CAPITOLO 11
NOTTE DI SANGUE
Venerdì, 6 ottobre 1944
La mattina seguente, al suo risveglio, Olimpia scoprì che Gualtiero era uscito. Le aveva lasciato un biglietto.
Torno domani sera. Ci saranno anche gli ufficiali tedeschi. Prepara come al solito.
Non un saluto, non una frase affettuosa.
Gualtiero doveva essere ancora furibondo. Che uomo strano! pensò. Aveva seguito Mussolini nell’avventura germanica ma stava dalla parte degli italiani; lavorava con i tedeschi ma non passava loro le informazioni più importanti per fermare i partigiani. E con tutta la gente che moriva ogni giorno, chissà perché si era così infuriato per Linda.
La ragazza i guai se li era cercati, doveva sapere che il suo incarico era pericoloso e poteva rimetterci la pelle. Perché preoccuparsi?
Lei piuttosto doveva trovare il modo di sganciarsi da quella situazione.
Si vestì, uscì di casa, varcò il cancello e si avviò per il viale deserto che portava al lago, nascosto dalla nebbia. Alla prima svolta notò sul ciglio della strada un’ambulanza della Croce Rossa. Non fece in tempo a chiedersi cosa ci facesse lì che i portelli posteriori si aprirono con violenza e due uomini mascherati con un fazzoletto la afferrarono tappandole la bocca. Olimpia si sentì sollevare, incappucciare e gettare all’interno, i portelli furono chiusi e l’ambulanza ripartì.
Capì subito che era stata rapita dai partigiani ed ebbe paura. Elaborò rapidamente un piano di difesa mentre l’ambulanza, percorso un breve tratto di strada asfaltata, si inoltrava per quello che doveva essere un tragitto sterrato.
Intuì che stavano attraversando una zona boscosa, dove i convogli militari tedeschi non osavano avventurarsi. Da fuori arrivava odore di terra fresca.
Si fermarono dopo un’ora di viaggio. Olimpia non aveva aperto bocca per tutto il tempo, aveva compreso che sarebbe stato inutile. Le fu tolto il cappuccio e alla debole luce proveniente dalle fessure del furgone vide che con lei c’erano i due uomini mascherati.
Uno dei due, alto e snello, gli occhi chiarissimi che spuntavano dal passamontagna, la apostrofò: «Cos’hai fatto di Linda, sporca puttana?».
«Sta’ attento a come parli!» si difese Olimpia. «Non capisco cosa vuoi dire, è scomparsa e non so proprio dove sia finita.»
Il giovane la colpì con un manrovescio che la gettò in un angolo del furgone. «Sei anche bugiarda, brutta spia. Sappiamo benissimo che sei stata tu a denunciarla, abbiamo i nostri informatori dappertutto.»
L’altro si intromise. «Stai calmo, Aquila, non lasciarle segni.»
«Allora, dov’è Linda?» la incalzò l’uomo che il compagno aveva chiamato Aquila, strattonandola per un braccio. «Come sta?»
«È in prigione a Milano, a San Vittore, credo che stia bene» mentì Olimpia, avendo capito che non avevano informatori a Villa Triste.
«Speralo!» minacciò Aquila stringendo gli occhi a fessura. «O avrò il piacere di strangolarti lentamente con le mie mani.»
«Perché sono qui?» si azzardò a chiedere lei.
«Per rimediare al danno che hai fatto» le rispose il secondo uomo, che dalla corporatura e dalla voce sembrava anziano.
«Io non ho nessuna autorità per farla liberare.»
«Però quella per denunciarla alle SS l’hai trovata!» l’accusò Aquila.
«Lascia fare a me» si interpose l’altro. «Ecco cosa farai: sappiamo, e non negarlo, che domani sera in casa tua c’è la solita riunione di tedeschi. Tu a un certo momento apri la porta esterna, al resto pensiamo noi.»
Olimpia era allibita. «Cosa volete fare? Volete entrare in casa e uccidere tutti?»
«No» rispose l’altro. «Noi non siamo assassini come i tuoi amici. Vogliamo prendere prigionieri i tuoi ospiti e tenerli in ostaggio per scambiarli con Linda.»
«Non ci riuscirete mai: davanti alla porta c’è sempre una sentinella armata» obiettò Olimpia. «E di me che avete intenzione di fare?»
«Te lo dico subito» prese la parola Aquila. «Se riusciamo nell’impresa ti lasciamo libera. Se fai la furba e li avverti ti veniamo a cercare anche in capo al mondo, e per te sarà finita.»
«Non voglio fare la furba» rispose Olimpia. «Ma non so proprio come potreste riuscire nell’impresa.»
Aquila e l’amico, che aveva il nome in codice di Moschetto, le spiegarono che grazie a Linda erano al corrente dell’abitudine degli ufficiali di lasciare le armi nel guardaroba all’ingresso. Tra l’ingresso e il giardino c’era una doppia porta, vetrata quella interna e sprangata l’altra. Sapevano pure che c’era un momento in cui la sentinella era vulnerabile, quando lei intonava Lili Marleen, e dopo il suo assolo i presenti ripetevano la canzone in coro. In quegli otto, dieci minuti il giovane di guardia aveva il permesso di entrare in sala, naturalmente disarmato.
Nel corso della serata una brigata partigiana avrebbe circondato la casa nel più assoluto silenzio e avrebbe aspettato che lei intonasse la solita canzone. Sarebbe bastato che tra un ritornello e l’altro Olimpia, con una scusa, si assentasse un attimo per aprire la porta esterna. Loro sarebbero entrati in forze sorprendendo i presenti disarmati, non ci sarebbe stato spargimento di sangue.
«E io che garanzie ho?»
«Solo quella che sarai uccisa se non farai come diciamo.» Era stato Aquila a lanciare l’ultima minaccia.
Fu fatta scendere un’ora più tardi in una strada deserta non lontano da casa. Rientrò col cuore che le batteva da scoppiare e la testa in tumulto. Capiva benissimo che non aveva scelta: quelli non scherzavano, e se li avesse traditi si sarebbero vendicati.
