CAPITOLO 12
A GATTO E TOPO
Giovedì, 15 gennaio 1981
Quella mattina, Marco non riusciva a star seduto alla scrivania. Consultava il fascicolo aperto davanti a lui, si alzava, accendeva una sigaretta, si spostava in sala agenti. «Siete pronti?» chiedeva ai suoi uomini. Tornava alle sue carte, e di lì a poco era ancora in piedi.
Lo distrasse l’arrivo di Laura.
«Stiamo per concludere» le disse sorridendo.
«Speriamo» sospirò la ragazza. «Non dimenticare che Carminati è un osso duro.»
Alle dieci squillò il telefono: era la tanto attesa convocazione nell’ufficio del vicequestore per fare il punto sul delitto Accorsi e sulla strage di Desenzano, premesse indispensabili per chiedere al giudice l’incriminazione della contessa Aldrovandi.
La squadra si diresse al completo da Calisti, dove li aspettava, considerata la delicatezza dell’indagine, anche il capo della Mobile dottor Gagliani, che fino a quel momento aveva seguito il caso da lontano.
Marco, per l’occasione in formale completo grigio, riassunse a beneficio di Gagliani la vita dell’Aldrovandi, soffermandosi sulle morti sospette che l’avevano accompagnata.
Passò quindi al caso Accorsi, facendo osservare che le tracce che aveva raccolto sull’omicidio della sarta, cioè le dichiarazioni di Giorgio Mantovani e del ragionier Campanini, il nome dell’Aldrovandi segnato sull’agenda e la sostituzione della stoffa con paillettes su cui la contessa aveva mentito erano sufficienti a indicarla come sicura colpevole.
Si rendeva conto che mancava il movente e, anche se apparivano pesanti e significativi, quelli che aveva in mano erano solo indizi, e un abile avvocato avrebbe potuto smontare il castello di accuse.
Riteneva probabile, continuò a spiegare, che la donna fosse responsabile della morte della cantante Anita Serra, che risaliva al marzo del 1938, avvenimento lontano nel tempo ma che si configurava come omicidio doloso e come tale non era andato in prescrizione.
Le indagini all’epoca erano state frettolose e incomplete, ma l’Aldrovandi, allora Cavenaghi, conosceva la vittima, ne frequentava la casa, ed era approdata a Roma, come potevano testimoniare gli amici del tempo, fornita di denaro che la sua famiglia di certo non aveva potuto procurarle.
A Rimini, dopo la guerra, guarda caso aveva aperto una gioielleria, e anche su ciò si doveva indagare. Però anche questi erano solo indizi, non prove, e per il momento non era il caso di chiedere un’incriminazione per l’antico delitto della Serra.
Ciò che non si poteva discutere, invece, e qui Marco si accalorò, era la colpevolezza della donna nella strage di Desenzano. C’era un testimone oculare attendibile, pronto a presentarsi in tribunale. Per quei morti, tra cui il suo amante che non aveva commesso alcun reato, l’Aldrovandi poteva essere incriminata.
Marco raccontò in dettaglio gli eventi e al termine dell’esposizione si guardò intorno soddisfatto.
Lo gelò la voce di Calisti. «Tutto qui?»
«Perché, sette cadaveri non bastano?» replicò Pisani risentito.
«Basterebbero» continuò Calisti, «se non appartenessero a tedeschi e fascisti.»
Pisani diventò rosso di rabbia, i suoi uomini e Laura lo guardavano preoccupati. «Ma cosa vuoi dire?» apostrofò vivacemente il superiore. «Che tedeschi e fascisti potevano essere ammazzati impunemente? Se non sbaglio, dopo la guerra i tribunali della Repubblica hanno condannato alcuni partigiani che si erano vendicati sui loro antichi persecutori.»
