia si schermiva con poca convinzione, era quasi ubriaca.

Il giovane si fece ardito, la avvicinò a sé, prese lentamente a baciarla sul collo, le scoprì lentamente il seno, lo percorse con la lingua.

Olimpia era stordita, lasciava fare. Era la prima volta che qualcuno la carezzava così intimamente, provava sensazioni nuove e travolgenti. «I tuoi genitori…» riuscì solo a balbettare.

«Non tornano fino a domani, stai tranquilla» ansimò lui.

L’aveva adagiata sul divano e le baciava ancora il seno mentre una mano si insinuava tra le cosce. Olimpia si sentì sfilare le mutandine, e quando lui iniziò a sfiorarla intimamente, dalle proprie labbra udì uscire un lamento sconosciuto.

Poi lui le alzò la gonna e, sempre carezzandola, le allargò le gambe.

In quel momento Olimpia si sollevò e guardò verso il basso. Vide Sandro con i calzoni calati e il pene irrigidito che spuntava tra i lembi della camicia, sotto il ventre abbondante.

«No!» gridò tornando di colpo alla realtà e provando un moto di repulsione. «No! Così non voglio!»

Sandro la spinse di nuovo giù e le si buttò sopra. Olimpia si divincolò, sparita ormai ogni magia, e se lo scrollò di dosso.

«Porca puttana» lo udì imprecare. «Che scherzo è questo? Non fare storie e lasciati scopare!»

«No» insistette Olimpia. «Basta così, adesso vado a casa.»

«Dove credi di andare?» ribatté il giovane, incattivito. «Non penserai di prendermi in giro? Non ti è bastato il veglione? O magari per scopare vuoi dei soldi? Sentiamo: qual è la tua tariffa?»

Olimpia era impietrita. «Tariffa? Ma cosa stai dicendo? Hai detto che mi ami…»

«Non fare l’ingenua. Non venirmi a dire che non sapevi cosa si fa in questi casi dopo una festa; hai perfino accettato di venire a casa mia» ringhiò Sandro ricomponendosi gli abiti.

«Ma avevi detto che c’erano i tuoi genitori…» si difese lei.

«E tu hai fatto finta di crederci! E adesso cosa vuoi?»

«Niente, io credevo…» balbettò Olimpia.

«Cosa credevi? Che ti avrei presentato a mamma e papà, ti avrei regalato un anello con brillante e avrei chiesto la tua mano? Credi alle favole? Lo sai cosa direbbe mio padre se gli portassi una modista come fidanzata? E poi la fidanzata ce l’ho già, ed è la figlia di un sottosegretario del partito.»

«E allora io…?»

«Tu, tu… Avere un’avventura con uno ricco non è il sogno di tutte le tue amiche? Ascolta» propose ingentilendo il tono. «Mettiamoci d’accordo: tu ti lasci scopare ogni tanto, e io ti regalo qualche vestito, ti porto nei bei locali, magari anche una settimana al mare, in albergo.»

Olimpia era livida, mai si era sentita offesa a quel modo. Lei, che non era mai stata con un ragazzo, trattata come una sgualdrina da due soldi!

«Non sono quel tipo di ragazza» rispose con quel po’ di dignità che le rimaneva. «E adesso accompagnami a casa.»

«A casa ci vai da sola!» urlò Sandro ridiventato furioso. Le gettò in braccio borsa e cappotto, la spinse in malo modo sul pianerottolo e chiuse con un tonfo la porta.

Olimpia si ritrovò in piazza San Babila senza sapere come aveva fatto a trovare l’uscita del palazzo. Era stranita e furibonda col mondo intero e con se stessa.

Infilò una stradina buia diretta in via Larga perché, anche se in giro c’era poca gente, non voleva farsi vedere da nessuno.

E lì, nell’arco di un portone, rincantucciata contro lo spigolo, scoppiò in singhiozzi irrefrenabili.

Le sue illusioni erano crollate.