Considerò tuttavia che era da tempo che cercava una via di fuga, e quella offerta dai partigiani poteva essere una soluzione.
Per fortuna non sapevano che Linda era stata torturata e forse a quell’ora era già morta. C’era da sperare che non lo venissero a sapere prima dell’azione, ma da Villa Triste era difficile che uscissero informazioni.
E Gualtiero? Che ne sarebbe stato di lui? Secondo Aquila e Moschetto sarebbe rimasto un po’ di tempo in ostaggio, poi sarebbe stato scambiato.
Ma con chi, se Linda fosse stata uccisa? Be’, i partigiani avrebbero trovato qualche altro compagno da liberare, non era il caso di preoccuparsi.
Olimpia aveva appreso che le bande operanti nel Bresciano erano per la maggior parte di formazione cattolica; si chiamavano Fiamme Verdi e si nascondevano in Val Trompia. Era vero che non spargevano sangue in modo gratuito, si diceva che tra loro ci fossero addirittura alcuni sacerdoti. Quindi c’era da sperare che mantenessero la parola data.
Lei però doveva decidere subito dove si sarebbe rifugiata. A Desenzano non poteva rimanere. I tedeschi avrebbero capito che a fare entrare i partigiani era stata lei. Doveva fuggire in una grande città, dove avrebbe potuto confondersi in mezzo alla gente fino al termine della guerra, e l’unica che le veniva in mente era Milano.
Meglio andare in treno, anche se rischiava di impiegare ore. La sua auto era troppo riconoscibile e sarebbe incappata in qualche posto di blocco.
Il treno, dunque; non da Desenzano dove la linea ferroviaria era interrotta, ma da Brescia: vi si sarebbe fatta portare dai partigiani.
Olimpia passò il pomeriggio e la notte a mettere a punto ogni dettaglio del piano di fuga.
Il mattino seguente si recò in banca a ritirare il suo denaro, operazione che di quei tempi non destava alcun sospetto, e la borsa dei gioielli, più che mai preziosi per rifarsi un avvenire.
Li nascose nella valigia più dimessa che riuscì a trovare e che riempì di indumenti caldi in previsione dell’inverno. Salutò con rimpianto i suoi abiti da sera e le pellicce che avrebbero dato troppo nell’occhio; doveva passare il più possibile inosservata.
In tarda mattinata salì sulla Balilla e prese la via di Brescia. Lasciò la valigia in deposito alla stazione e tornò a casa.
Dovette occuparsi da sola della preparazione della cena, ma alle sette tutto era pronto. Salì in camera e si vestì più elegante del solito, con un lungo abito di raso verde che esaltava la sua figura e gli smeraldi che amava sempre indossare.
Si sentiva agitata come non era mai stata. Non poteva prevedere come sarebbe andata l’azione dei partigiani, temeva che i tedeschi si rendessero conto dell’agguato ed era incerta sul suo destino.
Gualtiero arrivò a casa poco prima delle otto, più stanco e abbattuto del solito. Si cambiò e scese in sala prima che arrivassero i suoi ospiti. Ingollò un bicchiere di cognac; da qualche tempo beveva più del dovuto.
«È successo qualcosa?» gli chiese Olimpia che lo osservava con finta calma.
«Linda è morta» riferì lui con voce piatta. «E non ha parlato.»
Olimpia si augurò che i partigiani non fossero venuti a saperlo, temeva che si sarebbero vendicati su di lei.
In quel momento si udì il rumore delle auto che stavano arrivando.
Entrando, il colonnello Lang salutò Olimpia con calore. «Lei è una vera patriota, signorina.» E si chinò a baciarle la mano. «Il comando tedesco non dimenticherà il suo gesto di lealtà; siamo circondati da traditori e sappiamo apprezzare chi sta dalla nostra parte.»
La cena fu insolitamente silenziosa. I tenenti Halder e Hierl si abbandonarono a qualche ricordo dei tempi dell’università. Kalle mangiava con voracità, come fosse il suo ultimo pasto, il tenente Caldara ebbe parole di lode per la musica tedesca. Gualtiero non aprì bocca.
Alle nove Olimpia si mise al piano, cantò una selezione di canzoni in voga, tra cui Giovinezza, che era un inno fascista. Alle nove e mezzo, quando immaginò che la villa fosse già stata circondata dai partigiani, attaccò Lili Marleen.
Il giovane Otto, deposto il mitra vicino alla porta, percorse il corridoio e si mise in ascolto come al solito appoggiato a una parete del salone.
Olimpia finì la canzone, aspettò che i tedeschi la intonassero a loro volta in coro, poi fingendo uno scoppio di lacrime uscì dalla sala mormorando: «Torno subito, vado a prendere un fazzoletto».
Percorse il corridoio, attraversò l’atrio, aprì la porta a vetri e tolse la spranga a quella esterna lasciandola semiaperta.
Quando si voltò dopo aver richiuso la bussola a vetri restò agghiacciata: Otto Spoegler l’aveva seguita, il tappeto aveva attutito i suoi passi.
Il giovane le lesse in faccia il terrore, lo collegò alla porta aperta e in un attimo comprese. «Achtung!» si mise a gridare afferrando Olimpia per un braccio. «Achtung! Un’imboscata!»
Olimpia si divincolò, vide il mitra accanto a lei, lo imbracciò d’istinto, tolse la sicura come Otto stesso le aveva mostrato. «Indietro!» urlò. «Non avvicinatevi! Otto, torna in sala.» Per un attimo pensò di tenerli a bada fino all’ingresso dei partigiani.
Otto corse indietro verso il corridoio, le braccia alzate. Andò a urtare contro gli ufficiali tedeschi che stavano accorrendo con Gualtiero e il tenente Caldara.
Per un momento la scena si immobilizzò.
Perché non arrivano? pensò Olimpia su cui era scesa una calma glaciale.
Poi, d’intesa, Halder e Hierl si avventarono verso di lei.