Prima che la discussione degenerasse (era noto che Pisani talvolta perdeva le staffe), prese la parola Gagliani. «No, commissario» spiegò, «non è questo il punto. Il dottor Calisti voleva ricordarle che questa cosiddetta strage di Desenzano è avvenuta nel pieno delle lotte tra partigiani e nazifascisti nel territorio della Repubblica di Salò, che era virtualmente zona di guerra. I partigiani agivano inquadrati militarmente in accordo con gli Alleati. E non dimentichi che nel dopoguerra c’è stata di mezzo l’amnistia Togliatti, che ha ripulito la fedina penale di molti fascisti e partigiani.»
«Un momento» lo interruppe Pisani, «la Cavenaghi non era una partigiana, era l’amante del colonnello Morlacchi.»
«E lei non crede che il solito ipotetico grande avvocato che la contessa si può permettere non ci metterebbe molto a farla passare per esempio come spia degli Alleati, collocata apposta in casa del colonnello? L’Aldrovandi racconterebbe che era stata smascherata prima dell’arrivo delle Fiamme Verdi, che dovevano prendere prigionieri i suoi ospiti, e che aveva dovuto uccidere tedeschi e italiani non solo per legittima difesa ma soprattutto per proteggere i partigiani e per non portare alla luce la rete di spie infiltrate. In fondo, come le ha fatto notare il dottor Calisti, i partigiani erano in lotta contro i nazifascisti, e la donna ha ucciso sette nemici. Si combatteva, non possiamo accusarla di vendetta personale, e l’amnistia Togliatti ha cancellato i fatti di guerra.»
«Diventerebbe un’eroina della Resistenza» concluse Calisti. «Ecco quello che volevo dire.»
Affranto e smontato, Marco si prese la testa fra le mani. Rimase a lungo in silenzio. «Così se la cava anche per questo» mormorò infine.
Accettava malvolentieri le sconfitte, e quello tra lui e la contessa era diventato un affare personale.
Calisti lo guardò con comprensione. «Coraggio, Marco, non è ancora detta l’ultima parola, hai altre indagini da fare, può ancora emergere qualcosa di nuovo. Vai avanti, indaga a Rimini, dove la contessa ha abitato dopo la guerra, abbi fiducia. Finirai per trovare la strada giusta. Abbiamo constatato che la memoria dei vecchi è paurosa, e quella donna si è lasciata dietro una tale scia di nemici che prima o poi qualcuno di loro la incastrerà. E allora tutti i pezzi dell’indagine andranno a posto, compreso il movente dell’omicidio Accorsi, sul quale non abbiamo fatto un solo passo avanti.»
Quella sera Laura fece di tutto per consolarlo: lo portò a cena fuori e poi al cinema e rimase a dormire da lui.
Prima di coricarsi, sorseggiando un calice del suo amato vino veneto, col sottofondo della voce della Callas che cantava la Tosca, Marco finalmente si lasciò andare.
«Ti pare possibile che questa donna la faccia franca?» sbottò dopo un lungo silenzio. «Di sicuro ha ucciso i sette militari a Desenzano, e non per un’azione di guerra, Alfieri è stato chiarissimo. Lo ha fatto solo per salvarsi la pelle. Ma Calisti ha ragione. A quei tempi era tale la confusione che un buon avvocato la farebbe diventare senza fatica un’eroina della Resistenza. Poi è sicuro che ha ucciso, Dio solo sa perché, la povera Pina Accorsi, e sono sempre più convinto che sia stata lei ad assassinare anche Anita Serra e a rubare dalla cassaforte soldi e gioielli.»
«Perché altrimenti le sarebbe venuta l’idea di aprire una gioielleria? Era il modo più sicuro per smerciare il bottino in tutta tranquillità.»
«È una donna talmente imprevedibile. Io riesco a seguire le tracce dei suoi delitti, ma è la personalità che mi sfugge.»