Avvertiva di essere stata disprezzata, trattata come una cosa di poco valore, e questo le era successo la prima volta che si era trovata a contatto con l’alta società, nell’ambiente che era il suo unico oggetto di interesse, dove desiderava più di ogni altra cosa essere accolta e trionfare.

Si guardò intorno nella viuzza e, per la prima volta, ebbe paura di incontrare un malintenzionato. Con quell’abito da sera, nel cuore della notte, avrebbe richiamato l’attenzione.

Provò con una mano il portone e scoprì che era solo accostato. Si infilò nell’atrio, si nascose sotto la curva delle scale e in fretta e furia rimise i suoi panni.

A casa, al sicuro nel suo letto, rimase sveglia a lungo meditando. Capì perché la signora Serra, come la povera Gilda, che di uomini aveva esperienza, e il suo amico Tonino l’avessero messa in guardia. Loro sapevano che un ragazzo ricco non si lega mai a una popolana, sapevano che le favole non sono realtà.

Solo lei aveva creduto di essere accettata alla pari. E in virtù di che cosa? Della sua bellezza. Cos’altro aveva da offrire? Ora lo comprendeva con chiarezza: non aveva cultura, non sapeva conversare, non sapeva vestire. Era una ragazza, come diceva Sandro, da scopare e basta.

Già, Sandro: a pensarci bene intuiva, anche se non avrebbe saputo esprimerlo a parole, che la disperazione scaturiva dall’offesa arrecata alla sua vanità. Eppure avrebbe dovuto aspettarselo: anche lei si era chiesta, prima del veglione, cosa sarebbe successo dopo, anche lei si era posta domande sul comportamento del ragazzo.

E c’era un’altra cosa che aggiungeva frustrazione a frustrazione: la coscienza che, sollecitata sessualmente, anche lei aveva quasi perso la testa. Lei, che aveva sempre disprezzato quelle che si facevano mettere incinte, ora capiva la forza malefica del sesso. Almeno aveva imparato la lezione in tempo e avrebbe saputo farne tesoro.

Era una storia solo da dimenticare. Per fortuna, a parte la Serra, ne aveva fatto parola soltanto con la Fernanda: poteva dirle che non aveva trovato il vestito e aveva rinunciato al veglione. Il giorno dopo sarebbe andata alla chetichella a restituire l’abito alla cantante e sarebbe stato come se nulla fosse successo.

No, continuava a pensare rigirandosi nel letto senza pace, non poteva fare finta di niente. Adesso era certa che doveva dare una svolta alla sua vita, che continuando a lavorare nella modisteria a poco a poco si sarebbe spenta, rassegnata al suo mediocre destino.

Da tanto sognava di partire, di tentare di fare cinema. In quell’ambiente la sua bellezza era un valore e sarebbe stata apprezzata, ma aveva sempre avuto paura del salto nell’ignoto. Ora questa paura era contrastata da quell’altra, la paura di morire dentro, di diventare come le donne della sua classe sociale.

Era il momento di risolversi, di andare a Roma alla ventura, e se i suoi tentativi di sfondare fossero falliti, a tornare indietro era sempre in tempo.

Sarebbe partita per Roma al più presto: ad agosto avrebbe compiuto vent’anni e la gioventù non è eterna.

Già, ma in pratica come poteva fare? Non era tanto ingenua da illudersi che le porte del cinema le si sarebbero dischiuse per incanto. Come si faceva a entrare nell’ambiente?

Poteva tentare facendo la comparsa, e poi? Di sicuro aveva bisogno di un po’ di quattrini, per pagarsi i primi mesi una camera ammobiliata, qualcosa da mangiare, qualche vestito decente.

Da tempo metteva da parte le mance, ma in tutto possedeva trecento lire, una miseria. Le sarebbero occorse tre, quattromila lire almeno, uno sproposito per la sua famiglia, che non aveva mai visto tanto denaro tutto insieme.

Dove trovarle? L’unica speranza era Anita Serra, che l’aveva sempre incoraggiata: le avrebbe chiesto il denaro in prestito e anche un consiglio su cosa fare. In fondo una somma del genere cos’era per lei? Sì, la Serra non l’avrebbe tradita, doveva andare da lei e tutto si sarebbe risolto.