Olimpia sparò e sparò e sparò, fino a vuotare il caricatore.
Vide gli uomini cadere come birilli l’uno sull’altro, il sangue spruzzare le pareti, allagare il pavimento, udì urla di agonia, poi il silenzio.
Gualtiero giaceva scomposto nel mucchio, una rosa di sangue gli si allargava al centro del petto.
«Cos’hai fatto, disgraziata?» la riscosse la voce strozzata di Aquila.
Si lasciò togliere di mano il mitra.
In un attimo l’atrio fu pieno di uomini in abiti da montagna che guardavano esterrefatti i cadaveri ai loro piedi.
«Ma perché?» seguitava a urlare Aquila strattonandola con violenza.
Olimpia era stordita. «Non fatemi del male» riuscì solo a mormorare.
«Qui non c’è più niente da fare» constatò Moschetto. Era a volto scoperto come gli altri: inalberava un bel paio di baffi sul viso abbronzato. «Raccogliete tutte le armi che trovate e andiamocene al più presto.»
«Portatemi con voi» supplicò Olimpia. «I tedeschi mi ammazzeranno!»
«No!» urlò Aquila. «Starai qui a pagare per i tuoi delitti!»
«Ci ha visti, Aquila» gli fece osservare Moschetto. «È meglio che venga con noi.» E rivolto a Olimpia: «Va’ a metterti addosso qualcosa di meno vistoso».
Lei corse in camera, si infilò pantaloni, maglione e giaccone, anche se non faceva freddo, e afferrò la borsa già pronta che conteneva documenti e lasciapassare.
Il gruppo (erano otto uomini oltre a lei) prese posto in un camioncino militare parcheggiato appena fuori dal giardino e a fari spenti per strade secondarie raggiunse Lonato sotto una pioggia leggera.
Senza entrare in paese i partigiani imboccarono una strada sterrata tra le montagne e viaggiarono per un paio d’ore in direzione di Brescia.
Nessuno parlava. Olimpia a poco a poco si era calmata ed ebbe tempo per predisporre la sua difesa.
Scesero nell’aia di una casa colonica abbandonata ed entrarono in un vasto stanzone a pianterreno che doveva essere un rifugio abituale dei partigiani. C’erano coperte per terra, qualche fiasco di vino sul tavolo, insieme ad alcune pagnotte e a un piatto di formaggi. Era quasi mezzanotte.
Sempre in silenzio gli uomini deposero le armi e si sedettero intorno al tavolo. Un piccoletto, che gli altri chiamavano Fedele, tagliò pane e formaggio e li distribuì. Anche Olimpia ebbe la sua parte.
Si dissetarono con vino rosso passandosi i fiaschi, poi accesero le sigarette e tutti insieme volsero gli occhi verso la donna seduta in mezzo a loro.
Olimpia prese a tremare nonostante gli abiti pesanti. «Non è stata colpa mia» attaccò subito. «Mi hanno scoperta, ho dovuto sparare.»
Aquila la guardò con disprezzo. «Ma che tipo di donna sei» ribatté, «che per salvare la pelle non esiti a fare una strage? E tra quelli che hai ucciso c’era anche il tuo amante. Non ho ancora sentito per lui una sola parola di pietà. Ami solo te stessa?»
Olimpia chinò il capo. «Che cosa potevo fare?»
«Per esempio, invece di sparare, potevi fuggire in giardino con il mitra. Noi eravamo lì, li avremmo presi prima che facessero in tempo a raggiungere le loro armi. Oppure potevi rifugiarti in camera tua.»
Olimpia non ci aveva pensato.
«Be’, in fondo nessuno di voi ci ha rimesso la pelle» obiettò.
Aquila sputò a terra. «E Linda?» urlò. «Ora come facciamo a salvarla?»
Olimpia tirò un segreto sospiro di sollievo comprendendo che non sapevano che era già morta.
«Appena i tedeschi scopriranno la strage, e sarà questione di ore, la tortureranno per sapere dove ci nascondiamo. Lo sai almeno dove si trova?» chiese Aquila.
«Ve l’ho già detto» tornò a mentire lei. «Appena catturata l’hanno portata a Milano a San Vittore, poi non so.»
Moschetto si intromise. «Dobbiamo contattare i GAP di Milano e farci aiutare da loro. Ma ora smettetela di parlare davanti a lei, questa è capace di fare ancora la spia.»
«A chi pensate possa parlare?» controbatté Olimpia. «Sono più ricercata di voi: alla villa troveranno tutti morti meno me, faranno presto a capire che ho tradito.»
«Bella situazione, la tua» osservò un giovane biondo che era stato in silenzio fino a quel momento. «Fascisti e tedeschi ti danno la caccia, e sei in mano nostra dopo che hai fatto arrestare una di noi.»
«Cosa volete farmi?»
«Meriteresti di essere impiccata, come farebbero i tuoi amici senza pensarci un momento. Ma noi non siamo assassini. Ti abbandoneremo da qualche parte, al tuo destino.»
«Non posso restare qui, in mezzo alla campagna. Vorrei arrivare a Brescia, alla stazione…»
«Si può fare» disse Moschetto. «Domattina all’alba don Antonio deve giusto tornare in parrocchia col sidecar. Viaggerai con lui, fingendo di essere una parrocchiana che è andata a trovare i familiari sfollati.»
Olimpia si guardò intorno meravigliata. C’era un prete fra loro? Poi identificò un uomo di mezza età, quasi calvo, a cui dal collo del maglione spuntava la fascia bianca dei sacerdoti.
«Sì, sono io» confermò quello. «Tieniti pronta per le sei in modo da arrivare a Brescia appena cessa il coprifuoco. E adesso tutti a dormire.»