«È un carattere dalle molte sfaccettature» spiegò Laura. «Ti dicevo mesi fa che per il delitto Accorsi si poteva pensare a un raptus, ma senza avere idea del movente non si possono avanzare ipotesi. Della strage di Desenzano conosciamo invece la causa e lo svolgimento. Olimpia ha ucciso d’impulso sette uomini. È vero che si trovava in una situazione di emergenza, senza il tempo di valutare come cavarsela, ma in una tale situazione, in cui si può solo seguire l’istinto, il suo l’ha spinta a uccidere. Poteva, come ha detto Guido Alfieri, fuggire in giardino o barricarsi in camera: l’arrivo dei partigiani era questione di attimi. E invece ha fatto una strage. Perché? Freud ci spiegherebbe che in lei la pulsione di morte e distruzione prevale sulla parte razionale. Le persone come lei nella vita di tutti i giorni possono essere cordiali, perfino generose. Ma se scatta l’emergenza, erompe in loro la belva nascosta. Queste persone si trovano in tutti gli ambienti sociali e non sempre la legge riesce a smascherarle. La malvagità esiste, Marco. È ingenuo illudersi che l’uomo sia naturalmente buono, come credeva Rousseau.»
«Ma non la farà franca, Lauretta, te lo giuro: dovessi metterci anni, finirò per scoprire un suo passo falso. Deve averne commesso almeno uno. Ormai è guerra.»
«La cosa divertente è che la signora contessa non sospetta minimamente che le hai dichiarato guerra, e pensa di avere imbrogliato anche te. Non sa che mastino si trova alle calcagna.»
Passò quasi un mese prima che Pisani potesse dedicarsi di nuovo al delitto Accorsi: era costretto a lavorarci nei ritagli di tempo, dato che le indagini delle prime settimane non erano approdate a nulla e il sostituto procuratore Carminati non doveva essere ancora informato dei sospetti che gravavano sull’Aldrovandi.
Ogni indagine ha la sua storia, e il commissario si era convinto che la soluzione di quel delitto richiedeva tempi lunghi, bisognava aspettare che le circostanze favorevoli maturassero da sole e occorreva anche un po’ di fortuna per riconoscerle e acchiapparle al volo. Però la vicenda della contessa e della sua sarta continuava a ronzargli in testa ed era ben deciso a non mollarla.
Fu a metà febbraio che il caso gli offrì l’occasione di dare uno scossone alla vicenda.
Da subito era stato costretto a togliere l’agente di sorveglianza davanti al palazzo di corso Venezia, dimora dell’Aldrovandi, ma ogni tanto spediva per qualche ora Cotunno o Balzoni a vedere cosa stava succedendo.
La contessa, per quello che gli agenti riuscivano a capire, usciva sempre più raramente e, stando ai rapporti, passava le serate in casa.
Quella sera Marco era rincasato presto e stava gustando un bicchiere di Tocai in salotto, tra le note del Barbiere di Siviglia che fluivano dal giradischi, quando squillò il telefono. Era Cotunno, che momentaneamente disponibile era stato spedito in corso Venezia.
«Novità, commissario» gli annunciò la voce un po’ affannata del collaboratore.
«Di che si tratta?» chiese Marco speranzoso.
«Poco fa la contessa è uscita in pompa magna» spiegò Cotunno. «Era impellicciata e ingioiellata.»
Marco si afflosciò, non era una gran notizia. «Tutto qui?» commentò.
«L’autista l’ha accompagnata a un ricevimento» continuò l’altro un po’ impermalito. «È entrata proprio ora al numero 24 di corso Magenta. Io la sto chiamando da una cabina di fronte.»
«Un ricevimento?» Marco si risvegliò di botto dal suo torpore. «Per caso al primo piano del palazzo?»
«Sì, l’appartamento è tutto illuminato e stanno entrando gli invitati in abito da sera. Ma lei come lo sa che è al primo piano?»
«Poi te lo racconto» concluse Marco in fretta. «Ora vai pure a casa.»
I marchesi Antici! Erano loro che abitavano al primo piano dell’antico palazzo, e il caso voleva che lui li conoscesse benissimo.
La marchesa Carla era una delle più affezionate amiche di sua madre dai tempi in cui erano entrambe in collegio. Spesso gli Antici e i Pisani avevano trascorso insieme le vacanze estive, e sua madre, quando era a Milano, non mancava mai di passare ore a chiacchierare con la vecchia amica. In casa Antici lui era sempre il benvenuto, e quella che gli si presentava era l’occasione per trovarsi a quattr’occhi con la superba contessa Aldrovandi.