E su questo pensiero prese finalmente sonno alle luci dell’alba.

Alle sei del pomeriggio di sabato Olimpia suonava al cancello della villa di via Vivaio dove abitava Anita Serra. Nella borsa da viaggio portava, ben piegato, l’abito accompagnato dagli accessori.

Venne ad aprire la cantante stessa. Come aveva raccontato qualche giorno prima era sola, dato che i suoi domestici avevano la serata libera e i suoi adoratori, anche i più affezionati e fedeli, dovevano dedicare alla moglie l’ultimo veglione di carnevale.

Anita però non sembrava avvilita, anzi, avvolta in una fataleggiante vestaglia di raso color avorio, aveva l’aria di godersi quella serata di libertà. La sua andatura tuttavia era un poco incerta e gli occhi apparivano insolitamente brillanti.

«E il veglione?» le chiese facendola sedere nel salottino privato, dove su un tavolo campeggiavano una bottiglia di liquore e un raffinato bicchiere inciso. «Ho letto sul giornale che è riuscito benissimo.»

Olimpia abbassò il capo. «Per me non è stato un successo» ammise. «Ero bella, elegante come una vera signorina, eppure quel bel tipo di Sandro mi ha considerato solo come una da… scopare… E forse anche i suoi amici, se ne avessero avuta l’occasione…» E raccontò le vicende della sera prima.

«Be’, non ti aspettavi, spero, che chiedesse la tua mano» osservò acidamente la Serra, accendendosi una sigaretta che aveva infilato nel lungo bocchino di avorio.

Olimpia rimase urtata dal suo tono, di solito la cantante era più comprensiva. «No, no» replicò. «Mi sono stupita perché prima non si era mai fatto avanti, e mi si è buttato addosso così, all’improvviso… Per farmi salire in casa ha perfino detto di volermi presentare ai genitori…»

«E tu ci hai creduto?» la derise l’altra. «A vent’anni è ora che ti svegli.»

Olimpia era sconcertata: pensava di trovare nella donna matura la comprensione di una madre e invece si trovava oggetto di scherno. «Mi ha perfino promesso di comperarmi qualche abito, di fare qualche viaggio, se divento la sua amante» si difese.

Anita scoppiò in una lunga, irrefrenabile risata. «Abiti, viaggi?» esclamava tra i sussulti. «Sei incappata nel tizio più pitocco di Milano. Una ragazza di vent’anni, bella come te, questo spilorcio la ricompensa con qualche straccetto? Se proprio vuoi seguire quella strada» proseguì senza accorgersi che Olimpia si era messa silenziosamente a piangere, «ricordati che il tuo valore di mercato è molto più alto. Magari sei ancora vergine.»

Lei annuì.

«E allora per te non è adatto uno studente, ci vuole un signore ricco che ti regali un bell’appartamento e ti mantenga con tanto di auto e domestica, ti consenta di fare risparmi, ti comperi gioielli.»

«No» la fermò Olimpia. Anita bevve un sorso di liquore. «Non voglio questo. Voglio diventare una diva come lei.»

«Se credi che sia facile, carina» la interruppe la cantante. «Io sono stata, anzi sono ancora, una diva, ma me lo sono guadagnato.»

«Ma lei mi ha sempre detto di tentare con il cinema.»

«Eh, il cinema, il cinema; anche lì bisogna conoscere qualcuno, saper fare qualcosa.»

Olimpia si era resa conto che per la Serra non era la serata giusta: sembrava una persona diversa da quella che conosceva, era mezza brilla e polemica.

Eppure lei non voleva rinunciare a chiedere aiuto, voleva andarsene al più presto da Milano, finché era pungolata dalla rabbia. Decise di rabbonirla.

«Mi piacerebbe tanto, signora, sapere come ha fatto a diventare una grande diva.»

Olimpia aveva toccato il tasto giusto. Anita iniziò a rievocare gli esordi della sua carriera, quando studiava canto e ballo; omise di specificare chi le pagava le lezioni ma si soffermò sul periodo in cui, negli anni Venti, furoreggiava sui palcoscenici.