Anche Olimpia si stese insieme agli altri per terra, su una coperta, ma appena chiuse gli occhi le apparvero le immagini di Gualtiero mentre ballava con lei la sera in cui si erano conosciuti, e di quando facevano l’amore, e mentre passeggiavano a Napoli. E ancora Gualtiero al mare, Gualtiero in casa sua che le parlava della guerra, e Gualtiero morto, in un mucchio di cadaveri insanguinati, uomini uccisi da lei. Ebbe una stretta al cuore al pensiero che non l’avrebbe visto mai più.
Capì che non avrebbe dormito e si chiese per quanto tempo i fantasmi l’avrebbero perseguitata.
Si alzò silenziosa dal suo giaciglio improvvisato, uscì sull’aia, arrivò al fienile dove era parcheggiato il sidecar coperto di frasche e accese una sigaretta.
«Cosa vuoi fare, mandarci tutti a fuoco?»
Olimpia sussultò udendo la voce di Aquila che l’aveva raggiunta alle spalle.
«Non dirmi che hai dei rimorsi…»
«Tu non puoi capire…» mormorò lei spegnendo il mozzicone.
«Hai ragione, siamo troppo diversi. Tu il tuo uomo l’hai ucciso per salvarti la pelle. Io invece per liberare la mia donna sono pronto a morire. Perché Linda è la donna che amo e che voglio sposare. Tu stai con gli invasori, io cerco di cacciarli dalla mia patria.»
«Non conosci la mia storia, Aquila, non puoi giudicare.»
«Ma cosa devo conoscere? Forse vuoi dirmi che sei nata povera, che nella vita hai dovuto lottare? E solo per questo credi che tutto ti sia permesso? Lo sai che Linda, poverissima anche lei, per studiare si era adattata a fare la cameriera in casa di ricchi? Ed è potuta arrivare fino all’università perché la signora l’ha presa a benvolere e le lasciava tempo libero. È laureata in Lingue, desidera solo fare l’insegnante e vivere in pace. Non se la fa con i tedeschi per avere calze di seta, ma si è messa con me, che ho un negozietto di scarpe, solo perché mi ama.»
Aquila voltò il capo per non mostrare a Olimpia gli occhi lucidi.
«Mi dispiace» mormorò lei accarezzandogli una spalla.
L’uomo si voltò di scatto e a sorpresa la abbracciò con violenza. Cercò la sua bocca, la dischiuse a forza. Lei rispose al bacio, presa da un improvviso raptus erotico, dalla gioia selvaggia di essere ancora viva, dal bisogno di scaricare la tensione. Aquila fissò gli occhi chiari in quelli di lei mentre con mani impazienti percorreva il suo corpo.
Presero a strapparsi a vicenda gli abiti e si abbatterono avvinghiati su un mucchietto di paglia. Lui la penetrò subito, le chiuse con una mano la bocca per tacitarne i gemiti, si mosse dentro di lei a lungo, con forza. Si liberarono insieme in un orgasmo violento che li lasciò spossati, la testa vuota, le membra ancora frementi.
Olimpia riprese fiato, si accostò ad Aquila, gli pose la testa su una spalla. Ma il giovane si mise a sedere, la guardò un attimo e la colpì con un violento manrovescio. Si rivestì e se ne andò senza pronunciare una parola.
Tornò pochi minuti dopo, mentre lei finiva di vestirsi, e la prese per le spalle.
«Ricordati bene quello che ora ti dico» sibilò. «Se a Linda capita qualcosa, qualsiasi cosa di male, verrò a cercarti in capo al mondo e te ne farò pentire. Non ti ucciderò: ripeto che non sono un assassino.» Era pallido e paurosamente calmo. «Ma troverò il modo di rovinarti, qualunque cosa tu sarai diventata, anche fra trent’anni. Io non dimentico.»
Olimpia sentì un brivido percorrerla tutta.
La mattina dopo, i capelli biondi nascosti da un fazzoletto, il viso senza trucco, Olimpia si diresse a Brescia in compagnia di don Antonio. Il sacerdote indossava la veste talare, e le poche pattuglie di militari che incontrarono all’ingresso della città non fecero caso a loro.
La stazione era il solito accampamento di disperati disposti a sfidare i disagi del viaggio per cercare qualche congiunto o per andare a caccia di cibo nei paesi rurali.
Il primo treno per Milano era annunciato per le otto, e Olimpia ebbe il tempo di ritirare dal deposito la sua valigia. Non poteva evitare di guardarsi intorno di continuo, temendo che da un momento all’altro arrivassero i tedeschi ad arrestarla.
Trovò un angolo nascosto tra due edifici ed ebbe modo di infilarsi la parrucca di lunghi capelli castani che aveva avuto l’astuzia di mettere in borsa. Si sentì subito meno riconoscibile.
Il treno partì in orario, ma si sapeva che avrebbe percorso tratti secondari per lasciare liberi i binari ai convogli militari. Non era dato prevedere a che ora sarebbe arrivato.
A mezzogiorno, all’altezza di Treviglio, il convoglio si arrestò in mezzo alla campagna. Dal cielo si sentì un rombo di aerei in avvicinamento e la gente prese a urlare e a spintonarsi per scendere. Tutti sapevano che i treni erano il bersaglio prediletto degli Alleati.
Anche Olimpia afferrò la sua valigia e si accovacciò come gli altri contro la massicciata. Cadde qualche bomba, che non ferì nessuno, ma era andato divelto un tratto dei binari.
Si dovettero aspettare tre ore buone che gli operai venuti da Treviglio riparassero il danno. Olimpia aveva fame, ma doveva rassegnarsi.
Alle sei del pomeriggio poté finalmente scendere alla stazione di Lambrate.
Milano la riaccoglieva dopo sei anni di assenza.
In quale stato era però la sua città! Il nodo ferroviario di Lambrate e i quartieri intorno erano un cumulo di rovine e recavano il segno di ripetuti bombardamenti e di riparazioni abborracciate ai binari.
Dal tram diretto in centro, sul quale era fortunosamente riuscita a salire, Olimpia, nell’ultima luce della sera, vide un panorama di desolazione che non avrebbe mai immaginato: palazzi sventrati, crateri di bombe, quasi nessun mezzo privato in circolazione, gente smunta che trascinava borse della spesa semivuote.