Non avrebbe risolto il caso dell’omicidio, ma poteva irritare e impaurire Olimpia. Se non avesse raggiunto altri obiettivi, almeno poteva dare un qualche sfogo all’aggressività che era stato costretto a trattenere fino a quel momento.
Canticchiando la cavatina del Barbiere di Siviglia si sbarbò rapidamente e mise un abito scuro adatto per la sera. Intanto progettava come condurre il colloquio.
Mise a punto il suo piano nel taxi che si faceva strada fra il traffico delle vie del centro, intasate a causa di una leggera nevicata. Era proprio curioso di studiare le reazioni della contessa a quello che avrebbe avuto da dirle.
Arrivò insieme agli ultimi invitati, affrontò di volata lo scalone e infilò la porta ancora aperta, facendo il suo ingresso nell’ampio atrio dell’appartamento illuminato a giorno. Scorse subito la marchesa, ferma di spalle sulla soglia del salone.
«Posso entrare, Carla?» esclamò con voce scherzosa.
«Marco, tesoro, non posso crederci!» Carla si voltò e lo abbracciò. Era ancora una bella donna, gli occhi neri vivacissimi, il corpo scattante.
«Sai, passavo di qui» mentì Marco, «e ho visto che era in corso uno dei tuoi famosi ricevimenti. Non ho saputo resistere…»
«Da noi sei a casa tua» replicò la donna. «Ho sentito tua madre pochi giorni fa e mi ha detto che il tuo lavoro ti lascia poco tempo libero. Ma siamo sempre felici di vederti. Non è vero, Antonio?» aggiunse rivolgendosi al marito che si era avvicinato in quel momento.
Anche il marchese lo abbracciò con affetto. Con lui, un intellettuale di antico stampo di piacevole conversazione, Pisani si intratteneva sempre volentieri, ma quella sera aveva altro da fare.
«Accomodati, Marco» lo invitò Carla indicando la sala dove una cinquantina di persone, alcune in gruppetti, altre sprofondate nei soffici divani, era appena agli aperitivi. «Penso che tu conosca diversi dei miei ospiti. Alle nove sarà servita la cena in sala da pranzo.»
Oltre il salone si scorgeva un secondo ambiente in cui alcuni tavoli rotondi da otto, erano apparecchiati con tovaglie candide e bouquet di fiori.
Marco passò rapidamente tra gli invitati fermandosi ogni tanto a salutare, finché non scorse Olimpia davanti al tavolo degli aperitivi. Era più magra di come la ricordava, con un lungo abito nero che le lasciava scoperta la schiena, su cui ondeggiava, in una citazione della moda degli anni Trenta, una lunga collana di perle nere.
«Come riesce, signora Aldrovandi, a essere così elegante, ora che la sua sarta è stata uccisa?» esordì Marco con tono beffardo.
Olimpia sussultò, chiedendosi per un attimo chi potesse essere così maleducato, ma voltandosi e scorgendo il commissario l’irritazione si mutò in terrore. Il lampo che passò nei suoi occhi non sfuggì a Marco.
«Anche lei qui?» gli chiese controllandosi a fatica. «È in servizio anche di sera?» La voce voleva essere insultante, ma non nascondeva un leggero tremito.
«A differenza di altri» spiegò lui con voluta arroganza, «per arrivare qui io non ho dovuto fare nulla: ci sono nato. Vede, signora…» Di proposito Pisani non la chiamava mai con il titolo di contessa. «I marchesi Antici sono tra i più cari amici dei miei genitori.»
«Carla è davvero una persona deliziosa» replicò Olimpia non trovando altro da dire. «Ma ora voglia scusarmi: devo parlare con la signora Monti della nostra raccolta di beneficenza.»
E si allontanò rapidamente quanto le permettevano le gambe malferme.
Marco ne approfittò per insinuarsi in sala da pranzo. Proprio in quel momento un cameriere stava posizionando su un tavolo il segnaposto con il suo nome. Gli fece scivolare in mano una banconota. «Per cortesia, vorrei sedere alla destra della contessa Aldrovandi, se è possibile.»