«Figurati che allora tutti impazzivano per l’Operetta, e a parte gli autori viennesi come Franz Lehár, da noi ne hanno scritte anche Puccini e Mascagni! Io ho cantato nel Paese dei campanelli, nella Duchessa del Bal Tabarin, nel Sogno di un valzer e in tante altre. Pensa che quando qui a Milano, al teatro Dal Verme, interpretavo la Vedova allegra, al finale del secondo atto uscivo sul palco tra un mare di fiori, e nel camerino c’era sempre qualche astuccio di gioielli ad attendermi. Eh sì, quanti gioielli mi hanno regalato, e li ho ancora tutti! Ho cantato a Roma al Salone Margherita, a Parigi, a Vienna, in Argentina, dove un vaquero voleva sposarmi a tutti i costi: possedeva praterie grandi come tutta l’Italia. A Madrid incontrai un maharajah indiano che mi regalò una collana tempestata di gemme purissime ordinata a Parigi, un tesoro della Corona. Quando lui partì, arrivarono i suoi ministri in delegazione per riaverla, ma io ho tenuto duro e non l’ho mai restituita.»

L’idea del tira e molla con la collana fece ridere Olimpia. «E poi?» la sollecitò, presa dal racconto.

«Dopo il 1930» continuò Anita, «l’Operetta è passata di moda e furoreggiava la Rivista. Da Parigi, al teatro delle Folies Bergères, a Londra, dagli Stati Uniti alla Spagna, tutti volevano vedere spettacoli con scenografie lussuose, ballerine seminude, scenette di comici, numeri di canto. Io per fortuna ero ancora giovane e, oltre a saper cantare, sapevo ballare e avevo un bel fisico; sono diventata una famosa soubrette. Ancora pochi anni fa, nei Quattro moschettieri interpretavo D’Artagnan e, avvolta in un mantello, con un cappello piumato, mi gettavo in scena dalla prua di un veliero. Il teatro veniva giù dagli applausi, le repliche durarono mesi. Poi mi sono esibita di nuovo in giro per il mondo. Adesso sono abbastanza ricca per scegliere solo i teatri di Milano; al massimo vado a Torino o a Roma, dove di recente è venuto a congratularsi con me in camerino il ministro della Cultura Popolare, Pavolini in persona. E ancora, quando appaio in scena, all’Arcimboldi, all’Eden, quello che ha la sala tutta bianca e oro, o al Filodrammatici, il teatro va in delirio.»

La rievocazione l’aveva commossa e ingollò un altro sorso di liquore.

Olimpia aveva sete ma non osò chiedere nulla per non spezzare l’atmosfera. «Io voglio partire per Roma» riuscì a dire. «E una volta là cosa devo fare?»

La Serra si riscosse come uscendo da un sogno. Sembrava avesse messo finalmente i piedi per terra.

«Devi studiare, Olimpia, prima di tutto devi andare a lezione. Trovati una camera ammobiliata e dedica i primi sei mesi allo studio: canto, ballo, recitazione. E impara a vestire, inventati uno stile tutto tuo.»

«Lei ha qualche indirizzo da suggerirmi?»

«La scuola di danza: vai dal maestro Floriani, in via della Penna, è il migliore di tutti. Se hai stoffa, se lui crede nelle tue possibilità, ti consiglierà a chi altro rivolgerti.»

Era già qualcosa. «Io non ho vestiti» continuò Olimpia abbassando gli occhi: chiedere l’elemosina le riusciva difficile. «Lei non avrebbe da darmi qualcosa che non mette più?»

«Ah, sei a questo punto!» osservò la Serra impietosa. «Ma sì» continuò, «vieni che guardiamo, ho sempre qualcosa da scartare.»

La condusse su per le scale nella grande stanza guardaroba del secondo piano, accese le luci e cominciò a spalancare gli armadi.

Da fuori si udivano gli schiamazzi dei passanti, i primi spari di mortaretti, i sibili delle prime girandole.