Scese in via Sforza per evitare il centro, dove temeva di essere fermata da qualche pattuglia, e per vie secondarie che conosceva benissimo, trascinando la valigia, con il terrore di essere derubata a ogni passo, si diresse verso quella che era stata la sua casa. Per fortuna c’era ancora gente in giro e mancava un po’ di tempo al coprifuoco.
In testa aveva un piano.
Arrivò a Porta Ticinese che erano quasi le otto. Non aveva intenzione di andare dai suoi: non avrebbe retto alle domande e aveva paura che qualche vicino la vedesse e parlasse in giro della Cavenaghi che era tornata da Roma.
Sperava di trovare rifugio da Gilda, la prostituta del quinto cortile i cui locali si raggiungevano da una porta esterna, senza attraversare il casamento. La donna forse era in casa (il coprifuoco valeva anche per le passeggiatrici) e dietro compenso avrebbe saputo tenere la bocca chiusa. In seguito avrebbe pensato a un’altra sistemazione.
Attraversò i prati dell’Azienda Tranviaria e arrivò davanti al portoncino segreto di Gilda, seminascosto dai cespugli. Bussò. Nessuno rispose. Attese un poco e tornò a bussare: ancora niente.
Si sentì prendere dallo scoramento. Ma all’improvviso le venne in mente che Gilda teneva sempre una chiave di riserva, nel caso la rapinassero in strada, nascosta tra due pietre del basamento. Allungò una mano e sentì il freddo del metallo.
La chiave girò nella toppa e Olimpia entrò. Fece per accendere la luce ma si accorse che era scollegata. In un cassetto trovò un mozzicone di candela e gli diede fuoco col suo accendino. Si guardò intorno senza sapere se essere desolata o contenta.
Era evidente che Gilda se n’era andata. In cucina erano rimasti i mobili ma non le pentole, non c’era traccia di cibo e il gas era stato staccato. In camera i materassi erano arrotolati come in attesa del ritorno della padrona di casa, ma non c’era una coperta né un lenzuolo e mancavano tutti gli abiti.
Nell’alloggio Olimpia scoprì che c’era un bagnetto, forse Gilda l’aveva fatto installare a uso dei clienti. Vi scorreva ancora l’acqua e lei bevve a lungo, poi fu presa da un conato di vomito e liberò lo stomaco dal nodo che lo attanagliava dalla sera prima. Si sentì subito meglio.
Che fare? Quella notte l’avrebbe passata lì, al sicuro, dove nessuno l’avrebbe cercata. In seguito avrebbe pensato a organizzarsi, ma per riacquistare la consueta lucidità doveva mangiare qualcosa. A parte il formaggio dei partigiani, da ventiquattr’ore non toccava cibo e cominciava a sentirsi debole.
Svolse i materassi e si sdraiò sul letto. Perché non rimanere lì, pensò, in casa di Gilda, fino alla fine della guerra?
Il locale era così appartato da non attirare l’attenzione di nessuno. Avrebbe potuto tenere le finestre chiuse, protette com’erano dalle imposte interne di legno pieno che non lasciavano trapelare la luce, e fingere che la casa fosse ancora disabitata. Poteva entrare e uscire inosservata dalla parte dei prati. Certo con l’arrivo dell’inverno sarebbe stata al freddo; non era infatti il caso di accendere il camino o di cucinare a rischio che si vedesse il fumo.
E come avrebbe fatto a mangiare? Olimpia si rese conto, ma scacciò subito il pensiero, che Gualtiero l’aveva tenuta al riparo da tutte le difficoltà della guerra. Sapeva che alla gente veniva distribuito il cibo dietro presentazione delle tessere annonarie. Si rallegrò di avere ancora la carta d’identità rilasciata a Milano e si ripropose di ritirare al più presto la sua tessera negli uffici comunali. Poi c’era la borsa nera: avrebbe trovato a chi rivolgersi. Forse la sua famiglia abitava ancora lì: a suo tempo avrebbe indagato.
Su quel pensiero si addormentò, nonostante la fame.
La mattina dopo si svegliò che era tardi, quasi le dieci, ma era riposata e pronta a combattere.
Aprì la valigia, dispose i suoi abiti nell’armadio e cercò un nascondiglio per denaro e gioielli.
In cucina scoprì una botola nel soffitto e mise una sedia sul tavolo per raggiungerla. Era un’intercapedine vuota, priva di comunicazioni con altri locali, come le rivelò un’accurata ispezione al lume di candela. All’occorrenza avrebbe potuto essere un buon nascondiglio anche per lei. Vi collocò il suo tesoro, richiuse la botola e si sentì tranquilla.
Si vestì con gli abiti più dimessi che aveva, nascose i capelli con la parrucca e uscì.
Non poteva fermarsi nel suo quartiere perché non voleva essere riconosciuta, quindi si diresse verso il centro. La latteria di via Unione era ancora aperta. Pagando uno sproposito poiché non aveva la tessera riuscì a togliersi la fame con un minestrone e un piatto di frattaglie.
Poi, rinfrancata, si mise in coda agli uffici comunali per ottenere la sua carta annonaria. Altre due code e si procurò pane e formaggio: per quella sera avrebbe mangiato, ma si rese conto che non poteva andare avanti per molto in quel modo.
In un negozietto riuscì a trovare una tintura per capelli di colore castano e dopo aver comperato il Corriere si diresse verso casa. All’ora di cena era ridiventata una bella bruna, meno vistosa di quando aveva i capelli platinati.
Cenò al buio e accese la candela per leggere il giornale. Scoprì così che il giorno dopo sarebbe stata inaugurata una mensa collettiva in via Turati e che in città ne esistevano altre dodici. Ecco la soluzione! Un buon pasto caldo a mezzogiorno l’avrebbe aiutata a superare le giornate invernali.