Il cameriere gli lanciò uno sguardo di intesa e, in un gioco di destrezza, scambiò alcuni segnaposti.
Olimpia era già seduta quando vide Marco accomodarsi al suo fianco. Intuì immediatamente che la cosa non era casuale e seppe che doveva prepararsi a combattere. Ma era talmente spossata che si trovò a pensare che sarebbe stato meglio se avesse lasciato che il destino seguisse il suo corso.
Anche Marco era emozionato. Sapeva che quella sera non sarebbe giunto a ottenere una confessione, ma, se avesse giocato bene le sue carte, e l’esordio era stato soddisfacente, avrebbe almeno scalfito la sicurezza della donna. E una volta resa insicura, chissà… l’errore fatale poteva essere in agguato. La guardò di sottecchi: era davvero dimagrita, e il trucco pesante non riusciva e celare le profonde occhiaie. Quella donna era malata, ma la cosa non gli suscitava alcuna pietà. Richiamò alla mente la vista del cadavere della povera Pina.
Sferrò il suo attacco mentre servivano il pesce.
«Lo sa, signora, che conosco il suo segreto?» esordì.
«Quale?» scherzò lei abilmente. «Ne ho talmente tanti!»
«Ho scoperto…» E scandì lentamente le parole. «… che negli anni Quaranta, ai tempi del fascismo, lei era un’attrice.»
Il viso di Olimpia si contrasse, poi la donna tacque un lungo momento, diventando ancora più pallida. Tutto si era aspettata ma non quello. Il commissario era arrivato anche all’avventura di Desenzano?
Cercò in fretta qualcosa da dire. «Eh, commissario» riuscì infine a balbettare, «è stato un peccato di gioventù! Ma come lo ha saputo?» chiese temendo la risposta.
Marco si era preparato. «Per puro caso» raccontò in tono insinuante. «L’altro giorno ero nello studio di un mio amico, il professor Clerici, docente di storia del fascismo all’Università Statale. Mentre riceveva uno studente, io mi sono messo a guardare un pacco di vecchie foto dell’inaugurazione del Cinevillaggio di Venezia nel 1944. E sa cosa ho scoperto?»
Olimpia avrebbe preferito non saperlo.
«In diverse immagini» continuò Marco, «compariva una bella ragazza bionda. La didascalia la indicava come l’attrice Myra Leoni, una giovane promessa del cinema, e io l’ho riconosciuta: era lei, signora, bella come è ancora. Perché non ha continuato a fare cinema?»
Olimpia si sentì sollevata; in fondo non aveva mai temuto veramente che si scoprisse il suo passato cinematografico, se le scoperte si fermavano a quello.
Giocherellando con i filetti di sogliola che non aveva assaggiato, chinò il capo e ricordò: «Dopo la guerra il mondo era cambiato, i valori erano diversi. Io ho sentito il bisogno di fare qualcosa di meno effimero».
Per Marco era il momento di colpire a fondo. «Lei, che ha vissuto quelle vicende in prima persona» inventò, «potrebbe essere di grande aiuto al mio amico Clerici. Il professore sta facendo una ricerca sui gerarchi irreprensibili della Repubblica di Salò. Qualcuno c’era… Ha intenzione di scrivere un libro su questo argomento, che non è mai stato preso in considerazione da altri studiosi.»
Olimpia stava tremando, le parole di Pisani evocavano i suoi fantasmi, sentiva la testa girare, gli occhi chiudersi.
«Nelle foto lei compare più volte insieme al colonnello Morlacchi in atteggiamenti di amicizia, di confidenza…»
Le parole di Marco le arrivavano come un rombo fra il brusio di fondo delle conversazioni e il tintinnio delle stoviglie.
«Sappiamo che il colonnello, che era una brava persona, è morto in circostanze misteriose…»
Luci e colori le vorticavano intorno, indistinti. Arrivò appena ad assorbire il colpo finale.
«Lei, magari» continuava Marco mentre lei si accasciava lentamente, «sa qualcosa della sua morte. Forse potrebbe raccontarla al professore.»