Anita era tutta intenta a selezionare i suoi capi e una rapida ricerca era stata sufficiente per ammucchiare su una sedia vestiti, tailleur, camicie, scarpe che Olimpia guardava con avidità. Aggiunse un paio di abiti da sera.

«Che meraviglia» balbettò. «Come potrò mai ringraziarla? Purtroppo ho anche un altro problema…»

«Ancora? Ma mi hai preso per la fata turchina?»

E la cantante si sedette sulla poltrona accendendo l’ennesima sigaretta e giocherellando con l’accendino d’oro mentre la scrutava in volto.

«Non so come dirglielo» confessò Olimpia, in piedi davanti a lei, a occhi bassi. «Ma non ho nemmeno soldi. I miei sono poveri, non possono darmi niente. Per i primi mesi mi servirebbero tre, quattromila lire, finché mi sistemo e trovo qualche lavoretto. Poi glieli restituisco, glielo giuro!»

La Serra si era irrigidita. Spense con rabbia la sigaretta. «Altro che consigli! Così sei venuta per i soldi! E speravi di incantarmi facendomi raccontare le mie glorie. Ma lo sai cosa facevo io alla tua età, prima di sfondare? Non andavo a infastidire la gente, mi arrangiavo dando via quello che avevo, usando la testa, si capisce. Ma già, tu sei una ragazza seria, non ti vuoi abbassare!»

Olimpia ammutolì davanti a quella sfuriata inaspettata.

«Tutte quelle moine!» Ora Anita urlava, era tirata, volgare, quasi brutta. «Solo per i soldi! Tutti mi stanno intorno solo per i soldi!»

«La prego, signora» Olimpia ormai piangeva apertamente. «Le restituirò tutto.» Era la sua unica via di fuga, e teneva duro. «Non mi dimenticherò mai di quello che fa per me.»

Alla fine Anita cedette. «Non sognarti però che ti dia quattromila lire; io i soldi me li guadagno duramente, cosa credi? Solo perché siete giovani pensate di avere diritto a tutto…»

Si avvicinò a una parete tra due finestre e fece ruotare lo specchio che la occupava. Dietro apparve una grande cassaforte a combinazione che lei aprì con destrezza.

Olimpia sbirciò con curiosità fra le lacrime: sul ripiano a metà altezza erano impilate una serie di mazzette di banconote, non ne aveva mai viste così tante tutte insieme. Poi astucci di gioielli a non finire e una grande ciotola d’argento con bracciali, spille, collane alla rinfusa.

La Serra prese una mazzetta e gliela porse. «Sono mille lire, fattele bastare e trovati un lavoro appena arrivi a Roma» disse aspramente. «Adesso ho bisogno di bere qualcosa in pace. Tu raccatta i tuoi stracci e levati dai piedi.»

Così dicendo scese a rifornirsi di liquore nel salottino.

Olimpia rimase sola davanti alla cassaforte. Lì c’era abbastanza denaro da risolvere tutti i suoi problemi. Si sorprese a pensare che la signora non si sarebbe nemmeno accorta se avesse preso qualche mazzetta in più. Gettò uno sguardo alla porta e uno al contenuto della cassaforte. Notò che vicino al denaro la cantante teneva una pistola.

Olimpia non aveva mai rubato, allungare la mano era difficile, bisognava avere l’abitudine. A lei mancava il coraggio. Ma di quel denaro aveva un enorme bisogno: mille lire non bastavano per la sua avventura. Le batteva il cuore. Avrebbe restituito tutto, era solo un prestito.

La mano si allungò da sola, afferrò quattro mazzette…

«Ladra!» L’urlo di Anita Serra, sul vano della porta, la bloccò. Era tornata su in silenzio.

A Olimpia cadde il denaro dalle mani.

«Sei anche una ladra, oltre che ingrata! E io che mi commuovo sempre! Adesso cosa speri, di farla franca?» Era rossa in viso e stravolta. «Adesso ti dico io dove ti mando, altro che a Roma!» Afferrò il ricevitore del telefono sul tavolino. «Vieni qui a infastidirmi, ti riempio di vestiti, ti regalo i soldi, e tu che fai? Mi derubi! In galera devi andare! Ora telefono alla Polizia.»