Olimpia non ci mise molto a entrare nella logica della sopravvivenza in tempo di guerra. Alla borsa nera si era comperata l’indispensabile: alcune coperte per il letto e due paia di scarpe pesanti, una scorta di candele e fiammiferi, un lume a petrolio e qualche pacchetto di sigarette. Non aveva mai bevuto molto, ma pensò che alcuni fiaschi di vino avrebbero potuto riscaldarla nei giorni più freddi.
Dovette rinunciare ad acquistare una radio essendo la casa priva di corrente elettrica, ma quando poteva si teneva informata dai giornali.
La mattina del 20 ottobre, mentre era in coda per la spesa, udì il suono sinistro delle sirene ululare sopra la città. Corse con gli altri nel rifugio più vicino e quando ne uscì circolava già la voce: i bombardieri alleati avevano centrato in pieno la scuola elementare di Gorla uccidendo duecento bambini. A sera si seppe che nel resto della città si contavano altri quattrocento morti e seicento feriti. Milano rimase in lutto diversi giorni.
In quei primi tempi, durante le passeggiate per la città, si fece un’idea più precisa delle devastazioni della guerra. Il Duomo appariva gravemente danneggiato, bombardati il Castello Sforzesco, Brera, Palazzo Reale, il quartiere Garibaldi, quasi tutti i teatri, Scala compresa, la Rinascente.
Grandi squarci si aprivano in piazza San Babila e tra gli edifici del Policlinico. Ovunque erano all’opera squadre di operai che sgomberavano le macerie. Si diceva che con i resti stessero costruendo una montagnola a San Siro.
Con l’avvento dell’inverno Olimpia prese l’abitudine di passare i pomeriggi al cinema, vedendo lo spettacolo due volte. Non c’era riscaldamento ma era sempre meglio che nel suo rifugio.
Ogni tanto Milano era in agitazione per qualche sciopero, segno che la Repubblica Sociale contava sempre meno.
In dicembre i giornali riportarono la notizia che le autorità cittadine avevano fatto arrestare Pietro Koch, il boia di Villa Triste, colpevole di eccesso di torture. Olimpia ripensò a Linda e cominciò a capire le angosce di Gualtiero.
Una notte particolarmente nebbiosa si azzardò a uscire di casa dalla parte dei cortili per spingersi fino a quella che era stata la sua abitazione. Trovò un’aria diversa: non più festosi bucati ad asciugare e fiori alle finestre. Molti appartamenti apparivano sbarrati.
Anche casa sua era chiusa, ma Olimpia aveva portato con sé la chiave e non faticò a entrare. Si accorse subito, dalla mancanza di abiti e pentolame, che anche i suoi dovevano essere sfollati in campagna, forse dalle cugine della Brianza di cui parlava sempre sua madre.
Erano rimasti i suoi libri e lo specchio comperato alla fiera di carnevale, la cui vista le fece rivivere la disgraziata sera del veglione e la morte della Serra.
Scacciò il pensiero: non era ancora pronta per fare bilanci sulla sua vita. Prese libri e specchio e tornò nel suo rifugio.
Nei mesi che seguirono, nelle lunghe serate invernali che passava a letto per difendersi dal freddo, al buio per non consumare le candele e senza la compagnia di una radio, che le mancava molto, non poté tuttavia sfuggire ai ricordi.
Si rese conto che i suoi anni più recenti erano stati una furiosa arrampicata per raggiungere il successo, per essere poi beffata dal destino nel momento in cui stava per diventare qualcuno. A Desenzano, comprese, era morta anche Myra Leoni.
Dopo la guerra non sarebbe più potuta tornare a Roma e riprendere la carriera di attrice: chi era al corrente del suo passato avrebbe potuto riconoscerla sullo schermo. Era compromessa con i tedeschi e i fascisti e forse la Polizia la cercava per quelle morti misteriose. Aquila e i suoi avrebbero testimoniato contro di lei. Aquila doveva ormai aver saputo della morte della sua donna, era quindi un pericolo incombente. Se l’avesse vista sullo schermo avrebbe indovinato dove cercarla per vendicarsi. “Io non dimentico” l’aveva minacciata.
Oltretutto, avendo ucciso anche Gualtiero e il tenente Caldara, che non erano colpevoli di alcun crimine, correva il rischio, dopo la guerra, di finire sotto processo. Per Gualtiero provava un certo rimorso: con lei era sempre stato generoso, l’aveva protetta. Ma era andata così e non poteva farci nulla. Meglio scacciare il pensiero e andare avanti.
Alla fine della guerra, decise, sarebbe tornata Olimpia Cavenaghi, ma non a Milano, dove troppe persone la ricordavano come la piscinina della modisteria. Doveva cambiare città ancora una volta e ancora una volta rifarsi una vita.
Durante uno sciopero, era il pomeriggio del 28 marzo 1945, mentre passava per via Larga sentì una mano afferrarle una spalla. Un’ondata di terrore la travolse. Riuscì a pensare di tutto prima che una ben nota voce beffarda la apostrofasse: «Olimpia, che ci fai qui? Non eri a Roma? Ma cos’hai? Sei pallida come un cadavere».
Fece appena in tempo ad aggrapparsi all’abbraccio del suo amico Tonino Novelli, che dovette sorreggerla.
«Ma cosa ti capita? Sei malata?»
«No, no, Tonino, è l’emozione di rivederti. Dio che piacere!» E dopo mesi di assoluta solitudine Olimpia si mise a singhiozzare tra le braccia del giovane.
Tonino sembrava più alto, era più magro e forte e aveva acquistato un’aria di autorità. La condusse in un’osteria dalle parti dell’università e le offrì un bicchiere di vino. «Raccontami tutto di te: cos’hai fatto, perché sei tornata, dove abiti…» la sollecitò.
Olimpia raccontò che a Roma era arrivata a interpretare qualche film, poi Cinecittà era stata chiusa e lei, dopo qualche tempo, aveva scelto di ritornare a Milano. Non aveva trovato i suoi, che dovevano essere sfollati, e viveva in casa di un’amica con i risparmi accumulati. «E tu, Tonino, a te come è andata?»