In un attimo fu tutto buio, e Olimpia scivolò dalla sedia, svenuta.
Per una settimana Marco si gustò il piatto freddo della vendetta; aveva raccontato l’impresa a Laura e agli uomini della squadra, che avevano applaudito.
Con Calisti, invece, aveva taciuto. Sapeva che un certo giro di Milano è come un paese nel cuore della città, e presto o tardi il vicequestore avrebbe saputo che la contessa Aldrovandi era svenuta a una cena in casa Antici, mentre era seduta vicino al giovane Pisani. Ci voleva poco a tirare le somme. La lavata di capo per la sua impresa gratuita poteva aspettare.
Riguardo all’indagine, Marco stava diventando fatalista. Esitava a fare le ricerche conclusive a Rimini, dove Olimpia aveva vissuto lunghi anni dopo la guerra, perché intuiva che era la sua ultima carta. Se da quella investigazione non fosse emerso nulla, avrebbe dovuto abbandonare l’indagine. Così, prima di cercare l’estrema risposta, aspettava un segno favorevole.
Il segno arrivò venerdì 20 febbraio nella persona di Giorgio Mantovani. Pisani stava sorseggiando il primo caffè della mattina quando il giovane si affacciò alla porta tutto eccitato. Lo seguivano Improta, Cotunno e Balzoni, che avevano intuito qualche novità nell’aria e non volevano perdersela.
Marco fece entrare tutti e Giorgio raccontò la sua storia.
Vestito con proprietà, ben pettinato, Mantovani in quei mesi era diventato un’altra persona. Il lavoro al Corriere andava bene, gli studi serali pure, e il giovane poteva sperare concretamente di entrare a tempo debito nella Polizia.
Nel frattempo, appena poteva, da via Solferino faceva una scappata in Questura a fare due chiacchiere con quelli che ormai erano i suoi amici.
«Ieri sera» esordì, «sono andato a trovare mia madre. Quando arrivo da lei mi fa sempre una certa impressione guardare in alto le finestre della povera Pina: la casa è ancora chiusa e disabitata.»
«Dai, Giorgio» lo esortò Cotunno. «Non sarai venuto, così eccitato e misterioso, per raccontarci questo.»
«Ascoltate quello che ho da dire prima di criticare» si risentì il ragazzo. «Dunque, quando sono uscito, mi sono imbattuto in Cosimo Cangemi, che era con me alle scuole medie e ora sta per laurearsi in Ingegneria. Ci siamo fermati a chiacchierare, lui è amico degli studenti che occupano un appartamento nel primo cortile. Siamo arrivati a parlare del delitto, e lui mi ha chiesto (non sa che sono in rapporti con la Questura) se, visto che mia madre abita proprio di sotto, io per caso sapevo se si era scoperto qualcosa. Ho risposto che non c’era nulla di nuovo, almeno stando ai giornali, e che era un’indagine molto difficile perché all’ora del delitto i cortili erano deserti e nessuno aveva visto anima viva andare e venire.»
Gli agenti e il commissario lo ascoltavano attentamente.
«Cosimo, a questo punto» continuò Giorgio, «ha esclamato: “Io veramente quella sera ero proprio qui e ho visto qualcuno che entrava nel palazzo verso le diciotto”. Sono rimasto a bocca aperta e ho replicato: “E perché non l’hai detto alla Polizia?”. “Nessuno me l’ha chiesto” ha risposto, “e io non ho pensato che fosse importante.”»
«Ma chi ha visto?» intervenne il commissario.
«Qui viene il bello: mi ha raccontato che uscendo dal portone si è imbattuto in una signora elegante che stava entrando. Io non ho fatto commenti, ma credo che dovreste sentirlo.»
Cangemi arrivò nel primo pomeriggio. Fu Giorgio ad attenderlo davanti alla Questura e ad accompagnarlo da Pisani.
Una pioggerella noiosa non aveva cessato di scendere fin dalla mattina e il grigiore esterno riempiva di ombre la stanza. Il commissario aveva dovuto accendere la lampada sopra la scrivania, che creava un cono di luce. Alla deposizione del giovane voleva assistere la squadra al completo, e anche Mantovani aveva ottenuto il permesso di essere presente, dato che era l’artefice della scoperta.