Olimpia era impallidita come una morta, la scuoteva un tremito invincibile. La galera! Tutta la sua vita rovinata, altro che speranze di cinema.

«La prego, signora» riuscì a balbettare. «Rimetto tutto a posto e me ne vado, non mi vedrà più, ma non chiami la Polizia!»

«Ah no? Speri di cavartela? Non mi conosci, non conosci Anita Serra. Se non sapessi difendermi non sarei arrivata così in alto! La feccia come te deve stare in galera.»

«La prego…» insistette Olimpia con voce ormai fioca; si sentiva venire meno.

La Serra cominciò a comporre un numero. Olimpia si appoggiò alla cassaforte alle sue spalle per non cadere, tremava sempre più. Avvertì qualcosa di duro sotto la mano, la afferrò. Era la rivoltella.

Le venne istintivo brandirla come nei film.

«Signora!» Sentì la sua voce come provenire da lontano. «Metta giù il telefono o sparo.»

Anita si voltò per metà, la vide con la pistola in mano. «Anche la scena madre» ghignò. «Cosa speri, di farmi paura con un’arma scarica?» E le volse di nuovo le spalle per terminare il numero.

La pistola sembrò sparare da sola.

Olimpia vide l’arma emettere due lingue di fuoco, gli spari si confusero con i mortaretti di carnevale.

Anita Serra stramazzò sul tavolino, due rose di sangue si allargarono sulla vestaglia, il ricevitore del telefono le penzolava accanto.

«Non era scarica» esclamò Olimpia assurdamente. «E adesso?»

Aveva ammazzato la Serra! Ora sì che era rovinata. Cosa le sarebbe capitato? Sarebbero venuti a prenderla i carabinieri, poi il processo, la prigione a vita. Doveva fuggire subito, che non la trovassero più. Doveva rifugiarsi in un posto sicuro, cambiare nome, sparire…

Guardò il cadavere ai suoi piedi e non dubitò che la cantante fosse morta: la posa abbandonata, il sangue, gli occhi già vitrei, i famosi capelli biondi sparsi intorno alla testa come una corona.

Non provò pietà, non era la donna gentile e generosa che aveva creduto fosse, era gretta e meschina, pensò che se lo era meritato.

A poco a poco smise di tremare, si impose di calmarsi e di pensare lucidamente. Era andata così, ora doveva fare di tutto per salvare se stessa.

Sentiva il bisogno di un sorso di liquore, ma le venne in mente, dai film che aveva visto, che gli assassini si tradiscono per le tracce che lasciano. Rinunciò anche se aveva la bocca arida.

Si rese conto in breve che non c’era nessun motivo perché Polizia o carabinieri arrivassero ad arrestarla. La Serra non aveva completato il numero di telefono, nessuno sapeva che lei era lì, i domestici sarebbero arrivati solo il giorno dopo. Gli spari? Di certo erano andati confusi tra i botti di carnevale.

Niente fuga, quindi, la fuga avrebbe suscitato sospetti. Doveva continuare ancora per qualche tempo con la sua solita vita. E chi sarebbe andato a pensare a lei come all’assassina? La piscinina della modista…

Nessuno sapeva nemmeno del vestito da sera che Anita Serra le aveva prestato per la festa. Bastava che raccogliesse la sua roba e se ne andasse dalla villa inosservata.

Aveva lasciato tracce? Era certa di no, non aveva bevuto nulla, non aveva aperto porte. Raccolse da terra le mazzette di denaro e istintivamente le infilò nella borsa con cui era venuta.

Si voltò a guardare la cassaforte: tutto quel denaro le avrebbe fatto comodo, anzi, se fosse sparito la Polizia avrebbe pensato a un ladro. Tanto valeva approfittarne.

Cominciò a mettere le mazzette in borsa.

E i gioielli? Un ladro non li avrebbe lasciati lì.