«Io sono qui, sano e salvo, almeno per ora: mi vedi. Ma mio fratello Gigi è morto sul fronte russo. Lui, poverino, che soffriva tanto il freddo! Gianni e io invece siamo stati mandati in Africa, abbiamo fatto tutte le avanzate e i ripiegamenti e finalmente, arrivati gli Alleati, abbiamo ottenuto una lunga licenza. L’esercito non ci ha più visti. Siamo fuggiti tutti e due in montagna e ci siamo arruolati in una Brigata Garibaldi. Facciamo la spola tra la montagna e i GAP di Milano. Sapessi quanti depositi tedeschi di munizioni abbiamo fatto saltare!»
«Ma non hai paura a dirmi queste cose? Potrei farti arrestare» scherzò lei.
«Tu, farfallina? Dopo che siamo cresciuti insieme? Non lo faresti mai!»
Olimpia si sentì un verme, accese una sigaretta per darsi un contegno.
«Ma ormai siamo alla fine» riprese Tonino. «È questione di settimane e gli Alleati sfonderanno la Linea Gotica, Milano è il loro principale obiettivo.»
«Che ne sarà di noi?»
«Noi partigiani combattiamo agli ordini di politici come Parri, Lombardi, Valiani e Pertini, che sono in contatto con gli Alleati; il nostro capo militare è il generale Cadorna. Il governo Bonomi a Natale ha riconosciuto al Comitato di Liberazione dell’Alta Italia i pieni poteri sul territorio ancora occupato dai tedeschi. E anche la gente di città è con noi. Ci sostengono studenti, professionisti, impiegati e tutti gli operai delle fabbriche. Tra i nostri compiti c’è la protezione degli impianti industriali perché il Paese dopo la guerra si deve riprendere al più presto. I nostri capi ci assicurano che al momento della pace i vincitori sapranno distinguere tra la gente che non ha colpe e gli amici dei tedeschi, e l’Italia, grazie a noi che abbiamo combattuto al fianco degli Alleati, potrà sedersi al tavolo delle trattative e non sarà considerata un Paese sconfitto e basta.»
Olimpia si rallegrò di essere fuggita dalla Repubblica Sociale appena in tempo; si trovò a pensare che in fondo aveva risparmiato a Gualtiero una terribile disillusione.
«Perché sei così pensierosa?» la interrogò l’amico. «Hai dei problemi? Qualunque cosa possa fare per te, non hai che da chiedere.»
«No, Tonino, in qualche modo me la sto cavando. Ti ringrazio.» Era bello poter contare di nuovo su qualcuno. «Ti rivedrò?»
«Non lo so, Olimpia. Adesso la mia missione viene prima di tutto. Ma se ti serve qualcosa, cercami a questo indirizzo.» E le diede le indicazioni per contattarlo attraverso un bar in città.
Un lungo abbraccio segnò la fine dell’incontro.
Pur senza radio com’era e con la censura che imperversava sui giornali, Olimpia cercava di seguire gli eventi. Non voleva lasciarsi sorprendere ed era preoccupata perché i suoi risparmi, che aveva centellinato con attenzione, stavano svanendo, erosi dall’inflazione e dalla borsa nera.
In aprile avvertì che qualcosa si stava muovendo. In giro c’erano sempre meno militari, asserragliati nelle caserme; i bombardieri alleati che da un paio di mesi non si vedevano tornarono a volare su Milano sganciando qualche bomba, più per intimorire i tedeschi che per distruggere.
La gente in coda davanti ai negozi ora parlava liberamente. E fu dalle donne che facevano la spesa insieme a lei che Olimpia venne a sapere che il 12 i partigiani avevano liberato Parma, il 14 gli Alleati erano stati vicini a sfondare la Linea Gotica e tra il 20 e il 23 aprile erano state liberate Bologna, Modena, Ferrara e Genova.
Ora i milanesi attendevano frementi il loro turno.
Il 24 Olimpia spese gli ultimi soldi alla borsa nera per comperare un’ingente quantità di pane, formaggio e salame, prevedendo prossima la battaglia per le strade della città. Come molti altri, si chiuse in casa disposta a restarci fino al termine del conflitto.
La liberazione di Milano arrivò alle sue orecchie con i rumori della strada: gli inni degli operai in sciopero, le urla dei giovani dei GAP che passavano per Porta Ticinese per andare a occupare le fabbriche, le colonne di autocarri tedeschi che si dirigevano verso corso Sempione per la ritirata.
Dalla grande piazza vicina arrivavano ogni tanto scariche di fucile e sventagliate di mitra. Si combatteva per le strade e i partigiani stanavano i fascisti casa per casa.
Il 29, dopo una mattinata apparentemente tranquilla, Olimpia si azzardò a uscire. Appena fuori notò un grande fermento e gente che correva.
«Che cosa è successo?» osò chiedere a un uomo anziano fermo all’angolo di corso di Porta Ticinese.
«Non lo sa?» si sentì rispondere. «Hanno ammazzato Mussolini. Se lo vuole vedere, da stamattina è appeso per i piedi in piazzale Loreto, insieme alla Petacci. E con loro c’è anche Starace. Ma faccia attenzione ad andare in giro, dappertutto stanno giustiziando i boia fascisti, e le pallottole volano non si sa dove. Hanno fucilato anche quei due attori, Valenti e la Ferida, che si divertivano a torturare i partigiani a Villa Triste. E Preziosi, quello che ha perseguitato in tutti i modi gli ebrei, si è suicidato.»
Olimpia si rintanò in casa, rabbrividendo dalla paura.
Il giorno dopo fu attratta di nuovo fuori da canti e grida di gioia che si levavano da tutta la città. Trovò le strade in festa per l’arrivo degli Alleati e non seppe resistere alla tentazione di mescolarsi anche lei alla folla, tra le bandiere che sventolavano nel sole.
La gente ballava per le strade e inneggiava alla libertà. Sul Duomo, liberata anche lei dalla cappa che l’aveva protetta per anni, brillava di nuovo la Madonnina.