Vedendo gli agenti che entravano con lui nell’ufficio del commissario, Cangemi si spaventò. Era di bassa statura, infagottato in un giaccone blu un poco stinto, i folti capelli castani lunghi fino al collo; gli occhi scuri brillavano di intelligenza.
Pisani lo fece sedere e lo mise a suo agio. «La ringrazio di essere venuto così presto» esordì. «Lei ci può aiutare in un’inchiesta complicata. Che cosa ha visto la sera del 13 ottobre scorso, uscendo dal portone dell’edificio in cui abitava la vittima, la signora Accorsi?»
Nel silenzio che si era creato si udiva solo il ticchettio della macchina per scrivere di Cotunno che dattilografava la deposizione.
«Non ho molto da dire» precisò Cangemi. La sua voce era bassa e un poco roca. «Quella sera verso le sei, uscendo dal portone che dà sulla strada, ho incrociato una signora che stava entrando. Tutto qui.»
«Perché l’ha notata?» chiese Pisani.
«Era bella, elegante. Non il tipo che ci si aspetterebbe frequentare gli inquilini di quel palazzo.»
«Come mai ricorda così bene il fatto e la data di quella sera?»
«Presto detto: il giorno dopo seppi che era stata uccisa la sarta che abitava sopra l’alloggio del mio amico Giorgio, e tutto ciò che è successo allora mi è rimasto stampato in mente. Ho pensato che avrei potuto incontrare l’assassino mentre fuggiva, che forse avevo corso un rischio.»
«Non ha pensato di parlarne con la Polizia?»
«Non mi è nemmeno passato per la mente fino a questa mattina, quando ho incontrato Giorgio. Non immaginavo che quell’incontro fosse una circostanza importante…»
«Cosa ricorda del suo aspetto? L’ha vista bene?» incalzò Marco.
«Era alta, con capelli scuri. Indossava una giacca color cammello. L’ho inquadrata abbastanza bene, anche se andavo di fretta, perché nell’uscire in strada ho guardato istintivamente dalla sua parte per controllare che non passassero auto. In quel momento lei era illuminata dalle vetrine del caffè.»
«Come fa a ricordare con precisione l’ora?»
Cangemi sorrise. «Avevo un appuntamento con la mia ragazza, ero in ritardo e avevo guardato l’orologio poco prima. Ma… quella signora è l’assassina?» domandò.
«Lo saprà a suo tempo» rispose Marco, e fece un cenno a Improta che mise sul tavolo una mazzetta di foto.
Il commissario si accese una sigaretta e offrì il pacchetto a Cangemi; il ragazzo rifiutò con un cenno del capo.
«Guardi attentamente» si raccomandò Pisani sottoponendo alcune foto all’attenzione del giovane. Erano quelle scattate a Olimpia dagli agenti in corso Venezia. «La riconosce?»
Cangemi osservò le fotografie per qualche minuto. Si passò nervosamente le mani tra i capelli. «Era lei senza dubbio» dichiarò infine.
Balzoni e Mantovani lanciarono un «Urrà» e si abbracciarono. Improta li guardò con riprovazione. Cotunno era rimasto con le mani a mezz’aria sopra la tastiera della sua Olivetti.
«Calma, ragazzi» li ammonì Pisani quando Mantovani e Cangemi furono usciti. «Abbiamo un testimone, ma non è ancora una prova.»
«Ma l’Aldrovandi ci ha mentito: quel giorno è andata dalla sarta, non al cinema come ci ha raccontato» obiettò Cotunno.
«È vero» ammise Pisani, «ma un testimone oculare, e non del delitto ma solo dell’ingresso dell’Aldrovandi nel portone, in una sera buia e nebbiosa, anche se suffragato dalla dichiarazione del ragionier Campanini, può essere facilmente posto in contraddizione da un buon avvocato. Però non arriveremo neppure a questo punto: Carminati non accetterà mai di incriminare la contessa per la parola di un ragazzotto. Anzi, è meglio continuare a non fargli sapere niente.»