Rovesciò la ciotola nella borsa, coprì tutto con uno degli abiti che le erano stati destinati e ripulì il contenitore con un foulard. Le venne in mente la pistola e ripulì anche quella accuratamente, poi la gettò a terra.

Cosa c’era negli astucci?

Sempre aiutandosi col foulard cominciò ad aprirli. Ne uscirono gioielli fantastici, anelli di diamanti, spille, collane, bracciali luccicanti di pietre preziose. Ed ecco la famosa collana del maharajah, un intreccio di diamanti e smeraldi che ricadevano in un fiocco in cui erano incastonate pietre tra le più grosse che si potessero immaginare.

Olimpia aveva quasi dimenticato il delitto, il cadavere a poca distanza, il pericolo. Vuotava meccanicamente gli astucci nella borsa, copriva ogni strato con un abito e ricominciava a vuotare.

In capo a mezz’ora la borsa da viaggio era pesantissima, colma di abiti, denaro e gioielli. Era tempo di andare. Provava una grande calma, dopo giorni di agitazione.

Uscì dal guardaroba senza più guardare il cadavere, scese nell’atrio, aprì e richiuse la porta esterna con prudenza aiutandosi con il foulard.

Fuori era buio, percorse il vialetto reggendo la preziosa borsa. Si trovò sulla strada senza incontrare nessuno, via Vivaio era tranquilla.

Si diresse alla fermata del tram della circonvallazione che l’avrebbe portata davanti a casa. Il tram tardò poco, Olimpia fece il biglietto e si sistemò in disparte, sulla piattaforma.

Il traffico era intenso: auto piene di gente vestita da sera sfrecciavano sui viali, dirette ai numerosi veglioni dell’ultimo sabato di carnevale.

Nessuno badava a lei. Non era nemmeno tardi.

A casa trovò suo padre solo, intento a costruire con due assi di legno e due cuscinetti a sfera un monopattino per i bambini dei vicini. «Questa sera non vai a ballare al Dopolavoro? Lo sai che tua madre e tua sorella ti aspettano? Se vuoi mangiare la mamma ti ha lasciato il minestrone» la informò.

Non si accorse del suo pallore. Ma di che cosa si accorgevano mai i suoi?

«No, papà, non mi sento bene e vado a letto» rispose Olimpia scivolando in camera.

Nascose la borsa sotto la sua branda, in fondo, vicino alla parete, si coricò alla svelta e naturalmente non si addormentò. Come chiudeva gli occhi il cadavere della Serra tornava a tormentarla.

Assassina, assassina, sono un’assassina, continuava a pensare. Verranno ad arrestarmi, finirò i miei giorni in prigione, così bella e giovane. Si mise a piangere appallottolandosi sotto le coperte, come se nel suo letto fosse al sicuro dalla mano della legge.

Dal cortile venivano gli schiamazzi dei ragazzini che, finita la cena, festeggiavano in gruppo il loro carnevale. Olimpia li immaginò con i nasi finti, qualche straccio addosso a simulare un costume, mentre si tiravano coriandoli fatti in casa con giornali ritagliati.

Carnevale da poveracci…

La colpì un pensiero improvviso.

Ma io sono ricca, ricca sfondata, ho denaro e gioielli.

La prese un folle desiderio di vedere il contenuto della borsa, ma se lo proibì perché in casa c’era suo padre.

Ragioniamo, piuttosto, si disse. Andrò a Roma, ma non subito. Nessuno sa che sono andata dalla Serra, nessuno mi ha vista, non ho lasciato tracce, quella di vuotare la cassaforte è stata un’idea vincente, la Polizia penserà a una rapina. Se partissi subito desterei dei sospetti. Sarà dura ma devo fare finta di niente. Devo nascondere la borsa in un luogo sicuro. Fino a quel momento mi do malata e non mi muovo dal letto. E una volta a Roma ho quattrini abbastanza (chissà quanti saranno?) per pagarmi una pensione, prendere lezioni, guardarmi intorno.