Quando tornò a casa Olimpia sentì che si faceva festa anche nel suo cortile: l’oscuramento era finito e presto la gente sarebbe tornata in città dalle campagne.
Era ora di andarsene. Ma come, dove e con quale denaro?
Era tempo di vendere qualche gioiello.
Una mattina dei primi di maggio si vestì e pettinò meglio che poteva, mise in borsa l’anello che a suo tempo le aveva regalato il produttore Parenti e si recò nella gioielleria più elegante di corso Vittorio Emanuele. Mentre il commesso valutava il brillante, Olimpia notò un maggiore americano che, aiutato da un interprete, si stava facendo mostrare alcuni anelli per la moglie.
Uscirono dalla gioielleria insieme, entrambi scontenti: Olimpia per l’offerta troppo bassa e il maggiore per il costo elevato e la qualità modesta delle gemme. Si capiva che aveva denaro da spendere e che cercava qualcosa di molto bello.
Guardandosi intorno, la ragazza ebbe un’idea e si rivolse all’interprete. «Potrei parlare un momento con il maggiore?» chiese.
L’ufficiale acconsentì, si sedettero tutti e tre in un bar e Olimpia raccontò che era in possesso di alcuni gioielli di famiglia che intendeva vendere perché aveva bisogno di denaro. I dollari americani andavano benissimo. Mostrò il suo anello e aggiunse che aveva anche una parure di smeraldi.
Richard Calder, il maggiore, un gigante biondo sulla quarantina, ci pensò un po’. Quindi per mezzo dell’interprete le fece una proposta: alle sue dipendenze aveva un sottufficiale che nella vita civile faceva l’orefice. Se Olimpia avesse acconsentito ad andare a cena con loro la sera stessa, il sergente avrebbe potuto valutare i gioielli e stabilire un prezzo equo per tutti.
Olimpia non poté che ammirare la correttezza dell’ufficiale.
La sera Olimpia si presentò al circolo del Comando americano rammaricandosi della modestia del suo abbigliamento. Il maggiore Calder l’accolse con calore e le presentò un commilitone, il colonnello Firby, anche lui interessato a un acquisto, e il militare orefice. All’anello con diamante e alla parure di smeraldi Olimpia aveva aggiunto la spilla a forma di pappagallo col corpo di rubino che era stata della Serra. Era bene che quel gioiello, troppo riconoscibile, prendesse la via dell’America.
Gli ufficiali trattennero il fiato davanti a quei capolavori.
«È un peccato che debba disfarsi di questi gioielli» commentò Firby.
«Sono rimasta sola al mondo. Devo ricostruirmi una vita.»
L’orefice esaminò gli oggetti e ne dichiarò il valore, che era molto alto.
Gli ufficiali non tirarono sul prezzo. Calder comperò l’anello e la spilla e Firby la parure di smeraldi. Pagarono con grossi rotoli di dollari e in più le regalarono alcune paia di calze di seta e un involto contenente biscotti e cioccolato.
Per Olimpia la cena fu una vera festa perché da mesi non assaggiava carne fresca e dolci. Gli americani la interrogarono sulla sua vita durante la guerra, e lei, tacendo la propria esperienza a Roma e a Desenzano, descrisse Milano e le difficoltà della gente presa fra i tedeschi e i bombardamenti alleati.
«Lei è una brava ragazza» concluse Calder. «Chissà quante, al suo posto, avrebbero scelto una via più facile per sopravvivere.»
Nulla più la tratteneva a Milano. Ma per una donna sola, di quei tempi, viaggiare era pericoloso, con le strade preda di sbandati e i mezzi pubblici che andavano a singhiozzo. Olimpia temeva di essere derubata o di fare una brutta fine prima di arrivare alla meta.
Aveva deciso di stabilirsi in una città di mare e quando seppe che Rimini era stata liberata il settembre dell’anno prima e la vita cittadina aveva riacquistato una parvenza di ordine, pensò che fosse il posto ideale per viverci. Difficilmente lì avrebbe incontrato partigiani, fascisti o gente del cinema di sua conoscenza. I suoi bei capelli castani le erano ormai ricresciuti ed era molto diversa dalla bionda Myra Leoni di un tempo.
Verso metà maggio, ancora nascosta nel rifugio di Gilda ma con il terrore che qualcuno scoprisse che la casa era abitata, leggendo il Corriere trovò la soluzione. C’erano alcuni annunci di persone che dovevano mettersi in viaggio in auto e cercavano passeggeri per dividere il costo del carburante.
Olimpia tenne d’occhio la rubrica per qualche giorno e finalmente trovò quello che faceva per lei. Una famiglia di tre persone in partenza per Forlì cercava il quarto passeggero. Telefonò al numero indicato e il 28 maggio all’alba, chiusa la casa di Gilda, munita della sua valigia che conteneva la borsa dei gioielli, partì per una nuova vita. Aveva con sé lo specchio antico, ricordo di gioventù e suo portafortuna.
Il viaggio fu lento e faticoso, per strade interrotte e con tratti da aggirare in mezzo ai campi, battute da convogli militari, percorse da mezzi di fortuna e da gente a piedi, in borghese o in divisa.
Molti erano armati, ma anche il suo ospite aveva una pistola nel cruscotto. Era un macellaio che tornava nella sua città di origine, e dall’aria pasciuta di tutta la famiglia si intuiva che aveva fatto la borsa nera. A metà giornata la signora Curioni offrì a Olimpia un ghiotto panino imbottito e un bicchiere di vino.
La sera la comitiva dovette fermarsi a dormire in una locanda nei pressi di Reggio, mentre il macellaio rimaneva in auto per scongiurare eventuali furti.
Il giorno dopo erano a Forlì all’ora di cena. Olimpia passò la notte alla stazione degli autobus, presidiata dai Carabinieri, per salire sul primo mezzo della mattina.
Il 30 maggio 1945 arrivava a Rimini, pronta a organizzarsi una nuova vita.