«Allora non è servito a nulla…» osservò Balzoni, deluso.
«Non proprio» spiegò il commissario. «La deposizione di Cangemi ci offre l’opportunità di interrogare di nuovo l’Aldrovandi e di renderla sempre più insicura. Forse si contraddirà, chissà…»
Ci vollero quattro giorni per ottenere da Olimpia il permesso di farle visita. La cameriera al telefono aveva dichiarato che la signora era malata e non sarebbe stata disponibile per qualche tempo.
Pisani e Improta si presentarono in tarda mattinata e furono fatti accomodare in un salottino verandato che dava sulla terrazza. Rifiutarono con decisione l’offerta di un caffè e Marco si accese una sigaretta senza chiedere il permesso.
Olimpia comparve quasi subito, pareva aver perso molta della sua arroganza, era pallida e tirata, senza gioielli. Sembrava camminare a fatica. Al suo ingresso i poliziotti si alzarono.
«Spero che si sia ripresa dal malore dell’altra settimana» esordì Pisani. «Ma qual è stata la causa?» chiese con finta premura.
«A dire il vero» rispose la contessa, «quella sera ho fatto male a uscire. Non mi sentivo bene da prima, ma non volevo mancare al ricevimento. Avevo in incubazione una broncopolmonite che mi ha fatto un brutto scherzo, un capogiro, e lei mi ha dovuto raccogliere da terra.» Tentò di sorridere ma le riuscì una smorfia. «Poi mi sono messa a letto con una forte febbre e non sono ancora ben guarita.»
Ineccepibile, pensò Marco, una spiegazione ben congegnata.
«Ma cosa la porta qui oggi, commissario?» chiese la donna con voce un po’ affannata.
Il momento era delicato.
«Una semplice verifica» replicò Pisani. Improta si schiarì la gola come se a parlare fosse lui. «Si tratta di nuovo del delitto Accorsi.»
«Non avete ancora trovato il colpevole?» lo interruppe Olimpia.
«Ci stiamo arrivando, ma vorremmo da lei una precisazione.» Pisani la lasciò un attimo in sospeso, per accendersi un’altra sigaretta. «Lei ha dichiarato» continuò aspirando a fondo una boccata, «che quel giorno aveva appuntamento da Pina ma ha preferito andare al cinema.»
La guardò fissamente e Olimpia abbassò gli occhi.
«Ma noi…» E scandì lentamente le parole. «… abbiamo un testimone che dice di averla vista entrare nell’edificio verso le diciotto.»
«Il testimone è attendibile e lei è stata riconosciuta in fotografia» aggiunse Improta con gioia maligna.
Un testimone! Olimpia aveva pensato da tempo all’eventualità che qualcuno l’avesse vista entrare e sapeva bene che di possibili testimoni oculari, per di più in versione notturna, un buon avvocato avrebbe fatto un solo boccone. Tirò quasi un sospiro di sollievo. «Credo che il suo testimone si sbagli» replicò calma. «Io quella sera, come ho detto subito, ero al cinema. Mi avrà vista un altro giorno.»
«Lei sta mentendo» si scaldò Improta. «Quel ragazzo ha i suoi motivi per ricordare bene.»
Marco gli lanciò un’occhiataccia.
«Mi spiace per voi, maresciallo.» Olimpia pareva avere riacquistato la sua sicurezza. «Anch’io mi ricordo bene. Se fossi andata da Pina che motivo avrei per nasconderlo?»
«Certo, signora» tagliò corto Marco. «Scusi il disturbo ma abbiamo raccolto questa testimonianza ed era nostro dovere controllare.»
«Perché non l’ha messa alle strette?» proruppe Improta appena furono fuori.
«Tutto a suo tempo» lo ammonì Pisani. «L’Aldrovandi sa bene che una testimonianza notturna ha poco valore. Non mi aspettavo niente di diverso da questo incontro.»
Nello stesso momento Olimpia si ritirava in camera sua con la sensazione che il cerchio si stesse stringendo.