Poi ci sono i gioielli, ma a quelli devo stare attenta. Se proverò a venderli, giovane come sono, si capirà subito che li ho rubati. Li nasconderò e aspetterò tutto il tempo necessario prima di tirarli fuori. Saranno la mia dote.

Una scarica di spari interruppe i suoi pensieri. Erano fuochi artificiali, ma Olimpia li prese come un cattivo presagio. Sono un’assassina, tornava a dirsi, mi prenderanno, per me è finita, e cadde in un tormentato dormiveglia in cui le parole “assassina, assassina, assassina” facevano da sottofondo al rumore delle ruote del treno che in sogno la portava a Roma.

Il giorno dopo non dovette fingere di essere malata, aveva un terribile mal di testa e un febbrone.

«Colpa di questo caldo fuori stagione» sentenziò sua madre. «Rimani a letto tranquilla e se domani non ti senti ancora bene avverto io la modisteria che hai l’influenza.»

Sua sorella venne a toccarle la fronte. «Eh sì, hai proprio un bel febbrone» commentò. «Peccato, perché oggi pomeriggio andiamo tutti alla fiera, è l’ultima domenica e viene anche papà. Ma ieri cos’hai fatto per ridurti così?»

«Niente di speciale» mentì Olimpia. «Sono andata in giro a vedere le maschere.»

Al pomeriggio, rimasta sola, si mise all’opera.

Appoggiò lo specchio antico sul letto. È fortuna quella che mi hai portato? si domandò rimirandosi. Era bella anche con i lineamenti alterati dalla febbre.

Spostò con fatica il cassettone scoprendo la rientranza del vecchio caminetto. La parete di fondo, come ricordava, era di mattoni semplicemente impilati. Provò a scostarli e individuò un piccolo vano. Fu lì che nascose la borsa da viaggio di Anita Serra, pesante di oro e gemme. Ricostruì la parete e rimise tutto a posto. Ora poteva stare tranquilla: nemmeno la Polizia avrebbe trovato quel nascondiglio .

La febbre durò tre giorni e Olimpia tornò al lavoro il giovedì.

Il giorno prima era andata a trovarla la sua amica Lucia perché era impaziente di informarla del delitto: in laboratorio non si parlava d’altro, anche se i giornali, che avevano dato ampio risalto alla morte della cantante, l’avevano attribuita a cause naturali.

Il regime non gradiva che la gente sapesse che anche nell’Italia fascista avvenivano furti e omicidi. Ma quasi subito, dalle clienti più informate, si era appreso che si era trattato di una rapina, dalla cassaforte erano infatti scomparsi denaro e gioielli.

La Polizia pensava che i ladri, dopo aver obbligato la donna ad aprire la combinazione, chissà perché l’avevano uccisa.

Per Olimpia non fu difficile scoppiare in un pianto dirotto.

«Oh, povera Olimpia, tu che le volevi così bene!» aveva commentato Lucia. «Come mi dispiace!»

Una volta tornata in laboratorio Olimpia dovette rispondere alle domande delle colleghe. Come era la casa della Serra? Era davvero una donna così bella? I suoi vestiti, glieli aveva mai fatti vedere?

Finì che si mise a piangere e la direttrice dovette prendere le sue difese. «Adesso basta, ragazze, lasciatela stare. Olimpia ha perso una persona cara.»

Le signore che andavano a provare i cappelli in negozio non parlavano d’altro. Alcune conoscevano, per averli visti in scena, i gioielli favolosi della Serra e li descrivevano con dovizia di particolari, a dispetto della censura che continuava a proibire di pubblicare notizie sull’omicidio e il furto.

«Una fortuna, quei gioielli!» commentò la direttrice Giovanna Turini. «Chissà dove sono andati a finire!»

A poco a poco il clamore si spense, i giornali cessarono di commemorare i fasti della Serra e la Polizia, che non aveva trovato alcuna traccia dei ladri, aspettava che si tradissero mettendo sul mercato qualche gioiello.

In capo a poche settimane non se ne parlò più, e Olimpia smise di sussultare ogni volta che, a casa o in laboratorio, suonava il campanello.